Dietro
alle parole
di
Mario Rossi
Il
dizionario della lingua italiana alla parola “Precario”assegna il
significato di : “non stabile, di incerta durata…”, mentre i
sinonimi riconosciuti del medesimo termine sono: “temporaneo,
provvisorio, incerto, instabile, transitorio, momentaneo,
revocabile…”.
Quando
la definizione “precario” è associata al lavoro, ovvero ad
uno dei diritti fondamentali di ogni cittadino, sancito e
salvaguardato “in teoria” anche dalla nostra Costituzione, ognuno
di questi termini finisce per colorare di tinte oscure la vita di chi
ne è coinvolto in prima persona. Dietro ad un “lavoro
precario”si muovono vite instabili, progetti revocabili, relazioni
incerte.
Anche
l’azienda in cui lavoro da molto tempo, pur operante nel settore
industriale e situata in una florida area dell’Italia
settentrionale, da alcuni anni ricorre in forma estesa all’utilizzo
delle nuove forme occupazionali. In pratica quasi la totalità
delle nuove assunzioni avviene attraverso agenzie interinali e la
conferma definitiva tocca percentuali piuttosto basse. Un processo
che ha snaturato in modo radicale, il rapporto che ognuno di noi
aveva con il proprio luogo di lavoro. Noi lavoratori “indeterminati”,
appartenenti ad una “casta di privilegiati”, ci siamo dovuti
adattare a questo turn over continuo di volti, di stati d’animo e
di speranze. Dietro alla parola “precario” c’è molto
altro: uomini e soprattutto donne, di un’età compresa tra i
20 e i 40 anni, provenienti in gran parte dal nostro meridione, e di
recente anche dall’estero, in maggioranza dall’est Europa. Tante
storie, situazioni diverse, alcune drammatiche, altre
“solo”difficili.
Si
arriva per cercare lavoro con quello che si ha. I più
fortunati trovano un punto di appoggio in zona da amici o parenti,
altri giungono senza una casa dove dormire, privi di un’automobile.
I primi tempi sono sempre i più duri: c’è chi ha
alloggiato in alberghi o residence, chi è venuto al lavoro in
bici o a piedi con qualsiasi stagione, chi ha cercato un passaggio da
un collega mentendo sulla domanda d’assunzione, alla voce
“automunito”. A casa si lasciano mogli, mariti, figli,
fidanzati/e, oltre all’amarezza di non poter realizzare la
professione a cui si aspirava nella propria terra, dopo anni di
sacrifici con studi e lauree. Magari solo un qualsiasi lavoro che
avesse i crismi della regolarità. Il groviglio di ostacoli di
un quotidiano condizionato da un costo della vita non proporzionato
agli stipendi. Dove le voci affitto e auto gravano come macigni sui
bilanci familiari, mentre le difficoltà d’inserimento in
luoghi e realtà nuove accentuano questo divario. Un solco che
spesso, la natura degli indigeni poco disponibile ad accogliere,
soprattutto se sei straniero, non tende certamente a colmare.
Essere
donna inoltre, ti espone ad una ulteriore dose di discriminazioni sul
luogo di lavoro e t’impone di osservare una serie di “attenzioni
speciali” nell’instaurare relazioni umane, perché una
donna sola è ancora oggi sinonimo di vulnerabilità.
Nell’impresa
in cui lavoro accade che la ciclicità di rinnovi e scadenze, a
volte concentrate in medesimi periodi, genera “strani giorni” in
cui il futuro di più persone è comunicato all’unisono.
Per tutti, italiani del Nord o del Sud e stranieri, è un
giorno particolare, difficile. Attendono di essere convocati uno per
volta per sapere se potranno continuare a lavorare o se ricomincia la
trafila della ricerca e della speranza.
Sono
giorni dove la tensione si respira nell’aria. La si legge negli
occhi di chi attende la chiamata o in chi cerca di apparire quasi
disinteressato. Un sì o un no costituiscono lo spartiacque
perché progetti piccoli o grandi possano realizzarsi; perché
l’instabilità rimanga sospesa o si dissolva completamente;
perché gli affetti e le relazioni che hai stretto dentro al
luogo di lavoro possano prolungarsi e con esso, il sentirsi
“lavoratori normali”. Ottenere il rinnovo del contratto diventa a
volte per gli stranieri un elemento indispensabile per prolungare la
permanenza in Italia, per garantirsi atri stipendi certi da inviare
alle famiglie lontane.
E’
per questo che molte sono le lacrime che si vedono versare in quei
“strani giorni” ogni qualvolta la risposta a tutte quelle
speranze diventa negativo, come diventa palpabile e contagiosa la
gioia che sprizza dallo sguardo di chi ottiene un ulteriore
occasione. Altri reagiscono con cinico distacco e con la
consapevolezza di dover ricominciare la ricerca della stabilità
per chissà quanto ancora.
A
questo stato delle cose occorre aggiungere“ il resto”. E’ una
porzione gratuita di “trattamenti accessori”, figlia di quel
principio senza tempo che prevede lo sfruttamento delle debolezze
altrui, fardello delle persone più vulnerabili, fragili e
bisognose di lavorare.
Gratuita
perché le condizioni generali pongono le imprese in una
posizione già sufficientemente dominante. Si contano a decine
gli episodi in cui i lavoratori “somministrati” sono il bersaglio
di molto poco velati “suggerimenti”. In modo “garbato, sottile
ed allusivo”, gli viene comunicato che sarebbe cosa gradita se non
aderissero a scioperi, assemblee sindacali o anche rivolgersi alle
RSU in occasione di problemi di qualsiasi natura. Senza parlare poi,
di un’ampia rassegna di inesattezze riguardo ai loro diritti e
doveri e di pressioni non limpide sulla “volontarietà”
legata alle ore di lavoro straordinarie. Tutte azioni queste, tese
ad indebolirne ulteriormente il desiderio di replica. Una manovra
mirata anche alla costruzione di muro che separi “i precari”
dagli “indeterminati”, per ostacolarne la coesione e rendere più
concreto il loro senso di isolamento.
Parlando
con lavoratori precari all’interno e all’esterno del mio luogo
di lavoro ho preso atto di come questo atteggiamento sia comune a
tante altre realtà lavorative, piccole o grandi, di qualsiasi
settore e la loro rassegnata e serafica testimonianza suscita ancora
più indignazione.
Quando
ci troviamo in presenza della parola “lavoro” seguita dal termine
“precario”, possiamo aggiungere un altro sinonimo non previsto da
nessun vocabolario: ricattabile.
Dietro
a “lavoro precario, ricattabile” e a tutti i vocaboli utilizzati
per descrivere questa condizione, si nasconde infatti, un numero
elevato di occasioni mancate; di una mancata possibilità di
scelta, di una vera e propria “carenza di libertà”.
Nonostante
la nostra Costituzione “in teoria” sancisce principi tesi ad
impedire tutto questo, nelle moderne imprese di fronte a casa nostra,
nello sviluppato, evoluto, legale Nord Italia come in qualsiasi altra
regione, questo avviene regolarmente. Le infrazioni alle regole qui
raccontate sono un pallido esempio di un vasto e variegato repertorio
che tocca temi quali la sicurezza sui luoghi di lavoro, il lavoro
nero etc.
Una
intera generazione che cresce “lavorativamente parlando”, in un
clima di precarietà interiore, sballottati da un posto
all’altro, senza sviluppare quel senso di appartenenza legato ad un
proprio ruolo preciso, ingrediente vitale per costruirsi quella
stabilità che costituisca le fondamenta della propria vita.
Uomini
e donne che faticano ad acquisire la consapevolezza dei propri
diritti perché le priorità quotidiane non gli
consentono “il lusso” di preoccuparsene. I continui spostamenti
si oppongono al compimento di una coscienza in questo senso, che nei
giovani è come un frutto bisognoso di maturare nel tempo, dove
la vicinanza di colleghi più anziani è determinante.
Difficoltà amplificata da una generale decadimento collettivo
dei valori che hanno portato alle conquiste dei diritti lavorativi
nel dopoguerra.
Come
certamente avrete pensato, non mi chiamo Mario Rossi. E’ un nome
“comune” scelto come simbolo di quanto sia diffuso questo stato
delle cose, di come un simile racconto risulti “comune” a quello
di tanti altri.