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La storia della Mafia Siciliana


Capitolo 20 - 1989-1990: Palermo città dei veleni

 


L’attentato fallito all’Addaura
Gli effetti quotidiani dell’opera di normalizzazione che investì l’ufficio istruzioni indagini di Palermo, per mano del suo direttore Antonino Meli, sotto l’egida del CSM e del potere politico, non impedirono al giudice Falcone di proseguire ostinatamente e con profitto nel suo lavoro. Attraverso gli interrogatori di pezzi da novanta del pentitismo, quali Antonino Calderone, Gaspare Mutolo e Francesco Marino Mannoia, il magistrato riempie centinaia di pagine di verbali che gli consentono di spiccare altrettanti mandati di cattura. In collaborazione con il sindaco di New York Rudolph Giuliani inoltre, Falcone aveva coordinato sul finire del 1988 l’operazione “Iron Tower”, che coinvolse le famiglie siculo americane dei Gambino e degli Inzerillo, in un oceanico traffico di stupefacenti.
La cupola mafiosa che in questi anni aveva masticato amaro per i successi del suo nemico numero uno, sceglie che è giunto il momento di forzare la mano. Del resto, gli ultimi eventi in seno al Palazzo di Giustizia di Palermo, avevano creato il presupposto principe alla base di ogni tentativo di eliminazione di un obbiettivo: l’isolamento.
Il 19 giugno del 1989 la mafia decise di passare all’azione per assassinare Giovanni Falcone. Un sub si confuse abilmente tra i molti bagnanti che riempivano gli scogli nelle vicinanze della villa che il giudice aveva preso in affitto all’Addaura. Egli  raggiunse a nuoto la scogliera e sistemò una borsa farcita di cinquantotto candelotti di dinamite tra le rocce a circa dieci metri dalla casa. Un innesco azionato da un telecomando a distanza nelle mani degli altri membri del commando a bordo di un gommone stanziante al largo, doveva provocare l’esplosione fatale. Un imprevisto cambio di programma condusse al fallimento dell’attentato. L’invito a pranzo nella casa di Falcone di alcuni colleghi svizzeri, portò gli uomini della sua scorta ad accorgersi di quella insolita borsa sugli scogli, e il giudice venne immediatamente portato al sicuro ancor prima di esaminarne il contenuto.
Cosa nostra aveva fallito, ma per un puro caso. Sul campo restava un angosciante dato di fatto: il servizio di intelligence mafioso risultava molto ben informato, e questo risultava possibile solo grazie al coinvolgimento di insospettabili figure della squadra Stato. (1)

“Menti raffinatissime”
Alcune settimane più tardi, Falcone ruppe gli indugi e rilasciò una intervista con l’intento di fare chiarezza sul polverone susseguente il mancato attentato, così puntualmente e strumentalmente sollevato. Furono in diversi, anche dall’interno della magistratura stessa infatti, che tentarono di ridimensionare l’accaduto sostenendo che l’episodio dell’Addaura avesse i connotati di un semplice avvertimento, o addirittura raggiungendo il culmine della malafede, alimentarono il coro di chi lo riteneva possibile come concepito da Falcone stesso. 2
Falcone fu come sempre esplicito e diretto: “…Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia…Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che ha spinto qualcuno ad assassinarmi…sto assistendo all’identico meccanismo che portò all’eliminazione del Generale Dalla Chiesa…Il copione è quello…Basta avere occhi per vedere.”

Le missive del “Corvo”
La denuncia di Falcone indusse i suoi nemici a rispondere con strumenti di certo meno feroci del tritolo, ma comunque in grado di colpire slealmente l’obbiettivo. Una serie di missive anonime firmate da un mittente ribattezzatosi “Il Corvo”, viene inviata a vari soggetti istituzionali  3. Trattasi di lettere dai contenuti calunniatori che coinvolgevano oltre a Falcone, anche suoi collaboratori storici come il giudice Ayala, e Gianni De Gennaro. Questi uomini, insieme ad altre figure del Palazzo di Giustizia di Palermo che sarà ribattezzato in quel periodo “Palazzo dei veleni”, venivano accusati di aver manipolato il risultato di alcune inchieste per interessi personali e politici verso presunti “amici comunisti”, nonché di aver stretto relazioni troppo confidenziali con pentiti del calibro di Buscetta e Contorno, ma non solo. La denigrazione giungeva ai massimi, quando Falcone veniva indicato quale favoreggiatore di alcuni omicidi frutto di regolamento di conti insiti alla mafia. Una serie di ricostruzioni deliranti tese ad alimentare una atmosfera di cupa diffidenza.
Una sentenza della Cassazione affermerà che “Una grave   ed oltraggiosa delegittimazione venne operata, proprio a ridosso dell’attentato in questione, attraverso le cosiddette lettere del “Corvo”…La delegittimazione di Giovanni Falcone finiva sicuramente per giovare all’associazione mafiosa…affinché si venissero a creare le condizioni ideali per poter eliminare poi un nemico…che appariva orami indebolito in quanto oggetto di una pesante manovra di destabilizzazione ed isolamento…”. 4

Viene sospettato quale autore di queste lettere Girolamo Alberto Di Pisa, anch’egli uno dei pm del Palazzo di Giustizia di Palermo. Attraverso uno stratagemma gli viene estorta una impronta digitale che combacerà con alcune rinvenute sulle lettere anonime. Di Pisa, convocato dal CSM, si difenderà lanciando altre accuse in linea con quelle pronunciate nelle missive del “Corvo”, e sempre all’indirizzo dei medesimi obbiettivi. Il sospettato verrà condannato per calunnie in primo grado, ma assolto in appello con formula piena in quanto le prove a carico, costituite dalle impronte digitali, furono ritenute inutilizzabili. Alberto Di Pisa riprese il suo posto nella magistratura e dal luglio del 2008, presiede la Procura di Marsala.

Il peggior CSM della nostra repubblica
Diverso sarà il trattamento a cui sarà sottoposto Giuseppe Ayala. Nel corso della sua deposizione difensiva al CSM, DI Pisa chiamò in causa Ayala divulgando informazioni private sul suo conto bancario, tali da montare sospette congetture su di una sua eccessiva disponibilità finanziaria. Il giudice della procura di Palermo sarà costretto a fornire chiarimenti che nulla avevano a che vedere con il suo ruolo istituzionale. Le spiegazioni verranno ritenute formalmente convincenti, ma come premio gli frutteranno un provvedimento di trasferimento dalla Procura di Palermo per “incompatibilità ambientale5: l’ultimo atto della manovra di isolamento a danno di Giovanni Falcone era così compiuto.
Ancora una volta, dietro alle quinte delle istituzioni che dovevano operare al meglio per il bene della giustizia del paese, si scelse di calare il sipario sulla stessa. Gli interessi di alcune fazioni ebbero ancora il sopravvento su quelli generali. Secondo Ayala stesso, egli stava pagando la sua amicizia con Giovanni Falcone, tesi avvalorata anche da Antonino Caponnetto.
Nell’Ottobre del 1989 entra in vigore il nuovo codice di procedura penale. Il fresco ordinamento pone la definitiva pietra tombale all’ufficio istruzione processi, e Falcone viene nominato quale aggiunto del nuovo Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco. Un nome assai discusso quello di Giammanco. Egli è amico dell’On. Mario D’Acquisto, ritenuto uomo di Salvo Lima  6, e costituirà secondo molti, una spina nel fianco per l’operato del magistrato. A ribadirlo anche la sorella del giudice, Maria Falcone che in una intervista rilasciata a Francesco La Licata ricorda: “ Era Francesca ( Morvillo, moglie di Falcone ), che mi raccontava il dramma di Giovanni. Lei certe cose le sapeva per fonti sue e, quando poteva me le riferiva. Mi faceva capire l’ostilità di Giammanco per Giovanni, il disagio di mio fratello che si trovava le mani legate, nell’impossibilità di lavorare. Gli assegnava anche processi di poco conto, per caricarlo di lavoro e ricordagli chi comandava. Cercava di assoggettarlo, mettendolo nella condizione di subalterno. Arrivò perfino a umiliarlo: una volta lo fece aspettare a lungo fuori dalla porta, prima di riceverlo 7.
Falcone non mancherà di gremire di note al riguardo il proprio computer, ma lo stesso venne ripulito all’indomani della sua morte a Capaci. Sfuggirono al setaccio una risicata ma convincente porzione di quegli appunti: il giudice l’aveva consegnata ad un cronista del “Sole24ore”, che le diffuse. Dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, ben otto sostituti della Direzione Nazionale Antimafia, corredarono una richiesta congiunta condita di pesantissime accuse, che formalizzava la richiesta di una rimozione del Procuratore Capo  8. Giammanco fiutò i pericoli e decise di anticipare qualsiasi decisione degli organi competenti presentando domanda di trasferimento.
Nonostante tutti gli ostacoli, Giovanni proseguirà fruttuosamente nel suo lavoro. Viene intercettato il giusto canale in cui inserirsi nel traffico di cocaina tra la Sicilia e la Colombia. Partendo dalle confessioni di “Joe Cuffaro”, un pentito arrestato nel gennaio del 1988 al termine di un maxi sequestro al largo di Castellammare del Golfo, Falcone coordina una inchiesta che porterà all’arresto di quattordici trafficanti colombiani e siciliani. Un potenziale traffico di tonnellate di droga viene interrotto. La fama ed il prestigio di Falcone, continuano a diffondersi in tutto il pianeta: un trattamento lontano anni luce da quello che la patria gli riserverà.
Cedendo alle insistenze di persone di fiducia, Giovanni accettò la candidatura quale consigliere del CSM. Inutile aggiungere che anche questa venne respinta, e secondo alcuni, ancor prima della votazione finale del gennaio 1990. Il CSM era lo specchio delle lottizzazioni partitiche con le quali si determinavano tutti i ruoli istituzionali. Era perciò impensabile che dal suo giudizio scaturissero scelte differenti dagli orientamenti politici del periodo. Preferenze che Caponnetto definirà segnate dalla “…incapacità di capire l’importanza di certe decisioni9. Il CSM che operò sul finire degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, pur riconoscendo che al peggio può non esserci mai fine, venne definito da molti osservatori, e purtroppo solo a posteriori, come il peggiore della storia della nostra repubblica.

“Sono vivo grazie all’Enel”
Giuseppe Ayala che sempre per decreto del CSM doveva essere trasferito dal Novembre del 1989, continuava a rimanere al proprio posto, anche se le competenze erano state un “tantino” diversificate per mano del nuovo procuratore Giammanco. Anche Ayala infatti, venne subissato di processi in ambito di “furti Enel”. Al giudice che condusse trionfalmente il maxi processo, non si trova incarico più imperioso che l’occuparsi di quel mix di indigenti e furbastri che si allacciano abusivamente alla corrente elettrica senza pagare le bollette. Intere sue giornate di lavoro sono impegnate in questa direzione. Si compiva forse quel disegno superiore che anni prima avevano cercato di imporre al giudice Chinnici, al quale era stato ordinato di riempire le scrivanie di Falcone e Borsellino di inutili inchieste, per non dargli il tempo di occuparsi di cose serie?
Sfiduciato e rassegnato, per diverso tempo Ayala non si oppose e assecondò ciò che gli veniva ordinato. Si trattò di una decisione che anni dopo comprese come vitale ai fini della sua sopravvivenza. “Grazie all’Enel sono vivo”, riconosce oggi con amara ironia. Quale pedina di una scacchiera che si poneva l’obbiettivo primario di tagliar fuori Falcone, Ayala era stato a sua volta isolato. Una condizione terribilmente pericolosa che trovò conferma a distanza di tempo, nelle dichiarazioni di alcuni pentiti che raccontarono dell’esistenza di un piano già sviluppato in molti dettagli per la sua eliminazione. La mafia uccide chi costituisce un pericolo, e la caccia agli utenti morosi dell’Enel, non rientrava tra le azioni della magistratura reputate come più minacciose. All’oscuro di tutto questo, giunse il giorno in cui il giudice non tollerò una condizione professionale noiosa e priva di stimoli. Decise quindi di cogliere d’anticipo il CSM, che forse imbarazzato dalla sua stessa delibera di trasferimento, l’aveva lasciata inspiegabilmente in sospeso. Ayala imperturbabile inoltrò a sua volta e con successo, la richiesta di essere trasferito a Caltanissetta. (10)

Istituzioni smembrate
Nel gennaio del 1990 il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, esponente della corrente più riformatrice in seno alla Democrazia Cristiana siciliana, viene silurato dalla dirigenza romana del partito. Ufficiosamente colpevole di stringere alleanze molto a sinistra per i canoni DC, Orlando paga il suo essere un politico troppo indipendente dalle logiche clientelari, e soprattutto, di aver ricercato in ogni direzione degli appoggi per contrastare la rete mafiosa dell’isola. Lasciò perplessi in questo senso, la polemica che nell’ottobre dell’anno seguente lo stesso Orlando accese nei confronti di Falcone. L’ex sindaco accusò il magistrato di aver nascosto nei cassetti della propria scrivania prove gravose su presunte indagini omesse a danno di politici  11. Difficile interpretare un gesto simile, proprio perché lanciato nella direzione di Falcone da un uomo che la mafia aveva tentato di contrastarla dall’interno della politica. Impossibile trovare una chiave di lettura trasparente e univoca, in un contesto governato da regie occulte che nell’ombra tramavano affinché sul campo ogni soggetto si avventasse sull’altro, seminando una generalizzata cultura del sospetto, con l’unico preciso intento di smembrare la compattezza delle istituzioni, bagnando le polveri così, all’unica vera minaccia per gli interessi politico mafiosi. 

La morte del “giudice ragazzino”
E’ il 21 settembre del 1990. Sono passate da poco le 8:30 del mattino, e il sole già alto nel cielo, riscalda le campagne tra Canicattì ed Agrigento. La sua luce sfavillante illumina il lavoro dei contadini, si irradia riempiendo di sapore fino all’ultimo le vigne che circondano la non lontana Valle dei Templi, maestosa eredità del sublime intelletto degli abitanti della Sicilia di un tempo. Oggi quella stessa luce non ha nulla di benevolo, è un accecante riflettore puntato sulla scena di un’altra morte, un delitto efferato e vigliacco come tutti quelli di matrice mafiosa. Il giudice Rosario Livatino sta percorrendo la strada a scorrimento veloce Caltanissetta-Agrigento, la SS 640, la stessa arteria lungo la quale il 25 settembre di due anni prima, erano stati uccisi il giudice Antonino Saetta, maestro di Livatino, ed il figlio disabile Stefano. Rosario è a bordo della sua Ford Fiesta color amaranto. E’ partito da Canicattì suo paese natale dove ancora vive con gli anziani genitori, per recarsi al Tribunale di Agrigento dove da circa un anno presta servizio come giudice a latere. Sempre ad Agrigento, Livatino ha trascorso i precedenti dieci anni con l’incarico di Sostituto Procuratore della Repubblica, anni nei quali è stato uno dei protagonisti più importanti delle indagini per reati di mafia del territorio. Giunto in prossimità del km 10, una Fiat Uno bianca si lancia in una manovra azzardata, sembra al principio un sorpasso ad alta velocità, ma una volta affiancata la Fiesta del giudice, dalla Uno parte una raffica di mitraglietta. Livatino rimane ferito alla spalla ma è ancora lucido e reagisce. Non riesce a prendere la pistola che tiene nascosta sotto il sedile, non c’è tempo. Tenta di manovrare la sua auto per sfuggire alla morsa dei suoi assassini, ma alle spalle sopraggiunge una moto con altri killer a bordo. L’auto sbatte contro il guardrail e lì arresta la sua corsa. Sembra finita, ma Rosario non si da per vinto, esce dalla sua vettura e si mette a correre per le sterpaglie di un tratto di campagna polverosa, arida e spoglia. Imbocca un ripido pendio che conduce al sassoso letto asciutto di un fiume. Il commando di sicari lo insegue armi in pugno continuando a sparare. Livatino incespica, è ferito, gli stanno venendo meno le forze, perde la scarpa sinistra e rotola lungo il pendio scosceso. Anche i suoi inseguitori faticano a tenersi in piedi e alcuni di loro cadranno e rotoleranno, vittima e carnefici tra la polvere. La disperazione di chi si sente braccato dalla morte, si unisce all’indomito coraggio di chi ha da sempre guardato in faccia la mafia senza paura. L’essere ciò che è gli darà la forza di percorrere altre decine di metri, ma la lotta è come sempre impari, nel pieno rispetto di quel codice che questi uomini di onore si vantano di ossequiare. Livatino è ormai condannato, riverso a terra, senza difese, ai suoi aguzzini griderà “Ma che cosa vi ho fatto?”. Per risposta otterrà prima degli insulti e poi verrà freddato da diversi colpi di più armi da fuoco, e finito con un colpo di grazia al viso, quasi in bocca, a simbolo di quel silenzio eterno a cui la mafia condanna i suoi nemici.

Rosario aveva 37 anni, sarebbero stati 38 qualche giorno più tardi, il 3 di ottobre. Un volto quasi da adolescente ed il fisico minuto, ingannavano chiunque cercasse di attribuirgli una età. Il Presidente della Repubblica Cossiga lo ribattezzò “giudice ragazzino”. Era entrato in magistratura a soli 26 anni, al termine dell’iter di studi nel quale si distinse sempre come un prodigioso studente modello. A nemmeno 40 anni poteva vantare una esperienza in ambito mafioso che tanti suoi colleghi più anziani mai avrebbero accumulato, e anche per questo era apprezzato e stimato dai compagni di lavoro.
Da comune persona tranquilla, viveva la sua professione con assoluta semplicità. Non era sposato, ne fidanzato, la sua vita erano il lavoro e l’impegno civile contro la criminalità.
Il giudice Livatino era un abitudinario, partiva da casa tutti i giorni alla stessa ora, percorrendo la stessa strada, sostando a prendere il caffé allo stesso bar. Nessuno è mai riuscito ad imporgli una scorta, nemmeno un’auto blindata. Sembrava un omicidio facile, senza intoppi, senza rischi. Quel giorno però un testimone assistette ad una porzione del massacro, anche se nell’immediato non si rese conto di quanto stava accadendo e nemmeno della gravità del reato a cui aveva assistito in parte. Si trattava di Pietro Ivano Nava, un quasi 50enne rappresentante di porte e sistemi di sicurezza per una ditta di infissi di Villanova d’Asti, ma nativo di Sesto San Giovanni, in provincia di Milano. In viaggio di lavoro verso Agrigento con la sua Thema, transitò anch’egli lungo la statale 640 nell’istante utile per scorgere i due killer in sella alla motocicletta, di cui uno a viso scoperto, mentre scavalcavano il guardrail per inseguire la vittima pistola in pugno. Vide in faccia uno degli assassini e quando si recò dalla polizia per denunciare l’inquietante scena a cui aveva assistito, si disse pronto a riconoscerlo. Ad inquirenti cronicamente alle prese con l’omertà dilagante dei testimoni, Nava apparve come un alieno. Grazie alla sua testimonianza, Pietro Ivano Nava fu determinante all’arresto dei colpevoli, ma anch’egli da quel giorno fu costretto a cambiare vita ed identità, per rientrare in un programma di protezione testimoni. Il suo nome è ancora oggi sinonimo di coraggio, di senso civico, di sacrificio, un esempio per ogni cittadino. Alla sua vicenda si ispirò il film “Testimone a rischio” (1997), interpretato da Fabrizio Bentivoglio, Claudio Amendola, Margherita Buy.

Nonostante le precarie condizioni della Procura di Caltanissetta, in quegli anni costantemente a personale ridotto, il procuratore Salvatore Celesti ed il suo sostituto Ottavio Sferlazza, riuscirono a fornire una rapida svolta alle indagini grazie alla deposizione di Ivano Nava.
Negli anni che seguirono, vennero prima condannati all’ergastolo Paolo Amico e Domenico Pace di Palma di Montechiaro. Al termine del processo bis, istituito grazie alle rivelazioni dei pentiti Giovanni Calafato e Giuseppe Croce Benvenuto, ( pure loro di Palma di Montechiaro e sanzionati con pene ridotte a 16 e 18 anni di carcere), altre condanne a vita furono comminate  per Gaetano Puzzangaro sempre di Palma, e Gian Marco Avarello di Canicattì. Per finire, il terzo processo sul delitto Livatino, portò ad altri quattro ergastoli: Antonio Gallea di Agrigento, Salvatore Calafato di Palma di Montechiaro, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti di Canicattì.
Tutte le sentenze furono confermate nei tre gradi di giudizio.
I collaboratori di giustizia contribuirono ad inquadrare la decisione di eliminare il giudice Livatino, all’interno di una vendetta nei suoi confronti da parte della Stidda agrigentina, una organizzazione di stampo mafioso in conflitto con Cosa Nostra, contro la quale il magistrato si era attivato con successo negli anni. La Stidda era un soggetto criminale emergente, e aveva coalizzato le forze presenti in molti comuni dell’agrigentino, scatenando una guerra con decine di morti in tutta la Sicilia. L’omicidio doveva lanciare un messaggio intimidatorio agli altri magistrati impegnati nella lotta alla mafia, e al contempo, fornire una prova muscolare di forza agli antagonisti di Cosa Nostra. Ma secondo altri conteneva come tanti delitti di mafia un fine preventivo.
Quel 21 settembre Rosario Livatino stava recandosi in Tribunale ad Agrigento per il giudizio di 15 mafiosi di Palma di Montechiaro, che con ogni probabilità sarebbero stati condannati al soggiorno obbligato lontano dalla Sicilia. Le indagini di Livatino negli anni avevano trattato di ogni reato di stampo mafioso: omicidi, estorsioni, traffico di stupefacenti, rapporti mafia massoneria. Aveva applicato in molteplici occasioni la confisca dei beni mafiosi, colpendo nel vivo gli interessi criminali. Nel 1985 aveva imbastito una inchiesta sulle cui basi nascerà quella che nel 1990 venne definita come la “Tangentopoli siciliana”. Il giudice Livatino unitamente ad altri colleghi, fu il primo che interrogò un Ministro della Repubblica.
Dopo la sua morte lo hanno descritto come un eroe, ne sono state osannate le gesta, ma per gli anziani genitori Vincenzo e Rosalia, Rosario era solo una persona onesta che svolgeva con passione il proprio lavoro. Un uomo come tanti a cui piaceva fare bene il mestiere che amava. A renderlo un martire fu invece la terra in cui egli scelse di investire la sua vita, i suoi studi, la sua professione.
Quella terra che fu la culla di Pirandello, era divenuta preda di una cultura di violenza e di morte. (12)

Nefasti presagi
L’efferata uccisione di Rosario Livatino scosse la Sicilia e tutto il paese. A colpire nel segno il cuore della gente, la sua giovane età, il viso da ragazzo, la sua storia di persona semplice ed onesta che aveva sempre lavorato nell’ombra, umilmente.
Giovanni Falcone da Palermo e Paolo Borsellino da Marsala, giunsero immediatamente sul luogo dell’agguato. Dinanzi a quella morte sopraggiunta in un momento così drammatico della lotta alla mafia, si potevano scorgere nefasti presagi che oltrepassavano l’ennesima tragica morte di un servitore della giustizia, perito ancora una volta senza la protezione dello Stato.
Dalla sentenza del maxi processo all’inizio del 1989  13, l’introduzione di un pacchetto di normative che limitava i tempi della carcerazione preventiva, aveva provocato una emorragia di uscite dal carcere: solo 60 dei 342 condannati si trovavano ancora ospiti delle patrie galere. Nel frangente storico in cui era stata eliminata una delle più giovani e brillanti promesse della magistratura antimafia inoltre, la Corte D’Assise D’Appello di Palermo annullò alcune condanne del Maxi Processo, respingendo il nodo centrale del “Teorema Buscetta”. La sentenza in pratica non riteneva che i membri della Commissione mafiosa fossero i mandanti di molti delitti eccellenti. L’ulteriore giudizio veniva rimandato alla Corte di Cassazione dove si temeva la smantellazione di altri tasselli della delibera di primo grado.


Note

(1), 2, 3, 4, 5, 8, 9, (10), Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Incompatibilità ambientale” – pagine 177…188

6,7, Fonte www.antimafiaduemila.com lettera aperta del direttore Giorgio Bongiovanni agli organi istituzionali del 30 novembre 2000

11, Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “E le perdette tutte” – pagine 190, 191

(12), Fonte www.larepubblica.it  del 22 e 23 settembre 1990 –  www.livatino.it

13, Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, edizione 2007 – capitolo “Il destino del Maxi Processo” – pagina 420



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