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 La caduta del Governo Prodi

Lettera aperta del senatore Franco Turigliatto

Roma, 28.02.2007 - Cari compagni e compagne, amici e amiche,

Sono in attesa che il Senato accetti le mie dimissioni, che comunque non ho ritirato e non ritirerò. Nel frattempo, nei prossimi giorni sono chiamato a esprimere il mio voto sulla fiducia al governo Prodi. Vorrei dunque spiegare le ragioni della mia scelta di dare un voto a favore, che definerei tecnico, pur respingendo tutti i dodici punti del governo Prodi nel loro complesso. Nel mio intervento al Senato, infatti, spiegherò con molta nettezza che non si potrà contare su di me per approvare la missione in Afghanistan, né per realizzare la TAV o la controriforma delle pensioni. Non lo si potrà fare perché io non voterò queste misure, anche se su di esse si rischiasse una nuova crisi di governo. E, va da sé che continuerò con voi la battaglia contro la base di Vicenza.
Con il mio rifiuto di votare a favore della politica estera del governo, non ho mai avuto intenzione di compiere un gesto politicista per provocare una crisi di governo. Il mio è stato un gesto di responsabilità nei confronti delle mie convinzioni e di quelle di chi, come me, si sente distante da una politica estera che continua a fare la guerra, sia pure multilaterale; che sostiene una concezione liberista dell’Europa; che pensa che inviare soldati in giro per il mondo sia un modo per “contare” nei luoghi della politica internazionale. Un gesto animato dal rifiuto di lasciarmi convincere a considerare come una missione di civiltà e di pace quella che non è altro che un’occupazione militare. Un piccolo gesto a sostegno di quella straordinaria lotta di Vicenza contro la costruzione di una base che distrugge il territorio e che sarà uno strumento fondamentale  del dispositivo USA di intervento nella guerra globale e permanente. Un gesto di cui non mi pento e che ripeterei in ogni momento. Il mio dissenso con la politica estera del governo muove da qui e non può che essere ricollegato alla mia irriducibile opposizione alla guerra in Afghanistan e alla decisione del governo di autorizzare il raddoppio della base di Vicenza. Il senso del mio voto, in dissenso dal mio partito, ma in dissenso su un punto che considero fondativo e fondante per chiunque faccia politica, il no alla guerra, è tutto qui.
Non credo di essere stato io il responsabile della crisi di governo, della quale i primi responsabili sono il governo stesso e le politiche che ha adottato in tutti questi mesi, e che lo hanno sempre più allontanato da chi lo aveva votato. Una crisi nata per ragioni in parte oscure, in parte dovute alla volontà dell’ala riformista dell’Unione di drammatizzare la situazione, per intimare alla sinistra alternativa il silenzio sulle questioni più scottanti. Una crisi che è servita a stoppare qualsiasi rivendicazione e a sancire il corso “liberale” dell’attività di governo. In questo senso il dibattito al Senato è stato un ricatto, in particolar modo su Vicenza. Anche per questo ho detto no.
L’uscita dalla crisi mi sembra che confermi questo giudizio. I dodici punti presentati da Prodi sono la sanzione di una svolta liberista e di una decisa volontà di affermare una politica di sacrifici e di guerra multilaterale. Gli attacchi di cui sono stato fatto oggetto, lo spauracchio del ritorno di Berlusconi al governo, nuovamente agitato dai miei accusatori, erano finalizzati proprio a nascondere questa realtà: il fatto che il bilancio di questi mesi di governo Prodi è fortemente negativo e che ciò che si profila è un’azione di governo ancora peggiore della precedente. Questo giudizio, ovviamente, non è condiviso dal mio partito, che invece sostiene fortemente il nuovo governo. Èd è stato accolto in vario modo dalla società civile, dai movimenti, da quadri sindacali, da esponenti del pacifismo radicale, dagli stessi che il 17 febbraio sono scesi in piazza a Vicenza. La paura di un ritorno delle destre al governo, infatti, è molto forte. C’è chi pensa, inoltre, che la partita con il governo Prodi non sia chiusa e che la sua sopravvivenza costituisca il quadro in cui ottenere risultati più avanzati o comunque una dialettica democratica.
Non avendo deciso io di provocare la caduta del governo Prodi penso che sia giusto verificare queste intenzioni, dialogare con tanta parte del movimento e del “popolo della sinistra” che la pensa così, permettendo al governo Prodi di rimanere in piedi. Ma penso che questo si possa fare solo nella estrema chiarezza delle posizioni. Non sarò mai disponibile a votare la guerra in Afghanistan né a rendermi complice delle politiche antipopolari di questo governo.
Ovviamente, non prevedo un futuro agevole. I 12 punti presentati dal governo sono un arretramento e uno schiaffo ai movimenti e agli stessi partiti della sinistra alternativa. Prevedo dunque una fase in cui andrà sviluppata un’opposizione sociale alle misure del governo Prodi, opposizione che dovrà avere anche ricadute parlamentari. Questa è la mia intenzione. Per dirla con una battuta, è possibile scegliersi il governo a cui fare opposizione, rendendo incomprimibili alcuni principi e alcuni vincoli per me essenziali: quelli con il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, quelli con le comunità popolari in lotta contro la TAV, i rigassificatori, per la difesa dell’ambiente, quelli con il movimento pacifista che si è visto recentemente a Vicenza. Sono questi i vincoli che regolano la mia attività politica, non un’astratta coerenza ideale, ma un progetto politico che mi ha accompagnato per tutta la vita.
Negli ultimi quindici anni questi vincoli, questi convincimenti hanno coinciso perfettamente con quelli di Rifondazione comunista. Qualche giorno fa, però, il mio partito mi ha dichiarato “incompatibile” semplicemente perché sono rimasto fedele al programma storico del Prc. Non voglio discutere di una scelta che mi riguarda, ma posso dire una cosa. Ho costruito Rifondazione fin dalle fondamenta, l’ho difesa quando era sotto attacco, ho passato centinaia di ore davanti alle fabbriche torinesi e in giro per l’Italia a parlare con gli operai e le operaie. La minaccia di espulsione dal partito mi amareggia e mi delude allo stesso tempo. Ma è il frutto di un cambiamento di fondo delle priorità del Prc e della sua azione: alcune idealità superiori sono messe al servizio di un progetto politico contingente, compiendo un processo di snaturamento della sinistra che mi lascia interdetto. E soprattutto mettendo alla berlina una qualità fondante della politica – la coerenza tra coscienza e azione - la cui assenza è oggi alla base di quella “crisi” di cui si discute da oltre un decennio. Non è la prima volta nella storia che chi da sinistra si oppone alla guerra, chi dice no in Parlamento, contro tutto e tutti, sia accusato di essere affetto da uno “splendido isolamento”, di essere “un’anima bella”, “incapace di realismo”, “irresponsabile” o “idealista”: queste accuse non fanno male a me, ma a un’esperienza in cui ho creduto e riposto tutto il mio impegno e che oggi viene meno per responsabilità di chi ha deciso di piegarsi all’esistente.
Per tenere fede alle mie convinzioni e ai miei vincoli è stato messo in discussione il vincolo che mi legava al partito e addirittura un governo ha dovuto dimettersi. Non mi ritengo così importante e così essenziale. Forse tutto questo rappresenta la spia di molteplici contraddizioni che riguardano la sinistra nel suo insieme e il rapporto tra il governo e la sua gente. Un rapporto logorato come dimostrano tutti i sondaggi e gli episodi di malcontento. Per parte mia non posso che continuare a ribadire quanto detto e fatto negli ultimi giorni. Se l’aula respingerà le mie dimissioni, e dunque finché sarò al Senato, io voterò ancora contro la guerra, perché il no alla guerra e il rapporto con il movimento operaio costituiscono la bussola del mio agire politico: esse sono da sempre l’alfa e l’omega di una prospettiva di classe ed anticapitalista.
Permettetemi dunque di ringraziarvi per le parole che avete utilizzato nei miei confronti, spesso commoventi. Onestamente non credo nemmeno di meritarle, semplicemente perché in questo mondo sembra anormale quello che alle persone serie dovrebbe sembrare normale: agire secondo le proprie convinzioni. Se questo piccolo gesto sarà servito a riabilitare questa logica che ad alcuni sembra, con giudizio sprezzante, troppo “idealista”, allora sarà stato utile. La mia strada è comunque questa e spero di continuare a percorrerla insieme a voi. Ancora grazie.

Roma, 28.02.2007  Franco Turigliatto


I PARERI SULLA VICENDA

APPELLO DI SOLIDARIETA' (adesioni: con-turigliatto@libero.it)

La segreteria del Prc ha dichiarato incompatibile con il partito il senatore Franco Turigliatto, a seguito della sua non partecipazione al voto sulla politica estera del governo. Ci sembra una scelta sbagliata e grave.

Innanzitutto perché l'atto parlamentare non solo è in piena coerenza con il programma storico di Rifondazione comunista ma anche perché in sintonia con le istanze di pace dei movimenti degli ultimi anni...
Pensare che un governo di centrosinistra possa imporre ai suoi sostenitori missioni di guerra come l'Afghanistan o il raddoppio di una base come quella di Vicenza ci sembra una miopia e la causa prima della crisi attuale.

Ma il comportamento di Turigliatto è stato anche accompagnato da un gesto di serietà e correttezza che non può essere sottovalutato: in una politica in cui il seggio o la "poltrona" rappresentano un valore a prescindere, aver presentato le dimissioni al Senato, dopo quarant'anni di militanza politica passata a fianco degli operai e dopo aver costruito dalle fondamenta il Prc, in particolare a Torino, ci sembra un fatto di grande novità e di grande moralità per quanto noi pensiamo che queste dimissioni siano da ritirare.
Nel nostro Parlamento c'è bisogno di rappresentanza delle ragioni della pace, del pacifismo "senza se e senza ma": ce n'è bisogno alla vigilia della campagna di primavera in Afghanistan e ce n'è bisogno rispetto alle sudditanze che si profilano rispetto agli Usa.
C'è bisogno di atti come questo per quanto difficili e delicati ma che servono anche per colmare la distanza tra politica e società.
Tutta la nostra solidarietà a Franco Turigliatto e tutta la nostra disponibilità a costruire con convinzione un movimento per la pace "senza se e senza ma".

La nostra solidarietà a Franco Turigliatto. Al Senato una manovra centrista. Per batterla, il governo cambi politica.


ANDREOTTIPININFARINACOSSIGA: "IL NUOVO che avanza "

Con il loro comportamento i due “emeriti statisti” in quota alla maggioranza hanno provocato un danno di dimensioni cosmiche.

SE il governo fosse caduto comunque anche con il voto a favore di Rossi e Turigliatto – come sosterrebbero alcuni osservatori – sarebbe però apparso evidente CHI e PERCHE’ avesse manovrato per affossarlo

ANDREOTTI COSSIGA e PININFARINA ne sarebbero stati riconosciuti inequivocabilmente come gli unici veri responsabili.

Con la “gentile partecipazione” dei due esponenti della sinistra radicale invece è stato possibile :

1-    coprire i veri mandanti dell’imboscata

2-    favorire la “messa all’angolo” della sinistra radicale sia da parte delle forze interne che di quelle esterne alla maggioranza

3-    obbligare il governo Prodi a stralciare dal programma i DICO per tentare di ottenere la fiducia

4-    obbligare il governo Prodi ad “aprire” al centro per lo stesso motivo di cui sopra

5-    danneggiare gravemente i partiti di appartenenza dei due "eroici e irriducibili" parlamentari.

Per non parlare del rischio di elezioni anticipate  a cui un “gruppetto” agguerrito e ASSAI ben sostenuto sta da tempo “lavorando” in vista della resurrrezione della BALENA BIANCA alla cui rinascita i due “integerrimi” uomini politici orgogliosi per aver seguito la voce della loro “coscienza” hanno contribuito gratuitamente e con abbondante impegno.

VATICANO, CONFINDUSTRIA e USA riconoscenti
sentitamente ringraziano


L’INTERVENTO DEL MINISTRO DEGLI ESTERI
MASSIMO D’ALEMA

Senato, mercoledì 21/2/07

Presidenza del Presidente Marini: La seduta è aperta (ore 9,04).

Comunicazioni del Ministro degli affari esteri sulle linee di politica estera
e conseguente discussione (ore 9,09)

MASSIMO D'ALEMA, vice presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli affari esteri.

Signor Presidente, signori senatori, ringrazio il Senato della Repubblica per l'opportunità che mi offre di illustrare le linee della politica estera italiana perseguita dal Governo Prodi.

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Abbiamo alle spalle settimane non facili, ma sono convinto che le comunicazioni di oggi ed il dibattito che ne seguirà permetteranno un bilancio oggettivo dei risultati che l'Italia ha conseguito in questi mesi. Sono anche persuaso che questa discussione ed il consenso che, spero, si potrà ottenere dal Senato saranno la base per nuove e impegnative prove che attendono il nostro Paese nei mesi che vengono.

Questo dibattito ha i caratteri di un dialogo: è pertanto evidente che il Governo è qui non soltanto per illustrare la sua azione, ma anche per ascoltare le considerazioni che verranno fatte nella discussione, per tenerne conto anche allo scopo di arricchire e precisare la nostra piattaforma. Questo dibattito è stato preparato da un confronto pubblico assai animato, nel corso del quale è stata proposta al Ministro degli affari esteri una serie di prove obbligatorie, di questioni che dovrebbero essere affrontate per forza, di trappole senza uscita: se D'Alema dirà questo, allora sarà vero; se dirà quest'altro, allora... e così via.

Personalmente sono ben consapevole di quanto sia giustamente accesa la discussione. Vorrei contribuire ad un dibattito il meno possibile strumentale, il più possibile aperto, libero, allo scopo di definire il quadro di valori delle scelte condivise nel modo più ampio possibile e allo scopo di misurare il consenso, senza il quale nessuna politica estera può essere ragionevolmente portata avanti in modo credibile nel confronto internazionale. E, da questo punto di vista, non vi nascondo che, in verità, nella struttura del mio discorso non avevo previsto e non ho previsto in alcun modo di parlare di Vicenza, anche perché non avrei nulla da aggiungere a quanto ha detto il Presidente del Consiglio, che segue personalmente lo sviluppo di questa situazione. Ma è del tutto evidente che se dal dibattito del Senato emergeranno interrogativi, questioni, proposte, non mi sottrarrò dal rispondere, precisando gli intendimenti del Governo.

Ma vorrei, appunto, parlare della politica estera e vorrei, se mi permettete, anticipare una conclusione generale: la politica estera del Governo è stata coerente con le grandi scelte condivise su cui si è sempre fondata, nella sua tradizione migliore, la politica estera italiana; coerente con i princìpi ed i valori ispiratori del programma di Governo e quindi, come è giusto e doveroso, coerente con gli impegni assunti verso i nostri elettori e - mi permetto di aggiungere - coerente con gli interessi strategici del nostro Paese, così come abbiamo cercato di interpretarli in una fase internazionale difficile. La coerenza è un presupposto essenziale per una politica estera efficace. È la condizione per essere riconoscibili, prevedibili, autorevoli: senza queste condizioni un grande Paese difficilmente può incidere sullo sviluppo degli avvenimenti internazionali.

Lasciatemi ricordare, anche se potrebbe apparire superfluo, quali sono i punti di riferimento, le grandi coordinate entro le quali si muove l'azione internazionale dell'Italia.

Direi che, innanzitutto, tali coordinate sono definite dall'articolo 11 della Costituzione la quale definisce due aspetti essenziali: in primo luogo, il rifiuto della guerra come principio a cui si ispira tutta l'azione di politica internazionale del Paese; in secondo luogo, e coerentemente con il rifiuto della guerra, la scelta di fare dell'Italia un soggetto attivo nella complessa architettura di istituzioni e di alleanze internazionali che si sono formate dopo la Seconda guerra mondiale allo scopo di prevenire e governare i conflitti rifiutando, appunto, la guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali.

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Questa complessa architettura di cui l'Italia è protagonista, fino al punto di riconoscere in Costituzione una rinuncia o una cessione della propria sovranità nel nome di un principio di governo condiviso, multilaterale, dei grandi problemi internazionali, questa complessa architettura è costituita dalle Nazioni Unite, innanzitutto, dal sistema delle Nazioni Unite, che è non soltanto struttura portante delle nuove relazioni internazionali, ma che è anche fonte di legittimità delle scelte internazionali, dalla adesione attiva dell'Italia alla costruzione europea e dalla partecipazione del nostro Paese all'Alleanza atlantica.

Queste tre grandi scelte che si sono via via affermate nel corso del dopoguerra come grandi scelte condivise sono quelle in cui si traduce la partecipazione del nostro Paese alla ricerca di un equilibrio internazionale che costituisce, appunto, l'asse di una politica estera condivisa.

Vedete, la situazione ottimale per l'Italia è quella in cui la priorità europea, il sistema delle Nazioni Unite e la relazione atlantica si potenziano a vicenda a favore di quelle soluzioni pacifiche cui guarda, appunto, l'articolo 11 della Costituzione; la situazione peggiore, il disequilibrio è quando ciascuna delle nostre priorità entra in conflitto con le altre. Quando ciò accade, la politica estera italiana diventa strutturalmente più debole, più incerta, e il Paese si divide.

Sì tratta di quanto è accaduto negli anni successivi al drammatico attacco terroristico dell'11 settembre 2001 con le divisioni internazionali, in particolare, di fronte all'intervento in Iraq. Sono stati anni di lacerazione per l'Europa; un pilastro della nostra politica è stato colpito. Sono stati anni in cui è stato indebolito e marginalizzato il sistema delle Nazioni Unite, anni anche nei quali si sono coltivate vuote illusioni nelle soluzioni unilaterali, anni in cui gli equilibri alla base della politica estera italiana sono stati anch'essi stravolti, cosa che ha indebolito l'Italia in un'Europa più debole e ne ha fatto smarrire la voce in un sistema delle Nazioni Unite già largamente emarginato.

Oggi il contesto è diverso ed è, in qualche modo, più favorevole ad un multilateralismo efficace. Tutti hanno imparato qualcosa dalle dure lezioni della storia, inclusa la difficoltà ad imporre soluzioni unilaterali, come dimostra il travagliato dibattito apertosi negli Stati Uniti d'America dopo il risultato dell'elezione di midterm e l'aperta discussione sulle prospettive della politica americana, conferma - se volete - del carattere aperto, forte di una grande democrazia che sa interrogarsi anche sui suoi errori e sa cercare la via per cambiare strada.

La lezione vale anche per l'Italia, confermando quanto rientri nei nostri migliori interessi operare a favore di un rafforzamento politico dell'Unione europea e di un rilancio delle Nazioni Unite, di soluzioni pacifiche e multilaterali alle crisi internazionali. Tutto questo rientra negli interessi strategici del nostro Paese ma, insieme, riflette i valori che ispirano la nostra politica estera.

La convinzione del Governo è che solo istituzioni multilaterali forti, capaci di decidere e di agire riusciranno a promuovere quei valori essenziali: la pace, la democrazia, i diritti umani, il diritto allo sviluppo da cui dipende a lungo termine anche la sicurezza internazionale.

Se il contesto è in parte cambiato, il problema vero è come riuscire ad esercitarvi una vera influenza. Abbiamo fissato degli obiettivi chiari nel programma dell'Unione; abbiamo definito i principi e i valori che li orientano. Il punto è come progredire nei fatti concretamente. Questi primi mesi di politica estera possono essere letti in questa chiave: un'azione tenace, paziente, graduale, ma coerente, per incidere sulla realtà della politica internazionale, e per incidere non soltanto attraverso le parole e le prese di posizione, anche se le parole contano, ma attraverso gli impegni e le assunzioni di responsabilità.

Tre sono le direttrici di azione perseguite dalla nostra politica estera che illustrerò: la prima è il rilancio dell'unità europea; la seconda è la necessità di una svolta in Medio Oriente e nella lotta al terrorismo; la terza: un allargamento degli orizzonti e delle relazioni internazionali del nostro Paese.

La prima direttrice è, appunto, lo sforzo per il rilancio dell'integrazione europea per cercare di sbloccare la situazione di crisi, la vera e propria impasse politica e costituzionale in cui l'Unione Europea è entrata dal 2004 in poi. L'Italia ha attivamente sostenuto, e sostiene, la decisione della Presidenza tedesca dell'Unione Europea che considera chiusa la pausa di riflessione e che avvia il percorso che nelle prossime settimane conoscerà tappe decisive per giungere ad un accordo istituzionale entro le elezioni europee del 2009. L'Unione non può ripresentarsi ai cittadini europei senza avere dato una risposta al bisogno di rinnovamento e di rafforzamento delle sue istituzioni democratiche. Se il dibattito costituzionale è finalmente ripreso, questo è stato anche grazie all'impulso venuto dal nostro Paese.

A quale soluzione dobbiamo tendere per i prossimi mesi? Dico con chiarezza che l'obiettivo che l'Italia intende perseguire è quello di salvaguardare nella misura più ampia possibile i contenuti, e in particolare i contenuti innovativi, del Trattato firmato a Roma nel 2004, già ratificato da 18 Paesi, che sono espressione di una larga maggioranza non solo di Stati membri, ma anche di cittadini dell'Unione Europea.

Salvaguardare i progressi segnati dal Trattato piuttosto che adottare una visione minimalista è essenziale perché l'Europa a 27 sia in grado di decidere, e quindi di funzionare e di corrispondere alle attese dei cittadini. Come ha affermato il Presidente della Repubblica nel suo recente discorso a Strasburgo, non si può seriamente sostenere che l'Unione non abbia bisogno, dopo il grande allargamento, di una ridefinizione del quadro d'insieme dei suoi valori e dei suoi obiettivi e di una riforma dei suoi assetti istituzionali.

Lavorare ad un progetto di Costituzione per l'Europa non ha rappresentato un esercizio formalistico, non ha rappresentato un capriccio o un lusso, ma ha corrisposto ad una profonda necessità dell'Europa nell'attuale momento storico. Ancora, che cosa è decisivo per rendere vitali i progetti e per far crescere sul serio un'Europa dei risultati? È decisiva la forza delle istituzioni e dell'impegno politico.

Questo è, appunto, l'impegno politico dell'Italia, di un Paese consapevole che istituzioni più forti ed efficienti sono la condizione perché l'Europa allargata possa affrontare con successo le nuove sfide della sicurezza, della lotta al terrorismo, della gestione dei flussi migratori, degli approvvigionamenti energetici, dei cambiamenti climatici.

Nella visione del Governo italiano, d'altra parte, integrazione e allargamento devono continuare a combinarsi. La porta dell'Europa deve restare aperta ai Balcani occidentali e alla Turchia. Ciò corrisponde a interessi diretti dell'Italia per ragioni geopolitiche ed economiche - pensiamo ai Balcani - e di sicurezza, non soltanto dal punto di vista del mantenimento della pace, ma anche dal punto di vista della lotta alla criminalità. È evidente che soltanto nel seno dell'Europa e delle istituzioni europee i Paesi dei Balcani potranno trovare finalmente quella pacifica convivenza cui aspirano dopo lunghi anni di una tragica guerra civile balcanica e poi di una fragile tregua.

Oggi si tratta di avere chiaro un punto essenziale: non saremmo in grado di gestire la delicata questione dello status finale del Kosovo se togliessimo dal tavolo negoziale, che investirà il Consiglio di Sicurezza, la prospettiva della partecipazione per la Serbia e per i Paesi vicini all'Unione Europea. Essere nell'Unione Europea è anche un modo di sdrammatizzare il problema dei confini e tragici conflitti di natura nazionalistica. Conoscete già la posizione che abbiamo assunto e che sta guadagnando terreno sul tavolo europeo: la possibilità di scongelare i negoziati per l'accordo di stabilità e associazione con Belgrado, subordinandone la effettiva entrata in vigore al pieno rispetto degli impegni della Serbia verso il Tribunale internazionale dell'Aja; è un approccio già tenuto con la Croazia, Paese candidato a diventare membro dell'Unione entro pochi anni. Le controversie che ancora solleva la storia confermano l'importanza di un destino comune, di un futuro europeo.

Più lungo e più delicato è lo scenario per la Turchia, ma anche in questo caso, tuttavia, tenere aperta la porta rientra negli interessi europei, perché ciò permetterà di impostare su basi cooperative e non conflittuali i rapporti con un grande Paese a maggioranza islamica e con un peso decisivo nella regione mediorientale. È evidente che, nel tempo in cui c'è chi teorizza lo scontro di civiltà, il processo di adesione all'Unione Europea di un grande Paese islamico è la risposta migliore ed è il modo di affermare i valori europei e il carattere inclusivo dei nostri valori, appunto, la democrazia politica, la libertà individuale, la coesione sociale, fondamento di una grande comunità che non conosce confini religiosi o di civiltà.

È evidente che l'Europa non potrà continuare ad allargarsi all'infinito. L'assenza di confini ne indebolisce anche l'identità internazionale. Nell'area di vicinato, ad Est del Mediterraneo, l'Europa dovrà essere in grado di costruire rapporti di partnership più solidi nel confronto con la Russia. Una politica europea più unitaria, anche in campo energetico, è la condizione di una minore vulnerabilità e di una maggiore coerenza nel reciproco interesse. L'Italia ha, in questi mesi, sviluppato un rapporto bilaterale molto attivo verso Mosca e, nello stesso tempo, ha sviluppato un'azione per sollecitare un impegno comune europeo in questa direzione. Abbiamo vitale bisogno di una politica energetica comune, così come abbiamo bisogno di concreti passi verso un Trattato post Kyoto che includa gli Stati Uniti e le grandi economie emergenti in un nuovo patto ambientale.

La posizione italiana è che anche la relazione transatlantica sarebbe consolidata, non indebolita da un aumento della coesione europea. L'Unione Europea continua ad avere bisogno, anche per essere unita, di un rapporto solido con gli Stati Uniti. L'Italia è favorevole ad un rafforzamento dei legami diretti tra Washington e Bruxelles, tra Stati Uniti e Unione Europea in quanto tale.

Infine, è nostra convinzione che gli europei riusciranno a rispondere alle sfide che hanno di fronte (sicurezza, competizione globale e questione ambientale) solo se l'Unione non si chiuderà all'interno, ma se riuscirà a proiettarsi all'esterno e ad essere un attore sulla scena internazionale. Questa è la svolta da compiere che l'Italia ha cercato di favorire con scelte conseguenti. Faccio due esempi. Il primo è la spinta che abbiamo esercitato nell'agosto scorso per ottenere che fosse il Consiglio europeo a ratificare politicamente l'invio di contingenti europei in Libano, cosa avvenuta ed avvenuta per la prima volta. È la prima volta cioè che l'Unione Europea decide di partecipare ad una missione delle Nazioni Unite, non soltanto per decisione di singoli Paesi, ma con una deliberazione del Consiglio europeo.

Il secondo è lo sforzo che stiamo compiendo in questi mesi per armonizzare le posizioni europee nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di cui l'Italia è membro non permanente in questo biennio, come risultato di un'elezione pressoché plebiscitaria (186 voti su 192 disponibili nell'Assemblea generale) che non ha quasi precedenti e che di per sé dimostra che l'impegno multilaterale dell'Italia è apprezzato da una vasta comunità internazionale.

Per concludere su questo punto non in modo retorico ma nei fatti, la politica estera italiana è stata prima di tutto in questi mesi una politica europea, il che significa una politica favorevole all'integrazione europea, come dimostra l'importanza degli sforzi compiuti insieme alla Germania per sbloccare l'impasse del Trattato costituzionale, e significa una politica volta ad aumentare il grado di coesione europea sulle grandi questioni internazionali, dal Medio Oriente alla questione energetica.

Il Governo Prodi è un Governo europeista, anche perché ha dimostrato di non volere scaricare su Bruxelles il peso di responsabilità nazionali. Non abbiamo usato l'Europa per deresponsabilizzare l'Italia; abbiamo responsabilizzato l'Italia per rafforzare l'Unione Europea.

Nei mesi scorsi - passo al secondo tema - l'Italia non ha recuperato peso soltanto in Europa: lo ha recuperato anche sulla scena mediorientale. La pacificazione del Medio Oriente richiede oggi un impegno politico, diplomatico, economico, di sicurezza senza precedenti, che deve accomunare, per riuscire, attori internazionali e regionali. L'alternativa è un Medio Oriente fuori controllo, caratterizzato dalle ripercussioni della crisi in Iraq, da guerre civili striscianti, dalla diffusione del fondamentalismo.

Dobbiamo scongiurare lo scenario di uno scontro di civiltà tra Islam e Occidente, uno scenario estremamente pericoloso che produrrebbe solo vinti senza vincitori, con costi altissimi in termini di destabilizzazione regionale e di diffusione del terrorismo. Per sconfiggere il terrorismo la condizione, invece, è quella di isolarlo innanzitutto all'interno dello stesso mondo arabo e islamico. Questo è uno dei primi obiettivi dell'azione dell'Italia, che può fare leva sul rilancio di tradizionali rapporti di amicizia con il mondo arabo, che si erano alquanto appannati negli ultimi anni. Direi che c'è una vasta percezione, nel mondo arabo, del fatto che l'Italia è tornato ad essere un Paese amico; amico, naturalmente, sia d'Israele che degli arabi e, in quanto tale, in grado di esercitare un ruolo sul cammino della distensione e della pace.

Il secondo obiettivo, strettamente collegato, è che una nuova coalizione, fondata sul Quartetto (Unione Europea, Stati Uniti, Nazioni Unite, Russia) e le componenti che potremmo definire più moderate del mondo arabo, deve riuscire a tradursi in progressi reali lungo tutto l'arco della crisi che ormai collega, attraverso le fratture tra sciiti e sunniti, l'instabilità in Iraq, la crisi libanese, il fronte israelo-palestinese.

Guardiamo anzitutto all'Iraq. Abbiamo disposto il ritiro del contingente italiano perché schierato in Iraq dopo un'operazione militare che era stata decisa in modo unilaterale, senza mandato delle Nazioni Unite, e con motivazioni - il possesso di armi di distruzione di massa - che si sono dimostrate infondate. Il ritiro dei soldati italiani dall'Iraq è stato, quindi, una scelta coerente con l'impostazione politica e programmatica della coalizione di Governo e rispondente sul piano operativo alla necessità di voltare pagina.

Abbiamo ritirato dall'Iraq i soldati italiani, ma non abbiamo ritirato il nostro appoggio economico e civile alla popolazione irachena. Lo dimostra la firma a Roma, nel gennaio scorso, del Trattato bilaterale di amicizia e di cooperazione con l'Iraq, conclusa in occasione della visita del ministro degli esteri iracheno Al Zibari.

Alla decisione sul ritiro dall'Iraq è seguita la risposta italiana al conflitto in Libano, nell'estate scorsa, con la nostra partecipazione alla missione UNIFIL rafforzata, di cui l'Italia ha assunto il comando, altro segnale - se mi permettete - di un riconoscimento del ruolo che il nostro Paese viene assumendo nello scenario mediorientale.

Ho avuto già occasione per spiegare le dinamiche e le ragioni di fondo che ci hanno indotto fin dall'inizio a svolgere un ruolo attivo di primo piano, un ruolo che dalla Conferenza di Roma in poi, organizzata insieme agli Stati Uniti, ha pesato positivamente sugli sviluppi della crisi.

Mi preme oggi ricordare soltanto l'importanza particolare della crisi libanese che conteneva in sé un doppio rischio, in parte ancora presente: innanzitutto, quello di destabilizzare un Paese democratico appena emerso da decenni di guerra civile, rischio di fronte al quale tuttora persiste la necessità di un forte impegno internazionale a sostegno delle istituzioni democratiche libanesi e del Governo, che è espressione della maggioranza scelta dai cittadini; in secondo luogo, quello di amplificare le tendenze negative emerse sulla scena mediorientale dal 2001 in poi, tendenze che avrebbero trovato, a seconda del modo in cui si sarebbe conclusa la crisi libanese, una conferma ulteriore o una possibilità di arresto.

Sulla base di questa doppia motivazione abbiamo visto nella crisi libanese una sfida che non potevamo ignorare. I fatti ci hanno dato per ora ragione. La stabilizzazione del Libano è certamente un obiettivo non ancora raggiunto - come dimostrano gli avvenimenti delle ultime settimane - ma possiamo dire che, con il cessate il fuoco tra le parti in conflitto internazionalmente garantito, è stato possibile separare le dinamiche interne libanesi dal fronte esterno di una guerra con Israele. E non solo.

In Israele si fa strada la consapevolezza che la sicurezza dello Stato ebraico può essere difesa meglio da una garanzia internazionale in cui l'Europa gioca un ruolo essenziale piuttosto che attraverso il ricorso a risposte militari nazionali.

Voglio sottolineare due punti importanti: come primo la forza UNIFIL, che non è un esercito occidentale schierato di fronte ad una minaccia islamica; è una forza internazionale nella quale, a fianco dei militari europei, vi sono i militari della Turchia (scelta importante), del Qatar e di altri Paesi islamici. Il secondo punto, che a me pare di grandissimo rilievo in questo scenario, è che l'Europa è tornata a giocare un ruolo attivo. Israele ha accettato per la prima volta lo spiegamento di una forza internazionale lungo i suoi confini come garanzia della sicurezza di Israele, apertamente dicendo che l'esperimento del Libano potrebbe anche essere la premessa per il dispiegamento di una forza internazionale a Gaza e nella Cisgiordania. Dunque, la missione libanese è importante per molte ragioni: al di là della portata specifica, rappresenta un possibile punto di svolta.

Lasciatemi dire che nel Libano (purtroppo questo ha scarso rilievo nell'informazione nazionale, ma fortunatamente ne ha su quella internazionale) i nostri militari, così come in altri scenari, stanno svolgendo un lavoro di straordinario rilievo. Non solo, come è evidente, dal punto di vista militare, della sicurezza, dell'interposizione, della progressiva riduzione verso lo zero degli incidenti che lungo il confine israelo-libanese hanno caratterizzato nel corso degli anni una turbolenza e una minaccia continua: stanno svolgendo anche uno straordinario lavoro di assistenza delle popolazioni, di sminamento dell'area colpita dalla guerra, di prevenzione degli incidenti, fino ad un lavoro di istruzione nelle scuole per evitare che i bambini libanesi vengano colpiti dalle cluster bomb. Speravo che almeno nell'apprezzamento dei militari italiani potesse esserci un qualche consenso. Come accennavo, sono d'altra parte evidenti i legami tra l'evoluzione in Libano e la situazione israelo-palestinese. In questi anni si è sostenuto da più parti che la questione palestinese avesse perso la sua centralità: non era vero e la tesi del Governo italiano, così come di larga parte della diplomazia europea, è opposta. Il conflitto israelo-palestinese rimane la chiave di tutti i conflitti mediorientali (questa è fermamente la mia opinione), e risolvere la questione palestinese, accelerare la ricerca di una soluzione, è diventato ancora più urgente nel momento in cui la situazione palestinese contribuisce alla crisi interna di gran parte dei Governi della regione favorendo l'ascesa di movimenti fondamentalisti che cercano di appropriarsi della bandiera della causa palestinese.

Abbiamo a lungo incoraggiato, come Italia e come Europa, la creazione di un Governo palestinese di unità nazionale. Sono andati nella stessa direzione gli sforzi compiuti dall'Arabia Saudita con l'organizzazione dell'incontro alla Mecca tra Abu Mazen e Khaled Meshaal, sforzi che abbiamo attivamente e direttamente sostenuto.

Dopo tale incontro, e dopo il vertice trilaterale di due giorni fa tra Condoleezza Rice, Abu Mazen e Ehud Olmert, siamo forse giunti ad una possibile svolta positiva. Il Governo palestinese e il suo programma non sono ancora noti: la cautela è d'obbligo. L'accordo della Mecca è comunque un'occasione che dobbiamo, l'Europa e il resto della comunità internazionale, saper valorizzare e non perdere. Se quell'accordo fallisse, l'unica prospettiva sarebbe quella della ripresa di una sorta di guerra civile strisciante nei Territori: una tragedia per i palestinesi, ma anche un motivo in più di insicurezza per Israele. Noi non vogliamo consentirlo.

Ciò che è essenziale è che il nuovo Governo riconosca gli accordi sottoscritti dall'Autorità Nazionale Palestinese con Israele, consentendo così ad Abu Mazen di avviare un negoziato con Israele a nome dell'intera comunità palestinese. D'altro canto, che interesse potrebbe avere Israele a fare la pace con metà dei palestinesi?

È evidente che il processo di pace richiede un coinvolgimento dell'intera comunità palestinese. Soprattutto, ciò che è essenziale è che il nuovo Governo si impegni contro la violenza, promuovendo immediatamente e finalmente con la liberazione del caporale Shalit quello scambio di prigionieri che sarebbe un segno di distensione nei rapporti israelo-palestinesi, bloccando il lancio di missili, favorendo l'estensione della tregua in vigore a Gaza, alla West Bank, condizione appunto perché cessi la violenza in tutta la Regione. Si tratta di un passaggio estremamente delicato, di un momento davvero difficile ed importante.

Ne abbiamo parlato ieri con la collega israeliana Tzipi Livni e con il presidente Abu Mazen. L'uno e l'altra hanno sentito il bisogno di informare l'Italia e di chiedere una nostra partecipazione attiva per definire le questioni ancora aperte nelle settimane che verranno. Per questo ritengo che sarà necessaria una missione nella regione oltre che urgente una discussione a livello europeo, perché, pur apprezzando l'iniziativa americana, di Condoleezza Rice, credo che far diventare il «quartetto» un singolo Paese rischi in realtà di indebolirne l'azione e di ridurre il consenso internazionale.

L'Italia continuerà ad essere partecipe di questo processo, di questi sforzi, in un passaggio - ripeto - molto delicato e difficile, ma che potrebbe essere un tornante decisivo per accelerare il cammino della pace.

Infine, la diplomazia italiana sta applicando le sanzioni all'Iran, decise nel dicembre scorso dal Consiglio di Sicurezza, secondo il regolamento europeo approvato il 12 febbraio scorso nel Consiglio affari generali.

L'Italia non si sottrae alle sue responsabilità, ma ritiene anche che per raggiungere risultati effettivi sia indispensabile tenere unito il fronte dei Paesi membri del Consiglio di Sicurezza. È l'unica vera pressione politica che potrebbe spingere l'Iran a riprendere il negoziato. Come ha dimostrato il caso della Corea del Nord, un'impostazione negoziale efficace può anche produrre risultati importanti, come la rinuncia all'ambizione nucleare.

Oggi riceveremo a Roma il capo dei negoziatori iraniani, Ali Larijani, e torneremo ad insistere con lui per chiedere all'Iran un gesto aperto e ragionevole di adesione alle richieste della comunità internazionale. Tuttavia, è evidente all'indomani delle vicende della Corea del Nord e dell'Iran (che è in pieno svolgimento), che ci troviamo di fronte ad un problema più generale, alla necessità cioè di rilanciare una strategia complessiva di non proliferazione e di riduzione degli arsenali nucleari.

La mia opinione è che in parte un'occasione sia stata perduta dopo la fine della guerra fredda e che vi sia addirittura il rischio di una ripresa della corsa agli armamenti, innanzitutto tra Stati Uniti e Russia. La Comunità internazionale non ne ha bisogno ed anche per questo, nel corso della nostra recente visita in Giappone, d'intesa con il Governo giapponese, abbiamo ritenuto di dover rilanciare un dibattito internazionale proprio sui temi della non proliferazione e del disarmo nucleare, nella convinzione che questo potrà essere uno dei temi della presidenza giapponese del G8 a cui l'Italia vorrà dare un proprio contributo di iniziative e di proposte.

Lasciate che a questo punto io affronti una delle questioni più delicate e controverse e che, tuttavia, è a pieno titolo parte dell'iniziativa internazionale dell'Italia in questa complessa regione, nella quale si sviluppa il conflitto con il terrorismo e con il fondamentalismo, vale a dire le ragioni della presenza italiana in Afghanistan, innanzitutto nella sua componente militare di quasi 2.000 soldati schierati a Kabul e ad Herat, che ringrazio come tutti i nostri militari impegnati all'estero per il loro straordinario impegno.

Si tratta, come è noto, di una missione condotta dalla NATO più 13 Paesi non membri della NATO sotto mandato delle Nazioni Unite. Nella sua componente civile, anch'essa importante, è una missione in crescita, come dimostra anche l'aumento delle risorse che il Governo intende mettere a disposizione e che riteniamo debba ancora crescere.

Lo abbiamo detto chiaramente nella riunione dei Ministri degli esteri della NATO a Bruxelles nel gennaio scorso: «La pacificazione dell'Afghanistan non è missione della NATO, è una missione delle Nazioni Unite all'interno della quale la Nato, insieme ad altri Paesi, svolge una delicata ed essenziale funzione militare, ma la missione è innanzitutto politica e civile». Lo ripeteremo nel Consiglio di Sicurezza.

L'Italia ha chiesto ed ottenuto di poter essere il Paese leading, quello che promuove e organizza il dibattito sul rinnovo del mandato della missione civile delle Nazioni Unite (UNAMA), che si svolgerà a marzo, e di essere anche relatore nel dibattito sul rinnovo del mandato per la missione militare, che si svolgerà ad ottobre.

Abbiamo dunque rivendicato per noi, con tutti i rischi del caso, il compito di essere il Paese che nell'ambito del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite imposterà la discussione sui futuri compiti dell'ONU sul piano civile, politico e militare in Afghanistan.

È del tutto evidente che la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, dopo l'abbattimento del regime dei talibani, non ha ancora prodotto gli effetti sperati. Sono stati ottenuti risultati importanti, che non credo possano essere sottovalutati: la liberazione dell'Afghanistan da un regime oppressivo, oscurantista, totalitario, che ignorava i più elementari diritti umani, in particolare quelli delle donne; la creazione di prime istituzioni democratiche; la formazione di un esercito nazionale; la ripresa delle scuole, sia pure in un Paese segnato ancora da alti tassi di analfabetismo, il faticoso avvio di un processo di ricostruzione economica.

Sono risultati importanti. Ancora qualche giorno fa, nella Conferenza internazionale con le donne afghane, che si è svolta a Roma, abbiamo sentito tante testimonianze significative di persone che, grazie all'impegno internazionale, hanno ritrovato la possibilità di vivere liberamente la propria vita, di lavorare, di affermarsi come cittadini di un Paese normale, pure attraversato da un così tragico conflitto.

Credo che dobbiamo discutere con l'Afghanistan. Dobbiamo discutere con le personalità politiche che rappresentano quel Paese. Dobbiamo discutere innanzitutto con loro i compiti futuri della comunità internazionale e lasciate che - aprendo una piccolissima parentesi - lo dica non soltanto come Ministro degli esteri ma, se mi permettete, anche come uomo di sinistra. Gran parte della classe dirigente afgana di oggi è rappresentata da persone che hanno combattuto da posizioni democratiche e progressiste il regime oppressivo dei talibani. Il Ministro degli esteri dell'Afghanistan, costretto all'esilio dal regime dei talibani, dopo il massacro di tutta quella parte della società afgana che aveva sostenuto il Governo comunista, è stato a Colonia un militante dei Verdi, consigliere comunale, direi una personalità formatasi nella sinistra europea che è tornato nel suo Paese grazie alla caduta di un regime oscurantista e totalitario.

Credo che con queste forze, con queste personalità dobbiamo discutere come sviluppare una strategia più efficace allo scopo di ottenere i risultati che ci proponiamo. E' del tutto evidente. Colleghi, sono informazioni, peraltro controllabili. Si possono riscontrare e non c'è nulla di particolarmente creativo.

La convinzione del Governo italiano è che per vincere la sfida in Afghanistan si debba rafforzare l'impegno civile, l'impegno politico, l'impegno economico. La convinzione del Governo italiano è che sarebbe un gravissimo errore che la NATO si isolasse, facendo della missione afghana una sfida solo della NATO. La missione afghana è innanzi tutto una sfida dell'intera comunità internazionale, delle Nazioni Unite e dell'insieme dei Paesi del mondo, tra i quali - faccio osservare - non ve n'è neppure uno che sostenga la necessità di ritirare le forze internazionali dall'Afghanistan, dal momento che tutti i Paesi del mondo - tra i quali ne cito due piuttosto importanti nella regione: la Russia e la Cina - ritengono che un ritorno dei talibani sarebbe una tragedia non accettabile, anche per loro. La Cina ha 93 chilometri di confine con l'Afghanistan.

È dunque necessario impegnare l'insieme di questi Paesi in uno sforzo comune. È necessario impegnare l'Unione Europea in quanto tale. Il Consiglio europeo ultimo ha approvato una nuova missione, cosiddetta PESD, per la preparazione delle forze di polizia afghana; missione europea, che vedrà, quindi, una presenza dell'Unione in quanto tale nella missione afgana.

In questo senso va l'impegno internazionale dell'Italia. In questo senso va la Conferenza che abbiamo promosso, d'intesa che le Nazioni Unite e con il Governo afgano, sullo Stato di diritto, il cui obiettivo è quello dell'adozione di un nuovo piano di azione per il funzionamento della giustizia e la tutela dei diritti umani in Afghanistan. In questo senso va la richiesta italiana di una Conferenza internazionale per la pace in Afghanistan, capace di coinvolgere tutti i Paesi della regione e tutti i Paesi e le istituzioni internazionali a differente titolo impegnati in Afghanistan.

Questa proposta, che ci ha visti in un primo momento isolati, raccoglie via via maggiori consensi: sia la disponibilità, dichiarata in Italia qualche giorno fa, del Governo afgano, che ha rappresentato una novità importante, sia il consenso di altri Paesi europei. È di ieri il documento congiunto tra il Governo spagnolo e il Governo italiano. La Spagna tra l'altro schiera le proprio forze armate a fianco delle nostre, in una missione che è comune. È di ieri il documento congiunto del Governo spagnolo e di quello italiano, in cui, appunto, si richiede - questa volta insieme - l'organizzazione di una Conferenza internazionale per la pace in Afghanistan.

Vedete, non ci nascondiamo e non ho nascosto le difficoltà di questa sfida. Non ci nascondiamo e non ho nascosto le responsabilità che l'Italia si è assunta, ma, come il Senato può facilmente comprendere, una linea di responsabilità comporta anche dei vincoli e dei doveri. È una scelta difficile rimanere lì, in uno scenario così drammatico, ma essendo lì possiamo chiedere di essere relatori nel Consiglio di Sicurezza; essendo lì possiamo batterci per una conferenza internazionale per la pace. Se non ci fossimo più, rompendo la solidarietà europea, venendo meno ad un mandato dell'ONU, non potremmo più avere diritto di esercitare il nostro peso nella comunità internazionale.

Ecco perché quello che noi chiediamo al Parlamento è di avere il consenso necessario per affrontare i rischi, ma anche nella consapevolezza che affrontare quei rischi è la condizione per sviluppare in modo autorevole quell'azione per la pace in cui l'Italia è impegnata con l'adesione, il sostegno e la solidarietà di altri Paesi e di altre forze internazionali.

Avrei molti punti da aggiungere sulle scelte internazionali compiute in questi mesi, ma lasciate che mi limiti ad enunciare qualche tema e a ricordare qualche titolo.

Ci siamo sforzati di allargare gli orizzonti, come ho detto, dell'azione internazionale dell'Italia, guardando a grandi aree del mondo che sono protagoniste del processo di globalizzazione e rispetto alle quali l'Italia aveva mantenuto nel corso degli ultimi anni un atteggiamento distante e, talora, ostile, guardando alla sfida della competizione internazionale più con timore (i dazi), che non con fiducia nelle possibilità di un grande paese come l'Italia. Missioni italiane sono state in Cina, in India, in Giappone e in Brasile. In tutti questi Paesi si sono riallacciate relazioni politiche e si sono determinate anche nuove opportunità per le nostre imprese e per la nostra economia. Naturalmente non vorremmo apparire come dei sostenitori acritici delle virtù taumaturgiche della globalizzazione. Sappiamo che la globalizzazione è una sfida, una sfida difficile, ma siamo convinti che i suoi effetti vadano governati attraverso la cooperazione internazionale.

Mi pare che questa rinnovata, ampia azione internazionale dell'Italia risponda agli interessi di un grande Paese, la cui capacità di rispondere alle sfide competitive, il cui dinamismo e la cui creatività sono, appunto, le condizioni per vincere.

Interpretare in modo dinamico gli interessi generali del Paese significa anche guardare con lungimiranza a Paesi percepiti con minore rilievo strategico. Penso ad un continente dimenticato per antonomasia, ma non dall'Italia, e in questo caso, in verità, neppure negli anni recenti, cioè l'Africa, dove il presidente Prodi si è recato poche settimane fa per assistere, unico Capo di Governo non africano invitato, al vertice dell'Unione Africana. Anche questi sono segnali di un'attenzione nostra e di un'attenzione verso di noi. L'Africa è teatro sia di crisi umanitarie che politiche tra le più drammatiche, dal Darfur alla Somalia, dove l'Italia ha un ruolo importante da esercitare come parte del gruppo di contatto. Per l'Italia l'Africa è un continente vicino. Basti pensare all'enorme problema dei flussi migratori, al quale stato dedicato un primo summit euro-africano lo scorso novembre a Tripoli.

Infine, abbiamo dato rilievo ad una dimensione della politica estera che è l'impegno intorno a grandi questioni di principio che toccano valori fondamentali come quello dei diritti umani. Ne è testimonianza la campagna promossa alle Nazioni Unite per la moratoria universale delle esecuzioni di condanne a morte nel quadro di una campagna per l'abolizione completa della pena capitale nell'ambito di una iniziativa che non può che essere di lungo periodo in quanto punta a mutare comportamenti collettivi consolidati. Sono stati già conseguiti risultati di rilievo, tra cui la dichiarazione presentata in Assemblea generale dall'Unione Europea, sottoscritta già da svariate decine di Paesi. Ci stiamo adoperando perché si arrivi in tempi ravvicinati ad un dibattito e ad un voto nell'Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Nell'azione internazionale dei mesi scorsi abbiamo dovuto tenere conto di un vincolo evidente, difficilmente eludibile: il vincolo della finanza pubblica, che ha imposto di contenere risorse e, di conseguenza, ambizioni. Abbiamo cercato di rispondervi con azioni di razionalizzazione e in prospettiva di più ampia riforma.

Vorrei sottolineare alcuni risultati non disprezzabili: innanzitutto, l'incremento della spesa per aiuti pubblici allo sviluppo, praticamente raddoppiata, dai 374 milioni agli oltre 600 del 2007, insufficienti e che, tuttavia, testimoniano di una volontà del Governo di rilanciare l'azione italiana di lotta alla povertà, come asse della nostra azione internazionale.

Nel frattempo, abbiamo messo a punto e presentato al Parlamento un primo progetto di riforma della cooperazione allo sviluppo, a cui diamo e do molta importanza: una riforma lungamente attesa, che spero il Parlamento ci aiuti adesso a realizzare al più presto e che armonizzerebbe l'assetto italiano al principio prevalente in altri Paesi europei e la separazione tra indirizzo politico, che resterà di competenza del Ministero degli affari esteri, e gestione operativa, affidata ad una struttura tecnica, aperta alla collaborazione con le Regioni, con i Comuni, con i donatori privati per rendere più efficace e meglio coordinata l'azione italiana di solidarietà. Stiamo anche lavorando alla struttura del Ministero degli esteri con l'obiettivo di ridurre le spese al minimo compatibile e di rendere più efficiente, razionalizzandola, la rete diplomatica e consolare.

Considero - ma voi direte: è naturale - il bilancio di questi mesi di lavoro come bilancio positivo. Non è intenzione del Governo né mia enfatizzare successi, anche perché siamo consapevoli della difficoltà delle sfide nelle quali siamo impegnati. Tuttavia, l'Italia c'è in diversi scenari essenziali e c'è con un ruolo di protagonista. In questa difficile fase delle relazioni internazionali non possiamo permetterci di essere né cinici, né sognatori. Non vogliamo rinunciare alla nostra ispirazione ideale, né possiamo rinunciare ad un lucido realismo necessario per tradurre questa ispirazione in un'azione politica efficace nel quadro dei rapporti di forza esistenti.

La politica estera italiana attuale è nella continuità con la tradizione migliore della politica estera dell'Italia repubblicana. Abbiamo praticato nei fatti la priorità del multilateralismo, un riferimento per noi obbligato, tra l'altro alla luce del dettato della Costituzione repubblicana che ho citato all'inizio della mia esposizione: rifiuto della guerra, ma anche coraggioso riferimento ad una possibile limitazione della sovranità, nel nome di un impegno della comunità internazionale.

So bene che le scelte della politica estera, le singole scelte della politica estera possono via via mettere a disagio una parte del Senato e una parte dell'opinione pubblica. Nel valutare gli effetti complessivi di una politica, ciò che si chiede non è l'adesione entusiasta ad ogni singolo passaggio, ma, appunto, la valutazione di un disegno complessivo e di un'azione complessiva, dei suoi indirizzi, dei suoi risultati, dei valori cui si ispira. Credo che questa azione sia coerente e mi sono sforzato di dimostrarlo con il programma con il quale la maggioranza di Governo si è presentata agli elettori.

Una cosa è certa: un Paese come l'Italia, che non è una grande potenza, non può ingaggiare sfide così delicate e complesse come quelle nelle quali siamo impegnati senza un consenso politico forte e chiaro. Di questo abbiamo bisogno. Il Governo italiano non può trovarsi nelle prossime settimane ad affrontare la difficile sfida, ad esempio, dell'atteggiamento internazionale verso un nuovo governo palestinese, o la difficile discussione sul cambio di strategia in Afghanistan nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, o la difficile sfida sul tema della pena di morte (che, come voi sapete, irrita diversi grandi Paesi) senza aver la certezza di un consenso e di una stabilità.

Non lo si può chiedere a nessuno e certamente il Governo non lo potrebbe fare.

Dunque, noi siamo qui a chiedere questo consenso, a chiedere il consenso più ampio possibile per continuare nel difficile, impegnativo cammino della pace.

PRESIDENTE. Ringrazio il ministro degli affari esteri D'Alema.

Riprendiamo la seduta.

Do la parola per la replica al ministro degli affari esteri, onorevole D'Alema, al quale chiedo di pronunziarsi anche sulle tre proposte di risoluzione presentate.

MASSIMO D'ALEMA, vice presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli affari esteri.

Signor Presidente, signori senatori, vorrei innanzitutto ringraziare il Senato per la discussione assai ricca ed anche appassionata dalla quale certamente il Governo, e per quanto mi riguarda il Ministro degli affari esteri, trarranno indicazioni importanti per lo sviluppo del nostro lavoro. È una discussione seria quella che ci ha impegnato e di ciò davvero voglio ringraziare tutti gli esponenti dell'opposizione e della maggioranza.

Ora ci troviamo alle soglie di un voto che si presenta francamente un po' strano perché, in definitiva, confliggono tra di loro due mozioni che si concludono, tuttavia, entrambe con l'approvazione della politica estera del Governo. Devo dire che di ciò mi sento molto onorato nei confronti dell'intero Senato della Repubblica che gareggia su come approvare la politica estera del Governo. Certamente è una situazione non facilissima da spiegare all'opinione pubblica, ma mi sforzerò di esprimere la mia opinione su questa contrapposizione che appare abbastanza singolare per il modo in cui si dispiega.

Tuttavia, prima di venire a questo tema che ruota intorno alla questione della continuità, su cui vorrei dire poi parole sincere a questa Assemblea, torno a sottolineare, accogliendo lo stimolo garbato e pungente del senatore Biondi con il quale duelliamo con garbo e rispetto reciproco da tanti anni, che io non ho inteso minacciare nessuno, né la maggioranza né il Senato, ma semplicemente ricordare con una battuta di ieri, ai margini dell'incontro italo-spagnolo, che un elementare principio di natura costituzionale dice che il Governo, per poter svolgere il suo lavoro in tutti i campi, ma in modo particolare in un settore cruciale come la politica estera, deve poter contare sul consenso della maggioranza parlamentare.

È, se volete, una banalità; tuttavia, penso per ragioni politiche, costituzionali e - se mi permettete - anche etiche che l'idea di agire senza consenso, soprattutto quando sono in gioco questioni così importanti come la pace, la guerra e la sicurezza del Paese, è qualcosa che non appartiene al costume democratico e alle mie abitudini. Credo di avere dimostrato nella mia vita politica di essere persona molto attenta a misurare il consenso democratico, persino al di là degli obblighi costituzionali, e a prendere atto del dissenso con una coerenza che non sempre - lo dico - ho riscontrato in tutti i protagonisti della vita politica.

Ritengo che sarebbe tuttavia paradossale che una politica estera, che senza alcun dubbio - lasciamo stare i sondaggi, che non fanno che confermarlo - raccoglie in un momento complesso e tormentato un largo consenso nel Paese - parrebbe assai più largo del consenso che più generalmente c'è intorno alla politica del Governo - e senza alcun dubbio una vasta attenzione internazionale, non trovasse il consenso del Senato della Repubblica; sarebbe davvero curioso e aprirebbe una questione assai delicata.

Penso che sul tema della continuità e della discontinuità della politica estera italiana dobbiamo fare una discussione seria. Dirò la mia: non possiamo confondere la continuità di fondo di una politica estera sulla base di un consenso, che si è venuto formando nel corso della lunga storia dell'Italia repubblicana, con gli elementi indubbi di novità e di contrasto che sono emersi negli ultimi anni.

Ho ricordato le coordinate della continuità della politica estera italiana: l'articolo 11 della Costituzione, ovvero la scelta dell'impegno dell'Italia per costruire un ordine internazionale fondato sulla pace, il rifiuto della guerra e la partecipazione attiva dell'Italia a quell'architettura di istituzioni e di alleanze (ONU, Unione Europea e NATO) entro la quale la nostra politica estera si è sviluppata in questi anni e continuerà a svilupparsi nel periodo prevedibilmente di fronte a noi.

Credo tuttavia che la raffigurazione, che è venuta in molti contributi degli amici dell'opposizione, secondo cui lo scenario politico italiano e quello internazionale sarebbero in definitiva caratterizzati da una parte da uno schieramento che si muove su una linea coerentemente atlantica e occidentale e dall'altra dalla protesta confusa di un mondo radicale e pacifista, non sia esatta; non corrisponde alla realtà della vicenda politica italiana, europea e mondiale degli ultimi anni, che ha visto aprirsi ben altra dialettica politica, assai più complessa, e che ha attraversato in modo drammatico il campo occidentale.

Non c'è il minimo dubbio che di fronte alla politica neoconservatrice dell'Amministrazione americana, di fronte alla teorizzazione della guerra preventiva, dell'esportazione con la forza della democrazia e all'atto della guerra in Iraq si è diviso l'Occidente. Non l'Occidente da una parte e il pacifismo dall'altra parte; si è diviso il campo democratico occidentale; si sono divise le grandi democrazie occidentali. Si è aperta una ferita profonda che ha diviso anche il campo politico italiano rispetto ad un consenso sulla politica estera che aveva caratterizzato lunghi decenni della storia repubblicana.

Questa è la verità. È lo scenario reale nel quale ci muoviamo. Io credo che sia del tutto legittimo rivendicare, da questo punto di vista, una novità nella politica del Governo Prodi rispetto alla politica del Governo Berlusconi: la novità del non aderire alla politica neoconservatrice. Non avremmo mandato i soldati in Iraq e non ce li avremmo mandati così come non ce li ha mandati la maggioranza dei Paesi europei la larga maggioranza dei Paesi che appartengono all'Unione europea e all'Alleanza atlantica. Naturalmente è legittimo avere un'opinione diversa.

È legittimo avere un'opinione diversa. La più grande democrazia dell'Occidente, gli Stati Uniti d'America, è divisa da questo dibattito. Figuriamoci se non è legittimo avere opinioni diverse, ma non è giusto presentare il nostro punto di vista come in continuità con quello del Governo precedente, perché su questo marca una novità radicale.

Certo, ciò non significa che in tutti i campi il Governo attuale segni una rottura con il passato. Se vogliamo parlare seriamente di continuità, ritengo che per certi aspetti il Governo attuale recuperi una continuità più lontana della politica estera italiana. Mi permetto di dubitare molto che i Governi democratici imperniati sull'alleanza tra la Democrazia Cristiana e il Partito socialista avrebbero approvato la teoria della guerra preventiva, se devo giudicare almeno dal modo in cui gran parte degli esponenti di quel mondo si sono collocati nel dibattito politico di questi anni.

Allora, se vogliamo essere sinceri fino in fondo in materia di continuità, credo che l'attuale Governo recuperi la continuità di una ispirazione di fondo della politica estera italiana rispetto ad uno strappo intervenuto negli ultimi anni. Ripeto: è ovviamente una opinione opinabile, ma è un discorso di verità che - a mio giudizio - presenta uno scenario più vero del dibattito politico internazionale e non uno scenario di comodo. Lo dico perché troverei davvero curioso concludere questo dibattito con una disputa sulle parole.

Mi interessa molto di più il confronto sulla sostanza e la sostanza è la seguente: se si apprezza l'impegno italiano per contribuire ad una svolta nella politica internazionale, di cui certo noi non siamo gli unici attori, né forse i principali, ma che tuttavia è in atto, per uscire dalle secche dell'unilateralismo e per ritornare nell'alveo di una politica multilaterale, per uscire dalle secche delle coalizioni dei volenterosi e per ritornare nell'alveo del primato delle istituzioni internazionali, lo si dica senza affermare che questo è in continuità con la partecipazione ai volenterosi di prima.

Noi lavoriamo per consolidare una svolta nella situazione internazionale. Lo facciamo in Iraq, lo facciamo nel Medio Oriente, lo facciamo in Afghanistan. Lo facciamo con scelte che tengono conto delle diversità delle situazioni e anche qui voglio usare parole sincere nei confronti di giudizi che non condivido e che mettono sullo stesso piano la vicenda irachena e quella afgana.

Ci sono delle differenze molto profonde, di carattere giuridico, di carattere politico e di fatto, che fanno sì che mentre il ritiro dall'Iraq è stato un atto politico che ha aperto all'Italia nuove possibilità di iniziativa politica, rimettendoci in sintonia con la maggioranza degli europei e anche con gran parte del mondo arabo, il ritiro dall'Afghanistan sarebbe un atto unilaterale che ci separerebbe da tutta l'Europa, compresi quegli spagnoli che sono lì a fianco a noi, non ci metterebbe in comunicazione con nessuno e non ci farebbe fare nessun passo avanti.

Vi è una profonda diversità tra un'azione militare in Afghanistan, che è stata autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite perché lì c'erano le basi dei terroristi...

È diversa l'azione militare in Afghanistan, autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla base dell'accertato fatto che lì vi erano le basi di Al Qaeda, dall'azione militare in Iraq, voluta in modo unilaterale sulla base della menzogna che lì ci sarebbero state le armi di distruzione di massa. Non sono la stessa cosa e non è giusto metterle sullo stesso piano nel modo in cui si affrontano i diversi problemi di queste diverse situazioni.

Per questo, per voltare pagina in Afghanistan, bisogna stare dentro il quadro delle responsabilità condivise e non separarsene: per ragioni politiche e non per un'astratta continuità.

Vedete, noi siamo di fronte a scelte politiche e a passaggi assai complessi, davvero difficili, e in nessuna delle sfide in cui siamo impegnati vi è certezza di successo, a cominciare da quella che ci vede in primissimo piano nel Libano con una responsabilità preminente per il numero dei militari e per il comando della missione delle Nazioni Unite. Ma in tutti questi diversi campi noi ci muoviamo sulla linea di un difficile equilibrio: lealtà alle alleanze, lealtà al quadro nell'ambito del quale noi ci troviamo (e se ne usciamo non contiamo più nulla) e sforzo, impegno, per far avanzare concretamente una nuova prospettiva di distensione e di pace.

Voglio concludere dicendo una parola, anche qui di verità, su Vicenza, dato che da tante parti è stato sollecitato.

Non ho mai nascosto che condivido l'opinione del Governo. Ho citato in modo non banale le parole del Presidente del Consiglio, il quale si è preso la responsabilità primaria, come è giusto, di confermare la disponibilità italiana che era stata annunciata con una lettera del Capo di Stato Maggiore delle Forze armate italiane, autorizzato dal Governo dell'epoca, agli americani per l'allargamento della base di Vicenza. Si richiede di allargare tale base nel quadro di quello che gli americani definiscono, ed è senza alcun dubbio, un ridimensionamento della presenza americana in Europa, che, tra l'altro, ha già previsto la dismissione della base della Maddalena e prevedrà un'ulteriore riorganizzazione anche nel nostro territorio della presenza americana.

Gli americani che alla fine della guerra fredda avevano in Italia quasi 20.000 militari oggi ne hanno circa 12.000 e vanno ridimensionando la loro presenza in Europa, come è ovvio che accada in un mutato scenario internazionale. In questo quadro ci è stato chiesto di poter potenziare Vicenza per concentrare le forze, chiudendo altri basi in Europa; un'iniziativa che è stata ritenuta ragionevole dal Governo italiano, il quale ha assunto un impegno. È anche vero che sulla base di questo impegno del Governo italiano gli americani hanno, molto correttamente, predisposto un progetto, lo hanno sottoposto all'esame delle istituzioni democratiche di Vicenza che lo hanno approvato, con determinate cautele, ed io sinceramente ritengo che revocare questa autorizzazione sarebbe stato e sarebbe da parte del Governo attuale, un atto ostile verso gli Stati Uniti di cui non si comprenderebbe il senso e che avrebbe avuto degli effetti controproducenti.

La mia opinione è che nell'opposizione alla base di Vicenza si sommino, tuttavia, sentimenti molto diversi. C'è probabilmente una posizione pregiudiziale di una parte di opinione pubblica di contrarietà verso le basi militari; c'è anche un sentimento diffuso della comunità vicentina, preoccupata per una localizzazione di quella base che è considerata, da molti cittadini di Vicenza, delle più diverse opinioni politiche, dannosa per lo sviluppo della città, per le sue prospettive e per la possibilità per essa di godere di un area di verde importante.

Ed è per questo che, senza smentire l'orientamento preso, abbiamo posto agli americani l'esigenza di una valutazione più approfondita sulle preoccupazioni espresse nello stesso consiglio comunale di Vicenza, dove, nel momento in cui è stato approvato il progetto, sono state, tuttavia, indicate talune limitazioni e sulle preoccupazioni che si sono successivamente manifestate anche nei movimenti e nei comitati dei cittadini di Vicenza.

Questa è la posizione del Governo. Non intendiamo rimettere in discussione l'orientamento preso, ma insistiamo affinché si tenga conto delle preoccupazioni dei cittadini di Vicenza e credo che, ragionevolmente, con questi cittadini il Governo aprirà un dialogo, così come abbiamo chiesto agli Stati Uniti d'America di tenerne conto.

Questa è una posizione ragionevole, che al tempo stesso vuole essere rispettosa degli impegni internazionali dell'Italia, ma anche delle preoccupazioni legittime di una comunità italiana che sappiamo benissimo dove si trova e di cui sappiamo anche ascoltare le preoccupazioni. Le farò leggere, senatore Mantica, nello spirito di «ex socio» della Farnesina, le lettere che provengono non solo da radicali pacifisti, ma da tante personalità di quella comunità, comprese personalità del mondo religioso ed economico. Penso che il Governo farà bene ad ascoltarle nella logica di un Governo democratico che decide, ma si fa carico anche delle preoccupazioni dei cittadini.

Ho voluto parlare con chiarezza e spero che questo dibattito si concluda nella chiarezza.

Chi condivide la politica estera del Governo la voti, chi non la condivide voti contro anziché dire che la sostiene dicendo che è un'altra da quella che è. È il momento dell'assunzione delle responsabilità ed è per noi fondamentale misurare il consenso vero di quest'Aula, condizione preziosa per andare avanti nel nostro lavoro.


TURIGLIATTO: NON PARTECIPO AL VOTO E MI DIMETTO DAL SENATO

"La replica di D'Alema non ha cambiato la sostanza della politica del governo indicata nella relazione e il mio voto a favore non ci sarà. Sono contrario alla guerra in Afghanistan e al raddoppio della base di Vicenza che il governo, la maggioranza del centrosinistra e tutto il centrodestra invece vogliono fortemente, contro l'opinione dell'elettorato italiano e contro la rivolta di un'intera città" dichiara Franco Turigliatto, senatore di Sinistra Critica-PRC. "Certo, una nuova maggioranza sarebbe peggiore dell'attuale e non la auspico. Ma il governo non andrà lontano se continuerà a voltare le spalle a chi lo ha votato. Non accetto di diventare il capro espiatorio della crisi di questo governo, che è tutta legata alla sua politica suicida e non al mio dissenso personale" prosegue Turigliatto. "Ritengo che le scelte del mio partito siano in profondo contrasto con il nostro programma politico e con gli impegni presi in campagna elettorale. Ricordo che sull'Afghanistan e sulla base di Vicenza nulla era scritto nel programma dell'Unione, per cui la supposta fedeltà alla coalizione semplicemente non esiste. Tuttavia, non volendo approfittare della mia condizione determinante nelle scelte decise dalla maggioranza del gruppo parlamentare, presenterò oggi stesso le mie dimissioni dal Senato" conclude Turigliatto.


Documento Prodi, ecco i 12 punti del vertice

ROMA - Sono 12 punti "prioritari e non negoziabili" quelli sui quali Romano Prodi ha ottenuto l'adesione unanime, nel vertice di questa notte, dei leader dell'Unione.

1. "Rispetto degli impegni internazionali e di pace. Sostegno costante alle iniziative di politica estera e di difesa stabilite in ambito Onu ed ai nostri impegni internazionali, derivanti dall'appartenenza all'Unione Europea e all'Alleanza Atlantica, con riferimento anche al nostro attuale impegno nella missione in Afghanistan. Una incisiva azione per il sostegno e la valorizzazione del patrimonio rappresentato dalle comunità italiane all'estero".

2. "Impegno forte per la cultura, scuola, università, ricerca e innovazione".

3. "Rapida attuazione del piano infrastrutturale e in particolare ai corridoi europei (compresa la Torino-Lione). Impegno sulla mobilità sostenibile".

4. "Programma per l'efficienza e la diversificazione delle fonti energetiche: fonti rinnovabili e localizzazione e realizzazione rigassificatori".

5. "Prosecuzione dell'azione di liberalizzazioni e di tutela del cittadino consumatore nell'ambito dei servizi e delle professioni".

6. "Attenzione permanente e impegno concreto a favore del Mezzogiorno, a partire dalla sicurezza".

7. "Azione concreta e immediata di riduzione significativa della spesa pubblica e della spesa legata alle attività politiche e istituzionali (costi della politica)".

8. "Riordino del sistema previdenziale con grande attenzione alle compatibilità finanziarie e privilegiando le pensioni basse e i giovani. Con l'impegno a reperire una quota delle risorse necessarie attraverso una razionalizzazione della spesa che passa attraverso anche l'unificazione degli enti previdenziali".

9. "Rilancio delle politiche a sostegno della famiglia attraverso l'estensione universale di assegni familiari più corposi e un piano concreto di aumento significativo degli asili nido".

10. "Rapida soluzione della incompatibilità tra incarichi, di governo e parlamentari, secondo le modalità già concordate".

11. "Il portavoce del presidente, al fine di dare maggiore coerenza alla comunicazione, assume il ruolo di portavoce dell'esecutivo".

12. "In coerenza con tale principio, per assicurare piena efficacia all'azione di governo, al presidente del Consiglio è riconosciuta l'autorità di esprimere in maniera unitaria la posizione del governo stesso in caso di contrasto".


Discorso di Andreotti


PRESIDENTE. Colleghi, vi è la discussione e poi la replica del Ministro, cui seguiranno le dichiarazioni di voto. Procediamo con ordine.
È iscritto a parlare il senatore Andreotti. Ne ha facoltà. Le ricordo che ha a disposizione cinque minuti.
ANDREOTTI (Misto). Cercherò di fare un abbuono di un minuto. 

PRESIDENTE. La ringrazio anticipatamente.
 

ANDREOTTI (Misto). Signor Ministro, onorevoli colleghi, è importante che si sia fatta una discussione su tutti i temi della politica estera. In anni lontani mi permisi di proporlo, senza alcun successo, ma sarebbe auspicabile dedicare le prime sedute, o la prima seduta di ogni mese ad una breve discussione di politica estera. Ciò eviterebbe di dover guardare il mondo, e qualcosa di più, senza mai fare approfondimenti.

Nella relazione del Ministro degli affari esteri trovo il dato positivo della continuità della nostra politica estera. Spero non sorgano problemi. Nella stessa proposta di risoluzione presentata dal senatore Calderoli - che non è normalmente una persona accomodante - compare il termine «continuità». Spero che su questo si possa trovare l'accordo perché ha un rilievo esterno ciò che si decide in materia di politica estera.
Per il resto, vorrei solo fare due raccomandazioni. Primo: diamo attenzione ad un'organizzazione, della quale facciamo parte ma alla quale siamo forse poco attenti. Mi riferisco all'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Quando si presentò questo modello, ricordo l'obiezione avanzata a Moro relativamente al significato di una cooperazione di sicurezza quando, all'epoca, esisteva un Governo sovietico con una propria sfera di influenza. Moro rispose: «Signori, Breznev passerà, queste cose rimarranno». L'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europa, tra l'altro, contiene in se stessa anche la partecipazione di Stati Uniti e Canada, chiamati europei. Quindi, nella ricerca, da noi condotta, di un modo di approccio interatlantico, abbiamo uno strumento a disposizione.
La seconda, e ultima, raccomandazione riprende una proposta da me fatta a suo tempo al ministro Frattini. Noi dobbiamo cercare di contribuire alla comprensione e al dialogo e disponiamo di uno strumento da poter mettere in campo. Abbiamo avuto nel passato, e abbiamo anche adesso, un numero notevole di stranieri, in questo caso stranieri provenienti da Paesi di religione islamica, che studiano e si sono laureati in Italia. Vorrei che potesse organizzarsi, al di fuori di finalità politiche contingenti, un grande raduno di questo tipo di ex laureati in Italia. A mio avviso, sarebbe molto più utile di una conferenza internazionale. (Applausi dai Gruppi Misto e UDC e dai senatori Manzella e Selva).


Discorso di Cossiga

COSSIGA (Misto). Domando di parlare per dichiarazione di voto. 

PRESIDENTE. Ne ha facoltà per quattro minuti. 

COSSIGA (Misto). Signor Presidente, signor Ministro, signori senatori, voterò contro la proposta di risoluzione dell'amico senatore Calderoli perché affermando che vi è continuità fra la politica di questo Governo e la tradizionale politica atlantica e di amicizia politico-militare con gli Stati Uniti d'America non afferma il vero. Se l'amico Calderoli lo permette - come ha detto giustamente il Ministro degli affari esteri e senza che il senatore Calderoli si offenda - dico che egli afferma il falso.
Credo che le dichiarazioni del Ministro degli affari esteri su questo punto, come le dichiarazioni rese nella replica, debbano convincere - lo dico io che voterò contro - gli amici dissenzienti della sinistra radicale che quello che loro pensano è esattamente quello che pensano il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro degli affari esteri e il Ministro della difesa. Solo, però, si devono rendere conto che questo loro faranno, ma per le posizioni istituzionali che ricoprono non lo possono dire. Quindi, sembrerà strano, ma rivolgo un caldo appello agli amici della sinistra radicale dissenzienti perché, proprio per raggiungere gli obiettivi che si propongono - via dall'Afghanistan e «no» alla base di Vicenza - votino la fiducia alla proposta di risoluzione che le approva. (Applausi del senatore Novi).
Non posso che esprimerle la mia ammirazione, signor Ministro, per la straordinaria amabilità e abilità con cui ha compiuto l'ultimo generoso sforzo, che credo non sarà respinto, per convincere gli amici dissenzienti della sinistra radicale a votare a favore del Governo. Con profondo e sincero rammarico, anche per la grande e antica stima e amicizia - se consente - che per lei nutro, dichiaro che voterò contro la proposta di risoluzione che approva le dichiarazioni sulla politica estera da lei rese al Senato, a nome del Governo della Repubblica e non suo personale, come lei ha giustamente chiarito. Pertanto, la risoluzione sarà approvata.
Specie dopo la sua replica, non credo che gli amici della sinistra radicale dissenziente si vorranno assumere la responsabilità, non dico di aprire una crisi, perché se voteranno contro si potrà al limite dire che il Governo deve spostare a sinistra la sua politica estera. Lei ha già commesso una volta un grave errore, quello di dimettersi quando era Presidente del Consiglio dei ministri. 

D'ALEMA, vice presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli affari esteri. Ho questa tendenza. 

COSSIGA (Misto). La prego, non ne commetta un secondo. Nella Costituzione non è assolutamente scritto che se una risoluzione non viene approvata uno si deve dimettere; si deve dimettere se viene approvata una mozione generale di sfiducia o una mozione individuale.
Molto avrei da dire sugli indirizzi e i contenuti di questa politica estera, ma le mie considerazioni le affido al testo scritto. Dico soltanto che, nonostante la sua straordinaria abilità (altrimenti non la considererei il miglior fico del bigoncio), le contraddizioni, i pasticci della politica estera del Governo sono tali che capisco la perplessità degli amici dissenzienti di sinistra.
Signor Ministro, voto contro perché non posso rinnegare ciò in cui ho creduto per cinquant'anni. Non si dimentichi che io sono Cossiga con la «K», il Cossiga che ha dispiegato i missili e che è finito sotto processo per aver riconosciuto - a differenza di tanti altri tremebondi ex democristiani, molti dei quali, pentiti, oggi sono nella Margherita e non riescono a nascondere di essere democristiani, anche se vorrebbero farlo dimenticare - di essere a conoscenza di Gladio e di avervi collaborato, pur non sapendo che si chiamasse così.
E lei vuole che dopo cinquant'anni io cambi opinione? Non ho più l'agilità mentale, per i settantotto anni e per le gravi malattie che hanno minato sia il corpo, sia la mente. Non ho la sua agilità. Lei può passare, con coerenza, per carità (si diceva in Inghilterra che chi non cambia opinione o è un fesso, e probabilmente io lo sono, o è un fazioso). 

PRESIDENTE. Senatore Cossiga, le ho dato un minuto in più. 

COSSIGA (Misto). Grazie, le chiedo soltanto...
PRESIDENTE. Prego, chiuda con una frase. 

COSSIGA (Misto). No, siccome le voglio dare la soddisfazione di togliere la parola ad un ex Presidente del Senato... (Applausi dai Gruppi FI e AN). 

PRESIDENTE. Non le ho tolto la parola. L'ho pregata solo di concludere.
COSSIGA (Misto). ... secondo il suo modo sindacale di presiedere, contrattiamo. Io non parlo e lei mi permette di depositare il discorso. 

PRESIDENTE. Ma certamente. Siamo in diretta e devo garantire il tempo a tutta l'Assemblea.
 
COSSIGA (Misto). Ritrovo in lei il vecchio sindacalista che faceva il servizio d'ordine contro la sinistra nei comizi del 1976. (Applausi dei senatori Nessa e Baldassarri). 

PRESIDENTE. Fa piacere questo ricordo.


   Discorso di Rossi


ROSSI Fernando (IU-Verdi-Com). Domando di parlare per dichiarazione di voto in dissenso dal mio Gruppo. 

PRESIDENTE. Ne prendo atto e le do la parola, per un minuto.

ROSSI Fernando (IU-Verdi-Com). Un minuto? Non ha esagerato? 

PRESIDENTE. Facciamo due minuti, ma due davvero. 

ROSSI Fernando (IU-Verdi-Com). Il Governo Berlusconi, ancorché accrescere i profitti delle imprese private del Cavaliere, aveva scelto di legare gli interessi del Paese a quelli del blocco politico che governa gli Stati Uniti. Che tale percorso sia uguale a quello imboccato dai laburisti inglesi non toglie nulla al drammatico errore di avere consegnato la nostra politica estera alle strategie belliche della presidenza Bush.
Sulla guerra e sulla politica estera, ma anche sulle politiche sociali, il Governo Prodi era tenuto a dare prove di discontinuità, contenute nell'accordo programmatico dell'Unione. Quelle poche posizioni più autonome ed utili a un processo di distensione, che pure si possono rintracciare, sono state contraddette e riequilibrate dalla mancata sospensione - almeno - dell'accordo militare che ci lega ad Israele (nonostante sia una delle due parti in guerra tra cui noi dovremmo fare da interposizione neutrale, e nonostante Israele abbia disatteso non una ma 72 risoluzioni dell'ONU), dall'«ubbidisco» sulla base di Vicenza, dal mancato sostegno alla richiesta della magistratura italiana per l'estradizione degli agenti CIA che in territorio italiano hanno sequestrato Abu Omar, dall'accettazione della verità americana sull'omicidio Calipari, dalla smisurata quantità di risorse finanziarie impegnate nell'acquisto di cacciabombardieri (che, ci viene spiegato, saranno montati anche in Italia e daranno lavoro), dalle dichiarazioni - speriamo dal sen fuggite - del ministro Parisi sullo stare in Afghanistan fino al 2011, e cioè tra 50.000 e 60.000 morti e sull'esigenza di un ulteriore aumento delle spese militari, che   manco a dirlo   la prima finanziaria del Governo dell'Unione ha aumentato.
Circa sei mesi fa, il Governo, con la mozione in materia di missioni italiane all'estero, votata il 19 luglio 2006, prendeva atto che in territorio afgano l'Italia non è più in alcun modo impegnata militarmente... (Il microfono si disattiva automaticamente). 

PRESIDENTE. Pronunci una frase per concludere. 

ROSSI Fernando (IU-Verdi-Com). Sicuramente non sono passati due minuti. 

PRESIDENTE. Li ha superati, comunque concluda. 

ROSSI Fernando (IU-Verdi-Com). Dica a chi registra i tempi che mi chiamo Cossiga, così vado avanti. 

PRESIDENTE. Lasci stare il presidente Cossiga. (Applausi dai Gruppi FI e LNP). 

ROSSI Fernando (IU-Verdi-Com). Le cose sono andate avanti in una direzione esattamente contraria. Gli USA hanno nominato un generale a quattro stelle come comandante di tutte le forze militari, afgane comprese. Questo generale, per farla molto breve, ha dichiarato che due prigionieri politici sono morti di morte naturale, mentre la stampa americana ha dimostrato che sono morti per percosse, per tortura, ed è accusato di strage di civili. Comanda tutte le truppe, comprese quelle italiane. Adesso ho veramente finito.
Quindi, se la politica estera del mio Governo, invece che puntare sulla pace e sulla distensione internazionale, è quella di dare una nuova base agli Stati Uniti, che non fanno misteri di volerla usare per le guerre in atto e future, come ci ha spiegato il senatore Russo Spena nel precedente dibattito su Vicenza, nonché di restare nella guerra afgana, nonostante gli Usa e lo stesso Blair non facciano mistero di voler scatenare nei prossimi mesi un'ancora più feroce offensiva della NATO su tutto l'Afghanistan, in queste scelte io non posso sostenere il Governo.
Pertanto, voterò contro le proposte di risoluzione dell'opposizione, ma mi asterrò dal voto su quella della maggioranza, di cui comunque mi sento ancora parte, per tutta un'altra serie di scelte compiute dai senatori della maggioranza e da questo Governo. Ma su Vicenza e sulla guerra non posso essere d'accordo.


Votazione nominale con scrutinio simultaneo

 

PRESIDENTE. Indìco pertanto la votazione nominale con scrutinio simultaneo, mediante procedimento elettronico, della proposta di risoluzione n. 2, presentata dal senatore Andreotti e da altri senatori.
Dichiaro aperta la votazione.(Segue la votazione). 

Proclamo il risultato della votazione nominale con scrutinio simultaneo, mediante procedimento elettronico:

Senatori presenti

318

Senatori votanti

317

Maggioranza

159

Favorevoli

315

Contrari

1

Astenuti

1

Il Senato approva. (v. Allegato B).  

Ripresa della discussione sulle comunicazionidel Ministro degli affari esteri sulle linee di politica estera
ZANDA (Ulivo). Domando di parlare. 

PRESIDENTE. Ne ha facoltà. 

ZANDA (Ulivo). Signor Presidente, volevo solo far presente che il mio dispositivo di voto non ha funzionato.PRESIDENTE. Ne prendiamo atto.
Passiamo alla votazione della proposta di risoluzione n. 3. 

CARRARA (FI). Chiediamo la votazione nominale con scrutinio simultaneo, mediante procedimento elettronico. 

PRESIDENTE. Invito il senatore segretario a verificare se la richiesta di votazione con scrutinio simultaneo, avanzata dal senatore Carrara, risulta appoggiata dal prescritto numero di senatori, mediante procedimento elettronico.(La richiesta risulta appoggiata). 



Votazione nominale con scrutinio simultaneo

 
PRESIDENTE. Indìco pertanto la votazione nominale con scrutinio simultaneo, mediante procedimento elettronico, della proposta di risoluzione n. 3, presentata dalla senatrice Finocchiaro e da altri senatori.
Dichiaro aperta la votazione.(Segue la votazione).
(Vivaci, reiterate proteste dai banchi dell'opposizione. Numerosi senatori dell'opposizione scendono verso il centro dell'emiciclo e inveiscono contro il senatore Zanone).
I senatori segretari sono pregati di controllare: i segretari, non gli altri! Colleghi, non vi muovete. Senatore Sodano, torni al proprio posto. Anche lei, senatore Zanone. Ognuno al proprio posto e seduti, per favore. (Scambio di invettive tra il senatore Zanone e alcuni senatori del Gruppo FI).
Colleghi, siamo in diretta, vi prego di stare fermi. Non faccio votare fin quando non abbiamo chiarito. Se non la smettete di sbraitare, non posso nemmeno fare i controlli. (Il senatore Viespoli si avvicina al banco della Presidenza per fare una segnalazione). Lasciate stare il senatore Rossi, per favore! Il senatore Rossi ha fatto una dichiarazione che abbiamo tutti ascoltato.
Vi prego di sedervi, mi è stato segnalato il problema e sono intervenuto. I senatori segretari controllino.
Dichiaro chiusa la votazione. 

Proclamo il risultato della votazione nominale con scrutinio simultaneo, mediante procedimento elettronico:

Senatori presenti

319

Senatori votanti

318

Maggioranza

160

Favorevoli

158

Contrari

136

Astenuti

24

Il Senato non approva. (v. Allegato B). (Vivi applausi dai banchi dell'opposizione, i cui senatori si levano in piedi esultando. Alcuni senatori dell'opposizione lanciano giornali verso il centro dell'emiciclo).
 

Per favore, colleghi. Non va bene! Calmi, vi prego!
VOCI DAI BANCHI DELL'OPPOSIZIONE. A casa! A casa!
PRESIDENTE. Vi prego! Senatore Storace, aiuti la Presidenza!
CORO DAI BANCHI DELL'OPPOSIZIONE.Dimissioni!Dimissioni!

PRESIDENTE. Un momento, per favore.

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