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La storia della Mafia Siciliana
 

Capitolo 5 - Tra i due secoli nasce il Socialismo

 

Il dramma delle campagne
Il tramonto del XIX secolo venne segnato da una profonda crisi economica che interessò vaste aree d’Europa. Una depressione che per i connotati delle economie del tempo, finì per abbattersi soprattutto sul mondo agrario.
Le drammatiche condizioni di vita a cui erano costretti i contadini divenne una delle emergenze nazionali, e la Sicilia
non si sottraeva ad una realtà che vedeva questa categoria ridotta ad una povertà assoluta. Le forze politiche più riformiste, stilarono rapporti che descrivevano le famiglie dei braccianti in preda alla malnutrizione e a tutte le complicanze a lei legate. A soffrire in particolare dell’alimentazione carente di proteine e vitamine, erano i bambini, afflitti da un ventaglio di patologie destinate a divenire croniche nell’età adulta.
A completare un quadro sanitario allarmante, provvedevano le vittime mietute da una serie di diffuse malattie infettive e dalla malaria. La miseria e la povertà, sottraeva a milioni di persone qualsiasi opportunità di migliorare la propria condizione attraverso l’istruzione. Il dilagante analfabetismo quindi, contribuiva a congelare una qualsivoglia scalata sociale, condannando le nutrite schiere di figli di contadini e braccianti, ad incamminarsi nella medesima strada lastricata di stenti e privazioni percorsa dai genitori.
Il prospetto della situazione diveniva ancora più terribile nello scorrere nel dettaglio quanto riportavano documenti dell’epoca al riguardo. Viaggiando per le campagne dell’isola, funzionari dello stato o dell’esercito incontravano “...uomini e donne pallidi, anemici, con gli occhi infossati, … e stuoli di ragazzini vestiti di stracci che elemosinavano un tozzo di pane “.
Le cause di questa piaga erano da ricercare nelle profonde disparità sociali. I proprietari terrieri, fedeli ad una cultura feudale mai scomparsa, risiedevano spesso nelle grandi città come Palermo. Le loro terre venivano affittate con contratti di breve durata ai gabellotti. Questi dovevano per la natura del contratto, sfruttare al massimo poderi e contadini. Una manodopera in maggioranza composta da mezzadri e dai tristemente famosi “jurnatara”, braccianti con salari da fame che venivano assunti all’alba per essere licenziati al tramonto, esseri umani sfruttati all’inverosimile ma costretti a vivere con la speranza di godere della stessa sorte il giorno seguente. I metodi usati per la gestione della manovalanza non prevedevano limiti di violenza, intimidazione o sopruso. I lavoratori finivano spesso in balia dei debiti e rapinati da schiere di sciacalli travestiti da avvocati, svenduti ai proprietari terrieri e ai nobili. Lo sfruttamento da parte della violenza mafiosa poi, costituiva una componente fisiologica dell’azione gabellotta, perché mafia e gabellotti erano in pratica la stessa cosa. (1)


Prendono vita i Fasci siciliani
Nel corso dell’ultimo decennio dell’800, la fame e la miseria alimentarono un invincibile desiderio di sottrarsi a secoli di soprusi e schiavitù feudale. Masse di contadini e braccianti dell’isola, a cui si aggregheranno disperati senza terra e lavoro, operai, e minatori delle zolfare, daranno vita a forme di ribellione che pur se improvvisate, costituiranno un segnale in grado di estendersi di area in area. Furono azioni all’inizio confuse e mosse dalla disperazione, ma in breve assumeranno forme più organizzate, per concretizzarsi tra il 1891 ed il 1893 nella composizione dei Fasci siciliani. Si trattava di organizzazioni popolari d’ispirazione democratica che oggi definiremmo una sintesi tra i partiti politici e le associazioni sindacali, a metà strada tra le leghe di pura resistenza attiva, e società fondate sull’applicazione tra i suoi membri di una solidale mutua cooperazione. Essi rivendicavano ai proprietari terrieri patti agrari più giusti e condizioni di vita e lavoro più umane e dignitose, e nulla nonostante l’assonanza, avranno a che spartire con i movimenti fascisti di alcuni anni dopo. La formazione dei Fasci o di analoghi soggetti interesserà altre regioni d’Italia, ma la Sicilia si distinguerà come una terra in cui il loro attivismo raggiungerà l’apice nazionale. Alla loro guida saliranno intellettuali e professionisti, nomi destinati a rimanere impressi nella storia di quel socialismo nazionale che proprio con questi movimenti muove i suoi primi tangibili passi.
Nelle storie di Nicolò Barbato a Piana dei Greci, Giacomo Montalto a Trapani, Lorenzo Panepinto a S.Stefano di Quisquina, Giuseppe De Felice Giuffrida a Catania, Rosario Garibaldi Bosco a Palermo, e Bernardino Verro a Corleone, ritroviamo una comune e moderna consapevolezza mossa dal bisogno di una società più giusta. E sarà proprio in quella Corleone da sempre culla della violenza mafiosa, nonché città natale molti anni dopo di boss del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano, che prenderà vita il Fascio più rappresentativo e meglio organizzato dell’isola. (2) (3)

La scelta di Bernardino
Era il 1892, quando un giovane impiegato in servizio al municipio di Corleone, scosse le stanze del palazzo definendo gli amministratori comunali niente meno che “usurpatori e sfruttatori del popolo”. Bernardino Verro, questo il suo nome, non si accattivò di certo i favori delle persone che l’avevano assunto. La reazione di coloro che da molti erano definiti i “padroni del municipio”, i facoltosi possidenti terrieri di uno dei più floridi centri agricoli della Sicilia,  e distante solo 60 chilometri da Palermo non si fece attendere. Quel sedizioso ed ingrato individuo che osava sputare nel piatto in cui mangiava, senza portare il dovuto rispetto come “cani ca nun canusci patroni” , venne licenziato su due piedi. Oltre che proprietari di vaste tenute infatti, alcuni di quei rispettabili signori erano membri della celebre e temuta associazione segreta detta dei “Fratuzzi”, il nome con cui all’epoca si definivano gli appartenenti alla mafia.
Quando compì la scelta di denunciare ciò che i suoi occhi erano costretti a vedere ogni giorno, Verro aveva soltanto 26 anni. Ultimo dei sei figli di Gioacchino, sarto di mestiere, sarà anche l’unico della famiglia a raggiungere la seconda ginnasio, e con ogni probabilità avrebbe pure finito gli studi, se non si fosse distinto per una azione che segnerà la sua esistenza: insieme ad alcuni compagni di scuola, venne accusato di aver “punito” un insegnante colpevole di ripetute offese ad un altro studente. Tutti i responsabili di quel gesto vennero espulsi dal liceo, con la pesante diffida di frequenza per ogni istituto del Regno. Seguirono anni difficili, soprattutto dopo la morte del padre nel 1886, ma il giovane riuscì a conquistare un posto come impiegato all’anagrafe del bestiame nel Comune. Un lavoro dallo stipendio sicuro, una fortuna di cui non potevano beneficare in molti nella Sicilia di fine ottocento. Ma dietro all’immagine dell’uomo comune, si celava l’ardore di una figura destinata a conquistarsi uno spazio indelebile nella storia. Bernardino come tanti era stanco di vivere in una realtà fatta di imposizioni e di posti di lavoro conquistati solo grazie ai favori dei potenti, nauseato di assistere al sistematico sfruttamento di migliaia di onesti costretti a condizioni umilianti e spesso insufficienti a sfamare la famiglia. Verro non si fece intimorire dalla ritorsione dei politici e insieme ad altri compagni di lotta (Calogero Milone, Biagio Gennaro, Francesco Puccio, Liborio Termini, Angelo Provenzano e Francesco Streva), fondò il circolo repubblicano-socialista “La Nuova Età”. Il loro intento era di lottare per il cambiamento politico e sociale di Corleone, nel nome di quella ideologia socialista nella sua fase iniziale. Un vento di cambiamento che nell’agosto di quello stesso 1892 aveva visto il nascere a Genova di quel “Partito dei Lavoratori” che l’anno successivo sarà ribattezzato in “Partito socialista dei lavoratori “.
Una sfida inaccettabile per la nobile borghesia che nella città dettava legge. Ma incuranti di tutto questo l’8 settembre sempre del 1892, gli stessi uomini fondarono uno dei primi Fasci contadini di tutta la Sicilia, e a presiederlo fu lo stesso Bernardino Verro. Circa un anno dopo nell’autunno del 1893, nel pieno di una stagione che vide il sorgere di analoghi fasci un po’ ovunque, il giornalista Adolfo Rossi del quotidiano liberale romano “La Tribuna”, si recò in Sicilia per intervistare colui che era salito agli onori della stampa nazionale. Al taccuino di Rossi, Verro espose con orgoglio: “Il nostro fascio conta circa seimila soci tra maschi e femmine, ma ormai si può dire che, meno i signori, ne fa parte tutto il paese, tanto è vero che non facciamo più distinzione tra soci e non soci. Le nostre donne hanno capito così bene i vantaggi dell’unione tra i poveri, che oramai insegnano il socialismo ai loro bambini”. (4) (5) (12)

L’unità fa il “Fascio”
Nei mesi che intercorsero dalla fondazione del Fascio di Corleone, all’intervista con Adolfo Rossi, la vita di Verro e dei suoi compagni si era trasformata. Da modesto impiegato comunale, aveva assunto il ruolo di figura politica di riferimento per migliaia di persone, in grado di porsi alla pari al cospetto di chi la politica la svolgeva da anni. Verro parlava alla gente in modo semplice e diretto, alternando il dialetto siciliano all’italiano e stringendo un saldo rapporto di fiducia con chi si recava ad ascoltare i suoi comizi. Ovunque si muovesse nell’isola, di lì a breve sorgevano nuovi fasci. Egli parlava di uguaglianza inneggiando al socialismo, di cooperazione e di diritti alle donne. Le richieste erano semplici, espresse chiaramente e miravano ad obbiettivi misurati e trasparenti: nuovi contratti con una suddivisione più equa di raccolto e guadagni, tra proprietari terrieri e contadini. Lo straordinario successo che raccolse la sua voce ed i movimenti che dietro di lui fioccavano, era fortificato dal clima che li accompagnava. I membri dei Fasci vennero conquistati dalla forza regalata dal senso di appartenenza ad una causa comune. Dietro alla ideologia socialista in forte ascesa, la gente voleva semplicemente condizioni di vita più sopportabili e mostrò l’entusiasmo che scaturiva dall’elevarsi a protagonista del proprio destino. Oltre 6000 persone tra uomini e donne, aderirono al primo sciopero di massa di contadini della storia d’Italia che ebbe luogo proprio a Corleone. Essi furono strappati alle loro disperate condizioni e rianimati da una nuova speranza, alla quale risposero con tutta la generosità e la forza che la tempra di gente forgiata nella miseria e nella ingiustizia poteva esprimere. Alla base di ogni Fascio vi era la mutua assistenza tra i suoi componenti. Scambi di prestazioni e di mano d’opera nei poderi, di cibo, di attrezzature e di ogni altro genere e tipo. I pochi in grado di leggere e scrivere, insegnavano l’italiano ai molti analfabeti, perché l’istruzione fosse il primo mattone di quella nuova casa in cui non dovevano più alloggiare sfruttamento e vessazioni. L’unità tra tutti loro era da sempre al centro della parola di Verro che non si stancava di ripetere: “Se voi prendete una verga sola la spezzate facilmente, se ne prendete due le spezzate con maggiore difficoltà. Ma se fate un fascio di verghe è impossibile spezzarle. Così, se il lavoratore è solo può essere piegato dal padrone, se invece si unisce in un fascio, in un'organizzazione, diventa invincibile". (6) (7) (13)

Scioperi e repressione
Il 31 luglio del 1893 Corleone sarà sede del congresso dei Fasci. La città è oramai la riconosciuta capitale contadina della Sicilia e nel corso del raduno vengono ratificati i “Patti di Corleone”, che disegnano il primo contratto di natura sindacale messo per iscritto nell’Italia capitalistica. Il punto di forza di quanto deliberato risiedeva sì nei contenuti, in quanto nella sostanza prospettava l’attuazione di una mezzadria priva delle imposizioni padronali esercitate a senso unico, ma soprattutto nella moderna impostazione di una realtà agricola dove i contadini ed i braccianti non dovevano contrattare singolarmente con i padroni, ma attraverso i rappresentanti di una organizzazione. Il passo successivo, l’atto che attirò sulla Sicilia l’attenzione del paese e di cronisti come Rossi, fu l’istituzione di un fitto calendario di imponenti scioperi che nell’autunno del 1893 vennero organizzati in molte zone dell’isola. Astensioni dal lavoro collettive che quasi ovunque si svilupparono con successo e coinvolsero migliaia di contadini ed operai. Le manifestazioni spesso sfociavano in scontri sociali violenti. Dinanzi a queste agitazioni che a volte trascendevano in vere insurrezioni non sempre controllate dai vertici dei Fasci, padroni e nobili reagirono invocando l’intervento del Governo. L’esecutivo di Crispi non perse tempo e deliberò la messa fuori legge dei Fasci siciliani e ordinato l’arresto di tutti i suoi capofila. Il 3 gennaio del 1894 infatti, coloro che a Roma ed in Sicilia non vedevano l’ora di regolare i conti con quei “miserabili arroganti”, ottennero che 50.000 soldati venissero inviati nei territori degli scioperi per imporre la legge marziale. I moti vennero repressi con le armi e nel sangue: decine di contadini vennero massacrati dalle pallottole dei militari. La mafia scelse di appoggiare lo Stato perché le azioni dei leader dei Fasci, erano da sempre dirette a colpire l’azione corrotta di quei politici così tanto cari ai Fratuzzi. In molte località, l’azione subdola di picciotti armati fu tesa a provocare ed irretire le masse, fornendo all’esercito i presupposti per aprire il fuoco sui dimostranti. A Corleone la disciplina che Verro era riuscito ad inculcare, salvò molte vite. I suoi contadini non caddero nelle provocazioni e la cittadina fu uno dei pochi luoghi non teatro di massacri. (8) (9) (14)

L’ingiustizia dei potenti non soffocò la consapevolezza
Bernardino Verro tentò la fuga verso la Tunisia, ma il 16 gennaio del 1894 venne arrestato a bordo di un piroscafo a vapore, e trascinato al cospetto di una giuria militare. Fu accusato di cospirazione e quale fomentatore di rivolta, nonché di aver incitato alla guerra e cagionato distruzioni. Di fatto non esistevano prove a suo carico, ma come accadde nei confronti di tutti gli altri uomini alla guida dei Fasci, era indispensabile legare i loro nomi quali responsabili dei disordini. Alla stampa dell’Italia continentale le autorità proibirono di introdurre giornali in Sicilia. Inutile dire come in un contesto ambientale simile, la condanna di queste figure risultasse scontata, ma a suscitare sconcerto anche tra esponenti delle frange più conservatrici, furono la durezza della pene inflitte. Verro venne punito con dodici anni di reclusione, ma la sentenza a carico del leader corleonese, non fu comunque la più severa tra quelle emesse dai tribunali in quella fase. Altri capofila dei fasci vennero colpiti con sanzioni fino a 16-18 anni di carcere. Provvedimenti che scatenarono altre proteste, e che diffusero in tutta la Sicilia la netta percezione di uno Stato ancora una volta lontano dai bisogni del popolo, e di un Governo Crispi molto più preoccupato a stroncare il nascente socialismo, piuttosto che l’antica cultura mafiosa. La presunta riaffermazione dello stato di diritto, così tanto declamata dai testi delle sentenze, aveva ancora una volta ceduto il passo al desiderio di rivalsa da parte di quei potenti minacciati dalla domanda di autentica giustizia sociale della gente comune. Anche tra le fila di contadini e braccianti, si contarono a centinaia coloro che finirono dietro le sbarre, ma i movimenti nati in quegli anni, non esaurirono la loro spinta con la repressione. L’appartenenza ai Fasci e la partecipazione alla lotta politica, donò a tanti quella consapevolezza che li strappò da una amorfa esistenza in balia del volere altrui. (10) (11) (15)

Libertà, esilio e cooperazione
Una inattesa amnistia consentì a Verro di ritornare libero nel 1896. La detenzione aveva accresciuto la sua popolarità e le migliaia che poco dopo la scarcerazione accorsero alla festa del primo maggio di Piano di Scala, località vicina a Corleone, ne furono una testimonianza. Nel corso del decennio che lo attendeva, la sua vita sarà però un susseguirsi di lotte, arresti, persecuzioni e persino di esilio, negli Stati Uniti prima ed in Tunisia in poi. La sua propaganda socialista troverà molto seguito tra gli immigrati italiani a New York come a Tunisi, ma egli comprenderà come il suo destino debba ricongiungersi con la sua terra, e con i corleonesi. Nel 1905 ritorna in Italia e grazie ad uno stratagemma riuscirà a scontare piantonato in ospedale quanto gli rimane dei diciotto mesi dell’ultima condanna. Quando nel 1907 tornerà libero, la sua gente lo accoglierà con acclamazione: centinaia di braccianti, operai, contadini e socialisti, donne dei movimenti femminili, si spostarono a bordo di un treno che fu affittato per quella giornata da vari angoli della provincia. Lo attesero per abbracciarlo a Palermo, e dopo una visita alla Camera del Lavoro del capoluogo, le lacrime di gioia proseguirono fino a Corleone dove una folla ancora maggiore lo aspettava per condurlo in trionfo. Tanti di coloro che a lui si unirono nei Fasci, gli erano rimasti al fianco nella lotta. La repressione ed il carcere, unito ai valori del socialismo, avevano rafforzato un vincolo oramai inossidabile. Nel giugno del 1906 infatti, a Corleone prende vita la cooperativa “Unione Agricola”. Verro era al tempo ancora privato della libertà, ma il suo ruolo di ispiratore risultò fondamentale. Con la nascita di questa impresa collettiva, prende corpo in forma tangibile quello che era da anni un sogno infranto di Bernardino e di altri compagni: la realizzazione di una nuova via per contadini e braccianti, la cooperazione quale strumento per allentare il giogo secolare stretto da mafia e potenti.
Il capofila corleonese al suo ritorno ne divenne il presidente, e beneficiando di una serie di riforme che il Parlamento aveva approvato nel 1906 su iniziativa del ministro Sonnino, tese a migliorare le condizioni di vita nel Mezzogiorno, fece dell’Unione Agricola uno strumento per attuare le “affittanze collettive”. Le novità legislative consentivano ad associazioni e leghe di contadini, di poter accedere in forma diretta al credito del Banco di Sicilia per acquistare o affittare piccoli lotti di terreno. Una autentica rivoluzione che in un colpo solo rischiava di sgretolare il monopolio gabellotto e mafioso nella intermediazione delle affittanze tra ex feudatari e contadini, consegnando un immenso potere nelle mani dei nuovi soggetti cooperativi. Sin dalle prime battute Verro si ritrova nelle condizioni di poter attuare una serie di progetti rimasti per tanto tempo nel cassetto. L’Unione Agricola si fa carico di formare i contadini sulle nuove tecniche di coltivazione anche con l’uso dei concimi chimici, oppure organizza corsi pratici di innesto delle viti. Provvede ad incoraggiare la trasformazione dei prodotti di allevamento e agricoli, sostenendo i nuovi produttori nel trovare uno sbocco per la loro commercializzazione diretta sul mercato. Pregiati capi di razze suine e bovine, vengono ottenuti in prestito per avviare nuovi allevamenti, anche grazie alla partecipazione dei giovani a corsi di zootecnia a Palermo.
Per avere una idea del successo ottenuto dalle varie iniziative, si pensi che nel 1910, anno di maggiore espansione, la cooperativa dell’Unione Agricola aveva in affitto circa 2500 ettari di terreno, suddivisi in 1289 quote. (16) (17) (18)

“Mafia e Incenso”
L’imprevedibile successo delle cooperative socialiste attirò su di se l’odio congiunto di mafia e chiesa cattolica. Un rancore che aveva già decretato la morte di due militanti socialisti: il bracciante agricolo Luciano Nicoletti, assassinato dalla mafia il 14 ottobre 1905, e il medico Andrea Orlando, ucciso il 13 gennaio dell'anno successivo. Fratuzzi e gabellotti si sentivano minacciati laddove la mafia da sempre esercitava il suo potere maggiore: nel capillare controllo del territorio. Ettari su ettari le cooperative avevano allargato la loro sfera d’azione sottraendo braccia e terreni al dominio mafioso.
La chiesa accusava una flessione della propria egemonia ideologica, che nella sostanza si traduceva come per la mafia, nella perdita del controllo del popolo. Occorreva opporsi alla espansione della materiale cultura socialista e riconquistare fette di consenso tra i contadini, e per riuscirci, ricorsero alla medesima strategia.
Nel giugno del 1908 a Corleone venne fondata la Cassa Agricola San Leoluca. Nella sostanza il nuovo soggetto finiva anch’esso per sostenere le affittanze collettive a piccoli coltivatori, ma alle sue spalle si celavano uomini e denari mossi da fini ideologici totalmente anti-socialisti. La Chiesa dopo decenni di lontananza dalla vita politica, consente ai cattolici di scendere in campo in prima persona, sempre con l’approvazione di preti e clericali. Un ritorno dopo il distacco del post 1870, nel quale a seguito della conquista di Porta Pia aveva preso le distanze da “Uno Stato senza Dio“. Molto di frequente tra le fila di questi non religiosi schierati politicamente, ritroviamo i volti dei medesimi potenti legati a doppio filo con la mafia. Anche la Cassa Agricola San Leoluca non farà eccezione: alle spalle di oscuri laici e noti sacerdoti che vestivano ruoli di vertice, venivano assoldati gli uomini dei Fratuzzi per sorvegliare le tenute. Verro si scaglierà contro costoro, denunciando irregolarità amministrative e atti intimidatori. Inizia ad approfondire la conoscenza del fenomeno mafioso quale componente di una più vasta alleanza di potere. Nel 1910 egli si getterà contro il sindaco cattolico Vinci, imbastendo uno sciopero fiscale che condurrà la giunta comunale allo scioglimento. Nel corso della susseguente campagna elettorale, Verro denuncerà senza mezzi termini “che la mafia è affiliata ai cattolici”. La rappresaglia non tardò ad arrivare, e la sera del 6 novembre mentre Bernardino attendeva in farmacia l’esito dello scrutinio, killer armati di doppietta lo presero a fucilate attraverso la vetrina. A parte qualche lieve ferita ad un polso, l’uomo rimase per miracolo incolume, ma molto più profonde furono le cicatrici nell’anima. Il coraggio mostrato in pubblico celavano un terrore privato, pari alla consapevolezza della potenza del nemico. Le armi che lo volevano morto non esitava a definirle come maleodoranti di “mafia e incenso”, un effluvio capace di allontanare testimoni e magistrati. Nessun colpevole dell’attentato fu mai individuato. Nei mesi successivi, un altro fatto di sangue sconvolse Bernardino a tal punto da indurlo a lasciare per qualche tempo l’amata Corleone. Nella primavera del 1911, l’amico e compagno Lorenzo Panepinto, leader contadino di Santo Stefano di Quisquina, venne ucciso a fucilate sulla porta di casa da quella che egli definì in una missiva “…mafia gabellotta e clericale…”. Un altro preciso messaggio di morte a chi si ostinava a prendere le parti di contadini e povera gente.
La mafia voleva la morte di Verro non solo perché lo riteneva una minaccia per i suoi affari ed intrighi, ma in quanto il leader dei disciolti Fasci, secondo il codice d’onore dei Fratuzzi veniva ufficialmente ritenuto un infame traditore. (19) (20) (21)

L’affiliazione di Bernardino
E’ ancora oggi faticoso prendere atto da parte della sinistra, di come all’origine dei movimenti socialisti aderissero anche degli affiliati ai clan mafiosi, ma era alquanto complicato essere dei rivoluzionari duri e puri in una terra come la Sicilia di oltre un secolo fa. Per comprendere le ragioni di una scelta scellerata che Verro pagherà per tutta la vita, occorre compiere un balzo a ritroso di alcuni anni. Nell’aprile del 1893 quando l’azione dei Fasci è nel suo pieno, Verro e gli altri leader sono il bersaglio di un odio profondo da parte dei proprietari terrieri, decisi a tutto pur di fermare l’ondata rivoluzionaria. Bernardino teme per la sua vita e per l’incolumità dei familiari. L’associazione mafiosa dei Fratuzzi al contempo è alla finestra. Nel corso del biennio 1892-1893, lo scenario socio politico siciliano appare soggetto a mutamenti imprevedibili. La spinta popolare che alimenta i Fasci è in forte crescita, e non sono pochi coloro che ipotizzano un imminente strapotere nelle mani delle associazioni contadine. La mafia è da sempre unicamente attratta dal perseguimento dei propri interessi, spregiudicatamente immune da qualsiasi orientamento ideologico. Negli anni che verranno avrebbe assassinato tanti sindacalisti, comunisti, socialisti, con l’intento di controllare e stroncare la insurrezione del popolo delle campagne, ma all’inizio cercò di introdursi nei movimenti, per sfruttare i vantaggi che potevano giungere da una forza in ascesa. Verro viene quindi avvicinato da Calogero Gagliano, un uomo d’onore che con fare suadente gli garantisce a nome dei Fratuzzi, una rassicurante protezione. Egli si illude di poter a sua volta sfruttare la loro organizzazione al servizio dei movimenti contadini, probabilmente in quanto ancora all’oscuro della reale pericolosità dei Fratuzzi. La mafia all’epoca era per molti un concetto spesso astratto, una sfumatura della mentalità siciliana.  L’affiliazione di Bernardino segue i riti mafiosi canonici e la cerimonia si svolge nella semioscurità di una stanza nella residenza di tale Mariano Colletti. Attorno ad un tavolo ad attenderlo, gli uomini d’onore di maggior spicco della zona, e sul piano dello stesso, quali accessori cerimoniali a corredo, alcune carabine a canna corta ed un teschio disegnato su di un foglio bianco. La puntura del pollice della mano destra con uno spillo venne preceduta dal giuramento di fedeltà, e seguita dallo scambio di un bacio con ognuno dei presenti mentre ardeva nella fiamma il disegno del cranio, bagnato dal suo sangue. 
Delle ragioni e dei dettagli della sua scelta, Bernardino lascerà testimonianza in un memoriale scritto di suo pugno, e che verrà alla luce dopo la sua morte. Tra gli altri leader dei Fasci non si ha notizia di affiliazioni alla mafia, e secondo inchieste del governo, i Fasci con i loro leader rimarranno generalmente liberi dall’influenza mafiosa. Ciò nonostante è molto plausibile ritenere come quanto accadde a Corleone non restò un episodio isolato. Del resto la tanta povera gente alla disperata ricerca di un sostegno per migliorare la propria misera esistenza, non era nelle condizioni di sottilizzare se l’appoggio veniva da socialisti dal pedigree immacolato, o da socialisti in odore di mafia.
Nel corso dei primi mesi sempre del 1893, all’indomani del suo giuramento mafioso, Verro si ritrova ad affrontare uno scenario complicato e carico di tensione. Da una parte i movimenti contadini sono combattuti se chiedere l’appoggio dei Fratuzzi alla imminente ipotesi rivoluzionaria. La forza del loro braccio armato costituirebbe un prezioso alleato militare. Alcuni leader ritenevano addirittura possibile che la inarrestabile forza del socialismo, avrebbe nel tempo annesso e neutralizzato la cultura mafiosa. Un auspicio utopico non condiviso da molti altri membri dei Fasci, non disposti a correre gli intuibili rischi che tali frequentazioni comportavano.
Dall’altra gli uomini d’onore non avevano sciolto l’incertezza su quale fronte dello scontro schierarsi. Era preferibile appoggiare uno Stato debole e localmente assoggettabile con facilità ai suoi bisogni, o scommettere sul nascente cavallo socialista, forte, vigoroso, dalle promettenti prospettive, ma assai meno domabile?
L’ipotetico patto rimase nel cassetto con ragioni mai del tutto chiarite dalla storia. Forse da sola, la solida diffidenza reciproca costituì un ostacolo insuperabile.
Di certo Verro non tardò a pentirsi di essersi legato ai Fratuzzi. Molto presto gli uomini d’onore introdussero il gioco d’azzardo e lo spaccio di banconote false nel circolo socialista “La Nuova Età”. Quel polo di aggregazione, creato per divulgare un nuovo messaggio culturale e politico, rischiava di bruciarsi contaminato dalla criminalità. Egli romperà i contatti con i Fratuzzi e si allontanerà per sempre dalla mafia in modo risoluto ed inequivocabile, combattendola per tutto il resto della sua vita, ma le conseguenze di quanto avvenne in quella buia stanza di casa Colletti, pretesero un saldo non più prorogabile. (22) (23)

Verro primo Sindaco socialista a Corleone
Fallito il piano di uccidere Verro, Fratuzzi e padroni agrari ne architettarono un altro che prevedeva l’eliminazione del soggetto mediante la diffamazione. Angelo Palazzo, il cassiere della cooperativa Unione Agricola, che molti sospettavano stringesse da tempo sospette relazioni con mafiosi, truffò il Banco di Sicilia falsificando cambiali per oltre 150 mila lire, una cifra all’epoca enorme. Palazzo inizialmente si diede alla latitanza, per poi consegnarsi al pretore di Corleone, ma appena costituitosi questi tentò di alleggerire la propria difficile posizione, e guarda caso accusò Bernardino Verro quale vero firmatario delle cambiali false. Il leader corleonese venne arrestato platealmente nel settembre del 1912 a Roma, mentre partecipava ad un congresso di cooperative. In un solo colpo la mafia si era sbarazzata del capofila contadino, colpendone l’onore e oscurandone l’immagine a livello nazionale. I dieci lunghi mesi di carcere che seguirono, furono per Verro tra i più duri e lunghi della sua vita. Egli soffriva non tanto per la reclusione a cui dopo molti anni di lotta era già avvezzo, ma per le conseguenze che il complotto ordito ai suoi danni potevano avere sull’intero movimento contadino. Il calvario terminò nel luglio del 1913, quando Bernardino fece ritorno a Corleone per godere nuovamente del caldo abbraccio di un popolo a cui mai era mancata la fiducia nell’onestà del proprio leader. Nemici e amici si attendevano un uomo prostrato nell’animo, e sul punto di mollare la battaglia, ma entrambi pur con reazioni diverse rimasero delusi.
Il cruccio di Verro era di riabilitarsi di fronte all’opinione pubblica per poi affrontare gli avversari politici a testa alta. Il consenso dei corleonesi era gratificante ma non sufficiente. Egli sognava un riscatto totale ma dovette prendere atto del volere non altrettanto solerte nel riaprire un caso già chiuso da parte dei giudici istruttori di Palermo, pur contando amici tra coloro che si occupavano delle indagini. Prese altresì coscienza dell’enorme serbatoio di voti che a Corleone si stava disperdendo, da quando il Partito Socialista locale era uscito sfaldato dallo scandalo. Il relativo per l’epoca “suffragio universale” introdotto dalla riforma elettorale del 1912, aveva esteso il diritto al voto a tutti i cittadini maschi che avevano compiuto i trenta anni di età, a tutti i maggiorenni in grado di leggere e scrivere o che avevano prestato il servizio militare. Il corpo elettorale in Italia così triplicava, superando gli 8.670.000 cittadini. Tale modifica, nella realtà corleonese incrementava le potenzialità di chi fosse riuscito a conquistare la fiducia di una massa di operai e contadini ancora insoddisfatta e ai margini della società. Le amministrative del giugno 1914 incombevano e non si poteva indugiare ancora. Verro, incoraggiato da chi lo circondava, comprese di essere quella persona e accettò la sfida nel nome della sua gente e dell’ideologia socialista. Fu proprio ai nuovi aventi diritto al voto che egli si rivolse con ardore e passione nel corso della campagna elettorale: “…Voi sino a ieri pestati, disprezzati, scherniti appunto perché non eravate elettori (…) oggi che il voto avete conquistato, ed anche gli analfabeti valgono quanto gli stessi signori che oggi si prostrano a leccarvi le callose mani implorando la carità del voto, guardateli bene dentro gli occhi, quei messeri, e vi troverete quelle antiche figure di reazionari e prepotenti che vi affamavano, vi disprezzavano e vi trattavano a nerbate…”. Ancora una volta, il carisma, le virtù di comunicatore fuse all’autorevolezza acquisita in una vita spesa per la causa socialista, fecero breccia nell’animo degli elettori. In pochi mesi un movimento ridotto al collasso quale era il socialismo a Corleone, beneficiò di un miracoloso risveglio.
Al termine di una campagna elettorale accesa, ma alimentata da un vento di rinnovamento democratico, le elezioni del 28 giugno 1914 si chiusero con l’imprevisto trionfo della lista di Bernardino sul quella del rivale Vinci. Il successo di per sé straordinario, fu completato dalla vittoria di Verro anche nel conteggio delle preferenze individuali: ben 1455 furono i voti a lui attribuiti. Il successivo 26 luglio, il consiglio comunale di Corleone con venti voti a favore e sei astenuti, lo proclamò primo Sindaco socialista di Corleone.
In un feudo mafioso secolare quale era e sarà nel secolo a venire Corleone, uomini d’onore e proprietari terrieri erano stati per la prima volta sconfitti dal socialismo. (24) (25)

Sogni e progetti si spensero nel fango
Nel corso del suo mandato da sindaco, Verro non tradì le attese di chi lo aveva eletto, tutelando le condizioni delle classi più disagiate e  migliorando le strutture sociali della sua città. Egli intendeva fornire una assistenza sanitaria minima ai più indigenti, e istituire le cattedre ambulanti in grado di raggiungere ed istruire i contadini dei poderi più  isolati, a più moderne tecniche di coltivazione e concimazione dei terreni. Si avviarono inoltre gli studi per l’installazione della illuminazione pubblica per le vie del paese, per un ampliamento della rete idrica, e per la costruzione di un mattatoio comunale. Fu in quei mesi che il sindaco socialista si oppose con coraggio anche all’entrata nel primo conflitto mondiale dell’Italia. Un evento destinato a costituire un nuovo freno allo sviluppo dei movimenti operai e socialisti siciliani, perché sarà proprio tra le file della povera gente, che verranno arruolati tanti giovani da spedire in trincea: saranno oltre 400.000 le reclute inviate dalla Sicilia.
Dopo la legge marziale del 1894, gli intrighi mafioso ecclesiastici del 1910, ora è il fronte ad ostacolare il diritto dei contadini ad aspirare ad una società più giusta.
Sogni e progetti s’infransero in un piovoso pomeriggio d’autunno. E’ il 3 novembre del 1915, Verro uscito dal municipio sta rientrando a casa risalendo a piedi la ripida salita di via Tribuna. Nella sua abitazione di via Umberto lo attendevano la compagna Maria Rosa Angelastri e la figlioletta di un anno Giuseppina. L’uomo aveva appena congedato i due vigili urbani che gli fungevano da scorta, quando venne avvicinato da almeno due sicari. Verro fu raggiunto da diversi colpi di pistola. Ferito cercò di allontanarsi e di reagire al fuoco, ma l’arma che portava con sé s’inceppò ed i suoi assassini ebbero modo di finirlo con quattro revolverate al capo e al viso da breve distanza. Un sigillo alla sua morte che doveva fungere da monito a chiunque.
Nel fango di una irta stradina di Corleone, si spegneva la vita di colui che nel nome dei propri ideali socialisti, aveva lottato per oltre un ventennio contro mafia, corruzione politica e potere padronale e clericale. Ma Bernardino Verro in realtà aveva compiuto un miracolo di proporzioni ben più vaste. Egli aveva insegnato ad una intera regione che era possibile alzare la testa al cospetto di poteri da sempre ritenuti inattaccabili. In una esistenza di alti e bassi, fervidamente aggrappato al proprio credo, aveva trasmesso alla gente comune il senso di attaccamento alla politica. Ella diveniva così un patrimonio ed un diritto di tutti, sfuggendo al controllo di quella ristretta cerchia di facoltosi e potenti che da sempre ne rivendicavano l’esclusiva militanza. Analfabeti, contadini, operai, nulla tenenti di ogni estrazione e provenienza, da sempre considerati esseri di una specie inferiore, indegni di occuparsi di null’altro che varcasse i confini della propria misera sopravvivenza, conquistano grazie a Verro la consapevolezza di esistere. Essi hanno appreso di costituire se uniti nel numero e negli intenti, una forza in grado di sovvertire gli equilibri consolidati, capace di regalarsi un futuro finalmente non in linea con il passato. (26) (27)

Le ragioni di un delitto
L’assassinio di Verro apparve a molti come il compimento di un destino segnato. I nemici sul fronte padronale che non avevano fatto mistero di volere la sua morte si erano espressi sin dal 1892. L’attentato di matrice mafiosa del 1910 aveva rivelato come negli anni si fosse persino allargato il fronte di chi lo desiderava cadavere. Occorreva ora comprendere se gli autori del delitto avessero agito in funzione di una motivazione recente, o per portare a termine una sentenza già deliberata da tempo. Che la mafia impieghi così tanti anni per eliminare un obbiettivo così scomodo, per lo più quasi sempre privo di scorta o protezione salvo gli ultimi mesi, risulta difficile da comprendere, e questo elemento renderebbe più plausibile la prima ipotesi. I Fratuzzi però non erano disposti a dimenticare l’onta del tradimento del loro affiliato: Verro aveva insultato il giuramento di fedeltà ad una organizzazione che allora come oggi prevedeva il divorzio solo a causa di morte. Ritenere la mafia almeno corresponsabile del suo assassinio, risultava quindi una conclusione quasi obbligata, anche per la dinamica del delitto. I killer avevano agito in pieno giorno, scegliendo quale luogo dell’agguato una strada solitamente trafficata , senza dare mostra di alcuna fretta. Risultava chiaro come fossero certi di godere di appoggi ben altolocati, in grado di garantirgli solide protezioni. Il classico atteggiamento di una organizzazione criminale quale la mafia. A questa analisi non bisogna sottrarre un altro importante elemento: a pochi giorni dal delitto, venne reso pubblico il provvedimento di rinvio a giudizio per gli imputati dello scandalo delle cambiali false al Banco di Sicilia. I collaboratori di Verro lo ricordarono sollevato nel prendere atto di come l’inchiesta stava evolvendo verso una sua completa assoluzione. Allo stesso tempo, i veri colpevoli forse temevano di finire irrimediabilmente coinvolti, e non si può escludere abbiano tentato il tutto per tutto. E’ quindi possibile che pur in presenza di un movente specifico relativamente recente, la matrice dell’odio fosse sicuramente datata. Non si può ignorare infine, quanto Verro risultasse all’epoca un personaggio importante e celebre, che beneficiava di influenze illustri anche fuori da Corleone. Per quanto potente, la mafia correva sempre un rischio nell’eliminare figure di tale spicco. Un azzardo che nel 1915 aveva esaurito ogni calcolo a disposizione. I Fratuzzi avevano tentato nel corso degli anni di aggregarlo, corromperlo, sconfiggerlo politicamente, screditarne l’immagine, intimorirlo. Al cospetto di questa lunga serie di fallimenti restava solo l’eliminazione fisica. (28) (29)

Il processo
Le perquisizioni susseguenti all’omicidio in casa di Verro portarono alla luce diversi memoriali che confermarono quanto supposto. Oltre a quello già citato che narrava dell’affiliazione, altri descrivevano delle attività mafiose locali legate al clero e ai politici. Agli occhi degli investigatori emerge chiaramente un quadro che illustra l’esistenza di un ampio fronte di mafiosi, unitosi per commettere reati contro la pubblica e privata proprietà. Secondo i magistrati la morte di Verro era divenuta una necessità per la mafia in quanto oltre che intralcio ai suoi affari, la vittima era a conoscenza di un vasto sodalizio che legava noti potenti del luogo alla associazione dei Fratuzzi. A seguito delle indagini furono rinviate a giudizio ventuno persone quali mandanti dell’omicidio e otto di esse con l’aggravante di appartenenza ad associazione a delinquere. Tra questi anche quel Angelo Palazzo, l’accusatore di Verro nello scandalo delle cambiali false.
Il processo al cospetto della Corte di Assise ordinaria di Palermo non prese il via con i migliori auspici: la iniziale data del 4 maggio 1918 subì uno slittamento al giorno 10, in quanto non si presentarono i giurati estratti a sorte. Gli imputati negarono con fermezza l’esistenza di una associazione denominata dei Fratuzzi. I testimoni per l’accusa confermarono come Verro costituisse un ostacolo per gli affari di molti, e di come la lega delle cooperative nate a Corleone e dintorni, avesse seminato rancori mai sopiti in tanti padroni e mafiosi. La sorella di Bernardino, Francesca Verro, indicò in Angelo Palazzo e nella mafia cittadina gli autori e mandanti della morte del suo caro, rievocando le svariate circostanze in cui il fratello gli aveva narrato di episodi illeciti in cui erano coinvolti, e di come in costoro andavano già individuati i nomi dei responsabili dell’attentato del 1910.
Le condizioni per giungere ad una sentenza di colpevolezza sembravano non mancare, ma un improvviso cambio di direzione da parte dell’accusa, fu il preambolo ad una conclusione temuta e dall’acre sapore. Per il giorno 22 di maggio era attesa la sentenza, ma accusa e difesa sospesero di punto in bianco il procedimento rinunciando ad ascoltare altri testimoni. Nella sua requisitoria finale, il procuratore Wancolle seminò lo sconcerto: invece di proporre l’acuto finale della tesi accusatoria, il giudice prese atto di come uno ad uno i capi d’imputazione elaborati nella inchiesta, fossero usciti screditati da quanto emerso nel corso del dibattimento. Nella sostanza, al termine di una clamorosa retromarcia, Wancolle affermò che “…solo un rappresentante della legge che fosse incosciente e in malafede potrebbe non abbandonare l’accusa…”.
Agli esterrefatti giurati non restò che emettere un giudizio di non colpevolezza, e tutti gli imputati vennero assolti.
Le ragione che spinsero Wancolle a trasfigurarsi da pubblico ministero a primo degli avvocati della difesa, rimarranno prigioniere della storia, ma forse facilmente intuibili.
Come molti colleghi che lo precedettero e altri che lo seguiranno, il magistrato finì probabilmente vittima di intimidazione e corruzione da parte di mafia e potenti, senza poterne escludere una vera e propria affiliazione. (30) (31)

Uno “Stato” di rassegnazione
Il fallimento del processo istituito dal questore Sangiorgi nel 1900 e l’assoluzione di Palizzolo e Fontana nel 1904, resero molto difficile il risveglio d’interesse dell’opinione pubblica nella guerra alla mafia. In tutto il paese prevaleva un sentimento di scetticismo e passività. Nel produttivo Nord, così come nel cuore politico capitolino, le notizie che giungevano dalla Sicilia su crimini e omicidi, generavano indifferenza e disgusto. Anche nel caso dell’omicidio di Bernardino Verro, maturò sin da subito la consapevolezza di trovarsi al cospetto di un delitto destinato a rimanere senza colpevoli. La stampa nazionale non dedicò molto spazio al delitto, e ancora meno all’esito del processo. La realtà purtroppo rispecchiò i timori, ma l’aspetto più drammatico risedette nella fatale rassegnazione con cui le istituzioni, incluse le porzioni più oneste, accolsero come ineluttabile che l’assassinio brutale di un sindaco perbene per mano mafiosa, restasse senza giustizia.
Nel periodo spalmato tra la prima e la seconda guerra mondiale, furono ancora tanti gli omicidi politici tra i membri dei movimenti d’ispirazione socialista e contadina. Quando l’associazione mafiosa falliva la sua intromissione nelle organizzazioni operaie per manipolarle, ricorreva alla violenza ed al terrore. Un lungo elenco di martiri che verrà per oltre un ventennio oscurato dalla propaganda fascista e dalla guerra.
Negli anni prese lentamente vita anche un cattolicesimo di moderna concezione, attivo nel sociale, e anche diversi preti suoi esponenti, finirono morti ammazzati dal fuoco mafioso.
Tra questi ricordiamo i nomi di don Filippo Di Forti ( San Cataldo, 1910 ), don Giorgio Gennaro ( Ciaculli, 1916 ), don Costantino Stella ( Resuttana, 1919 ), don Gaetano Millunzi ( Monreale, 1920 ) e don Stefano Caronia ( Ghibellina, 1920 ).
Della rete organizzativa tessuta da Verro, non rimase molto dopo la sua scomparsa. Calato il sipario sulla Grande Guerra, la Sicilia fece la conta delle migliaia di suoi figli che aveva immolato nelle trincee del lontano confine austriaco. Il Fascismo di lì a poco, smantellò cooperative e associazioni di matrice socialista, ed il nome del leader corleonese, venne in sostanza bandito per oltre un ventennio. Solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, recuperata la libertà di opinione, gli eredi della stagione socialista dei Fasci riacquistarono la forza per far sentire la propria voce.
Nel 1917 i cittadini di Corleone innalzarono un busto alla memoria di Bernardino Verro. Scelsero piazza Nascè, il luogo dove i braccianti andavano ad elemosinare ai gabellotti una giornata di lavoro. La scultura venne posizionata in modo che lo sguardo di Bernardino fosse rivolto a via Tribuna, il luogo dove venne assassinato. Nel 1925 il busto fu rubato e mai più ritrovato. Fu necessario attendere il 1992, perché il coraggio della memoria riservasse un omaggio a questo eroe dimenticato. Il nuovo monumento eretto a simbolo dei sacrifici della collettività nella lotta alla mafia, fu nuovamente distrutto nel 1994, ad emblema di quanto la violenza mafiosa si accanisca ben oltre la morte fisica delle sue vittime.
Solo dieci anni più tardi nel 2004, il busto fu restaurato e finalmente ricollocato al proprio posto. (32) (33)

Note

(1), (2), (4), (6), (8), (10), (16), (19), (22), (24), (26), (28), (30), (32), Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – capitolo “Socialismo, Fascismo, Mafia, 1893-1943” – pagine 155…196

(3), Fonte “www.socialismooggi.it”
(5), (7), (9), (11), (17), (20), Fonte www.cittanuove-corleone.it
(12), (13), (14), (15), (18), (21), (23), (25), (27), (29), (31), (33), Fonte www.terredelgattopardo.it/Rosanna Rizzo - Bernardino Verro e il movimento contadino a Corleone - Università degli studi di Palermo - Facoltà di Giurisprudenza



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