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La storia della Mafia Siciliana


Capitolo 19 - 1988: L’amara fine di un epoca

L’entusiasmo durò poco
La storica sentenza del Maxi Processo aveva innescato un virtuoso sentimento di speranza tra la folta porzione onesta del paese. Il palazzo di giustizia di Palermo fu per alcune settimane il centro del mondo. Le felicitazioni per il grande risultato ottenuto giunsero da ogni angolo del pianeta. Falcone e i suoi collaboratori erano ben consci ed orgogliosi del frutto del loro lavoro ma rimasero con i piedi ben saldati nel terreno  1. Nei piani mafiosi la sentenza costituiva una importante battaglia persa, ma pur soltanto una battaglia. La guerra era ancora tutta da combattere, e come verrà illustrato anni dopo da diversi pentiti, l’obbiettivo a quel punto era di erodere nei successivi gradi di giudizio quanto sentenziato il 16 dicembre 1987. Si puntava a forti riduzioni di pena agendo nel più classico dei sistemi a disposizione di Cosa Nostra: sfruttando le connessioni politiche e una campagna mediatica che lentamente spegnesse i fari sui processi a venire, per far ricadere nell’ombra l’esito delle scandalose manovre a cui mirava.
I lunghissimi tempi della giustizia italiana poi, crearono i presupposti per chi nelle istituzioni operò attaccando la sentenza e agevolando gli imputati.
L’entusiasmo era destinato a durare poco.

Meli preferito a Falcone
Dalle istituzioni si attendevano risposte coerenti per dare un seguito ai risultati acquisiti. Il primo appuntamento, forse tra i più importanti, costituì la più amara delle delusioni, viatico ad una lunga serie di misfatti che lo Stato italiano si apprestava a compiere. Nino Caponnetto riteneva la sua missione a Palermo compiuta e si preparava a fare ritorno a Firenze. Al Consiglio Superiore della Magistratura era affidato la nomina del suo successore. Al termine di laboriose consultazioni in lizza rimasero due nomi: Giovanni Falcone, in veste di erede naturale di quel ruolo che fu di Chinnici, quale assoluto protagonista della lotta a Cosa Nostra, e Antonino Meli, il più anziano tra i pretendenti, senza nessuna esperienza passata in qualità di giudice istruttore, e con un solo processo per mafia all’attivo in carriera. E’ interessante sapere, come Meli avesse inoltrato da tempo la domanda per investire il ruolo vacante di Presidente del Tribunale di Palermo, richiesta avvalorata anche in questo caso dalla lunga militanza giuridica. Un consigliere del CSM e altri magistrati però, si adoperarono celermente per convincerlo a ritirare quella domanda e puntare all’incarico vacante di capo dell’ufficio istruttorio di Palermo. Quando si dice il caso…
I risultati di Falcone erano da tutti riconosciuti ma vi fu chi si aggrappò al suo supposto egocentrismo, ad una presunta arroganza professionale, all’ipotizzato scarso rispetto per le gerarchie e le anzianità, per evocare spettri alla sua nomina. A favore di Meli si decantarono le lodi di uomo esperto, rispettoso delle autorità, di professionista rimasto nell’ombra a svolgere con dedizione il suo compito sino ad attendere il suo momento e persino, al senso del dovere e del sacrificio manifestato sin dal settembre 1943, quando per due anni fu prigioniero nei campi di concentramento nazisti in Polonia e Germania. Pur riconoscendo il valore dell’uomo, non si può affermare che tutte queste prerogative rientrassero in vetta alla lista dei requisiti per l’uomo che doveva far tremare le vene ai polsi di Cosa Nostra.
Amara ironia a parte, si spenderanno milioni di inutili e ipocrite parole per suffragare la scelta di uno a spese dell’altro. Nella sostanza a supporto di Falcone vi erano la certificata competenza, il merito, le capacità; a puntello di Meli la sola anzianità di servizio. Ma si può andare oltre. L’elezione di Falcone avrebbe espresso la precisa volontà giudiziaria e politica di proseguire una strada già avviata e costellata di recenti e storici risultati.
Ebbene, il CSM si pronunciò diversamente e il 19 gennaio del 1988, Antonino Meli venne preferito a Giovanni Falcone grazie al voto di 14 consiglieri a favore contro 10. Ad acuire l’amarezza di chi sperava nell’apertura di un nuovo ciclo, con il vincitore si schierò anche buona parte di Magistratura Democratica, quella corrente in seno all’universo giudiziario italiano, che all’inizio degli anni ’70 aveva generato un impulso innovativo contro lo stagnante conservatorismo della giustizia, così prezioso a Cosa Nostra.
Nelle settimane successive alla nomina di Meli, emersero da un lungo silenzio le voci di quei magistrati che da tempo si erano zittite al cospetto dei grandi successi conseguiti da Falcone. Colleghi invidiosi e protettori di uno status quo stratificato da decenni all’interno della magistratura. Presunti servitori dello stato attenti alla conservazione di privilegi individuali, nonchè professionisti privi della volontà di incidere a fondo la crosta del malaffare mafioso.
Quel coro di uomini squallidi etichettò Giovanni come “lo sceriffo“, amante del protagonismo, e colpevole di manifestare la tendenza ad accontentare presunte amicizie comuniste. Una autentica delegittimazione al cospetto di un uomo e di un giudice che per tutta la sua vita non prestò orecchio alle sirene dei partiti, ritenendo l’indipendenza da qualsivoglia centro di potere, uno dei punti fermi per svolgere al meglio la professione di magistrato. Uno strato di fango sparso ad arte per indebolire colui che rappresentava una autentica spina nel fianco all’intero universo della criminalità organizzata. Una manovra operata da colleghi, ma che applicava i medesimi sistemi mendaci utilizzati da Cosa Nostra per attaccare i propri nemici.
Nei panni di uno dei più attivi sostenitori di Falcone, vi era un magistrato di nome Gian Carlo Caselli, un uomo che alcuni anni più tardi, ribadirà tale fedeltà divenendo determinante nella cattura degli artefici della morte del suo maestro. (2)

La fine di un epoca
L’elezione di Meli poteva risultare un elemento secondario se questi avesse operato proseguendo nel segno di Caponnetto e della linea impostata con il pool. La sua nomina invece fu un messaggio scritto a chiare lettere: quella epoca era terminata.  Il folto popolo dei giudici conservatori che tanto avevano nicchiato dinanzi ai metodi così poco tradizionali espressi dal pool antimafia, avevano fatto valere il loro peso. Tornava l’era dei magistrati burocrati. La lotta alla mafia non era più ritenuta una emergenza quotidiana.
Il giudice Ayala, nelle pagine del suo libro “Chi ha paura muore ogni giorno”, non usa mezzi termini al riguardo nel definire che, ”Il maxiprocesso era stato una specie di incidente di percorso che aveva comportato un rivoluzionamento intollerabile della prassi giudiziaria e, perciò, da correggere al più presto". 3 Se in questo frangente Ayala non lega il ragionamento a cause dalla natura criminosa come possibili collusioni, ma più ad una sorta di genetico virus che affigge la nostra giustizia, da sempre malata di “gerontocrazia”, diverso è il suo avviso se si allarga il tema dell’analisi al perché lo Stato non sia riuscito nei decenni a sconfiggere la mafia, a differenza di quanto riuscì ad esempio a fare con il terrorismo di sinistra.

“La partita truccata”
Per quale motivo si domanda l’ex magistrato, non si riesce a interpretare la mafia come un avversario da affrontare frontalmente?
In presenza di un qualsiasi antagonista pur se forte, radicato e organizzato, per sconfiggerlo occorre porsi a lui in modo frontale e trasparente, si deve creare una netta distinzione tra la tua e la sua azione. Bisogna fugare ogni ombra, ogni connivenza, ogni possibile comportamento che dia adito a dubbi. Una volta identificato e culturalmente condannato, si devono utilizzare tutte le forze a disposizione per combatterlo. Con il terrorismo è così che andò. All’indomani dell’uccisione di Aldo Moro, lo Stato scelse di compattarsi, concentrare le proprie energie per sradicarlo, e ci riuscì.
Nei confronti della lotta alla mafia questo non è mai avvenuto. Magari in più di una occasione si è andati vicini all’obbiettivo, ma è sempre mancata l’assoluta unione d’intenti, e soprattutto, la capacità di porsi a lei in modo frontale, di annullare quelle zone d’ombra e di contiguità tra la sua rete organizzativa e alcuni apparati dello Stato.
Per illustrare questo aspetto Ayala utilizza una metafora azzeccata, una allegoria dall’acre sapore e ancora oggi tristemente attuale:”Immaginiamo una partita di calcio…le istituzioni da una parte, l’avversario dall’altra. Le squadre sono ben definite e riconoscibili senza difficoltà. La partita è regolare. Contro i terroristi avvenne questo…fini come doveva finire…vista la soverchiante forza della squadra-Stato. La partita con la Mafia non è stata giocata sul serio…i colori delle maglie si confondono…Il pubblico non è in condizione di seguire l’incontro se vede giocatori che dovrebbero stare da una parte schierarsi dall’altra e viceversa. Con alle spalle quello che dovrebbe essere il tuo avversario che richiede di passargli la palla come è possibile giocare?
La partita è truccata!”
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Una politica priva di alcuna coscienza morale
I nomi di chi nei decenni si è macchiato di collusione è giusto vengano additati, condannati, isolati, ma non è una questione di singoli o di gruppi. Pur in loro assenza, Ayala sostiene come altri ne avrebbero preso il posto, magari con esiti ancora più nefasti. Si perché, se nella partita a cui prima si accennava, ripetutamente negli anni, scopri giocatori che dovevano militare nella squadra-stato, vestire la casacca mafiosa e viceversa, la responsabilità è da ricercare nella non volontà politica del sistema paese. Politici locali e nazionali, che per anni stringono rapporti con uomini di affari in odore di mafia, nascondendosi dietro alla foglia di fico della presunta innocenza fino a sentenza in giudicato del loro interlocutore. E questi, beneficiando del loro appoggio, attraverso la intimidazione esercitata dal braccio armato mafioso, alterano il normale corso delle attività economica di intere regioni. In un paese come il nostro, che in pratica affida ai soli giudici quando non li osteggia, il compito di combattere la mafia, una politica così priva di alcuna coscienza morale, cede via libera ad un continuo interscambio di ruoli alimentato e strutturato in svariate forme di connivenza, ma tutte inserite nel medesimo circolo vizioso: affari e denaro in cambio di voti che creano potere, con il quale il politico di turno in testa alla corrente che ne ha beneficiato, continuerà ad ampliare il raggio delle opportunità economiche dei propri referenti territoriali.
Accade così che appalti pubblici e privati di settori come edilizia e sanità, attività commerciali di ogni campo, transazioni finanziarie e bancarie, divengano truccate come la famosa partita, perché disciplinate da un sistema che droga le regole del mercato a favore di chi si allinea alle connivenze.
Gli onesti ne rimangono non solo esclusi, ma finiscono vessati da minacce e violenza, destinati in larga parte a piegarsi, partire o morire.
Se per un solo istante sognassimo invece una realtà dove lo Stato, messa in campo la sua potenziale e soverchiante forza, decidesse di amputare ogni terminale che conduca a tali connivenze, per fare piazza pulita di ogni area ristagnante di consolidato e antico malaffare, la mafia si troverebbe incapace ad esercitare il suo potere perché costretta a giocare l’incontro in un campionato dove le regole del gioco godrebbero del giudizio di un vero arbitro. Ma non solo.
Il mafioso si troverebbe isolato dal resto della società, sprovvisto di appoggi, e vista la sua natura tendenzialmente vigliacca, storicamente protesa ad attaccare in gruppo i singoli, forse sarebbe indotto a guardarsi altrove.
Trattasi di un sogno, e come tale libero da catene, ma sforzandosi di conservare un pratico realismo, e pur consapevoli delle difficoltà che rimarrebbero nell’estirpare da una terra un cancro così radicato, non vi sono confini all’energia propulsiva che la legalità è in grado di fornire alla gente perbene, se posta nelle condizioni di scegliere in libertà del proprio lavoro e della vita.

La “cultura del favore”
Se il mafioso di rango o il capomafia al contrario, diviene l’ospite prediletto dei più distinti salotti della Sicilia, non significa che l’intera regione sia in mano alla mafia, ma è il simbolo di un corale riconoscimento del suo ruolo di potere. Egli siede nelle medesime poltrone frequentate da prefetti, cardinali, onorevoli, perché come loro è una figura che può dispensare favori. Diventa quindi la classica persona da tenersi amica, chiudendo entrambi gli occhi su quale verità si celi dietro al suo potere. Il siciliano sempre secondo Ayala, non è generalmente “filo mafioso” come i più affrettatamente tendono ad etichettarlo, ma neppure sufficientemente “antimafioso” anche se potendo, farebbe della mafia a meno. Anni di vita in una terra dove la convenzionale cultura del diritto è stata sostituita dalla cultura del favore, lo hanno abituato ad assecondare chi è in grado di elargirlo. Il favore diventa un mezzo di scambio per ogni contesto, una sorta di mediazione assecondata dal solo codice giuridico stabilito da chi la esercita. Pratica, comoda, flessibile, senza briglie di natura legale. La mafia ha fondato l’asse del suo potere sull’esercizio di questa attività di mediazione dai molteplici e flessibili risvolti, ed il politico a lei legato, espressione di un automatismo così perverso,  trasforma l’essenza della sua azione in un continuo “arraffa, arraffa5, pena la perdita del potere. Le dinamiche di una politica così distorta, si allontanano dagli interessi generali della gente, ma finiscono per premiare il personaggio che è in grado di distribuire più favori, perché è quello che alla fine l’elettore chiede. Quale vittima di una sorta di boomerang malvagio, il semplice uomo della strada si trova costretto ad alimentare lo stesso circolo vizioso da cui vorrebbe sfuggire, per poter sopravvivere nel difficile quotidiano di una terra dove lo Stato ed i diritti ad esso legato, non esistono.
Il risultato è quanto abbiamo dinanzi agli occhi da oltre un secolo e mezzo: una politica che in Sicilia è ad uso largamente clientelare. Uno Stato centrale che pur non essendo del tutto inquinato, non si è liberato di viziose politiche nazionali dove per garantire il controllo elettorale e quindi politico di alcune regioni chiave, vitali ai fini dell’assegnazione dei seggi in parlamento agli uomini giusti, ha prolungato sino ad oggi la stessa infinita partita truccata.
Una mafia che nei decenni si è evoluta e trasformata, alternando epoche di sangue e titoli a 9 colonne, ad ere dove ha tentato di scomparire e mimetizzarsi, ma che si è sempre preoccupata di garantire ai propri giocatori, una maglia da titolare nella squadra –stato, qualunque fosse il colore della sua divisa.

Uno strano paese
Questa è la realtà a lungo occultata, che si è mossa alle spalle di chi invece la mafia aveva scelto di combatterla a viso aperto. Uomini provvisti di un coraggio indicibile, che hanno sacrificato per decenni la vita privata e la tranquillità familiare. Milioni di frammenti di una esistenza normale per chiunque, conditi dalla paura e dall’ansia per le conseguenze che le scelte professionali prese, potevano abbattersi sulla vita di mogli, compagne e figli. Una famiglia che si allargava all’improvviso da un giorno all’altro, quando la crescente qualità del proprio lavoro, li trasformava in possibile obbiettivo di un attentato, e una scorta di angeli custodi diveniva loro compagna di vita. A questi uomini tante volte veniva posta una domanda semplice e terribile:”Ma chi te lo fa fare?”. La risposta a volte usciva di scatto, in un moto istintivo e spontaneo, forte come l’attaccamento al senso di giustizia e smisurato come l’amore per la propria terra. In altre occasioni il responso galleggiava sospeso nell’aria, minacciato dalla paura, sfidato dal più temibile dei pensieri: percepire che il sacrificio risultasse inutile. Ma nonostante questo in tanti hanno proseguito la loro strada, marciato su di un lungo percorso irto e faticoso, impregnato di sforzi e sofferenze ripagati spesso dalla sola, ferma, presa di coscienza nel fare ciò che era giusto, sentimento a volte insufficiente a premiarli con la sopravvivenza.
Il nostro è uno strano paese, un luogo dove un uomo può morire più volte, prima per mano dei nemici che combatteva per affermare la giustizia, e dopo per l’azione di chi ne ha infangato e tradito la memoria. Una politica nazionale che ha continuato a partorire una classe dirigente povera di coscienza morale. Esponenti che si sono bagnati le labbra con il nome dei martiri per mano mafiosa al fine di conseguire consensi, ed un attimo dopo ne hanno ingannato la memoria continuando a stringere turpi alleanze. Generalizzare è un errore, e le porzioni sane del sistema che si sono spese a favore di una aperta lotta alla criminalità organizzata sono per fortuna sopravissute, pur trattandosi di percentuali più o meno estese, in luogo della essenziale totalità.  Ma se questo è accaduto e continua ad accadere, ognuno di noi non può esimersi da colpe.  Viviamo in una terra dove il valore della memoria e l’assunzione di responsabilità nel frangente elettorale sembrano scolorirsi, al contrario di un crescente spirito individualista. Tanti di noi si rendono figure incapaci o poco inclini per interesse a riconoscere i voltagabbana, nonchè propense a delegare la guida del paese con marcata disinvoltura. Tutto ciò crea i presupposti affinché un leader politico si senta autorizzato a spostare secondo convenienza i propri confini dell’etica, in quanto sempre più esiguo appare il gruppo di coloro che gli chiederà conto per il suo operato. E una volta rimossa, la frontiera della moralità può divenire aleatoria.
E’ stata una lunga digressione, una parentesi condita di concetti in parte già affermati, forse noiosi, ma che ogni persona desiderosa di approfondire la storia della mafia, non deve mai reputare scontati. Essi sono alla base delle dinamiche politico mafiose, necessaria chiave di lettura di quanto è accaduto e sta accadendo nel nostro paese.
Le pagine che ci attendono seguiranno questa corrente, ci procureranno ulteriore ma inevitabile amarezza, perché assisteremo ad uno Stato che invece di omaggiare e proteggere i suoi uomini migliori, farà di tutto per azzittirli ed isolarli.
Torniamo quindi a quel 1988, anno che segnò una tragica svolta in negativo nella lotta alla mafia.

Cosa Nostra sospende la tregua
La sentenza del maxi processo, segnò anche la fine della tregua che Cosa Nostra aveva instaurato nella guerra ai suoi nemici. Fallito il tentativo di addomesticare il giudizio della corte, venne meno ogni remora prolungatasi per tutto il corso del processo. Nell’arco di sole due giornate del gennaio del 1988, a nemmeno un mese dalla sentenza, le appendici armate dell’esercito mafioso colpiscono a morte. Il giorno 12 viene assassinato Giuseppe Insalaco, da pochi mesi sindaco di Palermo. Insalaco, acerrimo avversario politico di Salvo Lima e Vito Ciancimino, aveva denunciato senza esitazioni i condizionamenti che i vari comitati d’affari della città, esercitarono sulle istituzioni comunali. 6 Nemmeno 48 ore dopo è l’agente di polizia Natale Mondo ad essere ucciso a Palermo. Con una determinazione rabbiosa e crudele, i killer della mafia non perdonano al poliziotto di essere sopravvissuto all’agguato dove avevano perso la vita nell’agosto del 1985, il vice questore Nini Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. 7
Da gennaio, il 1988 scivola verso settembre, ed un nuovo triplice omicidio viene commesso nell’arco di due giorni, anche se in Sicilia in questi mesi i morti saranno a decine. Lungo la strada che da Canicattì conduce ad Agrigento, nella giornata del 25 rimangono sul terreno il presidente della Corte d’Appello di Palermo Antonino Saetta ed il figlio disabile Stefano. Il tribunale di Cosa Nostra ritiene il giudice Saetta, colpevole per aver condannato in appello i capi mafia Michele e Salvatore Greco per l’attentato a Rocco Chinnici, nonché i killer del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Questi ultimi erano stati scandalosamente assolti in primo grado, ma in seguito il processo venne annullato dalla Cassazione. Saetta inoltre, si apprestava a presiedere l’appello del maxi processo. 8

Scompare Mauro Rostagno
A Trapani, sul calare della sera  del 26 settembre 1988, viene trucidato il giornalista-sociologo dell’emittente Radio Tele Cine, Mauro Rostagno. La provincia di Trapani stava vivendo giornate terribili e dall’inizio dell’anno era salito a 16 il novero delle persone uccise dalla mafia. Nonostante il costante impegno di cronista lo portasse ad affrontare quotidianamente scottanti e delicate tematiche, Mauro non esternò a chi li era vicino nessun sospetto su quanto stava per succedergli. Rostagno aveva appena terminato il suo durissimo editoriale contro gli assassini del giudice Saetta e del figlio. Il commando lo attese in una stretta strada di periferia. La sua auto venne colpita da due scariche di fuoco, la seconda delle quali mortale. Le prime indagini furono costellate da errori, imperfezioni, negligenze, depistaggi. Nei mesi successivi si riscontrarono diversi elementi devianti creati ad arte, tutti tesi ad allontanare la sua morte dalla pista mafiosa. Si tentò di orientare la ricerca dei responsabili, nella sfera delle vendette personali, puntando il mirino nell’ambito della comunità per il recupero dei tossicodipendenti Saman, di cui Rostagno era il fondatore. Come in altre uccisioni a danno di cronisti, il delitto fu da ritenersi più preventivo che punitivo, in quanto i mandanti temevano imminenti e pericolose scoperte. Il delitto Rostagno nonostante il caso sia stato riaperto a più riprese, rimane a tutto oggi senza colpevoli proclamati da sentenze in giudicato. 9

Solo il 22 maggio del 2009, a 21 anni di distanza, le indagini condotte dai PM della DDA Antonio Ingroia e Gaetano Paci, hanno portato alle ordinanze di custodia cautelare per Vincenzo Virga, capo mandamento del trapanese reputato il mandante, e  per Vito Mazzara, ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio. Entrambi si trovavano già in carcere per altri reati legati a Cosa Nostra, il primo a Parma, il secondo a Biella. 10  Ad autorizzare il Virga nella pianificazione del delitto, fu Francesco Messina Denaro, boss mafioso morto di infarto da latitante a 70 anni, il cui cadavere pronto per la tumulazione fu ritrovato il 30 novembre del 1998. Il vecchio capo mafia di Castelvetrano, padre di uno dei latitanti attualmente più ricercati, Matteo Messina Denaro, fu per molti anni campiere nelle tenute della famiglia D’Alì. Uno dei suoi membri, Antonio D’Alì, è oggi senatore della repubblica nelle file del PDL. 11
A condurre la Squadra Mobile verso i nomi di Virga e Mazzara, è stata l’intuizione di un esperto sovrintendente di polizia. Il brigadiere avvia una serie di riscontri balistici tra i bossoli ritrovati sul luogo dell’agguato, ed altri relativi ad omicidi per mano della mafia trapanese negli anni successivi. Un uovo di colombo rimasto nell’ombra per oltre un ventennio.  La polizia pur non ritrovando le armi che hanno sparato, ha accertato identiche striature lasciate dall’arma sui proiettili, nelle fasi di esplosione e sovraccaricamento. Ad uccidere Rostagno furono gli stessi fucili e pistole con cui il killer trapanese Vito Mazzara regolò conti in sospeso nelle faide di Partanna e Valle del Belice, oppure riparò offese di varia entità verso figure più o meno modeste dell’universo mafioso. Anche le modalità operative dei crimini erano le stesse. A sparare sempre tre persone, che agivano a bordo di una Fiat Uno sistematicamente incendiata e poi abbandonata dopo i delitti. A completare le indagini, le dichiarazioni dei pentiti Milazzo, Patti, Sinacori, Brusca, tutte corredate di riscontri. Vincenzo Sinacori pentito di Mazara, indica in Francesco Messina Denaro, colui che ordinò a Vincenzo Virga di sbarazzarsi di Mauro Rostagno.
Finalmente la giustizia italiana riconosce la pista mafiosa come l’unica esistente. 12

In luogo di responsabili accertati, per molti anni sarà una serie di credibili ipotesi legate a verosimili moventi a condurre verso le inchieste che il giornalista stava realizzando. Dopo l’omicidio scompaiono una video e una audio cassetta, sulle quali Mauro aveva posto la scritta “non toccare”. Nella prima, secondo colleghi e familiari, Rostagno avrebbe fissato le immagini di manovre non ufficiali da parte di funzionari dell’esercito presso un aeroporto semi sconosciuto del trapanese, un impianto utilizzato anche da Gladio. L’aeroscalo era sospettato quale teatro di incontri tra esponenti mafiosi, dei servizi segreti, massoni e politici. Gli affari illeciti ivi legati, spaziavano dal traffico internazionale di armi a quello di scorie chimico radioattive. A monte, una intricata confluenza di interessi, che travalicava oceani e continenti. La città di Trapani era poi sospettata di ospitare una centrale operativa strategica dove massoneria, destra eversiva e servizi segreti, ospiti di boss mafiosi, gestivano flussi illeciti di sostanze, denaro e informazioni. Attraverso la odierna ricostruzione degli investigatori inoltre, il 1988 anno dell’omicidio Rostagno, segna il passaggio della mafia trapanese da pura potenza militare a vera forza imprenditoriale. Sotto l’egida dei Messina Denaro prendeva vita il tavolo degli appalti a cui si accomodavano uomini d’onore, politici ed imprenditori. Un sistema che vedrà negli anni avvicendarsi nomi e volti, ma che tuttora resta operoso secondo le stesse dinamiche.
Meccanismi che gli amici di Mauro hanno da sempre denunciato, spesso inutilmente, e anche quando singoli funzionari dello Stato prestarono loro attenzione, il “tempestivo” intervento di altri “colleghi” riconduceva il caso sui binari del silenzio.

Secondo la testimonianza di Alessandra Faconti, una delle collaboratrici di Rostagno, nelle settimane precedenti l’omicidio il giornalista gli avrebbe rilasciato alcune confidenze al riguardo delle indagini che stava svolgendo. L’oggetto era il traffico di armi e droga che coinvolgeva le famiglie di Marsala e Mazzara del Vallo. Cosa Nostra era implicata nella transazione di armi che dal Medio Oriente giungevano dal Nord Africa fino alla Sicilia, per poi essere smistate via aereo verso l’est Europa, o con opportune varianti, venivano in altre occasioni ripiegate verso la Somalia. Sempre la Faconti, più o meno nello stesso periodo, dice di essersi recata dal giudice Falcone per conto di Rostagno. Sul tema dell’incontro che pare confermato da un collaboratore del magistrato, ha sempre regnato poca chiarezza. Si può solo aggiungere che quando Falcone lasciò Palermo per trasferirsi a Roma, avvenne all’indomani di un furente scontro con l’allora procuratore capo Giammanco, il quale secondo diverse versioni, non voleva che il magistrato proseguisse un filone di indagini che conducevano a Gladio e ad un oscuro traffico di armi.
Nelle svariate ramificazioni imboccate dalle inchieste mosse nella riapertura del caso Rostagno a diversi anni di distanza, compare anche il nome di Elio Li Causi, funzionario del Sismi che venne ucciso in Somalia nel 1993. Li Causi, secondo la versione ufficiale, venne ammazzato da proiettili vaganti nel corso di un attacco da parte di una banda di predoni, proprio come la giornalista Ilaria Alpi, anche essa assassinata in Somalia  proprio in relazione alle sue indagini in merito al traffico di armi e di scorie nucleari. 13

Coincidenze?

Probabilmente no.

L’autentica espressione di giornalismo senza fronzoli e di sostanza espresso da Rostagno, in grado di raccontare i crimini di Cosa Nostra trapanese e dei potenti a lei legata, in forma diretta e con un linguaggio fruibile a tutti, costituiva una spina nel fianco non più tollerabile. Le denunce quotidiane lanciate dalla tv o dalla carta stampata si fondevano ad un mare di informazioni raccolte in suo possesso
La cassetta audio scomparsa insieme a quella video, costituivano una sorta di diario dove il cronista registrava nomi, luoghi, date, impressioni.
Mauro Rostagno con molte probabilità muore quindi per tutti questi moventi e forse per altri ancora, tanti quanti le entità che si intrecciavano nelle domande a cui cercava di fornire delle risposte. Tutti indissolubilmente legati a doppio filo al denaro e al potere.


Paolo Borsellino esce allo scoperto
Mentre le armi da fuoco mafiose riprendono a seminare morte, l’ufficio istruzione processi di Palermo è oggetto di una profonda opera di ristrutturazione da parte del nuovo direttore Antonino Meli. Dinanzi a tutto questo, Paolo Borsellino che già dalla fine del 1986 si era trasferito a Marsala quale procuratore Capo della Repubblica, rompe il silenzio su quanto sta avvenendo dietro alle quinte della giustizia italiana. La sua intervista al quotidiano “La Repubblica”, del 20 luglio 1988, ottiene l’effetto di una deflagrazione che scuote il palazzo della magistratura. In quelle parole Paolo fuse tutta la sua fermezza, l’onestà intellettuale, e secondo il giudice Ayala anche “…le palle…”. Secondo Borsellino si stavano perpetrando evidenti tentativi di smantellare in via definitiva il pool antimafia, con l’effetto di creare un vuoto nella lotta alla mafia che riportava la situazione indietro di quasi venti anni. “…Il giudice Falcone”, prosegue Borsellino, “…non è più il titolare delle grandi inchieste che iniziarono con il maxi processo, la polizia non sa più nulla dei movimenti di Cosa Nostra…”. 14
 La strategia investigativa subisce un netto distacco con l’era del pool. Oggi tutti si occupano di tutto e le inchieste, prima accentrate su Palermo, vengono ora sminuzzate in più tronconi smarrendone la visione d’insieme, proprio come accadeva venti anni addietro. Il procuratore di Marsala etichetta tutto questo con un “…succedono cose molto strane…”. Nel ricordare a tutti come l’ultimo dossier di mafia degno di tale nome, risalisse a ben sei anni prima, sottolinea come egli si sia trasferito a Marsala non per isolarsi, ma per continuare a combattere la mafia, e motiva la scelta di uscire allo scoperto e denunciare queste cose, con “…perché dopo tanti anni di lavoro, prigioniero del bunker di Palermo…tutto questo non sembra più possibile…e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata, come e più di prima.”. 15

Le dimissioni di Falcone, poi ritirate
Le parole di Borsellino erano al calor bianco, ma in luogo della attesa e risentita reazione di chi era stato chiamato in causa, vi fu un generale silenzio. Nessuna reazione da parte di un CSM, dove pareva che nessuno leggesse “La Repubblica”. Fu necessario l’intervento del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che intimò ai ministri di Interni e Giustizia, chiarimenti su quanto espresso da Borsellino. Solo allora il CSM anticipò tutti, approvando un documento che votato dalla maggioranza dei consiglieri, reputava infondate le accuse di Borsellino.
Giovanni Falcone che aveva commentato l’azione dell’amico come “Un errore, un generoso errore…”, rimane vittima di inevitabili e fortissime pressioni, in risposta alle quali inoltra lettera di dimissioni al presidente del tribunale di Palermo. Falcone motiva il suo gesto come una conseguenza delle divergenze sulla conduzione della gestione delle istruttorie antimafia. Una scelta sulla quale non pesò la sua mancata nomina, nonostante le infamanti calunnie e la campagna denigratoria mosse nella sua direzione in quella occasione. La decisione è il risultato di riflessioni profonde, condizionata da quella che fu una collettiva manovra strumentale, tesa a stravolgere il senso di ogni denuncia mossa dai protagonisti dell’era del pool.
Giovanni sostiene appieno le parole di Borsellino, “…della cui amicizia mi onoro…”, sottolineandone la forza, il senso dello Stato ed il coraggio: “…le omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso sono sotto gli occhi di tutti…”. 16
 
Il giudice che il mondo intero ci invidiava, chiede di essere trasferito in quanto non può più tollerare ciò che i suoi occhi vedono ogni giorno: uno Stato che ha deciso di non combattere più la mafia con le armi che l’avevano messa in ginocchio; un ambiente giudiziario munito di una tale bassezza morale, da escogitare continui pretesti diffamatori e strumentali per isolare chi quegli strumenti li aveva creati.
Ciò nonostante, generando forse maggiore sorpresa delle attese e per alcuni sperate dimissioni, alcuni giorni dopo Falcone torna sui suoi passi, ritirando la domanda di trasferimento. Le motivazioni del suo dietro front furono oggetto di malignità, chiarite apertamente solo alcuni anni dopo, a morte avvenuta, e sarà ancora una volta Paolo Borsellino a parlare, pochi settimane prima della sua scomparsa. Nel corso di una dichiarazione pubblica a Palermo del 25 giugno 1992, a riguardo della sua intervista a “La Repubblica”, il magistrato disse che Giovanni aveva ritirato le sue dimissioni per gettare acqua sul fuoco e raffreddare lo scontro con il CSM. Attrito che con ogni probabilità avrebbe condotto alla perdita del posto per Borsellino stesso, quale viatico ad un successivo attacco a Falcone. Si trattava di un estremo gesto per non fornire ulteriori pretesti ai tanti nemici in agguato nel palazzo, perché come aggiunse Borsellino, se “…il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio…”.  17

La “normalizzazione”
La manovra di isolamento a Giovanni Falcone si completò quando sempre nell’estate del 1988, il governo nominò Domenico Sica quale nuovo alto commissario per la lotta alla mafia. Sica proveniva da Roma e alla cerimonia di insediamento esordì con: “La mafia? Sono qui per capire cos’è. Nei primi tempi ascolterò molto.” 18
Per quanto onesto e umile fosse l’approccio, non vi erano figure alternative per quella carica, che la mafia già la conoscessero a dovere?

Un governo intento a servire al meglio le istituzioni forse le avrebbe individuate, senza il bisogno di cercarle nemmeno tanto lontano. Il punto è che il termine “emergenza mafiosa”, così ipocritamente sfruttato dal mondo politico, rappresenta una corbelleria monumentale. Non si può definire una emergenza centocinquanta e più anni di attività di una organizzazione criminale. E’ lo Stato a scegliere il frangente in cui la mafia si tramuta in allarme nazionale, e quasi sempre questo coincide con l’uccisione di un suo alto rappresentante, o quando un eccessivo numero di cadaveri che riemergono nelle strade scuote l’opinione pubblica. Solo in quel istante a tutte le voci dell’antimafia viene data credibilità e spazio, ed il coro istituzionale parla all’unisono di emergenza da combattere. Terminata la stagione si ritorna alla normalità, e tutti coloro che Cosa Nostra l’hanno combattuta da sempre, dentro e fuori la presunta emergenza, diventano voci fuori dal coro da zittire, perché moleste e noiose. Gli interessi mafiosi necessitano di silenzio e tranquillità per essere proficuamente coltivati. Secondo questa filosofia, così apertamente illustrata da più segnali, uomini come Falcone avevano esaurito il loro compito. Come la definisce Ayala, era giunto il tempo di una “normalizzazione” della guerra alla mafia. 19

La polizia: un malato in gravi condizioni
L’elemento più indicativo di questo processo, come ripetutamente evidenziato dagli interventi di Falcone e Borsellino, traspariva dalle condizioni in cui gravava la polizia. Poteva mascherarsi da comune inefficienza, ma dietro si celava una volontà politica. Un episodio al riguardo, più sintomatico di altri della nuova strategia antimafia, fu costituito dal trasferimento di Saverio Montalbano, dirigente della Squadra Mobile di Palermo. Il poliziotto era a capo delle indagini sulla morte del sindaco Giuseppe Insalaco, assassinato nel gennaio di quel anno. Era stato rinvenuto una specie di diario della vittima, contenente precise annotazioni dell’intreccio mafia politica, e Montalbano stava ripercorrendo le tracce di un così prezioso memoriale. Quando all’inizio di agosto il settimanale l’Espresso, usci con una inchiesta sulla vicenda, divenne di pubblico dominio che l’investigatore stava indagando su nomi, luoghi e date che coinvolgevano le lobbies politico economiche della città in affari mafiosi.
Non furono poche le poltrone che iniziarono a tremare, al cospetto di una situazione potenzialmente così pericolosa, ma vi fu chi, in possesso del dovuto sangue freddo, seppe trovare la soluzione al problema. Montalbano venne bruscamente mandato in ferie, ma al suo rientro dal periodo di riposo trovò il suo l’ufficio occupato da altri. Solerti dirigenti della polizia avevano nel frattempo predisposto la sua dislocazione ad un meno in vista commissariato di provincia.
Un secondo esempio fornito dal processo di normalizzazione toccò una altro funzionario, il dottor Francesco Accordino, protagonista quale dirigente della squadra omicidi, della fulgida stagione di successi degli arresti in serie. Egli si permise di affermare, in una intervista rilasciata ad Ennio Remondino del TG1, di nutrire fondati sospetti su più funzionari della questura che, invece di combattere la mafia, si impegnavano a soddisfare le normalizzanti esigenze censorie di figure altolocate. Bastarono poche parole in questa direzione, per rendere il glorioso curriculum di Accordino carta straccia, destinandolo alla guida del commissariato di polizia postale di Reggio Calabria. (20)

Clima irrespirabile nel palazzo di giustizia
All’interno del palazzo di giustizia di Palermo l’atmosfera si è resa settimana dopo settimana sempre più irrespirabile. Antonino Meli non perde occasione per polemizzare con Falcone e gli altri magistrati rimasti dell’era del pool, manifestando un livore a volte inspiegabile. Il CSM dal canto suo, usa ogni appiglio per mettere in mostra il suo volto più politicizzato, schierandosi con Meli e scagliando attacchi pretestuosi verso le medesime procedure che avevano segnato la stagione dei successi. Si delinea un fronte della stampa nazionale inoltre, puntualmente attento ad accompagnare il potere politico nel elogiare questi provvedimenti verso quei magistrati che vengono additati di “Maccartismo giudiziario”. La grave macchia di cui si erano sporcati questi uomini, consisteva nell’ostinarsi a concepire la professione di giudice come la sola via per combattere gli affari mafiosi con risolutezza e rapidità. Giungono le formali dimissioni dal gruppo di Peppino Di Lello e Giacomo Conte, aggregatosi al pool successivamente. Con un chiaro “Non sono un uomo per tutte le stagioni…e la stagione è diventata un’altra e non mi piace…”  21, Di Lello motivò ad Ayala la sua decisione. L’avventura per un intero gruppo di lavoro era per parola di Ayala “…miseramente quanto irrimediabilmente finita…”. Lo Stato aveva deciso di arrestarsi nell’istante preciso in cui dopo oltre un secolo stava registrando i successi più importanti…
E anche qui nel fornire una spiegazione, Giuseppe Ayala è categorico:”Perché la mafia, lo Stato, ce l’aveva dentro!”. 22

L’assenza di un superiore interesse generale
La forza della mafia risiede anche nel saper cogliere al volo favorevoli condizioni ambientali. Una politica impegnata a non perdere i cospicui affari derivanti dall’assegnazione dei miliardi provenienti dagli appalti pubblici, o una magistratura ancorata ad un sistema che scandisce l’avanzamento in carriera anche solo grazie all’anzianità, sono elementi di per se non collegati, ma divengono fattori che se convergenti finiscono con il creare i presupposti  allo sviluppo di Cosa Nostra. Se uomini come Falcone poi, sono ostacolati ed isolati, anche o solo per aver minacciato questi fenomeni culturali, il servigio fatto alla mafia è già di per sé incommensurabile.
Una sentenza della Corte di Cassazione giunse anni dopo nel 2004, la numero 826 del 19 ottobre, e affrontò questo tema recitando testualmente: “Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone, certamente il più capace e famoso magistrato italiano…fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all’interno delle istituzioni) tendenti ad impedire che egli assumesse quei prestigiosi incarichi…i quali dovevano essere a lui conferiti per essere egli il più meritevole, sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi si era indiscutibilmente dimostrato il più bravo, il più preparato e che offriva le maggiori garanzie…anche di assoluta indipendenza e coraggio nel contrastare, con efficienza ed in profondità l’associazione criminale…”. 23

La auto denunciata anche da Borsellino nei suoi primi quarant’anni,“colpevole indifferenza”, propria dell’era pre-pool antimafia, si è evoluta nel corso di circa un decennio in una “assenza di superiore interesse generale”. In mezzo una scia di sangue e trionfi, che oggi in tanti si affrettano a normalizzare, pronti ad azzerare i conti, desiderosi di lasciarsi alle spalle brutti momenti da ricordare. In troppi sono impegnati a curare interessi di parte o di fazione, patologia del resto insita da sempre nel patrimonio genetico della nostra politica nazionale. Tra questi non tutti sono i collusi. Alcuni sono semplici strumenti al servizio di Cosa Nostra, a volte senza nemmeno accorgersi di esserlo, manipolati a dovere da un sistema in grado di isolare le reali minacce e abbagliare i meno acuti.
 
Note

1, (2), 3, 14, 15, 16, 17, 18, 19, (20), 21, 22, 23, Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “L’uomo giusto” – pagine 161…176

4, 5, Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “La partita truccata” – pagine 97…103

6, 7, 8, Fonte “digilander.libero.it/inmemoria/delitti_dell_mafia”

9, 13, Fonte “Gli insabbiati” – Luciano Mirone – Edizioni Castelvecchi – 2° edizione maggio 2008 – capitolo “Mauro Rostagno” pagine 327…438

10, 12, Fonte “Adnkronos” 23 maggio 2009-12-04

11, Fonte “www.liquida.it/francesco-messina-denaro”


 

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