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La storia della Mafia Siciliana

 

Capitolo 1 - Dal primo ottocento all’unità d’Italia


Il termine “mafia” dalle incerte origini, fa la sua “prima” a teatro
Occorre compiere un balzo a ritroso di poco inferiore ai 150 anni per assistere alla prima comparsa del termine “mafia”, accostato al senso d’uso comune moderno di organizzazione malavitosa. E’ il 1863, quando a Palermo venne rappresentata con largo successo la commedia popolare “I mafiusi di la Vicaria” , scritta da Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca. Il testo verrà successivamente tradotto in italiano, napoletano e meneghino, a testimonianza dell’enorme consenso che riscuoterà anche al di fuori dei confini siciliani.
In quella rappresentazione teatrale, i “mafiusi“ erano dei detenuti del carcere palermitano “ la Vicaria“, e le connotazioni criminali del vocabolo appaiono sin da allora evidenti. L’ambientazione in un carcere poi, conferisce ai luoghi di detenzione quel ruolo di “scuola aziendale“ tipica del periodo, in quanto in prigione, la criminalità sicula aveva modo di diffondere il verbo e l’insegnamento della cultura mafiosa.
La fotografia scattata dalla trama però è di una mafia buona, legata a principi di onore, con attenzione al rispetto per i più deboli. Il capo di questa banda di carcerati infatti, manifesta indulgenza nel non umiliare i detenuti indifesi, contribuendo a costruire attorno alla mafia quel alone di società giusta, onorata e ancorata alle tradizioni. Un archetipo che costituirà un impenetrabile ventaglio per moltissimi anni, uno spesso velo di ipocrita rispettabilità usato in modo strumentale alla perfezione, e dietro al quale si cela un universo fatto di violenze e crimini.
E’ curioso e molto interessante scoprire, che già all’interno della società raccontata da Rizzotto, erano diffusi altri termini i cui significati diverranno tristemente familiari. Tra questi uomini è esteso il concetto di umiltà e rispetto. In dialetto siciliano l’umiltà è detta “umirtà“, e si pensa che da questo derivi la parola “omertà“, il codice del silenzio assoluto che vieta, pena la morte, qualsiasi delazione all’esterno della società mafiosa. E’ possibile che l’omertà, in principio, fosse intesa anche come una forma di umile sottomissione.
Nel corso della commedia i personaggi si riferiscono al “pizzu“, come al pagamento di una somma per ottenere la protezione da un mafioso. In dialetto pizzu significa becco, o più popolarmente la punta della barba. Chi paga il pizzu quindi, consente ad altri di “bagnarsi il becco“, o di immergere la punta del mento in piatti o bicchieri, cioè di mangiare e bere. Il termine si modernizzerà per trasformarsi in pizzo, e divenire tristemente famoso quale sinonimo della tangente da pagare alla mafia sulle attività economiche. Si ipotizza che la metamorfosi dal semplice significato di becco a quello di protezione da pagare, sia strettamente legata all’influenza sulla gente del successo teatrale. Un dizionario siciliano del 1857  infatti, attribuisce a pizzu solo il senso di becco, mentre in un altro del 1868, di cinque anni successivo la commedia, il termine compare anche riferito ad una somma di denaro frutto di estorsione.
Nell’opera di Rizzotto e Mosca, dei cui autori non si conosce quasi nulla tranne l’appartenenza ad una compagnia di commedianti erranti, comunque la parola “mafia” non emerge mai. Persino il termine “mafiosi” compare solo nel titolo, e secondo alcuni storici venne addirittura aggiunto in ultima istanza, forse per attirare maggiormente la curiosità del pubblico palermitano. Fu proprio grazie alla popolarità del componimento però che entrambi i vocaboli divennero di uso comune per indicare malviventi che si comportavano come i personaggi della finzione scenica. Pur guadagnandosi il merito del passaggio dal palco ai vicoli, la parola “Mafia” acquisì l’uso generale con l’accezione giunta a noi, solo dopo che le autorità italiane presero coscienza dell’esistenza di organizzate “sette” di criminali.
L’origine primaria del lemma prima della sua comparsa teatrale è tuttavia alquanto incerta e si perde lontanissima nella storia. (1)


Una origine semantica ancora indefinita

La discussione tra gli storici sulla natura etimologica della parola mafia si trascina da lungo tempo senza condurci a conclusioni definitive. Secondo alcuni la lunga dominazione mussulmana che la Sicilia ha subito intorno al X secolo, fornirebbe materiale sufficiente per propendere verso una antichissima provenienza araba. Una ipotesi che a sua volta trova i diversi sostenitori non concordemente allineati. Vi è chi la ritiene originaria dal termine Ma-Hias, traducibile con spavalderia, spacconeria, vanto aggressivo, in seguito fusa al significato di Marfud (reietto), dal quale sarebbe a sua volta disceso il vocabolo mafiusi. Altre opzioni ne propongono la derivazione da Mu-afak (protezione dei più deboli), oppure accendendo maggiori perplessità e senza fornirci dettagli, da Maha (cava di pietra). Una supposizione ulteriore propone il termine Maehfil (adunanza, luogo di riunione).
Una alternativa corrente di pensiero invece, in realtà la più tradizionalista, predilige l’origine latino-greca. Costoro confutano con decisione l’opzione araba ritenendola una forzatura, ponendo in evidenza come l’accertata comparsa del vocabolo nell’isola risalente solo al XIX secolo, aprirebbe di fatto un silente vuoto di quasi 8 secoli.
E neppure l’inserimento intermedio di una presunta origine del termine quale grido di guerra di alcuni rivoltosi nel corso dei vespri siciliani del 1282 a Palermo, che per esteso avrebbe significato Morte alla Francia Italia Anela, riesce a colmare quel vuoto temporale. 4
La ridda di ipotesi contrastanti non sembra attenuarsi nemmeno avvicinandosi all’unificazione d’Italia del 1860. Qualche anno prima, il letterato, storico e politico palermitano Vincenzo Mortillaro (1806-1888), nel suo “Nuovo dizionario siciliano-italiano” del 1853, alla voce Mafia scrive “…Voce Piemontese introdotta nel resto d’Italia che equivale a camorra…”. Tale affermazione venne a sua volta contestata molti anni dopo dal docente di storia catanese Domenico Novacco (1921-2008), che in “Belfagor” n 14 del 1959, nel pezzo “Considerazioni sulla fortuna del termine mafia”, invita alla cautela sostenendo che le affermazioni di Mortillaro risultavano “…nel solco d’un filo autonomistico siciliano antiunitario che dava ai sabaudi il demerito d’aver introdotto nella immacolata isola cattive tradizioni e tendenze paraispaniche”. 5
In linea con chi sostiene che l’introduzione del vocabolo in Sicilia risalga all’impresa garibaldina, si era proclamato anche Santi Correnti (1924-2009), noto storico messinese che vestì la carica di direttore onorario dell’Istituto Siciliano di Cultura Generale. Correnti nel suo libro “Breve storia della Sicilia”, riteneva plausibile che la parola “maffia”, con la doppia f così come appare in numerosi documenti ufficiali dell’epoca, trovasse riscontro in un analogo termine dialettale toscano indicante una condizione di miseria. Il vocabolo poteva quindi aver viaggiato da nord a sud unitamente ai Mille dell’eroe dei due mondi, modificandosi nelle sue sfumature semantiche. Sulla stessa linea si esprime in epoca recente anche lo scrittore Pasquale Natella (“La parola Mafia”, Biblioteca dell’Archivum Romanicum, Leo S.Olschki editori, 2002), che sostiene come la diffusione del vocabolo si estese su tutto il territorio nazionale dopo il 1860 “… in tutte le caserme ottocentesche maffìa equivaleva a pavoneggiarsi e copriva il colloquio quotidiano così in Toscana come in Calabria, dove i delinquenti portavano i capelli alla mafiosa…”. 6
Un’altra interpretazione certamente autorevole, ci viene proposta dallo storico palermitano delle tradizioni popolari Giuseppe Pitrè (1841-1916). Nel suo famoso scritto “Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo 1889”, egli riporta che l’aggettivo “mafiuso” era nel linguaggio utilizzato in quartieri popolari del capoluogo, sinonimo di bellezza, audacia, superiorità, spavalda sicurezza di sé, e perfino coraggio.  Un termine associato ad una Sicilia antica, nella sua piena epoca borbonica. Dopo il 1860 il vocabolo smarrisce il suo originario significato per acquisirne un altro, più fumoso e carico di tonalità negative associabili al brigantaggio, al malandrinaggio e alla delinquenza in genere. 7
Risale difatti al 1865, non casualmente dopo il grande successo della piece teatrale di Rizzotto e Mosca, la prima comparsa ufficiale della parola mafia legata all’ambito criminoso. E’ il Prefetto di Palermo Filippo Antonio Gualtiero, che in un suo rapporto alle autorità del ministero, descrive con Mafia, una insolita forma di organizzazione a delinquere. Di lì a poco nel 1871, la legge di pubblica sicurezza nell’indicare soggetti dediti a delinquere farà riferimento a  “…oziosi, vagabondi, mafiosi e sospetti in genere”. 8
L’esplosione del suo significato moderno si affermerà nei decenni seguenti. Un termine che verrà in epoca recente definito polisemico, cioè carico di molteplici significati ed utilizzabile in multiformi contesti dallo scrittore senese Salvatore Lupo ( Storia della mafia: dalle origini ai giorni nostri - Roma - 2000 – Donzelli): “…E’ difficile individuare un argomento, una tipologia o successione di fenomeni tra loro omogenei da raccogliere sotto la voce mafia; ed è altrettanto difficile sfuggire all’impressione che sia proprio questa latitudine e indeterminatezza dei campi di applicazione a farne la fortuna…”. 9
A questo riguardo lo stesso giudice Falcone innescò una accesa polemica tesa a contrastare il sempre maggiore ed improprio utilizzo del vocabolo: “…Mentre prima si aveva ritegno a pronunciare la parola mafia, adesso si è persino abusato di questo termine. Non mi va più bene che si continui a parlare di mafia in termini descrittivi e onnicomprensivi perché si affastellano fenomeni che sono si di criminalità organizzata ma che con la mafia hanno poco o nulla da spartire…”. 10
Se l’origine semantica del vocabolo è indefinita e lascia ancora oggi spazio alle interpretazioni, è invece assodato che la Mafia in quanto fenomeno criminale in forma organizzata, vide l’alba in un periodo antecedente al 1860, anno dell’Unità d’Italia. 

Nel Regno dei Borboni feudi, feudatari e gabellotti
Tentando di riannodare frammenti di storia che anche in questo caso si perdono nel tempo, forme di attività accostabili al concetto attuale di mafia, risalgono secondo alcuni storici sin dalla dominazione araba; altri studiosi compiono balzi in avanti riferendosi al periodo spagnolo e dell’Inquisizione; altri ancora indietreggiano di svariati secoli fino all’epoca della dominazione romana per il controllo del “granaio di Roma” e dei suoi schiavi. Una serie di ipotesi da interpretare con estrema cautela. Diventa concreto infatti, il rischio di confondere l’azione di organismi criminali anche se di piccola entità, con forme di espressione avverse agli ordinamenti al potere del momento.
Si avvalgono di riscontri più precisi, le primitive voci che provenienti dalla Sicilia di inizio ottocento, narrano di società di uomini intenti a coltivare interessi e affari attraverso sistemi violenti. Le definizioni attribuite a questi gruppi, si distaccano per connotazioni dalle generiche bande di briganti e ancor di più dalla delinquenza comune, pur senza assumere al momento, i contorni definiti di quella associazione che diverrà nota nel mondo come la Mafia Siciliana. Nata nel triangolo compreso tra le città di Palermo, Trapani e Agrigento, l’evoluzione nei decenni della mafia è strettamente legata alle fasi storiche che hanno scritto le pagine della storia d’Italia. Non si sottrae a questa regola nemmeno la sua genesi, o quanto meno l’epoca in cui si presuppone le radici abbiano attecchito nel tessuto sociale dell’isola.
Agli inizi del XIX secolo i regnanti Borboni vivono a Napoli e affidano il governo dell’isola a un vicerè, diffidando dei nobili siciliani. Un sentimento motivato dalla mancanza di solidità e stabilità di questi, sia sul piano militare che su quello politico. È opportuno sapere infatti, che la Palermo dell’inizio ottocento aveva una vita politica quasi inesistente al di fuori di congiure e intrallazzi intorno al vicerè. La ridotta presenza nel tessuto sociale del cosi detto “terzo ceto” costituito da nobili ed ecclesiastici, quale eredità di lunga data Normanna, privava di fatto la città della classe sociale che storicamente per quel periodo era la base delle attività istituzionali ufficiali, svuotando di consistenza il panorama politico.
A dominare la scena della Sicilia occidentale erano quindi i possidenti dei feudi: nobili come principi, duchi, conti, marchesi, padroni di grandi proprietà che mediamente superavano i mille ettari. Il deprezzamento della moneta e la necessità di sfruttare al massimo i terreni del feudo a partire dal ‘700, indusse molti feudatari a suddividere il latifondo in “masserie“, con l’edificazione di grandi agglomerati edili al centro di poderi più ridotti, nell’ordine delle decine di ettari.
Il feudo, frazionato in masserie, veniva affittato con il sistema detto delle “gabelle“ per una somma annuale fissa, pagabile anche in natura, non vincolata all’andamento dell’annata agraria. A condurre la masseria è il “gabellotto“, il quale in alcuni casi coltiva direttamente il terreno, mentre in  altri lo subaffitta a sua volta. Egli è un uomo dalle spiccate qualità pratiche, smanioso di accrescere la propria posizione. Erede di chi un tempo era servitore dei feudatari,  e successivamente membro della sua corte, ancora conserva nei geni la paura della povertà, ed è pronto a scacciarne l’incubo con ogni mezzo. Speculando ad arte nel lucroso gioco regolato dagli affitti da pagare e riscuotere, e senza perdere di vista l’andamento del mercato agricolo, pochi gabellotti riusciranno ad arricchirsi fino a divenire proprietari di interi feudi o di parti di essi posti in vendita. Tra di loro nascono a volte i “baroni“ che oltre al terreno, acquistano addirittura il titolo da feudatari in difficoltà finanziarie. Più comunemente diverranno titolari di un cospicuo capitale, che assai meno di frequente si tramuterà in possedimento terriero. Il denaro liquido che stringono nelle mani, gli consentirà comunque di controllare l’economia rurale di vaste aree. Oltre al contante difatti, questi uomini possiedono le sementi, le macchine agricole ed il bestiame, tutte le materie prime e gli strumenti indispensabili a sostenere una qualsiasi attività agricola. Essi acquisiscono nei loro territori un potere immenso in grado di disporre delle sorti e della vita di chi li popola. Senza il loro consenso non si lavora, non si celebrano matrimoni, e molto spesso si muore. Gran parte della gente che vive nelle campagne dell’isola è costituita da braccianti sfruttati all’inverosimile, e la morsa tirannica “gabellotta” li costringe ad una misera sopravvivenza senza diritti e tutele.  Insieme ai nobili poi, si distinguono per l’opera di usurpazione e occupazione dei terreni demaniali e per usi civili, ai danni di contadini troppo poveri e senza possibilità di opporsi. I gabellotti si conquistano uno spazio sempre maggiore, guadagnandosi quella visibilità pubblica che li promuove a nuove figure sociali del primo ottocento siciliano. Dalle loro fila usciranno preti, avvocati, medici, professioni in grado di assicurarsi un ruolo da protagonista nei decenni a venire.
Nel 1812 i Borboni sancirono il tramonto dell’era feudale, ma sotto la pressione della nobiltà siciliana, venne concesso che le proprietà restassero a beneficio individuale. Di fatto, nonostante la modifica legislativa borbonica, e successive altre intorno al 1838, i feudi sopravvissero fino al 1860, anno dell’Unita d’Italia e con loro il potere del gabellotto, il quale tramanderà il mestiere di padre in figlio, come e meglio di un’arte.
Per tutelare l’ordine nei terreni coltivati, o quali guardie del corpo, o più genericamente per esercitare il potere con la forza, il gabellotto predilige circondarsi di uomini armati a cavallo. Individui senza scrupoli che una volta arruolati, si uniscono in bande che scorazzano per i possedimenti senza porsi limiti all’uso della violenza. (11)

Sicilia terra di scontri
La sicurezza è sentita in tutta la Sicilia come un problema primario. In città sono i gendarmi del re a regolare l’ordine pubblico, coadiuvati da reparti speciali di polizia al cui interno operano i “malandrini“, elementi reclutati tra i malviventi. Tali sezioni risultano le più temute e detestate dai delinquenti sia perchè ricorrono a metodi sbrigativi e violenti, che per la loro capacità d’infiltrarsi tra le linee del mondo malavitoso. Quando i Borboni disporranno loro particolari compiti di spionaggio a danno di politici non graditi, le fila dei detrattori si allargheranno ulteriormente.  Nelle campagne la situazione risulta ancora più complessa. Gli ampi spazi dell’isola sono infestati da bande di “briganti”, nelle cui schiere si allineano contadini affamati alla disperazione, criminali datisi alla latitanza, soldati disertori, e una accozzaglia di umanità sfuggente alle regole. I signori del feudo per difendersi utilizzano i “bravi”, loro servitori particolarmente bravi con l’uso delle armi. Per far fronte alle scorrerie dei briganti in forma più strutturale, i feudatari ottengono nel 1812 l’istituzione da parte dei Borboni di “Compagnie d’armi”, composte da uomini armati a cavallo provenienti dalle guardie private di gabellotti e nobili.
Le campagne siciliane quindi sono teatro di una battaglia perpetua dove si affrontano tre eserciti: i briganti, le compagnie d’armi, e gabellotti e nobili con i loro eserciti privati intenti a difendere gli abitanti dei borghi.
I loro rapporti furono sì regolati da scontri sanguinari, ma in alternanza ad episodiche alleanze in cui si soppiantavano le acredini in luogo di comuni interessi. Accadeva così che i gabellotti acquistassero bestiame e merce rubata dai briganti; oppure che le compagnie d’armi graziassero borghi o comunità dall’aggressione in cambio del pagamento di rilevanti somme di denaro; in altri casi ancora i briganti effettuavano sequestri a danno dei nobili in cambio di un pesante riscatto, dove il mandante del crimine poteva ricercarsi in un feudo rivale. All’interno di questo mondo senza regole se non quella imposta con la forza, non isolati erano i casi in cui il richiedente la somma era lo stesso che incaricava i briganti di fare razzie, compiere rapimenti o atti di terrorismo in quelle regioni. I feudatari si ritrovavano spesso a vestire i panni dei bersagli, ed informarono i Borboni già prima del 1840, per relazionargli di come tale situazione fosse divenuta cronica. (12)

Compaiono le “sette”
In un documento dell’epoca infatti, Lodovico Bianchini, alto funzionario borbonico, avverte Napoli che nelle campagne siciliane quasi tutti i proprietari terrieri pagano “le componende“, somma annuale per tenere buoni i banditi. Pietro Calà Ulloa inoltre,  procuratore del Re a Trapani, informò Napoli che in molti paesi vi erano delle “unioni o fratellanze", specie di "sette”, che si dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente là un arciprete. Una cassa sovviene ai bisogni di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo”.
Anche senza testimonianze scritte che facciano riferimento al termine specifico mafia, è innegabile che già prima dell’unità del paese, vi sia in Sicilia molto del potere criminale mafioso. Un sistema dove figure legate alla nobiltà e al clero svolgono ruoli da protagonisti.
Solo una piccola parte dei gabellotti entrerà a far parte della vita istituzionale ufficiale dell’isola, accedendo al ceto dei “cavalieri“.
La stragrande maggioranza continuerà ad agire nell’ombra dei feudatari e nobili, alimentando una indistinta schiera di figure di potere, e continuando ad esercitare la loro politica con “sistemi particolari“. Metodi che prevedevano l’uso senza riserve della violenza e del malaffare, a volte a danno di nobili avversari, in altre dello stesso Stato borbonico.
Le reazioni del potere ufficiale applicato dal vicerè per ordine di Napoli, non mancò di scaturire anche condanne a morte a carico di potenti, ma senza indurre molti dei nobili a consegnare i gabellotti responsabili dei crimini ed i loro capibanda.
Alla vigilia della campagna di Garibaldi nel 1860 e dell’Unità d’Italia, la strada per il radicamento di quel potere occulto, potente e parallelo a quello istituzionale, era quindi ben visibile e segnata. (13)
 


Note

(1) Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – “La genesi della mafia”

2, 5, 6,  Fonte http://it.wikipedia.org/wiki/Mafia#Origine_del_termine

3, 7, Fonte http://fermicorsoa.blog.excite.it / Definizione ed etimologia del termine mafia di Arianna Veloce

5, 8, Fonte http://www.instoria.it/home/Sulla_mafia.htm/ Le origini del fenomeno mafioso di Matteo Liberti

9, Fonte “Storia della mafia: dalle origini ai giorni nostri” di Salvatore Lupo - Roma - 2000 – Donzelli)

10, Fonte “Una nuova fase nella lotta alla mafia”. Intervista con Giovanni Falcone, in Segno 1990, 116, p. 10

(11), (12), (13), Fonte “Breve storia della mafia” – Rosario Minna – Editori riuniti, 1984.


 

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