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Medio Oriente » Il volto nuovo degli Stati Uniti  

Il volto nuovo degli Stati Uniti
Cinzia Nachira

All’indomani dell’insediamento alla Casa Bianca di Barak Hussein Obama, alcuni, a giusto titolo, osservarono che dal volto aggressivo dell’imperialismo statunitense, si sarebbe passati ad un «imperialismo dal volto umano», dalle espressioni islamofobe a quelle islamofile e tutto questo è stato, fino a questo momento, rispettato.
L’imperativo che si è posto alla nuova squadra di governo statunitense era, ed è, fondamentalmente quello di rispondere ad una domanda che il popolo statunitense si è posta l’11 settembre 2001: perché ci odiano?
La risposta della passata amministrazione e del think-tank neo-conservatore che la supportava, offriva una risposta basata sul fatto che forze ostili, in primo luogo l’Islam, puntavano a distruggere la «felicità del popolo statunitense».
In questo quadro era assolutamente accettabile, anzi si potrebbe dire necessario, imporre una ricolonizzazione di stampo classico, anche surclassando le istanze internazionali che avevano, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, invece, suggellato il superamento di questa o la volontà del suo superamento.
Ma già nel 2006, ossia cinque anni dopo, il lancio in grande stile della teoria e della pratica dell’ «attacco preventivo» il bilancio era ben catastrofico.
Nessuno dei nodi che si volevano districare era risolto. Anzi in molti casi cruciali, questi, risultavano ancora più imbrogliati.
Sicuramente, quindi, la stessa elezione di Barak Obama alla Casa Bianca è il segnale che la risposta alla domanda postasi dal 2001 offerta da George W. Bush non ha soddisfatto le esigenze del popolo statunitense.
La risposta «nuova» non poteva che essere articolata, perché affrontare contemporaneamente i macigni posti dalla politica della passata amministrazione, non poteva e non può contemplare un semplice ritorno allo statu quo ante. Anche perché molte scelte, interne e non, degli anni dell’amministrazione Bush II hanno rimesso in discussione non pochi pilastri della coscienza collettiva statunitense, rimettendone in questione anche l’identità. Il nemico collettivo, che in una prima fase ha fatto presa ed è risultato un collante efficace, con il passare del tempo si è lentamente sgretolato.

La discontinuità
È stato osservato, prendendo atto dei fatti in campo, che la vera rottura con una continuità di strategia politica statunitense è rappresentata dall’amministrazione Bush II e che, in realtà, quella odierna non fa che riportarla nell’alveo generale precedente.
Questo non è un limite, ma l’obiettivo. Si commetterebbe un grosso errore di valutazione a voler vedere nella nuova amministrazione un faro rivoluzionario, come d’altronde sarebbe stupido non cogliere che la discontinuità con la politica precedente esiste. A meno di non voler sposare in toto le teorie sostituiste di molti movimenti che in questi anni si sono opposti alla politica statunitense (e non solo in Medio Oriente), ma spesso in un quadro ideologico che ne era quasi esattamente il riflesso in cui lo scontro confessionale diventava l’unico possibile.
Con il «lancio» del «nuovo» ruolo degli Stati Uniti  voluto da Obama, quindi, le risposte da dare sono almeno in due direzioni: quella interna e quella esterna, soprattutto verso le opinioni pubbliche mediorientali.
Non è un caso se nel discorso de Il Cairo, il 4 giugno scorso, Obama di fatto ha arruolato l’Islam, in quanto religione ben più diffusa nel pianeta di quanto non lo siano il cristianesimo o il giudaismo, sia nella lotta alle tendenze estremistiche politiche islamiche (che in non pochi casi minacciano direttamente regimi che in ogni caso si rifanno ad esso ed alleati degli USA ed anche dell’Europa); sia nel progetto della costruzione si potrebbe dire di un welfare che riduca l’impatto dell’impoverimento di masse sempre più ingenti e lo dice in modo esplicito:

L’Islam non è parte del problema nella lotta all’estremismo violento, ma una componente importante nella promozione della pace. Siamo consapevoli che il solo intervento militare non è sufficiente a risolvere i problemi in Afghanistan e Pakistan, per questo stiamo progettando di investire 1,5 miliardi di dollari ogni anno, per 5 anni, per lavorare in collaborazione con i Pakistani alla costruzione di scuole e ospedali, strade e imprese, oltre a investire centinaia di migliaia di dollari per aiutare chi si è dovuto spostare dai propri luoghi d’origine. Per questo motivo finanziamo con 2,8 miliardi di dollari i progetti degli Afgani per lo sviluppo della propria economia e per la fornitura dei servizi essenziali alla vita.

Dalla politica delle cannoniere a quella del «caritatevole amico» che tende la mano? No, e i pachistani e gli afgani lo sanno bene, visti i bombardamenti di inizio maggio in Afghanistan con moltissime vittime civili e l’avanzata dell’esercito nella valle pachistana dello Swat, che fa poche differenze tra civili  e talebani e che in quest’ultimo caso ha provocato circa 2 milioni di profughi oltre a centinaia di morti tra i civili.
Nel caso dei bombardamenti in Afghanistan il presidente USA non ha ripensamenti e per ciò che riguarda il Pakistan vi è stato un investimento di 1,9 miliardi di dollari, con un incentivo ulteriore di 591 milioni di dollari (da destinarsi al miglioramento delle condizioni di vita e « per aiutare chi si è dovuto spostare dai propri luoghi d’origine», ossia i civili in fuga dal teatro degli scontri) al governo pachistano perché si decidesse ad attaccare i talebani, con i quali nell’estate scorsa aveva raggiunto un accordo, che prevedeva una tregua e la possibilità di applicare la legge islamica nelle zone direttamente controllate da questi ultimi.
Non è sorprendente questa estensione della guerra in Afghanistan e Pakistan, visto che lo stesso Obama ne aveva annunciato i contorni durante la campagna elettorale per le presidenziali. Oggi ne delinea anche i termini ideologici, sostenendo che l’attacco all’Afghanistan era stato «imposto» agli USA, in conseguenza dell’11 settembre, mentre quello contro l’Iraq è stato una «scelta». E ne mette in pratica quelli militari.
Ma perché l’estensione della guerra possa essere accettata in quella zona del mondo i «nuovi» Stati Uniti hanno bisogno di dare l’impressione che ciò vada a profitto non solo dei regimi ma anche delle popolazioni.


La riconciliazione
Questi sforzi di «riconciliazione» con una parte dell’Islam non possono che passare anche attraverso il mantenimento di una promessa che nel mondo musulmano è di vitale importanza: la chiusura del campo di concentramento di Guantanamo a Cuba.
Se questo non avvenisse ogni altro sforzo potrebbe a medio e lungo termine annullarsi.
Ma questo passaggio è molto delicato per gli equilibri interni alla società statunitense, che dopo aver assorbito poco e male le «rivelazioni» sull’abisso atroce di Abu Ghraib, si trova oggi a far ancora una volta i conti con il proprio volto più ignobile.
Anche se sulla chiusura di Guantanamo sono eclatanti le contraddizioni e le ambiguità: coloro che ne sono i responsabili sono «non colpevoli» per assoluzione preventiva, sempre in nome della «sicurezza». Si chiude Guantanamo, ma le farse di tribunali, abisso giuridico che ne rappresentano il presupposto, vengono salvaguardati.
Alcuni grandi giornali europei hanno criticato chi, negli stessi Stati Uniti a iniziare dall’organizzazione Human Rights Watch, avevano espresso forti preoccupazioni per queste decisioni, partendo da quella di vietare la pubblicazione delle foto (decisione poi ritirata sia per le proteste che aveva suscitato, sia perché in Internet quelle stesse foto agghiaccianti giravano comunque) che venivano da dentro il campo di Guantanamo, rivolgendo loro l’accusa di essere «impazienti». La tesi: non si può volere tutto e subito. Il problema, a nostro avviso, non è quello di avere o meno, fretta.
Se un meccanismo si avvia ad una velocità data è ben pericoloso, durante il funzionamento, poterlo arrestare o rallentare. Questo è il punto. E questo è il rischio che si corre prendendo una decisione come quella di rendere pubblici i dossier segreti riguardanti i soprusi di Guantanamo e allo stesso tempo volerne assolvere «a prescindere» i responsabili, con il più vecchio dei pretesti: eseguivano gli ordini.
Le aspettative innescate da questa nuova amministrazione statunitense sono immense e, da qualunque parte si veda il problema, nulla è più rischioso delle delusioni. Soprattutto per quelle fasce di immigrati/e che negli USA e altrove oggi sperano di non essere più considerati la «quinta colonna» dell’ «asse del male».

Il contesto religioso e identitario
L’aspetto più debole della «svolta» obamiana e della sua «dottrina», è quello di accettare di fatto i contorni del preteso «scontro di civiltà» all’interno dei parametri religiosi.
Il fatto che per oltre un decennio l’Islam, in quanto tale, sia stato identificato con il nemico, non elimina il fatto che ciò cui abbiamo assistito, e che abbiamo subito, poco o nulla abbia a che vedere con le griglie interpretative religiose.
L’uso di citazioni religiose, per dimostrare che le religioni sono inseribili all’interno di un quadro internazionale diverso e in rottura con il recente passato, limita di molto la portata della «novità».
Oltre ad essere questo un grande regalo a regimi corrotti e inumani  che continuano a richiamarsi ai dettati religiosi, e non solo nel mondo arabo-islamico, nonché alla stessa Al Qaeda.
Questa debolezza investe i dossier più importanti che sono quello iraniano e quello israelo-palestinese.
Ora che in Iran è esplosa una tensione interna molto pericolosa (all’indomani di elezioni truccate inutilmente da Ahmadinejad che aveva già la sicurezza di vincere pur se di poco rispetto ai suoi avversari, soprattutto Moussavi) le dichiarazioni  cairote di Obama di un’apertura di dialogo senza condizioni risultano ancora più importanti. Averle fatte in un momento in cui delle elezioni iraniane non si conosceva ancora il risultato ha posto la nuova amministrazione statunitense in una posizione tale da non volere e non potere appoggiare più di tanto l’opposizione iraniana che sfida in piazza Ahmadinejad.
Da un lato, per gli USA è fondamentale arrivare ad un tavolo negoziale con l’Iran che riguarda soprattutto il futuro dell’Iraq, il cui governo è sponsorizzato sia dagli stessi USA che dall’Iran. Dall’altro, Obama e la sua squadra di governo sanno bene che l’Iran è un Paese grande e che per il momento la rivolta contro l’esito elettorale è limitata alla capitale, anche se il blocco totale dell’informazione impedisce di verificare cosa avviene nel resto del Paese.
Inoltre, i  due sfidanti, Ahmadinejad e Moussavi, sono espressione di una spaccatura dell’establishment del regime e che le differenze, pur importanti, non intaccano minimamente la natura del regime. In altri termini, anche dovesse a Teheran delinearsi lo scenario peggiore di quando non sia già avvenuto, ossia una repressione ancora più sanguinosa (cosa che ricorderebbe per alcuni aspetti Tien An Men del 1989), per gli Stati Uniti è più importante avere a che fare con interlocutore «stabile», per realizzare i progetti che riguardano l’intera area mediorientale. Visto che l’Iran, grazie al fallimento della politica di Bush II, ha accresciuto in modo esponenziale la sua influenza diventando determinante per ogni scelta futura.
Inoltre, ma non ultimo per importanza, ciò che avviene nelle strade di Teheran e lo scontro tra il clero sciita della capitale e quello di Qom (la città santa sciita cui fanno riferimento gli ayatollah più moderati in contrapposizione a Khamenei, attuale guida suprema) determinerà anche il rapporto tra USA e Israele.
Non è né un mistero né una sorpresa che il tandem Netanyhau e Lieberman tifi per Ahmadinejad, che con le sue posizioni verso lo Stato di Israele e le continue bordate antisemitiche, il cui pezzo forte è la negazione del genocidio degli ebrei europei, offre loro l’opportuno pretesto per non rinunciare ad alcuno dei piani che hanno in  serbo, primo fra tutti un attacco militare contro l’Iran, con l’alibi del riarmo nucleare.
Il fatto che Obama al Cairo non abbia posto condizioni al negoziato con l’Iran, evidentemente partiva, appunto, dal nucleare. Se la posizione statunitense è di semplice buon senso, visto che l’Iran, con o senza nucleare, ha una capacità offensiva massiccia e che un’eventuale risposta della vera potenza nucleare regionale, Israele, sarebbe in grado di cancellare in un colpo solo tutti gli Stati mediorientali; quella israeliana è la più oltranzista dal 1948.
Infatti, nel discorso di «risposta» a quello di Obama, Netanyhau ha ribadito, senza troppi giri di parole, il suo diniego ad ogni richiesta di «ammorbidimento» verso i palestinesi (presi, questi, complessivamente: i palestinesi del 1948 – gli arabi israeliani – , i profughi, i cittadini della Cisgiordania e quelli di Gaza). Nessuna rinuncia alla colonizzazione della Cisgiordania, obbligo per i palestinesi di riconoscere non solo Israele, ma il carattere «ebraico» dello Stato, continuazione dell’assedio di Gaza cui Israele non riconosce alcun diritto, neanche umanitario, tanto da definirla «entità ostile» (contro cui, come ha dimostrato l’aggressione del dicembre-gennaio scorsi, tutto è lecito).
L’amministrazione statunitense, nel contesto attuale, ha sicuramente più interesse a stabilizzare la regione, che appoggiare tutte le velleità guerrafondaie israeliane, quindi è assai probabile che le tensioni tra i due alleati, lungi dal mettere in pericolo i loro legami, si acuiscano.
E si acuiranno a partire dal fatto che l’amministrazione statunitense è interessata sicuramente anche a intavolare negoziati diretti con Hamas. Il quale essendo molto pragmatico non si lascerà sfuggire l’occasione rilanciandosi, per altro, come perno, quale effettivamente è, del dialogo inter-palestinese (vista la crisi verticale dell’Autorità nazionale palestinese), altrimenti impossibile e magari aggiungendoci una qualche forma di concessione al nemico di sempre (Israele), ottenendo, però, il consenso a non riconoscere ufficialmente Israele.
Il tempo è stretto. Come altre volte nella storia dei rapporti tra Medioriente e Stati Uniti la situazione può volgere in un senso o nell’altro in poche settimane e mesi, perché legata a molte variabili indipendenti che non abbiamo lo spazio di analizzare.
In ogni caso per quanto il pragmatismo statunitense può essere portatore di una diminuzione dello «stato di guerra generalizzato», concentrandolo solo in alcune zone, questo non può esserci d’alibi per concedere alla nuova amministrazione cambiali in bianco di alcun genere.

16/9/09

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