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La storia della Mafia Siciliana

 Capitolo 7 - La Mafia in America: 1901-1941

Verso l’America
Tra la seconda metà dell’800 ed i primi decenni del ‘900, le Americhe furono la meta di un imponente flusso migratorio proveniente dall’Italia. Una prima ondata mossasi dal Nord Est, fu seguita da successive che a più riprese e massicciamente, spopolarono intere aree del meridione. La Sicilia fu una delle regioni italiane maggiormente interessate e restringendo il periodo in esame, i dati relativi al solo intervallo tra il 1901 e il 1913, raccontano di circa 1,1 milioni di siciliani che emigrarono dall’isola, una percentuale enorme della popolazione sicula dell’epoca, pari a poco meno di un quarto. Portandosi appresso quanto era possibile trasportare dei loro miseri averi, spesso racchiuso in valige di cartone o circoscritto ai lisi abiti che indossava, una disperata moltitudine si diramerà verso ogni direzione del globo. Oltre 800 mila sbarcarono nei soli Stati Uniti, e ovviamente non mancarono tra loro “ gli uomini d’onore”. Una speciale categoria di immigrati popolata da figuri già avvezzi al crimine, duri e scaltri. Sin dall’800, la maggior parte dei delinquenti in fuga che lasciavano la Sicilia, puntava verso il Nord America. Ad attrarli le notizie che da oltre oceano giungevano nel Mediterraneo grazie al commercio degli agrumi, un canale di scambio che legava Palermo con New York sin dal 1870. Voci sospese tra verità e leggenda che narravano di un mondo pieno di opportunità e cospicue possibilità di guadagno. Lo sbarco in terra americana di molti delinquenti di provenienza sicula, venne semplificato anche da altri fattori. Grazie alla facilità con cui si poteva accedere a documenti falsi, nei quali venivano cancellati i precedenti penali, tanti picciotti si introdurranno agevolmente in terra americana. A volte la silente connivenza delle amministrazioni italiane, felici di liberarsi di individui sgradevoli, o per adempiere a reciproci accordi con malavitosi di rango, non rendeva necessaria nemmeno la falsificazione degli atti.
Un criminale emigrante era cresciuto secondo le regole della strada, spesso obbligato per sopravvivere a scegliere la fazione più forte. Gli USA di inizio ‘900 avevano in comune con la Sicilia, una società dove il potere clientelare e la legge del più violento, prevalevano su istituzioni dall’esiguo spessore. Per trovare lavoro nei quartieri, ci si rivolgeva al boss di turno e gli stessi, agganciati ad esponenti politici, procuravano voti in cambio di una “ampia interpretazione delle libertà imprenditoriali “. (1) (2)

Nuove realtà, vecchi sistemi
Scambiandosi favori e lavoro, senza economie nel ricorrere a bande di delinquenti, leader senza scrupoli costringevano i lavoratori onesti a subire le conseguenze di una dilagante corruzione che intrecciava gli interessi di malviventi, piccoli e grandi imprenditori, e più di un poliziotto. Un contesto sociale in preda alla legge del più forte che non lesinava brutali violenze in totale assenza di tutele o diritti. Se per un uomo d’onore in attività infatti, attraversare l’Atlantico comportava l’applicazione di vecchi sistemi a nuove realtà, un onesto e disperato emigrante si trovava spesso costretto a sommare alle sofferenze del passato ulteriori  difficoltà. Per i tanti che mossi dalla fame, avevano varcato l’oceano in viaggi simili ad odissee alla ricerca di una vita migliore, l’adattamento ad una lingua e terra sconosciute si fondevano alla prospettiva di subire le medesime leggi della strada da cui erano fuggiti. L’estrema miseria e la totale assenza di ogni forma di assistenza, esponeva gli immigrati alle più svariate espressioni dell’illegalità, sia per mano della malavita di madrepatria, sia da esponenti dello Stato ospitante.
Lo stesso flusso migratorio verso l’America diverrà una cospicua fonte di guadagno per la mafia. In molte occasioni l’emigrante ne diveniva una vittima ancor prima di aver mosso un passo verso la nuova terra. Per procurarsi il denaro necessario al prezzo del biglietto, che si trattasse di contadini, commercianti o lavoratori di altro tipo, si era costretti ad impegnare terra, averi e ogni risorsa. Quali implacabili avvoltoi e pronti ad approfittare della precarietà dei legittimi proprietari si trovavano i clan siciliani, lesti nell’impossessarsi dei loro beni per cifre di molto inferiori al reale valore. A volte le ricchezze erano così esigue, che il migrante si troverà costretto a pagare il viaggio con l’impegno di fornire mano d’opera o una percentuale dei futuri guadagni una volta a destinazione. L’estensione di tale pratica su di un vasto numero di circostanze, consentirà alla mafia di controllare capillarmente territori su due continenti, sostituendosi ad istituzioni statali assenti, e sottoponendo a schiavitù uomini ed attività a tempo indeterminato. Il termine “racket” sembra trovi in questa fase la sua origine, quale mutamento del lemma “ricatto”. L’impulso delle forze dell’ordine americane tese a contrastare questo sistema, non riesce ad esprimersi in forma adeguata. Le comunità teatro del fenomeno come Little Italy a New York, vengono trattate con diffidenza e un certo distacco. Il risultato è che la popolazione nonostante le proteste, verrà spesso lasciata alla mercè delle violenze. 
Le condizioni di vita per tantissimi saranno quindi terribili, dove fame, malattie e stenti, mieteranno vittime e mesti ritorni in patria. (3) (4)


Italiani molto attivi
Su un terreno di questo tipo, in mano agli italiani fiorirà un mare di attività criminose. Si pensi che New York nei primi anni del ‘900, è la seconda città al mondo dopo Napoli quanto a presenza di nostri connazionali. Nelle affollatissime strade come Elisabeth Street che già nel 1905 vedeva la presenza di 8200 italiani (di cui la maggioranza parlava siciliano), o lungo le banchine portuali che nel 1919 arrivarono ad essere per il 75% occupate da conterranei, proliferavano il violento racket della protezione, del reclutamento di mano d’opera e una lucrosa mediazione sul traffico dei prodotti commerciali. Anche i molti italiani onesti si mostrano tra i più attivi: uomini e donne si istruiscono, comprano e affittano case, lottano per conquistarsi un futuro diverso dalla miseria vissuta in patria. Gli americani assistono a questa invasione con un misto di “ inquietudine e pietà “.
La mafia riesce in questo contesto a trapiantare in blocco un intero sistema, grazie al dinamismo del nuovo mondo e al tessuto siciliano importato. Un intero “ Stato ombra “ vedrà la luce oltre oceano, dove le cosche dalla Sicilia inviano menti e braccia in grado di impiantare i sistemi violenti, costruire gli agganci verso le protezioni politiche con i potenti del posto e le collusioni con stampa e polizia. L’organizzazione dovrà adattarsi in maniera veloce, imparando a sfruttare ed avvicendare in fretta vittime e manovalanza.
I mafiosi in America tendono a spostarsi in fretta, e questo sarà alla base della rapida diffusione di radicate organizzazioni siciliane in molte città. Pur essendo una rete senza una guida, New York con le sue basi a Manhattan e Brooklyn, era vista come il riferimento centrale. La mafia siciliana si ramificò però anche a Pittsburgh, Cleveland, Chicago, Milwakee, Kansas City, San Francisco e in Canada. Una espansione non indolore e soprattutto a New York, dovette scontrarsi molto duramente con altre organizzazioni criminali italiane (di origine napoletana o campana), o straniere (in particolare irlandesi). (5) (6)

La “Mano Nera” e Joe Petrosino
La mafia crea una sorta di marchio tra le organizzazioni malavitose in America, ma con il termine mafia, verranno chiamate anche altri organismi non siciliani, evento che in Sicilia non sarebbe potuto accadere. Un esempio viene fornito dalla “Mano Nera “, sinonimo di mafia sicula in America per molti anni del primo ‘900. Sottraendo l’esclusiva ai criminali isolani, altre gang di delinquenti e addirittura gruppi anarchici, utilizzarono lo stesso pseudonimo in altre città, creando confusione tra le forze dell’ordine e irritazione tra i detentori del marchio originale. Gli affiliati alla Mano Nera seguono codici di comportamento con riti e cerimonie quasi identici a quelli diffusi in Sicilia. Questi uomini d’onore potevano alternare la militanza negli Stati Uniti a periodi di riposo in Italia, oppure in base alle esigenze della organizzazione tornare definitivamente in patria dopo alcuni anni.
Come sempre non si deve generalizzare, e si deve abbattere il luogo comune di etichettare come mafiosi i siciliani che emigrarono: pensiamo che nella sola New York nel 1920, vi erano circa un milione di persone di etnia italiana e i delinquenti erano una piccola minoranza. Vi furono molte persone oneste che la mafia la subirono e la combatterono anche sul territorio americano. Uno di questi uomini salirà alla storia per il coraggio e l’efficacia della sua lotta alla criminalità mafiosa, e diventerà un mito che persiste ancora oggi: Joe Petrosino. (7)

Carriera di un italo americano
Giuseppe Petrosino nasce a Padula in provincia di Salerno, il 30 agosto 1860. La sua è una storia comune a quelle di molti altri italiani nel nostro meridione di fine ‘800. Prospero Petrosino il padre di Giuseppe è sarto, e insieme ai quattro figli abbandona nel 1873 una terra incapace di offrire alternative a povertà e disoccupazione. Oltre oceano vi è l’America, il luogo delle nuove opportunità, ma ad attendere la famiglia Petrosino un duro e quasi disperato viaggio in terza classe, prologo alla spietata selezione dell’ufficio immigrazione statunitense. Per le migliaia che sbarcarono a New York, diverrà tristemente celebre il centro di smistamento immigrati di Ellis Island. In quel purgatorio di umanità, per molti connazionali morirà la speranza di costruirsi un futuro in terra americana. Per coloro che riusciranno a stringere nelle mani gli agognati permessi, il destino gli riserverà in gran parte alloggi fatiscenti, privi di servizi igienici e affollatissimi, le altrettanto note “five cents houses”.  
Giuseppe e la sua famiglia troverà sistemazione in Mulberry Street, una delle vie centrali nel mezzo del quartiere più densamente popolato da italiani. Si rivelerà un lavoratore instancabile, arrangiandosi in umili occupazioni come lustrascarpe e strillone. Il ragazzo si impegna assiduamente a migliorare la propria condizione: frequentando una scuola serale impara la lingua inglese ed il suo nome muta in Joe. Una volta maggiorenne conquista la cittadinanza americana e viene assunto dalla nettezza urbana, reparto che in quell’epoca era un lembo del dipartimento di polizia. Le attitudini e forse le amicizie raccolte in strada tra gli agenti, consentiranno a Joe di entrare a far parte del 23° distretto della polizia di New York. E’ il 1883, e da quel momento Joe Petrosino diviene un elemento prezioso al servizio delle forze dell’ordine della Grande Mela.
La sua rapida ascesa fu direttamente proporzionale alla crescita del crimine legato all’immigrazione italiana. A Little Italy le gang malavitose originarie del nostro meridione dominano la scena. Petrosino era un uomo forte fisicamente, intelligente, sveglio e unico agente di madre lingua italiana. Per una volta le tanto “bistrattate origini” gli consentirono di guadagnare un vantaggio professionale sui colleghi in materia di mafia. Grazie alla sua conoscenza dell’italiano la polizia riuscì ad insinuarsi in un ambiente non permeabile dagli “stranieri”.
I risultati non tardarono ad arrivare. Petrosino applica metodi bruschi, introduce innovazioni in ambito investigativo, schedando arrestati e sospettati, ricorrendo al travestimento e tessendo una fitta rete di informatori. Egli batte meticolosamente le strade e i bassifondi, portando alla luce gli interessi mafiosi nell’ambito del commercio di olio, vino, agrumi e altri prodotti dall’Italia. Delinquenti isolati, barbari assassini e gang criminali cadono vittima del suo impeccabile lavoro. Seguendo una lunga pista di indizi che hanno origine da intimidazioni apparentemente scollegate tra loro, il poliziotto arriva alla Mano Nera. La famigerata struttura criminale grazie a Petrosino inizia ad assumere contorni più precisi, anche se ancora manca il sigillo investigativo per accertarne l’esclusiva matrice di organizzazione legata a Little Italy. (8) (9)


Don Vito Cascio Ferro, da Bisacquino a New York
Tra le molte figure di spicco mafiose che fecero la spola tra Sicilia e Stati Uniti, una di queste sarà legata a stretto giro al destino di Joe Petrosino. Il suo nome è Vito Cascio Ferro, signore incontrastato di Bisacquino in provincia di Palermo, dove nacque nel gennaio del 1862. In gioventù sarà prima campiere e poi militante di movimenti anarchici, per affermarsi alla guida dei locali fasci contadini nei moti del 1892. Ruoli decisamente in contrasto tra loro, ma tutti di rilievo inferiore alla veste che il destino gli riserverà e che lo renderà celebre: boss della mafia siciliana. Vito Cascio Ferro risulterà una figura ambigua in grado di coniugare più sfumature, ma tutte assecondate alla conquista del potere. I racconti tramandati nei decenni lo narrano come una sorta di padre eterno nella Palermo e dintorni di fine ‘800. Uomo dall’aspetto piacente e autorevole, distinto, alto, forte fisicamente, il viso contrassegnato da uno sguardo profondo e da un pizzetto biondiccio che lo contornava. Vito Cascio Ferro è figura rispettata e temuta. Egli stesso raccontava di muoversi spesso senza denaro, perché ovunque andasse, in tanti erano disposti ad offrirgli ogni servizio. 10
Tra storia e leggenda il suo nome verrà legato a svariati episodi spesso criminosi. L’ambizione ed il potere porteranno Don Vito ad essere un punto di riferimento della mafia negli Stati Uniti. Egli attraverserà l’Atlantico per sbarcare a New York nel 1901, inviato dai padrini siciliani per tessere le fila della rete d’oltre oceano. Una volta sul posto si guadagnerà in breve il titolo di guida della organizzazione detta la Mano Nera, e a lui sembra legata la creazione del racket dell’estorsione. “Fateci bagnare u’pizzu”, cioè il becco, era la formula intimidatoria con cui gli usurai della sua gang intimavano il pagamento del pizzo alle vittime designate. Sotto la sua egida la richiesta del pizzo diviene pratica sistematica. Don Vito assunse a coordinatore di gruppi criminali e anello di giunzione tra Sicilia e Stati Uniti. La sua corsa però era destinata ad incrociarsi spiacevolmente con la scalata professionale di Giuseppe Joe Petrosino. (11)(12)

“Il delitto del barile”
Una svolta determinante nella comprensione del fenomeno Mano Nera, giunge a Petrosino nel 1903. La chiave è un crimine che scuoterà l’opinione pubblica americana: “il delitto del barile”. Proprio all’interno di un barile, viene infatti ritrovato tagliato a pezzi e compresso, il cadavere di Benedetto Madonia. Le indagini conducono al “Stella d’Italia”, un locale frequentato dagli uomini di Cascio Ferro. Lì la vittima era stata vista entrare e mai più uscire. Il collegamento tra la morte di un falsario con l’apparente colpa di aver allargato imprudentemente il suo giro di affari, e l’ambiente “italiano” della Mano Nera è diretto. Petrosino batte la pista e induce alla confessione un altro malavitoso già in carcere, Giuseppe Di Prima. Un ampio ventaglio di prove consente al poliziotto l’arresto in prima persona di Joe Morello, il proprietario del “Stella d’Italia”. Morello è un immigrato da Corleone, ritenuto il capo di una gang di estorsori facente parte alla Mano Nera. Le prove raccolte consentiranno a Petrosino di sbattere in galera un nutrito numero di altri criminali, sgominando di fatto l’intera banda. Nonostante il successo sancito dalla stampa statunitense, manca ancora all’appello il mafioso di maggior rango. Il terreno sotto i piedi di Vito Cascio Ferro inizia a scottare e nel settembre del 1904, 13 approfittando di una uscita su cauzione, lascia l’America per rifugiarsi in Sicilia. Per l’uomo venuto dalla lontana e sconosciuta Padula, ed in pochi anni divenuto l’agente di polizia più famoso di tutta New York, la fuga di Don Vito brucia tremendamente. (14)

Joe il tenente
L’operazione venne comunque riconosciuta un successo e perfino il presidente in persona, Theodore Roosvelt, riconoscerà a Petrosino attestati di stima nonchè la promozione a tenente. Dalla prima carica statunitense, Joe riceve anche l’incarico di guidare “l’Italian Branch”, un dipartimento di polizia nuovo di zecca, composto esclusivamente da italo-americani per sferrare l’attacco decisivo alla criminalità proveniente dallo stivale. I risultati non mancheranno: oltre 2500 arresti e 500 espulsioni. La sempre più dettagliata conoscenza del nemico, fa maturare in Petrosino la consapevolezza che la mafia in America non può essere sconfitta senza un drastico intervento all’origine del problema. Occorre arrestare l’afflusso dei criminali dall’Italia. Lo stesso Cascio Ferro inoltre, è sfuggito alla cattura perché troppo strutturata e potente è la fazione siciliana dell’organizzazione che gli ha offerto un riparo sicuro. A preoccupare sono i collegamenti che personaggi come Don Vito, stringono liberamente con esponenti della politica romana, ed un nome su tutti è quello dell’On. Raffaele Palizzolo, il celebre mammasantissima responsabile dell’omicidio Notarbartolo. Il capo della polizia newyorkese, Teddy Bingham, sostiene il desiderio di Petrosino di partire per una missione segreta in Italia. Egli intende cercare quante più informazioni possibili, sulle figure che dalla Sicilia agevolano l’invio di malavitosi in America. Il progetto riceverà l’approvazione di Roosvelt ed il finanziamento persino di banchieri e uomini d’affari del prestigio di Rockfeller, che dalle attività mafiose venivano danneggiati in modo cospicuo. (15)

L’ultima missione
Nel febbraio del 1909, il tenente Petrosino è pronto ad imbarcarsi per l’Italia, ma al momento di partire la stampa newyorkese riceve una indiscrezione relativa alla sua missione. Alcuni sostengono che fu addirittura il capo della polizia Bingham a lasciarsi scappare qualcosa al riguardo. La notizia della sua imminente partenza per il paese natale fa il giro del mondo. Petrosino può dire addio all’anonimato ma decide ugualmente di proseguire. Giunto a Roma, il numero uno della polizia Francesco Leopardi riceve il celebre collega con tutti gli onori. Leopardi diramerà un comunicato a tutte le prefetture, in particolare a quelle siciliane, perché collaborino con la missione di Petrosino. Il danno però oramai è fatto. Petrosino pur consapevole che il muoversi su di un terreno ostile, straniero, e allo scoperto, comporta rischi altissimi, non torna sui suoi passi. Cerca di muoversi con la maggiore velocità possibile: l’intento è di ottenere le informazioni di cui ha bisogno prima che la mafia possa organizzarsi. L’impresa si trasforma in una corsa senza speranza. Vito Cascio Ferro lo aspetta al varco e ha da tempo ordinato la sua morte. I killer dell’organizzazione sono partiti sia dagli Stati Uniti che dalla Sicilia. 16  Don Vito ha il dente avvelenato e non ha perdonato allo “sbirro” americano, di averlo costretto alla indecorosa fuga dall’America. Alcune persone a lui vicine lo sentiranno affermare in pubblico “Io che non mi sono mai macchiato di un delitto, giuro che ucciderò questo uomo con le mie mani”. 17

Petrosino arriva a Palermo il 5 marzo del 1909 e prende alloggio all’Hotel France. Lo stesso giorno, dopo aver preso contatto con il console americano Bishop, mettendolo al corrente della sua intenzione di perseguire oltre che i criminali, anche chi tra imprenditori e politici locali spalleggia la mafia, si reca in tribunale per esaminare la documentazione relativa ad un pacchetto di indagati. Aperte le cartelle la delusione è grande. Le fedine penali risultano vuote o accuratamente cancellate. E’ però camminando per il capoluogo siculo che Petrosino comprende quanto la realtà dei fatti risulti molto più complicata del previsto. Dalle foto di numerosi volantini elettorali affissi sui muri della città, il tenente riconosce diverse figure in combutta con Vito Cascio Ferro. Petrosino realizza di essere davvero solo. Il questore Ceola gli offre una scorta armata, ma egli la rifiuta. Delle autorità italiane sente di non potersi fidare in nessun modo. L’ingente disponibilità finanziaria, gli lascia la speranza di acquisire le informazioni sul campo. Una boccata d’ossigeno la missione di Petrosino la riceve il giorno 12 marzo, a Caltanissetta. Quasi insperatamente riesce a mettere le mani su di un pacchetto di informazioni relative a pregiudicati mafiosi, e a scoprire che gli stessi beneficiano di protezione da parte delle autorità politiche. Il prezioso riscontro sarà l’ultima scoperta della carriera del grande poliziotto italo americano. La sera stessa del giorno 12 marzo, Petrosino fa rientro a Palermo. 18
Dopo essersi rinfrescato all’Hotel France si reca al Caffè Oreto per la cena. Mentre è seduto al tavolo, un paio di uomini lo avvicinano, chiacchierano brevemente con lui e si allontanano. Consumato in fretta il pasto, il tenente si alza ma non si dirige in albergo. S’incammina lungo la cancellata del Giardino Garibaldi. Sarà lì che qualcuno lo raggiungerà esplodendo quattro colpi di pistola, tre consecutivi ed uno a distanza di qualche secondo. 19
Giuseppe Petrosino colpito alla spalla, al volto e alla gola, morirà all’istante. La sua missione non sarà mai portata a termine.
Tra le forze dell’ordine, egli sarà la prima celebrità a cadere vittima della mafia. Un elenco destinato ad allungarsi oltre ogni immaginazione. Le circostanze in cui morì Joe Petrosino contribuirono ad alimentare attorno alle sue imprese un alone quasi mistico, divenendo una icona il cui mito persiste ancora oggi. La sua leggenda si è estesa in tutto il globo. Una vita su cui si sono scritti decine di libri, sceneggiature divenute pellicole. L’immagine di quel tarchiato, ostinato, determinato, onesto, sveglio di testa e abile di mano immigrato dalla lontana Italia, capace di emergere dalla povertà e l’indigenza e grazie alle sue qualità conquistare L’America, divenne il simbolo della legalità per centinaia di migliaia di connazionali che in terra straniera oltre alle sofferenze della vita, dovevano subire le angherie dei criminali. Quel richiamo alla madre terra che segnerà il suo destino, lo consegnerà al cuore di tanti che nei decenni a venire, furono conquistati dalla sua storia anche nel nostro paese.
Lo spirito che animò Joe Petrosino nel breve periodo in cui tornò in Italia fu quello di sempre. Egli non si lasciò mai intimorire dalle avversità e dalla spietatezza del nemico. Ma forse in questa che fu la sua ultima missione, occorreva maggiore lucidità, ed una più attenta riflessione sul terreno in cui si stava giocando la partita. Non sapremo mai se alla natura delle decisioni che prese, prevalse la sottovalutazione dell’avversario, o la propensione genetica alle imprese disperate come quella che il padre Prospero imboccò varcando l’oceano quasi 40 anni addietro.
Se è pur vero che l’essenza dei miti destinata a sopravvivere in eterno, costituisce il nutrimento ai valori positivi per le generazioni che verranno, l’unico dato di fatto che a noi resta, sola eredità palpabile consegnataci dalla storia, fu che la lunga mano mafiosa si rivelò più potente del suo coraggio.

L’omaggio della folla
Le reazioni che gli Stati Uniti manifestarono alla violenta uccisione di Petrosino furono proporzionali alla celebrità del personaggio. I quotidiani dell’epoca diedero un enorme risalto all’accaduto, ritenendo le autorità italiane tra le responsabili della morte del tenente. Le indagini all’interno dell’ambiente della Mano Nera furono energiche. Decine gli arresti portati a termine e tra questi, le autorità americane annunciarono l’identificazione degli esecutori del delitto: Antonino Passananti e Carlo Costantino, finiti in manette il 3 aprile del 1909. 20
Vito Cascio Ferro venne confermato dalla medesima accusa di essere il mandante dell’omicidio, anche se una ipotesi di matrice italiana sostenne e continuerà a farlo negli anni, che ad uccidere Joe Petrosino fu lo stesso Don Vito. Il boss italiano troverà la via per scardinare qualsiasi teorema accusatorio ed uscire ancora una volta indenne dalle maglie della giustizia. Come aveva ben realizzato Petrosino, i potenti amici della politica italiana erano sempre pronti a soccorrerlo, ed una testimonianza dell’On. Domenico De Michele Ferrantelli che affermò di aver ospitato Cascio Ferro proprio la sera del delitto, costituì l’alibi inattaccabile che gli occorreva. 21
Il 12 aprile del 1909, oltre 200 mila persone parteciparono al funerale dell’eroe Joe Petrosino. Un omaggio che New York non ricordava così denso di genuina e intensa commozione. Una folla di italiani e americani si strinse nell’ultimo saluto a colui che senza barriere di provenienza geografica, veniva da tutti riconosciuto come un figlio di quella America impegnata a lottare per un futuro di speranza e libertà.


L’epilogo di una vita di potere
Vito Cascio Ferro continuerà ad operare indisturbato ancora per anni, potente e protetto dai potenti. Nel corso della sua vita verrà arrestato per 69 volte, ma soltanto l’ultima datata 1928, portò come conseguenza una condanna, ed in questo caso all’ergastolo e definitiva. Avvenne durante la campagna di repressione mafiosa esercitata dal prefetto di ferro fascista Cesare Mori. Il boss venne accusato dell’omicidio di Gioacchino Lo Voi commesso nel 1923. Dopo una breve detenzione riuscì ad ottenere la libertà su cauzione, ma non aveva fatto i conti con la grande propaganda antimafiosa messa in campo dal regime fascista, che mise a ferro e fuoco la Sicilia con imponenti e vistose operazioni di rastrellamento. Cesare Mori come nel suo stile, poggiò sul nome di Cascio Ferro, una vasta operazione mediatica per celebrare la lotta del fascismo alla criminalità. Una volta arrestato, Mori fece stampare volantini con l’immagine del boss e il testo della sentenza che lo relegò al carcere a vita. Nel corso del processo tenutosi dinanzi alla Corte d’Assise di Agrigento nel giugno del 1930, Don Vito arringò ai giudici: “Signori, nella mia vita ho commesso molti crimini, ma qui, adesso, mi state condannando per l’unico che non ho commesso”. 22 
Nessuno potrà mai escludere che esaurito il credito di consensi e protezioni a disposizione di Cascio Ferro, il regime fascista abbia scelto per interessi propri, di far saldare ogni conto in sospeso ad un nome illustre e altisonante.
Trascorrono molti anni quando il 6 luglio del 1942, nel pieno della seconda guerra mondiale, due quotidiani newyorkesi il New York Times ed il Sun, affermano ai loro lettori che il delitto di Joe Petrosino trovava finalmente giustizia. Secondo gli articoli, la condanna all’ergastolo di Vito Cascio Ferro da parte di Mori, pur se legata ad un altro reato, “…aveva vendicato la morte del grande detective…”. 23 
Ma fu veramente il boss nativo di Bisacquino a commettere il delitto?
Nemmeno alcune sue confidenze giunte a noi dal carcere riuscirono a fare totale chiarezza. Mentre scontava l’ergastolo ad un altro detenuto Don Vito rivelò “…In tutta la mia vita ho ucciso solo una persona e feci questo disinteressatamente”, ma senza precisare di chi si trattasse. Egli morì di pene e di stenti, sempre nell’estate del 1942. Il carcere in cui era rinchiuso venne bombardato dagli alleati e l’ormai 81enne ex potente della mafia, pare venne dimenticato dal personale di sicurezza che aveva invece proceduto all’evacuazione di tutti gli altri detenuti. 24
Per colui che rappresentò lungamente la massima figura di potere terrena in più luoghi di due continenti, il destino riservò un epilogo davvero imprevedibile.
Attraverso le vicende di Joe Petrosino e Vito Cascio Ferro, si ripercorre una intera epopea migratoria. Essi incarnarono i valori estremi di una moltitudine umana disposta ad ogni sacrificio e compromesso per garantirsi la sopravvivenza o il proseguo dei loschi affari.


Il proibizionismo
Nel Gennaio del 1919, le autorità statunitensi approvarono il Diciottesimo Emendamento, che salì alla storia per aver dato il là all’epoca del “proibizionismo“. Furono definite “bevande intossicanti“ tutti gli alcolici e ne divenne proibita la fabbricazione, il trasporto e la vendita. Questo evento costituì una svolta epocale per gli affari della mafia in America, perché consegnò nelle mani dell’illegalità il lucroso traffico e commercio di un prodotto a cui gli americani non erano disposti a rinunciare per niente al mondo. C’è chi sostiene con un margine al difetto, che fino al 1933, anno dell’abrogazione del proibizionismo, il mercato illegale di alcolici abbia procurato introiti per oltre 2 miliardi di dollari. La gente vuole bere, se ne infischia della violenza dilagante tra le strade delle maggiori città dell’unione, e il decollo della guerra tra gangster per il controllo del traffico, viene liquidato spesso con un “lascia che si ammazzino tra loro“. Nel frattempo la Prima Guerra Mondiale e un pacchetto di leggi successive frenarono l’immigrazione italiana. Ma nella sostanza i provvedimenti che intendevano arginare l’afflusso dei criminali dall’Italia, si rivelarono di fatto un parziale boomerang. Le difficoltà d’ingresso colpirono soprattutto coloro che senza mezzi e raccomandazioni desideravano approdare onestamente nella nuova terra promessa. Grazie alla fitta rete di agganci anche il flusso degli immigrati finì sotto il controllo della malavita organizzata. In pratica disperati o malviventi che fossero, solo chi si affidava alla mafia riusciva agevolmente a dirigersi negli Stati Uniti. (25)

L’era dei grandi Gangster.  “Cola” Gentile un testimone d’eccezione
Il proibizionismo segnò quindi l’inizio dell’era dei grandi gangster che proseguì per tutti gli anni 20 e gran parte dei 30. Salirono alla ribalta dell’opinione pubblica per l’efferatezza dei crimini e la notorietà che li legava anche a uomini di potere, nomi come Joe “The Boss” Masseria, Al Capone, Lucky Luciano, Vincent Mangano, Albert Anastasia, Vito Genovese, Frank Costello e Nicola Gentile, detto “Nick” o “Cola”. Era una generazione di criminali per lo più nati in Italia meridionale, emigrati da ragazzi e affiliati alla mafia in territorio americano. Al Capone fu una illustre eccezione, in quanto nacque già negli Usa a Williamsburg da genitori napoletani. L’industria del cinema e dello spettacolo attinse a piene mani nell’epopea gangster della Chicago e New York anni ’20 e ‘30, e alcuni di questi uomini diventarono autentici miti destinati a resistere per decenni.
Nicola Gentile non sarà ricordato come uno dei nomi a noi più noti ma nel 1963, quasi ottantenne, decise di scrivere con l’aiuto di un giornalista, una memoria autobiografica che divenne la prima opera del genere per mano di un uomo d’onore. Nonostante Gentile vivesse in quegli anni a Roma, non ne emerse mai una versione tradotta in italiano. L’intero racconto celava diversi punti da accogliere con estrema cautela in termini di affidabilità, ma trattasi di una testimonianza preziosa nel ricostruire l’epopea dell’immigrazione siciliana con tutte le sue degenerazioni criminose.
“Cola” riconosceva che “ Tutti i capi sono feroci…e se non si è feroci non si diventa capi “, ma per sopravvivere a lungo all’interno dell’organizzazione, “occorreva cercare anche la via della pace e della giustizia ”. Parole dissonanti con il comune significato di quei vocaboli, ma la comprensione del fenomeno mafioso è conseguibile solo acquisendo la chiave di lettura appropriata. 
In Sicilia come in America, la mafia si è sempre distinta nel concepire una società divisa da un preciso confine: da un lato “noi uomini d’onore“, dall’altro “loro“, gli uomini comuni, i normali delinquenti o i criminali di altre organizzazioni, tutti equiparati ad esseri inferiori.
A determinare ciò che è giusto o sbagliato nella mafia, sono criteri soggettivi ai mafiosi stessi, non validi per il resto della società. Una scala di valori che verrà di frequente manipolata , ma che è alla base delle lotte all’interno di una fazione o tra le fazioni. Dietro all’eliminazione di un capo ad esempio, vi sono motivazioni molto pragmatiche come la paura, il potere, la vendetta. Le riunioni che precedevano la sentenza di morte, o le riverenze e gli omaggi ai familiari del defunto appena assassinato, erano invece momenti conditi di fumose argomentazioni, ma erano le basi di una ritualità mafiosa ricca di comportamenti ambigui. Condotte  che assumono un preciso significato solo secondo i codici mafiosi. Una sorta di liturgia indefinibile o addirittura irritante agli occhi dei comuni mortali. I modi di agire assumono i contorni di autentici cerimoniali e sono correttamente interpretabili solo se riportati alla netta distinzione di un “noi“ e “loro“ di concezione mafiosa.
Gentile illustra anche la struttura organizzativa dove ogni città americana era definita “borgata“. Le decisioni importanti, come l’uccisione di un boss, erano prese da un consiglio ristretto di capi, mentre una assemblea più ampia provvedeva ad eleggerli. A queste riunioni arrivavano a partecipare oltre 150 uomini, ogni boss con i suoi fedeli. Molti di questi erano analfabeti, e le virtù dialettiche inducevano gli altri “cafoni“, ad ascoltare e seguire chi le possedeva.
Nick  riuscirà a sopravvivere sino alla vecchiaia, vissuta in miseria nella sua latitanza italiana, e forse, l’essere stato per anni uno dei mediatori storici dell’organizzazione, gli ha consentito la perfetta acquisizione in ogni dettaglio di quei cerimoniali, contribuendo in maniera decisiva alla sua longevità. (26)

Da mafia siciliana a italo-americana
La lotta per il potere lungo il quindicennio 1920-1935, sarà caratterizzato da un susseguirsi di omicidi eccellenti. Figure come Al Capone a Chicago e Lucky Luciano a New York, emergono a colpi di sanguinosi scontri nella faida per il controllo dei lucrosi affari mafiosi. Oltre ai liquori, che con l’eliminazione del proibizionismo usciranno dalla illegalità nel 1933, gli affari ruotano attorno al gioco d’azzardo, al racket della prostituzione e delle slot machine. Gli inizi degli anni ’30 vedranno un importante cambio di direzione. Lucky Luciano utilizza i contatti maturati negli ambiti della malavita ebrea e irlandese per spostare il baricentro del sistema. L’elite mafiosa d’oltre oceano, da siciliana si orienta a Italo americana. La sua composizione diventa più variegata, senza per questo smarrire il riferimento etnico siciliano.  Le strade di Sicilia e Stati Uniti tenderanno a spostarsi su binari più paralleli, conservando inalterati i legami alla madre patria nel rispetto e nei vincoli d’affari. (27)

Le istituzioni si risvegliano
Alla fine dell’era del proibizionismo la sopravvivenza economica della mafia è garantita dal racket del gioco d’azzardo, ma alle porte si prospetta un periodo difficile. Da 4 anni si era entrati nella “Grande Depressione“ e le autorità erano stanche di tollerare lo sfacciato proliferare del crimine. Se da un lato Lucky Luciano e suoi, avevano allacciato da tempo alleanze con esponenti di spicco del Partito Democratico, dall’altro gli Stai Uniti erano prima della 2° Guerra Mondiale una democrazia viva. Si poteva quindi fare carriera politica, sia combattendo la mafia, che attraverso i voti rastrellati dai gangster. Emersero figure come il sindaco di New York Fiorello La Guardia, o il procuratore Thomas E.Dewey, che raggiunsero tra il 1933-1935, notevoli successi nella lotta al gioco d’azzardo e alle estorsioni sulle slot machine. Anche Lucky Luciano fu arrestato nel febbraio del 1936 e incriminato per sfruttamento della prostituzione. Venne condannato ad una pena tra i 30 e 50 anni, ma nel 1946 fu rilasciato e rispedito in Italia.
Nel 1937 terminò la carriera anche di Nicola Gentile, fermato perché legato a trafficanti di droga. Le circostanze in cui riuscì in seguito ad eludere la libertà vigilata, per sfuggire in Sicilia e non tornare mai più, furono per molti sospette. La seconda metà degli anni ’30 si caratterizzò per un generale risveglio delle istituzioni, ma l’avvento della 2°Guerra Mondiale risollevò le sorti della mafia. La stampa ed in generale l’opinione pubblica, apparvero fortemente distratte dal conflitto, ed il razionamento della benzina procurò nuove vie di guadagno.
Una guerra che si trasformò in un prezioso salvagente anche per gli uomini d’onore stanzianti in Sicilia. (28)


Note

(1), (3), (5), (7), (9), (25), (26), (27), (28), Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – capitolo “La mafia s’insedia in America 1900 -1941” – pagine 199…242

(2), (4), (6), (8), (11), (14), 16, 17, 20, 21, Fonte “www.lastoriasiamonoi.rai.it/Joe petrosino contro Don Vito”

10, 13, 17, 19, 22, 23, 24, Fonte “quotidiano La Sicilia – Don Vito, da rivoluzionario a boss – del 27 febbraio 2005

(12), Fonte “www.wikipedia.org/don_vito_cascio_ferro”

 

 

 

 


 

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