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Visti per Voi » Flags of our fathers  

“Gli eroi non esistono, si combatte per tornare a casa”

Flags of our fathers – voto : 8+

Non sarà forse il paragone più consono, ma accosto Clint Eastwood ad un vino dalle pregiate caratteristiche, che invecchiando, ha saputo regalare il meglio di sé a chi ha scelto di assaporarlo. Quanto il succo d’uva assorbe dal rovere selezionato aromi e fragranze, il regista di San Francisco ha sviluppato con il tempo, una capacità straordinaria nell’arricchire la storia del cinema con i suoi racconti. Pellicole come “Mystic River” e “Million Dollar Baby” ne sono un dorato esempio.

Un dono, che unito all’esperienza maturata in una vita intera dedicata a fabbricare emozioni, ha come ultimo risultato l’ottimo “Flags of our fathers”.

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Clint si è ispirato al racconto omonimo di James Bradley e Ron Powers. In questo libro Bradley ripercorre la vita di suo padre John “Doc”, ufficiale sanitario dei marines durante lo sbarco a Iwo Jima, sul finire della seconda guerra mondiale, nel febbraio del 1945. La conquista di quel isola, ritenuta dai giapponesi “suolo sacro”, divenne una delle pagine più sanguinose della Guerra del Pacifico. La conformazione geologica montuosa di origine vulcanica e l’importanza strategica per la vicinanza all’isola di Okinawa, indussero il Giappone a organizzare una strenua linea di difesa. Le pendici dei rilievi a ridosso delle spiagge, furono disseminate di bunker e casematte mimetizzate nel terreno e ai soldati fu ordinato di combattere fino al sacrificio estremo. Il bombardamento dal cielo e dal mare che precedette l’attacco, da molti ritenuto insufficiente, non incrinò la struttura difensiva. In 35 giorni di battaglia morirono circa 7000 soldati americani, a cui aggiungere 19000 feriti. Per contro degli oltre 21000 militari del sol levante dislocati prima dello sbarco, solo 216 si lasciarono catturare vivi.

Nel corso di quei giorni vi fu un episodio ai margini dei combattimenti, destinato a divenire una pagina tra le più discusse di tutto il conflitto. Giunti in vetta al Monte Suribachi, la cima più alta di Iwo Jima, fu ordinato ad alcuni militari di piantare un’asta nel terreno per innalzare al cielo la bandiera a stelle e strisce. La foto di quel istante fece il giro del mondo e divenne un’icona del valore dei militari americani in un momento delicato della guerra. Il fotoreporter che la scattò, Joe Rosenthal, vinse il premio Pulitzer.

Il regista utilizza questo episodio incastonato nella carneficina della battaglia, come spunto per un analisi sul significato del vocabolo “eroi”e la strumentale azione che questa parola subisce da parte di chi ne vuole fare un uso propagandistico. A “Doc”Bradley, Eastwood consegna il ruolo di guida, nel suo viaggio continuamente sospeso tra passato e presente.

 La memoria torna ai lenti giorni che precedettero la battaglia, alla fraterna amicizia che saldò tanti giovani, molti dei quali uniti da una salutare inconsapevole incapacità di leggere il tremendo futuro che li attendeva.

Attraverso i suoi occhi riviviamo gli orrori della guerra in forma piena, senza sconti e senza spazi lasciati  all’immaginazione. Comprendiamo che la vita di chi sta al tuo fianco in battaglia, diventa preziosa quanto la propria e per difenderla o salvarla, ci si espone senza remore. Sacrifici che non basteranno ad evitare che tanti compagni rimangano sul terreno. Un orrore impossibile da raccontare. Un dolore da non poter condividere con nessun altro. Una enorme massa appiccicosa aggrappata all’anima che il tempo illude di sciogliere, ma che conserverà ficcante luce viva per i tanti anni che gli rimarranno da vivere.

Ma come se tutto questo non fosse bastato, John Bradley subirà quale protagonista, l’umiliante carnevale della propaganda militare. La sua immagine, unita a quella degli altri cinque compagni immortalati nell’atto d’innalzare la bandiera degli Stati Uniti, diviene strumento per procacciare nuovi finanziatori alle esangui casse del ministero della guerra. Un circo carico di cinismo e di cattivo gusto, animato dall’impellente pratica necessità di trovare fondi per alimentare l’esercito, ma arrogante e supponente, stracolmo di quella retorica disgustosa capace in pochi giorni di calpestare la memoria delle migliaia di vite sacrificate in anni. “Doc” dovrà accettarne le regole suo malgrado, portando nel cuore per il resto dei suoi giorni, l’amaro sapore di una doppia bruciante perdita: la giovinezza su quella nera ed insanguinata spiaggia del Pacifico e la fiducia nel proprio paese nei giorni che seguirono.

Un film che colpisce di spada e di fioretto. Imponenti per la cura nei dettagli della ricostruzione e devastanti per lo sconvolgente realismo, le scene di guerra. Acuto e preciso l’attacco alla manipolazione popolare, allo sfruttamento della emotività collettiva, all’utilizzo del “sangue versato” come strumento di potere. Impietoso nel mettere a nudo gli squallidi retroscena di un episodio storico che divenne talmente famoso da finire impresso su francobolli, verdi dollari, nonché soggetto per monumenti nazionali, Clint Eastwood riporta in primo piano la voce di chi fu il vero e unico protagonista di quei giorni di dolore: il soldato, l’uomo.

Un uomo che rifiuta il vocabolo di “eroe”, infangato e inflazionato dalle bocche che l’hanno indegnamente pronunciato.

“Gli eroi non esistono. Vivono solo nelle parole di chi la guerra non l’ha vissuta. Chi l’ha vissuta non ne parla, cerca solo di dimenticare. In guerra non ci sono eroi. Si combatte per la patria? Non saprei. Si combatte per se stessi, per tornare a casa, per il compagno a qualche metro da te.” Queste sono le parole che Bradley padre lascia al figlio come testamento, per porre fine al fiume di menzogne raccontate in tanti anni su quella vicenda.

Un grande film, prodotto e curato da un gruppo di lavoro tra i più autorevoli del cinema contemporaneo ma non solo. Eastwood oltre che regista, ne è il produttore con Steven Spielberg (“Salvate il soldato Ryan”). Paul Haggis ( regista di “Crash” e sceneggiatore di “Million Dollar Baby” con Clint alla regia) ha curato la sceneggiatura. Una lunga serie di oscar e di film straordinari raccolti attorno a questi tre nomi.

Oltre al già citato Matthew Ryan Phillippe( tra i protagonisti di “Crash”per chiudere il cerchio), bravissimo nell’incarnare gli occhi e l’anima del racconto, grande peso hanno avuto Jesse Bradford Watrouse (Rene Gagnon) e Adam Beach (Ira Hayes, l’indiano), compagni di “Doc” nella retorica“tournee”celebrativa. Due figure contrapposte e simboliche delle tante facce di un America piena di contraddizioni allora come ora. La fame di celebrità del primo, in antitesi con il desiderio di sfuggire a tutto quel clamore, da parte del secondo. Il bisogno di sentirsi eroi anche mentendo, pur di non sentirsi nessuno, contro la volontà di essere lasciato in pace, ai margini di ogni cosa, per chi ai margini vi è relegato da sempre, discriminato da un feroce razzismo verso le sue origini pellerossa.

“Flags of our fathers”, le bandiere dei nostri padri, nel passato e nel presente, ragione di vita o simbolo per cui è valsa la pena sacrificarla per tanti, semplice souvenir da esibire o vocabolo con cui condire e farcire strumentali discorsi di propaganda per altri.

Leggo il collegamento tra il racconto cinematografico, quasi cronaca di quella pagina di storia americana, e le contemporanee vicende statunitensi, come automatico e per nulla casuale. Clint Eastwood ha da sempre manifestato senza veli la sua pesante critica alla politica estera del governo Bush. Un “Presidente”che ha giocato senza alcun scrupolo sulla vita dei suoi connazionali. Bush junior ha seminato terrore per raccogliere insicurezza e rivendere la propria ricetta come soluzione ai mali del mondo.

Ha abusato dei termini eroi, patria, libertà, guerra, battaglia, snaturandoli da quello che è il loro significato, privandoli del loro reale valore, per inghiottirli all’interno dell’immensa menzogna che ha venduto all’intero paese, facendo leva sull’ondata emotiva che ha seguito l’11 settembre. Con quelle medesime parole ha inventato “armi di distruzione di massa”, ha ingigantito nemici ogni oltre misura, ha convinto il popolo della nazione che vuole apparire al mondo come il simbolo di libertà e giustizia, di quanto volare su altri paesi seminando morte, distruzione e miseria tra migliaia di donne e bambini fosse “cosa giusta”.  Il tutto per assecondare mere mire di natura economica legate all’industria della guerra e petrolifera.

Non credo molto alla giustizia divina e poco anche in quella degli uomini intesa in senso classico. Credo in una giustizia indotta dalla ragione, spinta dal bisogno di verità e di pace. Sono questi i motori che sospingono la vita della stragrande parte di noi quando non è inquinata da strumentali azioni politiche o religiose. Impegnarsi per elevarli senza ombre ad asse centrale su cui far ruotare la struttura di una società civile, esigendolo dai governanti che ci rappresentano, è l’unica via per rendere il giusto omaggio a tutti coloro che per quei valori hanno dato la vita, che desiderino o meno l’appellativo di “Eroi”.

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