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LIBANO: RUMORI E PAROLE
Flavio Novara

La notizia dell’attacco degli israeliani al Libano mi colse di sorpresa proprio mentre con tutta calma in redazione, stavo osservando il lento scorrere delle notizie sul mio terminale. Affermazioni più o meno importanti, per lo più estremamente superficiali, su locali necessità presunte e emergenze nazionali create ad arte. Non erano ancora giunte le prime immagine ma già la memoria rincorreva quei terribili giorni del 1982. All’eccidio di Sabra e Chatila o a quelle risalenti alla terribile guerra civile che per quindici anni ha letteralmente tenuto in ostaggio un paese ricco non solo economicamente ma anche di antica cultura.

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Dal momento in cui decisi di recarmi in Libano, molti sono stati i pensieri che mi hanno accompagnato nei giorni antecedenti la partenza. Dalla frenesia classica che accompagna ogni viaggio, alla preoccupazione di non riuscire a partire a causa dell’inagibilità dell’aeroporto.

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Comunque, da non credere, pochi giorni prima della fatidica data, tutto si assesta e partiamo. Meta Beirut. La città al nostro atterrare non sembra abbia accusato un incursione aerea. La pista stessa mostra un asfalto nuovo che nulla fa apparire. Colpisce solo lo spiegamento di militari che lungo la strada che conduce all’albergo sono appostati agli angoli delle strade in ombra dei numerosissimi cartelli che inneggiano alla “divina vittoria”. Infiliamo un sotterraneo e all’uscita un enorme cartello illuminato dal sole riporta la foto di un bambino agonizzante in braccio al padre con affianco la scritta “Made in USA”.

La medesima frase ci viene pronunciata il giorno seguente quando, giunti nella zona a sud di Beirut, un cittadino intento a raccogliere tra le macerie alcuni oggetti, ci riconosce come corrispondenti.

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Lo scenario è apocalittico. Decine di palazzi di oltre dieci piani, letteralmente rasi al suolo e quelli adiacenti con innumerevoli danni. Balconi strappati, finestre divelte dal loro telaio e vetture devastate dai frammenti di cemento armato catapultato, come cartone dalle pareti dei palazzi. Una donna con due figlie ci viene incontro. “Tutto quello che mi è rimasto è quello che ho addosso. Che non pensino di distruggerci. Noi ricostruiremo tutto. Il Libano non si tocca”.

Tutto intorno camion carichi di macerie percorrono la via incuranti dell’enorme polvere sollevata. E’ quasi impossibile respirare senza mascherine e qualcuno, più avvezzo, bagna con un idrante la strada per renderla maggiormente agibile.

Nessuno chiede nulla. Né donne. Né bambini. Ci indicano solo quello che è stato. In silenzio. Un silenzio che nasconde fierezza, orgoglio e speranza.

Alla tenda allestita dagli Hezbollah per accogliere e aiutare i residenti del quartiere, alcune ragazze dipingono il loro dolore mentre, seduti poco distante alcuni responsabili ci spiegano come sono organizzati e come pensano di far fronte a questa emergenza. Un autorevole rappresentante ci comunica che il “partito di Dio” ha messo a disposizione dei cittadini che dovranno ricostruirsi la casa, quindicimila dollari pro capite. Una somma elargita senza burocrazia o attendismo tipico di governi centralizzati. Non importa a nessuno da dove provengono quei capitali.

Una cosa è certa, se gli Hezbollah prima della guerra potevano apparire come un problema allo sviluppo del Libano a causa del rapimento di due militari e l’uccisione di altri quattro, oggi sono accolti come eroi. Come quelli che sono riusciti a fermare l’esercito israeliano e che non hanno abbandonato sino all’ultimo, la linea di frontiera.

In giro per Beirut numerose sono le effige di Nasrallah leader indiscusso degli Hezbollah e poco importa se un enorme cartello che riporta l’effige del riformista Rafiq Hariri conta i giorni che sono passati dal momento che è stato ucciso.

Lasciando Beirut in direzione sud, percorrendo un’autostrada con viadotti bombardati, non si può restare insensibili a una battigia lunga oltre sessanta chilometri, bagnata irrimediabilmente da un liquame nero. Un misto gasolio e petrolio fuoriuscito dai serbatoi bombardati in riva al mare. Come interi paesi distrutti ed abbandonati dai suoi cittadini verso nord, per cercare salvezza. Una migrazione che ha ricevuto la solidarietà di tutto il popolo libanese. Un popolo che a discapito di pregiudizi razziali o religiosi, ha accolto a braccia aperte nelle proprie case, compreso i palestinesi che da anni sono rinchiusi all’interno dei campi profughi, chiunque ne avesse bisogno. Una massa di oltre duecentomila persone che ha atteso con ansia il momento giusto per tornare a casa.

Una cosa è certa, parlando con le persone e con il presidente della Repubblica Emile Lahoud si ha proprio la sensazione che ancora una volta, in Libano come in altre parti del mondo, la guerra abbia ottenuto l’effetto contrario. Ovvero rilanciare l’unità nazionale in un paese al suo interno a lungo diviso.  Un scenario questo che per il Libano e forse anche per tutto il mondo arabo influirà sensibilmente sugli equilibri internazionali. Soprattutto in quest’area tanto ambita e per questo, tanto politicamente instabile.

Nella città di Tiro incrociamo le nostre truppe e ci ricordiamo quanto detto dell’esponente di Hezbollah della zona. “Gli italiani sono i ben venuti come tutte le truppe ONU che possono contribuire a proteggerci dagli Israeliani. Ci preoccupa il fatto che a breve arriveranno in questa zona oltre sedicimila uomini che se manterranno le consegne accordate non avranno nulla da temere ma se pensano di procedere, come richiesto da Israele e dagli Stati Uniti di disarmarci, troveranno pane per i loro denti”.   
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