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Visti per Voi » A Casa nostra  
Tra noi il denaro e la solitudine

A CASA NOSTRA – voto : 7++

Alcuni giorni prima l’uscita sugli schermi nazionali di questo film, forse in occasione della sua anteprima milanese, ho assistito ad una intervista televisiva al sindaco del capoluogo lombardo Letizia Moratti.

Appariva alquanto seccata. Era indispettita dalla visione della pellicola. Riteneva che Milano, teatro del racconto cinematografico, ne risultasse eccessivamente penalizzata nell’immagine. Non faceva che ripetere i numeri che fanno della metropoli lombarda, la capitale economica, della finanza, della moda, della cultura. Con tono altezzoso e personalmente insopportabile, continuava a snocciolare, nomi, date, sigle che intendevano porre in evidenza la marea di avvenimenti che incessantemente e senza soluzione di continuità, avevano luogo nel corso dell’annata tra le mura meneghine. In sostanza affermava che la vera Milano era quella da lei presentata e non la degradante cartolina narrata sul grande schermo.

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Non sò come la pensate voi, ma l’ho ritenuto un tentativo patetico e strumentale. Oltre ad illuminare la sua palese incapacità o mancanza di volontà nel cogliere il messaggio di Francesca Comencini, la regista, che andava ben oltre i confini urbani, continuava a percorrere una via densa d’ipocrisia nel relazionarsi con i cittadini. Perseverava nel credere che le immagini di copertina che vuole mostrare al mondo, della città da lei amministrata, siano ben più importanti della drammatica realtà che quotidianamente tanti dei suoi abitanti devono affrontare. Il tutto in piena sintonia con il suo illustre “principale”, che fino a qualche mese fa governava l’intero paese.

“A casa nostra” è naturalmente e per fortuna qualcosa di ben più ricco della limitata e cieca interpretazione della signora Moratti. Attraverso una manciata di storie, alcune solo in apparenza slegate, altre da subito connesse tra loro, veniamo guidati negli anfratti della società milanese, specchio di quella italica. Uomini e donne messi a nudo, spogliati delle cortecce, rivelano una natura intima in conflitto. Mostrano i valori o l’assenza di essi che li spingono ad essere ciò che sono, le paure che agitano il loro sonno, le speranze che rischiarano un incerto futuro.

A regnare su tutto, a governare le scelte, due mostri tentacolari da affrontare: il denaro con le sue trappole nell’assecondarne la rincorsa e la paura della solitudine, ombra oscura che grava sulla serenità di tutti noi.

Francesca Comencini ( nata a Roma nel 1961), sorella minore della regista Cristina ( “La bestia nel cuore” – 2005) entrambe figlie d’arte del grande Luigi Comencini, ha fotografato con sensibilità e forza uno spicchio di “casa nostra”. Una regia articolata, una sceneggiatura serrata ma non frenetica. Una squadra di attori tutta italiana di spessore e di talento con le punte di diamante in Valeria Golino (Rita) e Luca Zingaretti (Ugo).

Attorno al loro duello ruotano tutte le altre storie. Da una parte l’arroganza del potere del banchiere faccendiere Ugo, che dell’illegalità connessa all’alta finanza, ha fatto uno stile di vita. Un uomo senza scrupoli, che con il denaro pretende di comprare le vite e le coscienze.

Dall’altra la forza e la tenacia del capitano della Guardia di Finanza Rita, 40enne minata dalla solitudine e dal bisogno di solidità affettiva, che getta nella mischia la rabbia di chi non si arrende al degrado dei valori, di chi non intende lasciare il proprio paese in mano a uomini come Ugo.

Tutto intorno, un pulviscolo di vite, ognuno a giocare la propria partita, secondo le regole che gli arrivano dalla coscienza. Alcuni alla rincorsa di una ricchezza facile, altri che del denaro rimangono schiavi e vittime. Tutti alla ricerca di una via per non restare soli.

Può banalmente apparire come il ripetersi dell’ancestrale lotta tra il bene e il male, ma sento che la Comencini abbia voluto dirci di più.

Viviamo in uno strano paese. La maggioranza dei suoi abitanti deve faticosamente lavorare per vivere. Nonostante questo si ha la diffusa sensazione di quanto cresca l’ammirazione per tutti coloro che scalano le gerarchie sociali senza porsi remore di carattere morale o etico. Sempre più spesso si confonde la scaltrezza con l’abilità, si ritiene furbo chi è disonesto. Gli esempi d’impunità parziale o totale di cui hanno goduto o godono in tanti di coloro che hanno calpestato le regole, soprattutto nelle alte sfere delle cariche pubbliche, dell’imprenditoria, della finanza, finisce per giustificare il loro mezzo. Far germogliare nei giovanissimi, il seme del principio dove il denaro lo si raggiunge attraverso i valori del lavoro, dell’onestà e della fatica, puntando sulle proprie forze intellettuali e manuali, diventa sempre meno scontato.

Con questa nube sollevata, altre sono le luci che rischiamo di non vedere. Siamo impegnati ad inseguire i mille rivoli di un potenziale facile benessere, ma spesso non ascoltiamo cosa il nostro cuore ci chiede per potersi sentire finalmente appagato.

Il grido di Francesca è forte e chiaro. Non condivido il pensiero di chi ha interpretato il suo lavoro come di un disfattistico e senza speranza spaccato d’Italia e mi riferisco a recensori e addetti ai lavori.

Nonostante il quadro di “casa nostra”venga dipinto a tinte prevalentemente fosche, c’è un’Italia che merita di vivere in un paese migliore. Uno zoccolo di brava gente che si rifiuta di accettare le false promesse di chi “scende in campo” con obbiettivi distanti da quelli dichiarati.

Un esercito di persone semplici ed oneste, forse troppo silenzioso a volte, ma che ripudia la sfrontatezza dei tanti”furbetti del quartiere”.

Tutto questo esiste “A casa nostra”e traspare evidente dalla storia. E’ un popolo spesso sfiduciato e umiliato, ma è vivo e presente e disegna macchie dai colori luminosi nel medesimo scuro riquadro.

Il punto si sposta altrove: esistono figure di spessore e carisma, senza scheletri negli armadi, capaci di soddisfare le aspettative e meritare la fiducia di questa porzione di paese?

“Mi piace lavorare” era l’unico lavoro di questa regista a cui avevo assistito. Una trama dedicata al mobbing sui luoghi di lavoro con Nicoletta Braschi come protagonista. Gradevole ma leggerina. Nulla a che vedere con questa opera di cui ho già decantato le lodi ma che mi ha riservato un motivo di perplessità. La struttura del racconto, centrato su varie storie parallele ma concatenate è troppo simile a l’ultimo film vincitore di oscar “Crash”, per non sospettarne una fin troppo ravvicinata fonte d’ispirazione.

Degli interpreti Golino e Zingaretti solo buone parole. La prima è l’attrice italiana più apprezzata all’estero. Ha lavorato con registi del calibro di Barry Levinson ( Rain Man, 1988), Quentin Tarantino ( Four Rooms 1996), John Carpenter ( Fuga da L.A., 1996), oltre che con Gabriele Salvatores in “Puerto Escondido” nel 1992. Un’artista che al cospetto di un “albo d’oro” professionale di prestigio non mi aveva in passato fatto impazzire. La sua Rita esprime forza e dolcezza, i suoi splendidi occhi verdi sono lo sguardo sincero e fiero degli onesti che non si abbassa.

Il secondo, Zingaretti, che ha costruito la sua celebrità con grandi personaggi televisivi come “Montalbano” e “Perlasca” mi aveva un pochino deluso nei suoi recenti trascorsi sul grande schermo: “Alla luce del sole” e “I giorni dell’abbandono”, entrambi diretti da Roberto Faenza nel 2004. Nonostante ruoli da protagonista, i suoi uomini erano carenti di peso, di personalità. Ugo è invece un autentico e credibile figlio di buona donna. Cinico, sprezzante delle regole, arrogante, abile, presuntuoso, disonesto con l’orgoglio di esserlo. Un esemplare per nulla a rischio d’estinzione, ma anzi in continuo ripopolamento, come se a vigilare sulla conservazione della specie si occupasse uno speciale ente.

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