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Medio Oriente » I Diritti dei rifugiati palestinesi 3° parte  
 
 

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I DIRITTI DEI RIFUGIATI PALESTINESI
RICORDO DI UN MASSACRO

di Mirca Garuti

(terza parte)

 


Gli appuntamenti politici della delegazione proseguono con l’incontro del leader della comunità drusa, Walid Jumblatt. E’ presentato da Kassem Aina, referente del comitato in Libano, come amico da sempre dei palestinesi e prosecutore del messaggio politico di suo padre, Kamal.
Il discorso iniziale di Jumblatt è breve; riconosce che la vita, nei campi profughi palestinesi, deve essere migliorata ed è necessario fare pressione affinché l’Unrwa (agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza dei profughi palestinesi) riprenda a svolgere il suo compito perchè, negli ultimi anni, il suo aiuto verso i profughi è molto diminuito. Il leader druso preferisce dare subito la parola ai componenti della delegazione. Le domande che si susseguono toccano tutti gli argomenti che riguardono la situazione attuale e futura dei palestinesi e libanesi.

Jumblatt parla della legge sul diritto al lavoro e dell’assistenza sociale che, grazie anche all’appoggio del suo partito, ha avuto l’approvazione del Parlamento Libanese.
“Ogni palestinese può accedere a qualsiasi lavoro tramite la richiesta di un permesso – risponde - ma, non bisogna dimenticare che restano ancora escluse ai palestinesi 63 professioni. In Libano esiste un sentimento di razzismo nei confronti dei palestinesi. Non siamo stati capaci di promuovere una legge sul diritto alla proprietà perché su questo problema esiste una divisione netta. Il Parlamento è questo e queste sono le sue decisioni. Ci sono arabi che hanno case e terreni, senza vivere qui, mentre i palestinesi che sono qui, non possono avere niente, è triste, ma è così”.
Sulle trattative di pace non ha molte speranze: ”Come si fa a credere alla creazione di uno stato palestinese, quando c’è un governo di destra israeliano, guidato da Netanyahu, che non è disposto nemmeno a congelare i nuovi insediamenti?”
La discussione ritorna sulle condizioni di vita dei palestinesi in Libano che, nell’attesa di un possibile ritorno alle loro terre d’origine, devono migliorare e diventare dignitose, nonostante ci sia un sistema confessionale molto difficile, dove i partiti della destra hanno sempre osteggiato i palestinesi.
Si parla, inoltre, della difficile ricostruzione del campo di Nahr El-Bared per i problemi sempre legati alla mancanza del diritto alla proprietà e del lavoro: “Situazione difficile e pericolosa per il Libano, dipende da una decisione politica ed economica, ma, la comunità internazionale deve anche cominciare a pagare quello che gli compete, conclude Jumblatt”.
Il dialogo si sposta sulla situazione riguardante la democratica interna libanese ed il suo sistema elettorale.
La concessione di voto sotto i 21 anni è una prospettiva molto remota, in quanto esiste un blocco totale dalla parte cristiana. Questa modifica porterebbe ad un gran cambiamento in ambito elettorale all’interno delle forze politiche perché i giovani, essendo principalmente figli di musulmani, andrebbero ad aumentare la divisione esistente, mettendo in minoranza la parte cristiana, considerando che, dall’ultimo censimento libanese, i cristiani rappresentano solo il 30%.
“Noi siamo solo un piccolo gruppo, ma il Libano rimarrà sempre diviso tra queste differenze”, così ripete Jumblatt, chiudendo il discorso.
Ritorna anche il caso “Hariri”.
“Le accuse – continua Jumblatt – prima sono state tutte rivolte alla Siria, mentre ora sono verso il movimento di Hezbollah. Noi abbiamo chiesto un tribunale internazionale per fare chiarezza, per avere una giustizia, ma, sembra quasi che ci sia, dietro a tutto questo, un gioco manovrato dall’esterno per far cadere le responsabilità sul territorio libanese. Bisogna cercare i responsabili, guardare ovunque, perché non potrebbe essere stato anche lo stesso Israele? “
Il tema della resistenza non poteva non essere trattato: “Non si può smobilitare la resistenza – sostiene Jumblatt – la resistenza deve continuare”.
Infine, alla richiesta di una probabile disponibilità ad offrire i propri porti a navi dirette a Gaza, Jumblatt, risponde, con molta fermezza, che tutte le forze politiche libanesi hanno preso insieme la decisione di non inviare nessuna nave, perché la spedizione potrebbe essere intesa come una dichiarazione di guerra, in quanto il Libano, dal 1948, è in guerra con Israele.
A questo punto, Stefania Limiti, come responsabile del Comitato, ringrazia il leader druso per aver ospitato la delegazione italiana a casa sua, sottolineando che i membri del comitato chiedono solo la garanzia della sua volontà politica di stare vicino al popolo palestinese.
      

Giovedì 16 settembre, anniversario dell’inizio del massacro di Sabra e Chatila (16-18 settembre 1982), il Comitato incontra Sheick Nabil Kaouk, responsabile Hezbollah del Libano meridionale.

“In nome di Hezbollah e della resistenza vittoriosa nel sud del Libano, porgo a voi e all’amico Stefano Chiarini, i nostri saluti – inizia così il discorso Sheick Nabil - oggi è una giornata triste per tutta l’umanità, è l’anniversario del massacro di Sabra e Chatila. Sabra e Chatila è una ferita aperta che continua a sanguinare. Nessuno ha pagato per quel massacro. Mi trovavo a Beirut nel 1982, ho visto l’attacco, ho visto, anche, alcuni libanesi partecipare a quel massacro. I misfatti di Sharon e Begin sono ben conosciuti, quei libanesi complici sono ben conosciuti, sappiamo chi sono, ma non sono mai stati accusati o processati. Se non riusciamo a portare Sharon e Begin davanti ad un tribunale, dobbiamo trovare quei libanesi complici e condannarli. Tutti quelli che hanno partecipato al massacro sono complici e vanno processati. Sono più di sessant’anni che i Palestinesi sono massacrati e la comunità internazionale sta a guardare senza aiutare nemmeno un profugo”.
I negoziati, per il responsabile Hezbollah, sono illusioni, non portano a niente, servono solo ad anestetizzare il popolo. Al popolo palestinese rimane una sola strada da percorrere: “Quella della strategia della resistenza, che ha dato la sua prova di vittoria sia nel sud del Libano e sia a Beirut”.
Conclude la prima parte del discorso affermando che Hezbollah sta subendo una grande campagna di minacce proprio per il suo appoggio alla causa palestinese, ma, non per questo, abbandoneranno i loro fratelli palestinesi.
L’impegno e la presenza costante del comitato sono molto apprezzati da Sheick Nabil che lo definisce “Una candela che illumina tutto il mondo”.

Le domande si concentrano sul disarmo di Hezbollah e sui diritti civili dei palestinesi.
“Il partito Hezbollah è armato perché si deve difendere - risponde Sheick Nabil – ogni volta che succede qualcosa, si ripresenta il problema del possesso delle armi. Abbiamo sempre avuto armi, occorre però chiedersi perché si devono usare, non da chi provengono. E’ dal 1982 che subiamo queste campagne pianificate da forze internazionali, ma, la nostra resistenza continuerà. Il nostro obiettivo è quello di prepararci contro qualsiasi aggressione”.
Sui diritti civili palestinesi, afferma che prima di tutto il problema dei profughi è una questione umana, morale e poi politica e confessionale.  In Libano, però, qualsiasi cosa assume un aspetto religioso.
“Hezbollah – sostiene ancora Sheick Nabil – è al servizio dei palestinesi. E’ stato il primo partito che ha cercato di dare diritti al popolo palestinese. Tutto questo è una vergogna per tutta l’umanità. Noi siamo portatori di una strategia che porterà i palestinesi alla loro terra. Vogliamo anche noi l’unità palestinese, mi spiace dover affermare che la causa palestinese è assediata a livello arabo, internazionale ed israeliano. Non stiamo sognando, ma ci stiamo preparando al giorno della vittoria”.

     

 

Stefania Limiti, nel suo discorso, sottolinea due importanti momenti provati dal comitato in questa settimana trascorsa in Libano. Un tempo di dolore per l’impossibilità di dare, ai familiari delle vittime, la giustizia che chiedono da sempre, mentre, invece, può solo offrire la solidarietà e l’impegno di essere sempre al loro fianco nella lotta per i mancati diritti.
Un tempo di speranza, invece, è rappresentato dall’incontro, molto atteso ed importante, di tutte le forze che rappresentano la resistenza del popolo palestinese. “Il primo momento – prosegue Stefania - ci spiega cosa significa la preoccupazione e la prepotenza del sionismo, il secondo, invece, c’insegna come contrastare quel pericolo. In occidente si parla della Palestina disumanizzando i palestinesi e, la resistenza diventa così il primo pericolo per le democrazie di tutto il mondo”. Stefania dichiara, inoltre, che il comitato rappresenta quella parte che non è d’accordo con “quell’occidente”, ma crede invece sia proprio il sionismo il pericolo più grande della nostra democrazia.
“Siamo quella parte – spiega Stefania - che crede che le uniche possibili trattative per la Palestina sono quelle del ritiro delle truppe militari d’occupazione dai territori occupati. Crediamo nel diritto alla resistenza dei popoli. Veniamo qui ogni anno per ricordare che senza il diritto al ritorno non c’è una speranza di pace e veniamo qui perché qui c’è un pezzo di Palestina e vogliamo così essere al fianco del popolo palestinese”. 

    


La delegazione riparte in direzione del carcere di Khiam verso il confine con Israele.

Khiam era il centro di detenzione e di interrogatori che Israele aveva costruito ed utilizzato durante la sua occupazione nel sud del Libano, dal 1982 al 2000. Venivano qui rinchiusi i militanti della resistenza libanese e palestinese. Arrivavano incatenati, incappucciati e narcotizzati per essere poi interrogati.
Torturati più che interrogati. Venivano denudati, legati, messi a testa in giù, picchiati ed applicati elettrodi alle dita, ai genitali ed ai capezzoli. I miliziani cristiani dell’ELS (Esercito del Libano del Sud), alleato degli occupanti, avevano appreso queste tecniche da Israele. Il 23 maggio 2000, quando l’esercito israeliano si ritirò, le guardie dell’ELS, fuggirono e la popolazione locale fece irruzione nel carcere, liberando i centoquaranta prigionieri rimasti.
La prigione da luogo di detenzione divenne in seguito un museo, un monumento alla memoria. Un luogo dedicato al ricordo di quelle atrocità per rendere conto di come questa “segreta” prigione fosse sempre stata fuori dai controlli e dalle norme internazionali.
Questa struttura era amministrata dal partito degli Hezbollah, il partito di Dio.

Stefano Chiarini in un articolo pubblicato da “Il Manifesto” il 24 giugno 2000, scrive: “Passati due cortili nei quali i prigionieri appena arrivati venivano picchiati sotto il sole o al freddo della notte per giorni e giorni, si entra in un dedalo di corridoi sui quali si affacciano decine di celle. Tutto è piccolo, angusto e sporco con un insopportabile puzzo di urina. Ibrahim, quarantacinque anni di cui cinque passati nel carcere di Khiam, in questo terribile luogo di detenzione, è tornato a visitare la cella di 4 metri quadrati che ha diviso per cinque anni con altri quattro suoi compagni e, come molti altri ex prigionieri, si è trasformato in una sorta di guida agli orrori del carcere e alle gesta della resistenza "nazionale" libanese. "In una cella così - ci dice Ibrahim indicando una stanzetta oscura, attraversata dai fili con la biancheria dei prigionieri rimasta lì appesa come ogni altra cosa, dove si trovava la mattina della liberazione - eravamo in cinque. Avevamo circa 10 minuti d’aria ogni 48 ore in quel cortiletto lì accanto con il tetto di sbarre di ferro coperte da filo-spinato e la possibilità di fare una doccia una volta al mese. Come cibo, cinque olive a testa e tre uova sode al giorno da dividere tra noi". "Ma tutto ciò era sopportabile rispetto ai pestaggi dell'arrivo, alle torture con la corrente elettrica fatte sotto la supervisione degli "esperti" israeliani e a mesi e mesi nelle celle di punizione di un metro e mezzo per due, sempre al buio, dove non ci si poteva neppure stendere. Un vero inferno"
La stanza per le torture, piena di tavoli polverosi e sedie rovesciate con alle pareti delle griglie di ferro e sul soffitto dei ganci per appendere i prigionieri, si trova in uno dei torrioni d'angolo. In queste stanze non sono passati soltanto i militanti della resistenza islamica ma anche decine e decine di combattenti del PC libanese, molto attivo nella resistenza fino ai primi anni novanta e tanti giovani della zona colpevoli solamente di non aver voluto arruolarsi nelle milizie dell'Esercito del Libano Meridionale”.

Oggi tutto questo non esiste più. Dopo la guerra del 2006 è rimasto solo un cumulo enorme di macerie.

    

  


Nel settembre 2006 il comitato per non dimenticare Sabra e Chatila incontra, su queste macerie, il responsabile Hezbollah del Sud del Libano, Sheick Nabil Kaouk.
Queste sono le sue parole: “Questo carcere rappresenta la violenza d’Israele. Qui venivano torturati i nostri combattenti ed i prigionieri libanesi. Colpire questo carcere significa quindi voler cancellare le tracce di tutta quella violenza. I nostri giovani hanno condotto una grande resistenza contro Israele che ha attaccato il Libano usando armi proibite dalle convenzioni internazionali. Israele ha distrutto case, ponti, ucciso persone, ma, non la nostra determinazione di vivere. Grazie alla resistenza, il piano degli Stati Uniti e d’Israele è stato bloccato, volevano eliminarci, ma noi oggi siamo ancora più forti, volevano disarmarci, ma noi conserviamo ancora le nostre armi, infine volevano respingerci oltre il fiume Litani, ma noi siamo sempre presenti a ridosso del confine con Israele”.

Oggi, come negli scorsi anni, il comitato è ancora presente e non dimentica questi luoghi di memoria, come il partito Hezbollah non dimentica Stefano Chiarini, giornalista de “Il Manifesto” e fondatore del comitato.

    



Lasciato il carcere di Khiam, la delegazione si dirige verso Fatima Gate, il confine con Israele.
Non è possibile scendere dal pulman e neppure scattare fotografie.


La giornata termina con la visita al museo della resistenza di Mlita, inaugurato da Hezbollah il 21 maggio scorso.
Mlita rappresenta il luogo dove è nata e si sono svolte le più grandi operazioni di resistenza contro l’occupazione israeliana dal 1982 al 2000. La storia della resistenza è così diventata arte. Hanno collaborato a questo progetto circa 500 persone con circa 150mila ore di lavoro. Il museo occupa circa 60mila metri quadrati di superficie. Inizia da un fossato di circa 3000 metri quadri, chiamato “Abisso”, che rappresenta la sconfitta d’Israele, formato da armi, veicoli e carri armati. Vicino c’è la sala “L’esibizione” dove si trovano i vari equipaggiamenti militari israeliani. La seconda zona è chiamata “Il sentiero”, un percorso dentro una foresta con le varie postazioni dei combattenti. Al termine del “sentiero” si trova la “grotta”, una caverna costruita dagli stessi combattenti per rifugiarsi durante i bombardamenti, dove si trovano cucine, stanze da letto e varie armi.
Mlita è il museo realizzato per invitare a comprendere, di generazione in generazione, il valore della resistenza contro ogni occupazione.

  

     

Dopo la consueta riunione nella sala stampa libanese di tutte le delegazioni presenti per ricordare la strage di Sabra e Chatila, quella italiana incontra il responsabile internazionale del partito politico Hezbollah, Ammar Musawi.
L’argomento principale è Israele e la sua continua arroganza nel continuare a commettere qualsiasi azione senza mai renderne conto. Nessun tribunale internazionale ha mai condannato l’occupazione israeliana ed i suoi collaboratori.
Musawi non ha nessuna fiducia verso le trattative in corso tra Israele e Palestina: “Non siamo di fronte ad un risveglio delle coscienze – dice - in realtà manca la determinazione di trovare una soluzione e, purtroppo, non sono i primi negoziati e non saranno nemmeno gli ultimi”.
“Dove sono le buone intenzioni? – prosegue Musawi – Israele continua la costruzione di nuovi insediamenti, l’obiettivo non è raggiungere una pace, Obama ha bisogno, in questo momento difficile, di avere una buona immagine mediatica, quindi, le trattative continuano, come la speranza, da 40anni. La resistenza è considerata un ostacolo per la pace, ma la resistenza si è resa necessaria per la delusione delle masse arabe, di fronte alle continue promesse mai realizzate. Noi chiediamo alle grandi potenze di cessare la colonizzazione di altre parti del mondo, noi possiamo essere amici, ma non seguaci”.
Musawi richiama poi l’attenzione della delegazione verso il problema, sempre molto discusso, dell’olocausto. Rimarca la condanna, da parte del suo partito, per l’uccisione d’innocenti a prescindere dal numero delle vittime e domanda: “L’olocausto è successo in Europa, perché ne dobbiamo pagare noi le conseguenze? Perché non si può discutere su quello che fa Israele senza essere accusati di antisemitismo? Questa è un’usurpazione mentale! Non può essere una scusa per poter uccidere altre persone, non c’è giustificazione, Israele parla sempre di autodifesa, ma da chi si deve difendere?”. “Hezbollah è un avversario di Israele – continua – siamo sulla lista del terrorismo americano da 20anni, non abbiamo paura”.
La discussione, a questo punto, prosegue sull’assassinio di cinque anni fa del primo ministro Rafiq Hariri. Omicidio, come già sentito dire in altri incontri politici, avvenuto in un momento molto critico per il Libano. In un primo momento la responsabilità è caduta sulla Siria, senza nessuna prova, ed ora la sua imputabilità è verso il partito Hezbollah.
“Abbiamo capito – dice ancora Musawi – che questo assassinio sarà utilizzato per altri motivi politici. Ma perché l’assassinio di una sola persona merita il tribunale internazionale? Decine di migliaia di palestinesi e libanesi hanno il diritto di avere un tribunale internazionale, come per esempio, le vittime di Sabra e Chatila, Gaza, Kana… siamo di fronte ad una giustizia internazionale molto sproporzionata! L’accusa contro Hezbollah è motivata dalla nostra resistenza contro Israele e, quindi, siamo un avversario degli Stati Uniti e di quella parte di Occidente che appoggia Israele. Molti sono stati i tentativi di farci passare come un partito d’assassini e non di resistenza, siamo determinati a riaffermarci come un partito di resistenza e lanciamo una sfida a chiunque pensi di poter trovare anche una sola prova contro di noi. Abbiamo combattuto un esercito che stava occupando la nostra terra, ci siamo autodifesi. Se questo è il concetto di giustizia internazionale, è miserabile come risposta e, le accuse contro Hezbollah, servono solo a creare un solco tra i palestinesi. E’ un tentativo per dire ai sunniti libanesi che gli sciiti hanno assassinato il loro leader, è un invito quindi alla lotta tra le due confessioni. Noi vogliamo sapere chi ha ucciso Hariri, ma questo non deve essere strumentalizzato dalla politica. Rafik Hariri è stato ucciso cinque anni fa, la commissione d’inchiesta ha ascoltato tantissime persone, ma non Israele. Israele ha invaso tante volte il Libano, ha creato collaborazionisti, ci sono state uccisioni di uomini politici, ma nonostante tutto questo è sempre stato sollevato da ogni sospetto”.

    


I componenti della delegazione chiudono l’incontro porgendo a Musawi alcune domande che riguardano l’unità palestinese, una nuova probabile guerra, il diritto al ritorno, lo stato unico palestinese ed il movimento “terroristico” Hezbollah.

Musawi risponde invitando i suoi fratelli palestinesi ad essere più uniti perché la divisione rappresenta solo un punto di debolezza.
Una nuova guerra? Non esclude niente Musawi perché Israele può fare qualsiasi cosa, ma, considerando il periodo difficile che sta attraversando l’America, forse, il pericolo di un nuovo conflitto non è imminente.
Il diritto al ritorno è un diritto sacrosanto e qualsiasi passo che si fa per neutralizzarlo è un tradimento verso la causa palestinese.
Musawi ammette che l’idea di uno stato unico è buona, ma richiede la fine dello stesso progetto sionista. “Si deve distinguere il popolo ebreo dal progetto coloniale d’Israele. Gli ebrei hanno sempre vissuto bene con gli arabi, non sono mai stati perseguitati dall’Islam, ma non possiamo dire che questo può essere lo stato di tutti gli ebrei del mondo, può esserlo solo per quelli che ci abitano. Israele è l’unico stato al mondo in cui si parla di diritti ai cittadini secondo solo la religione e la lingua di appartenenza”.
Per l’ultima domanda Musawi ribatte che il movimento Hezbollah è considerato terrorista solo perché si trova sulla lista nera americana. Molti stati seguono le indicazioni statunitensi, infatti, anche l’ambasciata italiana in Libano non ha contatti con Hezbollah. Una parte del popolo italiano è schierata per la pace e per la causa Palestinese, mentre il suo governo sta con Israele. C’è un’enorme contraddizione in questi governi perché da una parte si dichiarano a favore della difesa dei diritti umani, mentre dall’altra offrono amicizia ad uno stato che non li applica minimamente.

L’ultimo incontro politico del comitato è con il Partito Comunista Libanese.
Il segretario generale Dr. Khaled Hadada inizia il discorso puntualizzando che il suo partito non essendo confessionale è penalizzato perché non può far parte del parlamento libanese. Il Pcl ha avuto un ruolo molto importante nella difesa del paese con Hezbollah durante l’ultimo conflitto del 2006.
“Il Partito Comunista Libanese è stato una delle forze politiche che si è sempre opposto all’arroganza e all’aggressione israeliana – afferma il Dr. Hadada - siamo stati i primi a prendere le armi contro l’invasione sionista del 1982. Ora stanno portando avanti le trattative con il principio dell’ebraicità dello stato. Tutti spingono perché queste trattative vadano avanti. Noi crediamo che l’America ed Israele stiano preparando una nuova guerra al Libano, un attacco al popolo libanese e palestinese. Il nostro partito ha avuto tanti martiri e migliaia di feriti e prigionieri. A causa del sistema confessionale non c’è unità nel popolo libanese, rendendo quindi il paese debole e soggetto ad incursioni. Quello che indebolisce la resistenza, indebolisce il sistema stesso. Il nostro piano è la solidarietà di tutti gli amici del mondo”.

Alla domanda: quando sarà la prossima guerra?
Hadada risponde: “Ci sono le condizioni per una nuova guerra, ma prima di attaccare l’Iran direttamente, lo faranno con gli altri paesi amici (Hamas, Hezbollah, Siria) che non potranno restare a guardare, quindi potranno colpire il Libano o la Palestina per tagliare loro le ali e gli aiuti. Non succederà tra due, tre mesi ma più avanti nel tempo. Dobbiamo essere pronti. Sarà una mina che non scoppierà solo nel Libano, ma avrà un effetto devastante tra sunniti e sciiti in tutto il mondo”.

All’ultima domanda: non vi sembra strano che Hezbollah faccia parte del governo?
“Qualsiasi legge elettorale – risponde Hadada – è il frutto dell’accordo tra le varie confessioni. Non c’è posto per il Pcl perché è trasversale e non vuole diventare alleato di qualcuno. Non possiamo dare il voto e non possiamo stringere alleanze, non c’è posto per noi in questo tipo di confessione, neppure all’opposizione, non ci vogliono né qui né lì”.

       


Il comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” non incontra solo partiti politici e giornalisti ma anche uomini, donne e bambini palestinesi e libanesi. Questi sono gli incontri dolorosi, come diceva Stefania in un suo intervento, in quanto non possiamo offrire loro una speranza di giustizia, ma solo la nostra più totale solidarietà ed impegno nel portare la verità di questa situazione a conoscenza di tutti, fuori da questi confini.  Le condizioni di vita all’interno dei campi profughi palestinesi in Libano non migliorano con il passare degli anni, in quanto subiscono l’influenza delle difficili situazioni politiche sia interne e sia esterne. Non manca solo la così detta Giustizia per la loro condizione di popolazione aggredita ed espulsa, ma anche la semplice considerazione che si sta parlando di “esseri umani” con i loro diritti. Visitare i campi, addentrarsi nelle piccole sporche viuzze, senza nessun sistema fognario, idrico o elettrico, diventa, anno dopo anno, sempre più frustrante. Si notano anche alcune diversità, purtroppo negative, come un maggior numero di donne velate e bambini che possiedono un’arma giocattolo. La guerra è ormai dentro i loro giochi. Le loro aspettative per un futuro migliore sono praticamente uguale a zero. Le bambine invece sono più gioiose, pronte a regalarci un sorriso.

  

    

Il programma della delegazione prevede uno spettacolo di musica e ballo con i ragazzi del campo Burji al Shamali. Questo è il momento più sereno di tutta la settimana. I volti sorridenti di queste ragazze e ragazzi, attraverso la musica ed i canti popolari delle terre che non hanno mai conosciuto, rappresentano l’umanità di tutto il popolo palestinese, la memoria della storia ed il futuro della Palestina.

   


Da un momento di gioia in un campo si passa ad un altro invece carico di tristezza, ricordi, rabbia e dolore: è il campo di Chatila. L’incontro con i familiari delle vittime del massacro è sempre atteso. Si ritrovano conoscenze, amicizie fatte solo di sguardi, abbracci, strette di mano e sorrisi. Il tempo a disposizione è sempre troppo poco e, spesso si ritorna in piccoli gruppi, per far conoscere, a chi non è mai stato qui, le persone ed i vicoli di Chatila. E’ diventata una città dentro un’altra città cresciuta in altezza con più di ventimila persone. L’aria malsana, l’umidità, la mancanza di luce e la cattiva alimentazione sono i fattori che determinano le molte malattie tra la popolazione, dal diabete, al cancro ed alla mortalità infantile.
Ci sono altre occasioni per rincontrare le donne di Chatila e, questa non è solo una settimana di ricordi dolorosi, ma vuole anche essere la settimana dedicata alla causa palestinese visibile a tutte le forze politiche del mondo arabo ed occidentale.

      

    


La manifestazione per l’anniversario del massacro di Sabra e Chatila ( v.Storia di Sabra e Chatila  ) compiuto nel 1982 nei due campi palestinesi alle porte di Beirut dalle falangi libanesi con la complicità attiva d’Israele è al centro delle iniziative del comitato in Libano.

Le foto della manifestazione

Alcuni componenti della delegazione sono riusciti a tornare, dopo molti anni, anche al Gaza Hospital a Sabra. Un tempo era stato l’ospedale, gestito dalla Mezzaluna Rossa Palestinese, dove le palestinesi e libanesi del campo andavano a partorire i loro bambini, dove i sanitari cercavano di soddisfare le esigenze sanitarie dei rifugiati e dove sventolava un’enorme bandiera della Croce Rossa. Era il secondo ospedale più importante del Libano e, per la sua posizione urbanistica, dominava il campo di Chatila, diventando così il testimone del massacro del 1982. Ora è diventato un luogo inabitabile dove vivono i palestinesi e libanesi rimasti senza casa e senza risorse economiche. Un campo profughi sviluppato solo in verticale. L’entrata è buia, maleodorante, per arrivare alle scale e per salire ai piani superiori è necessario avere una torcia o dei fiammiferi. Le condizioni nelle quali sono costretti a vivere sono indegne per qualsiasi essere umano.

   
     


La storia di questo campo è raccontata dal documentario di Marco Pasquini “Gaza Hospital” presentato al comitato l’ultima sera di permanenza in Libano. Il racconto è condotto da Youssef, barbiere palestinese che dal 1987 abita nel cortile dell’edificio insieme alle testimonianze di chi ha lavorato come personale medico o amministrativo al Gaza Hospital, come Swee Chai (chirurgo ortopedico di nazionalità malese), Ellen Siegel (infermiera ebrea americana) e Aziza Khalidi (amministratrice palestinese).
Swee Chai di religione cristiana era arrivata, attraverso un’opera di carità britannica, a Beirut per lavorare in un ospedale durante la guerra e, fino al giorno del massacro, considerava “terroristi” i palestinesi e la sua solidarietà era rivolta ad Israele. Nel 1982 lavorava al Gaza Hospital e fu una dei testimoni contro Ariel Sharon. Dopo quest’esperienza, ha fondato il M.A.P. (Madical Aid for Palesatine).
Ellen Siegel, all’epoca dell’invasione israeliana, si trovava come volontaria al Gaza Hospital. Nel 1983 ha testimoniato contro Ariel Sharon presso la Commissione d’inchiesta Israeliana sul massacro di Sabra e Chatila.
Ellen è tornata dopo 21 anni nei campi profughi palestinesi in Libano ed ha scritto una lettera che è un atto sia di amore e sia di accusa.

“Miei cari amici, per la prima volta dopo vent’anni, sono recentemente tornata a Beirut, a Chatila e al Gaza Hospital a Sabra, dove avevo lavorato come infermiera volontaria quell’estate del 1982. Sono tornata per ripercorrere quella tragica esperienza… La Commissione d’inchiesta israeliana decise che Sharon aveva una responsabilità indiretta – una conclusione contestata da molti al di fuori dell’establishment israeliano. I falangisti portarono avanti materialmente il massacro di uomini, donne e bambini e anche di loro si dovrà tenere conto nella nostra ricerca di giustizia. Di sicuro i Palestinesi sopravissuti non potranno mai avere un processo equo in Israele. Basta pensare che il governo israeliano ha respinto ogni responsabilità anche in un caso come quello della morte di Rachel Corrie. Sembra che il guidatore del bulldozer non avesse visto la ragazza che stava davanti al mezzo agitando le mani. Se Rachel Corrie, cittadina americana non ha potuto avere giustizia in Israele figuriamoci gli abitanti palestinesi di Sabra e Chatila. In ogni caso, i vostri amici d’ogni parte del mondo cercheranno ora di aiutarvi il più possibile e in questo ventunesimo anniversario saranno ancora al vostro fianco. Scriveremo lettere, faremo telefonate, scriveremo articoli, manderemo e-mail, organizzeremo dibattiti, invieremo interventi. Mentre voi ancora aspettate giustizia sappiate che la vostra causa non è stata abbandonata e non lo sarà mai… (da “Il Manifesto” 16/09/2003)

     

La Verità è Sempre Rivoluzionaria
(A.Gramsci)

13/12/2010

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