DIARIO DI VIAGGIO
di
Mirca Garuti
1° GIORNO
VOLO ME 236 11/09/06
ROMA-MILANO- BEIRUT
Ora
d’arrivo: 17,00
L’emozione
è forte, chissà cosa troverò, mi domando, e mentre respiro aria di casa,
attraverso, insieme a gli altri componenti della delegazione “Per non dimenticare
Sabra e Chatila”, l’aeroporto di Beirut verso l’uscita.
Non vedo
distruzioni ma noto che è semplicemente deserto o quasi. Prima sensazione di
“emergenza” di un paese. La strada che percorriamo per raggiungere l’albergo è
caotica, causa la distruzione di ponti che ci costringe quindi a deviazioni per
poterli raggirare. Su tutto il percorso troviamo enormi cartelli che
riproducono le immagini del conflitto, sui quali lo slogan “La divina vittoria” è sempre presente.
Questo significa che
l’obiettivo di Israele non è stato raggiunto e che gli Hezbollh continuano ad
essere una forza importante nel paese. Quanta tristezza e rabbia producono gli effetti di una guerra,
o meglio di una invasione, ai miei occhi, agli occhi di una persona che crede
ancora nel semplice diritto di libertà di esistere!
Il
programma della nostra permanenza in Libano è iniziato con un incontro di
saluto, presso l’hotel Meridian di Beirut, con alcune Ong Palestinesi e con
Talal Salman, direttore di “As Safir” uno dei più importanti quotidiani libanesi.
Meeting aperto dalla nostra guida
Palestinese Kassam responsabile dell’associazione Assumoud con i ringraziamenti
per la nostra presenza, nonostante tutte le difficoltà attuali. L’argomento
principale è stato naturalmente quello inerente alla situazione libanese.
Innanzitutto ricordare sempre come vivono i Palestinesi in Libano. Da
sottolineare l’importanza che ha avuto la società civile sia libanese che
palestinese in questo ultimo conflitto. Tre sono i punti fondamentali che hanno
caratterizzato questo ruolo: i primi soccorsi delle persone sfollate, la
garanzia di un minino aiuto ai profughi ed infine la solidarietà
internazionale. Nella prima fase della guerra c’è stato grande smarrimento,
dovuto alla complessità della società libanese, poi si è cercato invece di
trovare un’unità del paese per poter riprendere in mano la situazione
facendo blocco unico di fronte al
nemico. La vittoria finale su Israele è dovuta alla decisione politica di un
partito, alla forte resistenza, che si è
creata grazie anche alle precedenti lotte, ed alla grande preparazione a
tutti i livelli della società civile.
Talal
Salman parla con orgoglio della vittoria su Israele, per la prima volta uno
stato arabo è riuscito a resistere da solo, senza rassegnarsi al nemico, senza
l’aiuto di nessuno riuscendo a portare
la crisi dentro lo stato Israeliano. Se
si osservano, continua a raccontare Salman,
le zone colpite dai bombardamenti si può capire tutta la cattiveria di
chi ha voluto distruggere tutto. Ci sono stati più di 9000 incursioni aeree sul
territorio libanese, venivano lanciati missili su qualsiasi cosa si muovesse
fuori dai confini, bombardando anche gli aiuti che arrivavano lungo l’unica via
in direzione Damasco. Abbiamo sempre commemorato la strage di Sabra e Chatila,
le vecchie stragi nel sud del Libano, ma oggi purtroppo dobbiamo aggiungere i
tanti i luoghi in cui si sono verificati
i nuovi massacri. Israele ha scelto di concentrare la guerra contro una
sola confessione, quella sciita degli Hezbollab, ma il popolo libanese ha
capito che questa non era la verità, che era solo propaganda, ha reagito quindi
invece verso l’unità del paese stesso. Lo dimostra il fatto che i Libanesi
scappati dalle loro abitazioni sono stati ospitati da altri libanesi, senza fare
alcuna distinzione tra sciiti, sunniti, cristiani, maroniti, ecc. Un’altro
fatto molto importante ed unico nella storia dei profughi palestinesi è stato
proprio quello dell’apertura dei campi per ospitare migliaia di libanesi in
fuga dal sud, determinando così le condizioni di una unità tra palestinesi e
libanesi senza precedenti. Unità che si è creata proprio perché entrambi
vittime della identica volontà di potere di Israele. Salman, rispondendo alle
varie domande da noi poste, illustra il nuovo scenario politico determinato
dopo il conflitto, il mutamento interno al paese e nell’area mediorientale. La
guerra ha cambiato i rapporti tra Libano/Israele e Libano/Paesi Arabi. Per la
prima volta il confronto non è stato con un esercito arabo, ma è stato con una
forza popolare, forza popolare che ha fatto resistenza, ogni cittadino ha
difeso quello che poteva, insieme agli Hezbollah, ogni città ha organizzato la
sua resistenza. I combattenti libanesi non difendevano nessuna posizione,
difendevano solo le loro case, non c’era l’esercito ma c’era solo il Popolo.
Ultimo
argomento trattato è sulla valutazione della risoluzione Onu n.1701. Occorre
guardare, stare all’erta, niente è sicuro. Questa soluzione garantisce i
confini di Israele, ma anche la sicurezza del Libano, è importante che l’Unifil
continui a sventolare le bandierine delle Nazioni Unite e non quelle degli
Stati Uniti.
Tra
l’ironico ed il preoccupato Salman evidenzia “l’ingorgo” in terra ed in mare
che si determinerà con l’insediamento dei 15.000 soldati della missione Unifil
2 ed i 15.000 militari libanesi in un pezzo di terra di appena 1000Kmq tra il
confine di Israele ed il fiume Litani. La risoluzione 1701 in teoria dovrebbe
essere una garanzia per il cessate il fuoco, ma in pratica, essendo consapevoli che il Consiglio di
Sicurezza Onu è un tribunale non imparziale, non lo è.
Domani
incontro con il presidente della repubblica libanese Emile Lahoud e con il
sindaco del municipio di Gobheiry
2° GIORNO
Il secondo giorno
incontriamo il Presidente della repubblica libanese Emile Lahoud. Ci troviamo
all’interno del palazzo presidenziale, veniamo accompagnati nella sala di
ricevimento. Al centro si trova la poltrona presidenziale, ai due lati invece
le sedie riservate agli ospiti, la sala è sobria, a terra tappeti e alle pareti
quadri. A noi è vietato l’uso delle macchine fotografiche e dei registratori.
Entra il Presidente. Noi siamo in piedi e ci saluta sorridendo con una stretta
di mano uno per uno. Apre l’incontro Stefano Chiarini, giornalista del
“Manifesto” e responsabile della nostra delegazione. Ringrazia il Presidente
per averci ricevuto e porta i nostri saluti e la nostra solidarietà al popolo
libanese, così duramente aggredito da
Israele ma determinato nella resistenza. Il Presidente Lahoud ringrazia a sua volta la delegazione per la
sua costante presenza, negli ultimi sette anni, al fianco dei profughi
palestinesi colpiti dalla strage di Sabra e Chatila. Ci parla con orgoglio
della vittoria militare e politica contro il nemico storico del Libano: Israele.
Ricorda il massacro di Cana del 1996, dove furono uccise oltre cento persone
all’interno della base Onu che fu bombardata con bombe al napal. Oggi lo
scenario è lo stesso di allora. Durante questa guerra il Libano ha difeso
solo la sua terra, i suoi diritti.
Molti paesi arabi pensavano che senza l’appoggio Usa sarebbe stato impossibile
fermarli, ma non è successo, e come disse Giovanni Paolo II “ la terra del
popolo diverso ma unito ha sconfitto più volte l’esercito israeliano”. Infine
parla anche delle prospettive di pace con la speranza che Israele abbia capito
la lezione e che si sieda ad un tavolo di trattative nella posizione di un
paese che è stato sconfitto, come è successo a Madrid durante la conferenza di
pace regionale del 1991. Base della discussione per la costruzione di una pace
vera dovrà essere quella della restituzione dei territori, la liberazione dei
prigionieri, il rispetto dei confini terrestri, marittimi ed aerei.
L’incontro,
a questo punto, è finito, si alza in piedi e ci saluta, sempre uno alla volta,
ringraziandoci ancora.
Prossimo
appuntamento è con il sindaco del
municipio di Gobheiry, periferia
sud di Beirut, uno dei più colpiti dai bombardamenti, essendo il quartiere
sciita che ospita molti uffici e residenze di esponenti e parlamentari degli
Hezbollah.
Prima di questo incontro, mi sono recata con altri componenti del nostro gruppo al Haifa
Hospital, che si trova all’interno del
campo profughi di Burj El –Barajuch, per
consegnare dei medicinali. L’accoglienza, come al solito, è stata molto
calorosa. Abbiamo visitato l’ospedale, molto curato, ma pressoché deserto, in
quanto, trovandosi in una zona molto a rischio, si preferisce andare altrove.
Al termine della
visita, abbiamo raggiunto il resto del gruppo che si trovava già a Gobherij.
Il sindaco
ci ha accolto nella solita sala degli anni scorsi destinata ai ricevimenti,
dove purtroppo abbiamo potuto riscontrare
i primi segni di una guerra da poco
terminata. Alle finestre, che si trovano tutte su una lunga parete, non ci sono
vetri ma solo fogli di nylon, mentre quella che si trova alle spalle dove è
seduto il sindaco, ha il vetro forato dai proiettili.
Il sindaco infatti
racconta che questo è stato il primo edificio ad essere bombardato
dall’esercito israeliano, come del resto è stato per il ponte vicino al
municipio che porta all’aereoporto, all’ospedale e ad un parco giochi per
bambini. “Hanno voluto colpire brutalmente il Libano -inizia il sindaco - Israele
con l’aiuto degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. Sono morte 45 persone, tutte
civili, all’interno del palazzo. Il loro obiettivo era quello di colpire la
direzione degli Hezbollah. Chiedevano la liberazione dei due soldati israeliani
caduti nelle loro mani e volevano impedire il lancio dei missili al nord d’Israele.
I vertici militari di Israele avevano capito, dopo la prima settimana di
combattimenti, che la loro battaglia era persa, a causa delle tante perdite per
l’inaspettata capacità militare degli Hezbollah, ma l’amministrazione americana
ed il segretario di stato C.Rice hanno imposto la continuazione delle ostilità
sino al 33°giorno, per eliminare
totalmente gli Hezbollah. Questa loro offensiva doveva essere un momento di
rilancio del progetto “ Grande Medio Oriente” attraverso la distruzione della
resistenza libanese, l’imposizione di un governo “amico” a Beirut e l’apertura
del fronte siriano e iraniano. La
nostra resistenza ha impedito ogni avanzamento dell’esercito israeliano. Tutto
il popolo era pronto al sacrificio per vincere, non potevano lasciare il loro
destino in mano di chi crede di essere il più forte. Israele sta trascinando
l’Europa verso situazioni non democratiche, non liberali, come ha costretto il
popolo palestinese a fare delle scelte forzate. Nel 1948 Israele, prosegue il
sindaco ricordandoci la storia del suo paese, ha costretto i palestinesi a
rifugiarsi in Libano, dove inizialmente furono ben accolti, ma con il passare
del tempo divennero una minaccia per il traballante Patto Nazionale. Nel 1968
Israele colpì l’aereoporto di Beirut distruggendo 13 aerei civili libanesi,
l’avvertimento era chiaro, Israele non avrebbe più tollerato attacchi dal
Libano. Nel 1975 iniziò la guerra civile, il paese precipitò in una serie di vendette
incrociate e di anarchia. Con il protrarsi dei combattimenti, Beirut venne
divisa dall’infame “Linea Verde”, la città si trovò così separata in una zona a
est cristiana ed in una a ovest mussulmana. Nel 1978 Israele invase il sud del
Libano, dietro il pretesto dei continui attacchi dei palestinesi nei confronti
d’Israele, ma in realtà l’intenzione era quella di distruggere l’OLP e le sue
basi nel paese. Il sei giugno del 1982 Israele invase nuovamente il Libano, dal
sud fino a raggiungere Beirut. Era iniziata la famosa operazione “Pace in
Galilea”, risultato: 18.000 morti –
30.000 feriti, in stragrande maggioranza civili e macerie ovunque. A settembre
poi dello stesso anno ci fu la strage di Sabra e Chatila con quasi 3.000 morti
tra palestinesi e libanesi inermi.
La
responsabilità di questa ultima guerra viene attribuita agli Hezbollah, ma
occorre evidenziare che “il partito di Dio” (Hezbollah) si è formato nel 1982,
proprio per la liberazione del Libano, contro l’invasione israeliana. Come si
spiegano quindi le altre guerre prima del ‘82? La responsabilità di chi era?
Abbiamo
quindi il diritto di difenderci, il diritto di vivere, dobbiamo unirci tutti
contro la superiorità degli Stati Uniti. Il problema è quello della libertà,
noi vogliamo libertà per tutti, mentre loro vogliono libertà per se stessi
contro gli altri, finchè non riusciremo a raggiungere questo obiettivo,
continueremo a resistere.
Il popolo
libanese non ha mai vissuto una così totale unità contro Israele, come in
questo ultimo conflitto.
Si spera,
dopo questa esperienza, che si riesca veramente a creare un governo di unità
nazionale”.
Il sindaco
alla fine fa il resoconto dei danni subiti: 298 edifici distrutti nel suo
comune. Anche se oggi è possibile camminare tra i palazzi abbattuti, ci
vorranno ancora due/tre mesi per togliere completamente tutte le macerie.
Lasciata la
sala del municipio, siamo stati accompagnati dalle guardie municipali di
sicurezza nel quartiere di Haret Hreyk,
sede degli uffici del comando di Hezbollah e della televisione Al Manar.
Lo
scenario
era apocalittico, non riuscivo a credere a quello che vedevo… era
troppo…Non poteva
essere vero….Non può l’uomo arrivare a tanto…pensai, invece era
tutto vero, non era un film!!
Ho iniziato ad aggirarmi tra le
macerie che
erano ovunque intorno a me, ho iniziato a fotografare il più possibile
per
poter portare a casa la realtà dei fatti. Palazzi di quasi 20 piani
completamente rasi al suolo, alcuni invece stavano ancora in piedi ma
erano
sventrati, neri, bruciati dal fumo. Aree prima densamente popolate, ora
invece
trasformate in aree di rovine fumanti. Camminavo sulle macerie, mi
guardavo
attorno, c’era ancora molto fumo, polvere, cercavo di pensare che cosa
prima ci
poteva essere, quante persone sono morte lì sotto, mi chiedevo, quanta
forza ci
vuole per ricominciare quando tutto intorno a te è distruzione e quando
soprattutto la tua esistenza non conta nulla! Ho trovato quaderni,
fogli,
matite, indumenti, tutta una vita di ricordi sfumata di colpo: non c’è
più
nulla, tutto sparito. Ho pensato alla mia mania di tenere tutto, dallo
scontrino di un film, dal biglietto di un concerto, dalla ricevuta di
un
ristorante, senza parlare delle tante fotografie, perché tutto è legato
ad un
ricordo preciso, ad un momento della tua vita, bella o brutta che sia,
cosa
farei se improvvisamente perdessi tutto? Casa, ricordi, speranza, forse
la
rabbia di tanta ingiustizia mi farebbe reagire, non vorrei farmi vedere
umiliata, ferita, ma alzerei la testa più di prima per continuare a
combattere,
come del resto stanno facendo loro.
Nel mio cammino fra le macerie ho
incontrato una signora che stava guardando in basso, sul bordo di un
cratere, quella che prima era stata la
sua casa, non era disperata, né piangeva, guardava solamente con
dignità. Tutto
intorno a me si muoveva, i lavori di pulizia erano in atto. C’era un
continuo viavai
di camion pieni di macerie, persone che all’interno di case rimaste
ancora in
piedi buttavano fuori quello che era inservibile, ma che al nostro
passaggio,
ci salutavano alzando due dita in segno di vittoria.
Ad un certo punto,
mentre
stavo fotografando un automezzo dei vigili del fuoco, ho colto l’attimo
in cui
il getto d’acqua della pompa si è incrociata con un raggio di sole,
formando così
l’arcobaleno.
Sarà un segno positivo? A me fa piacere poterlo pensare!
In mezzo a
queste rovine gli Hezbollah hanno installato alcuni grandi tendoni dove i
volontari si coordinano per i lavori di ricostruzione. Vicino a queste tende ci
sono tante opere di pittori, di poeti e di scultori contro la guerra.
Le
fotografie parlano più di me, queste sono alcune immagini di quel disastro.
Continua………..domani
verso sud……..
3° GIORNO
Oggi
la nostra meta è il sud, verso Sidone, Tiro e il carcere di
Khiam.
Partiamo
presto perché la strada è lunga e difficile proprio a
causa della guerra che ha distrutto tutti i ponti, costringendoci
così a fare delle continue deviazioni che provocano solo file
interminabili di macchine. Lungo l’autostrada che collega Beirut a
Sidone non si vedono ponti rimasti in piedi, sono stati colpiti tutti
con estrema precisione. Lo spettacolo, se così si può
chiamare, è agghiacciante!
Ci
fermiamo spesso proprio per poter documentare tutto questo scempio.
Attraversiamo Sidone in direzione di Tiro e qui, arrivando verso
Nabhatiya, iniziamo a vedere case distrutte. Proseguiamo verso il
confine d’Israele in direzione del l carcere di Khiam. La strada è
divisa da una rete per poter dividere le proprietà dei coloni
israeliani con quelle libanesi. Non possiamo non notare la differenza
dei terreni coltivati, quelli israeliani sono verdi, rigogliosi,
mentre dall’altra parte sono più desolati, pietrosi.
Arriviamo
quindi a Khiam: è il vuoto, una totale distruzione, non
riconosco più il luogo di un anno fa!
Khiam
è il centro di detenzione e di interrogatori che Israele ha
costruito e utilizzato durante la sua occupazione dal 1982 al 2000
nel sud del Libano. Venivano rinchiusi i militanti della resistenza
libanese e palestinese. Arrivavano incatenati, incappucciati e
narcotizzati per essere poi interrogati.
Torturati
più che interrogati: venivano denudati, legati, messi a testa
in giù e picchiati per mesi e forse anni, venivano applicati
elettrodi alle dita, ai genitali ed ai capezzoli. I miliziani
cristiani dell’Els, esercito del Libano del Sud, alleato degli
occupanti, avevano appreso queste tecniche da Israele. Nel 2000,
quando l’esercito israeliano si ritirò, le guardie dell’Els
fuggirono e la popolazione locale fece irruzione nel carcere,
liberando i centoquaranta prigionieri rimasti. Negli anni passati
abbiamo sempre ascoltato storie di uomini e di donne che furono qui
incarcerati e torturati. La prigione aveva così mutato aspetto
ed era diventata un museo, un monumento alla memoria, un luogo
dedicato al ricordo di quelle atrocità, aperto a chi voleva
rendersi conto di come questa “segreta” prigione sia stata sempre
fuori dai controlli e dalle norme internazionali. Questa struttura
era amministrata dal partito degli Hezbollah, il partito di Dio.
Davanti all’ingresso c’era una sorta di bazar dove si potevano
acquistare souvenir e gadget del movimento di Hassan Nasrallah. Oggi,
tutto questo non esiste più, è rimasto solo un cumulo
enorme di macerie. Al centro dell’area, su un mezzo militare
israeliano catturato durante la guerra, sventola una bandiera bianca
e rossa con il cedro verde accanto a quella gialla e verde degli
Hezbollah, è uno dei simboli della “divina vittoria”.
La
visita a Khiam ci conferma che il partito di Dio è ancora il
padrone di tutto questo territorio. Incontriamo il capo militare e
responsabile per il sud del Libano del partito di Dio, Nabil Kawuq.
Ci accoglie con un “Benvenuti nel sud resistente”
“Questo
carcere – continua il capo militare Hezbollah – rappresenta la
violenza d’Israele. Qui venivano torturati i nostri combattenti, i
prigionieri libanesi, colpire questo carcere significava quindi
cancellare le tracce di tutta quella violenza. I nostri giovani hanno
condotto una grande resistenza contro Israele che ha attaccato il
Libano usando armi proibite dalle convenzioni internazionali, ha
distrutto case, ponti ma, non la nostra determinazione di vivere.
Grazie alla resistenza, il piano degli Stati Uniti e d’Israele è
stato bloccato, volevano eliminarci, ma noi oggi siamo ancora più
forti, volevano disarmarci, ma noi conserviamo ancora le nostre
armi, infine volevano respingerci oltre il fiume Litani ma noi siamo
sempre presenti a ridosso del confine con Israele.” Queste parole
ci portano al cuore del problema, ossia al disarmo degli Hezbollh.
Disarmo, voluto da molti, nonostante il riconoscimento della loro
difesa dei confini nazionali a differenza dell’incapacità
dimostrata dall’esercito nazionale libanese. “ La nostra forza
militare – prosegue Nabil Kawuq – è al servizio di tutto
il paese e serve contro la forza d’occupazione. Non sarà mai
usata contro un libanese. L’azione degli Hezbollah è stata
decisiva e non siamo disposti quindi a dover abbandonare quello che
abbiamo ottenuto. La resistenza non ha l’intenzione di porre la
armi e, finchè ci saranno territori occupati da Israele,
finchè lo stato ebraico continuerà a violare le
risoluzioni dell’Onu, rimarrà viva. Non ci può essere
garanzia per gli occupati, quindi la nostra volontà è
quella di continuare la resistenza. La nostra promessa, per l’anno
prossimo, sarà quella che l’appuntamento con voi sarà
proprio a Sheeba” Con questo augurio Kawuq ci saluta, ma riusciamo
a fargli l’ultima domanda in merito al nostro contigente
all’interno della forza Unifil. “ se il dispiegamento delle forze
Unifil e dell’esercito libanese – risponde – avviene
rispettando la risoluzione 1701, noi l’appoggiamo. Ben venga l’Onu,
purchè le nostre terre siano liberate”
A
questo punto lasciamo le rovine di Khiam. Ci dirigiamo verso la
cittadina martire e simbolo della resistenza libanese, Bent Jbeil.
Passiamo per Fatima Gate, unico punto di frontiera, che alcuni giorni
dopo la liberazione del sud nel 2000, ha visto i rifugiati
palestinesi incontrarsi con i parenti in Galilea, divisi da oltre
cinquant’anni di guerre e occupazioni.
Dopo
Fatima Gate, ancora distruzioni, continuiamo lungo il confine, fino
ad arrivare a Bent Jbeil. Questa è una cittadina che, prima
dell’inizio dell’occupazione israeliana, era sconosciuta anche a
molti libanesi , ma ora, grazie proprio a quei drammatici giorni, è
diventata famosa anche a livello internazionale. L’esercito
israeliano infatti ha tentato più volte di prendere la collina
su cui sorge il paese, ma senza nessun risultato. Anche qui si
avverte subito la forte presenza degli Hezbollah. Il sole è
alto quando arriviamo, la luce è accecante, non ci sono
soldati, non c’è quasi nessuno, solo polvere e ruspe al
lavoro per sgomberare macerie dalle strade. Ho bisogno di stare da
sola, mi allontano dal gruppo, mi guardo attorno e comincio a
fotografare la distruzione che mi circonda. Qui non ci sono palazzi
alti come nel quartiere sud di Beirut di ieri, quindi con una massa
enorme di macerie, ma semplici case. E’ angosciante camminare tra
case sfondate, posso vedere quello che resta di una camera da letto,
di un soggiorno, della porta d’ingresso, del colore pastello delle
pareti di una stanza. Tra le macerie trovo quello che resta di un
letto, materassi, quaderni, piatti rotti, abiti e…. insomma la vita
di persone. Quello che ha causato tutto ciò non è stato
un evento naturale, non è stata la forza della natura, ma è
stata una volontà umana determinata e spietata. E questo non
si può accettare.
Vago
tra quelle rovine, continuo a scattare, con la speranza che questa
testimonianza possa servire, non riesco a parlare, i commenti non
servono. Quando incontro qualcuno del luogo, sorrido semplicemente.
L’importante è essere lì.
Lasciamo
infine anche Bent Jbeil e ci dirigiamo verso Tiro. Ad un incrocio
troviamo uno striscione, qualcuno ci traduce:
avete
abbattuto i nostri ponti ma noi vinceremo nel cuore della nostra
gente. Il mio commento “è vero, hanno ragione”.
Quasi
ad un mese della fine della guerra, lo Stato centrale ha fatto ben
poco, non è arrivato a questi villaggi, non ha aiutato questa
gente. La gente del Libano è stata aiutata solo dagli
Hezbollah. Lungo il percorso ci fermiamo pochi minuti a Cana, dove
il 30 luglio ci fu il massacro di molti civili, soprattutto bambini.
Il sacrario non è stato colpito, , ma le case intorno sono
state totalmente distrutte.
A Tiro incontriamo solo il sindaco,
abbiamo poco tempo!
Andiamo
direttamente nella sala della Giunta, dove pochi minuti dopo arriva
Abdul Muhsen El Husseini, sindaco di Tiro.
E’
un uomo piccolo, minuto, semplice, rifiuta ogni tipo di protocollo.
Infatti, respinge subito la poltrona a capo del tavolo, e si siede
vicino a noi e come noi. Ha voluto incontrarci direttamente, saltando
tutti i vari percorsi burocratici, per ringraziarci di essere lì
e, senza tanti giri di parola, fa subito le sue considerazioni sulla
guerra. E’ un uomo molto pratico con idee chiare e precise. E’
orgoglioso della sua gente e della loro straordinaria voglia di
ricominciare a vivere. Ci racconta che, lo stesso giorno della fine
della guerra, ha lanciato un appello alla gente di tornare alle loro
case perché le case avevano bisogno di loro e loro delle case.
E’ critico nei confronti del governo perché non c’era,
sono stati i sindaci dei vari comuni a dover affrontare la situazione
d’emergenza e portare i soccorsi alla loro gente. Ci parla ancora
del pericolo delle bombe inesplose che impediscono agli agricoltori
di raccogliere la loro frutta ed ai pescatori di pescare. Le bombe a
grappolo lanciate da Israele nelle ultime quarantotto ore del
conflitto sono state oltre novecentomila. Infine elenca le priorità
della situazione, in caso si voglia portare avanti dei progetti, che
sono: la bonifica delle bombe a grappolo – la preparazione delle
scuole (banchi,armadi, sedie, ecc.) – acqua – case.
Usciamo
dal palazzo comunale, facciamo un piccolo giro per la città e
ci dirigiamo subito al campo di Rashdiyeh, pochi kilometri fuori da
Tiro. E’ uno dei campi dei rifugiati palestinesi in migliori
condizioni che si trovano in Libano. Qui ci sono anche i bambini che
sono venuti a Modena nel dicembre 2004, quindi è sempre
un’emozione per me poterli rivedere.
Questo
campo è strettamente controllato dagli uomini di Fatah, il
partito fondato da Yasser Arafat. L’accoglienza qui è sempre
molto calorosa: due fila di bambine e bambini con le loro divise
colorate e la banda ci accompagnano all’interno del campo. Questa
volta hanno preparato per noi uno spettacolo di danza e poesie.
Ci
fanno omaggio anche di una lettera indirizzata agli amici italiani,
sui diritti dei bambini palestinesi e libanesi, sul diritto di poter
vivere la propria fanciullezza come gli altri bambini del mondo.
La
giornata, come al solito del resto, è frenetica. Subito dopo
lo spettacolo c’è l’incontro con Sultan Abu Alaynen,
leader-principe del campo e responsabile per il Libano di Fatah.
Sultan ricorda che questa guerra contro il Libano da parte di Israele
è stata condotta senza nessun principio umanitario, è
stata una vendetta. Una guerra aggressiva, di odio, senza obiettivi
recisi se non quelli di terrorizzare e distruggere. Continua il suo
discorso, riportando le affermazioni di Condoleezza Rice che, a dieci
giorni dall’inizio del conflitto, riteneva che non fosse giunto
ancora il momento di cessare il fuoco, anzi, chiese di intensificare
l’azione militare israeliana per poter così imporre
condizioni politiche ai libanesi. L’unico obiettivo dichiarato
dagli Stati Uniti è quello di costruire un nuovo Medio
Oriente. Poi il leader palestinese parla del suo popolo, l’unico ad
essere privato di una patria. La verità è che la
comunità internazionale è al servizio degli israeliani,
l’unica soluzione è la nascita di uno stato palestinese.
Termina chiedendo:” ma Stati Uniti e Israele sono disposti a
riconoscere i diritti sociali del nostro popolo?” Questa domanda è
anche la nostra ma, alla quale non riusciamo da tempo a dare
risposta. Domandiamo a Sultan come sono le condizioni di vita dei
rifugiati palestinesi in Libano dopo il conflitto. “ La situazione
dei palestinesi è difficile, come ha sempre sostenuto il
governo prima del conflitto. Ora purtroppo le speranze di un
possibile miglioramento si allontanano sempre di più. Si parla
anche della presenza di armi all’interno dei campi ma, non sarà
mai accettata nessuna trattativa in merito, se prima non vengono
riconosciuti i diritti ai palestinesi che vivono in Libano. Anche
questo incontro è terminato ed iniziano quindi i saluti prima
della nostra partenza. Alcuni si avvicinano al minibus e vogliono
raccontare la loro solidarietà verso i libanesi durante il
conflitto. “ Abbiamo aperto le porte del nostro campo, era il
minimo che potessimo fare per aiutarli, per restituirgli ciò
che hanno dato ai nostri nonni e padri sessant’anni fa:”
Con
molta tristezza abbiamo dovuto salutarli ma con la promessa di
rivederci ancora l’anno prossimo, sempre a
settembre.
La
giornata è finita, si torna a Beirut.
Continua………..Domani,
destinazione è Baalbek
4°
GIORNO
Giovedì
14 settembre, partenza molto mattiniera, dobbiamo arrivare a Baalbek
“la città del sole” dell’antichità, cittadina
molto famosa in tutto il mondo per lo straordinario sito archeologico
riconosciuto come “patrimonio dell’umanità” dall’Unesco.
E’ la città romana più importante del Medio Oriente.
Prendiamo la via che porta a Damasco, la capitale della Siria. Dopo
circa quaranta chilometri da Beirut troviamo il primo rallentamento
dovuto ad un altro ponte abbattuto. Siamo sulla strada della
cittadina di Chitaura, tappa obbligata per tutti i mezzi di trasporto
della valle della Bekaa. Praticamente è solo un incrocio di
strade, a nord per Baalbek ed Homs in Siria, a sud verso il lago di
Qaraoun e a est verso Damasco e la Giordania. Proprio qui c’è
il ponte più importante del Libano, il viadotto di Sofar,
quello che collega infatti la capitale con la vicina Damasco. Era il
più alto del Medio Oriente ed era diventato uno dei simboli
della ricostruzione dopo la guerra civile.
Kassem, la nostra
preziosa guida palestinese, racconta che è stato fra i primi
ad essere colpito proprio per impedire il più possibile il
collegamento tra il Libano e la Sira. Quello che abbiamo davanti è
tremendo: una intera carreggiata non esiste più, interamente
spaccata cento metri sotto. Si calcola che, in tutta la zona, la
guerra abbia causato due miliardi e mezzo di dollari di danni alle
infrastrutture, trecentotrenta appartamenti distrutti, trecento
danneggiati seriamente e quattromila con lesioni evidenti. E’ stata
distrutta anche la fabbrica del latte, la “liban lait” dai
bombardamenti israeliani, senza nessuna ragione. Corre voce infatti
che Tel Aviv abbia infierito su una industria civile per ragioni di
“mercato”, eliminando un concorrente scomodo per l’economia
nazionale. L’industria libanese sembra avesse acquisito un
contratto di forniture all’Unifil. La distruzione della fabbrica ha
gettato sul lastrico migliaia di persone, tra dipendenti e familiari.
Dopo
circa due ore arriviamo finalmente a Baalbek. Il capoluogo si trova
proprio al centro della valle della Beeka, la vallata che divide
Libano e Siria. E’ un altopiano compreso tra le catene montuose del
Monte Libano e dell’Antilibano, dove la coltivazione più
fiorente, prima e durante la guerra civile, è stata quella
della canapa indiana. Ma proprio qui nel 1982, si fondò il
movimento Hezbollah, nato da una costola del partito storico sciita
Amal. La divisione fu dettata dall’avere come riferimento un forte
senso nazionale, anziché i governanti siriani (Ayatollah) da
poco al potere in Iran. Un compagno del PC libanese ha raccontato poi
che qui, durante il conflitto, è successo un avvenimento
molto curioso. Il governo d’Israele decise di fare un’operazione
clamorosa per tentare di uscire dalla crisi in cui era caduto a causa
della inaspettata resistenza del sud. Fu decisa un’azione, proprio
qui a Baalbek, dove dovevano essere rapiti alcuni membri importanti
della famiglia di Nasrallah. Il commando israeliano fu però
scoperto dagli abitanti della città, lo scontro fu immediato e
gli israeliani furono costretti ad una ritirata. Una decina però
di libanesi furono colpiti a morte, fra questi anche esponenti del PC
libanese. Terminata l’azione di guerra, fonti israeliane diedero la
notizia che l’operazione era stata positiva e che erano stati
catturati cinque importanti dirigenti Hezbollah. Dopo qualche giorno
ci fu la smentita e, con un comunicato, veniva annunciata la
scarcerazione dei cinque cittadini libanesi. Infine si seppe che
quattro di essi erano poveri coltivatori e il quinto un contadino che
aveva la sola colpa di chiamarsi come il leader arabo.
La
nostra prima tappa è il palazzo comunale, incontro con il
sindaco. Si respira qui proprio la classica atmosfera araba, caotica,
colorata, con macchine, negozi e tanta gente lungo la strada.
Arriviamo in Comune, siamo ricevuti dal vice presidente del consiglio
comunale, Dr.Khaled Rifai. Dopo pochi minuti di attesa, ci danno il
benvenuto il presidente del consiglio comunale ed il responsabile
della regione di Hezbollah, Mohafar Al Jamal. “Benvenuti nella
città della resistenza, serbatoio della resistenza, dove c’è
stato l’ultimo attacco sionista nel pieno del cessate il fuoco –
così inizia subito il presidente – Israele ha quindi
utilizzato tutto il tempo concesso dagli Stati Uniti per distruggere
questo paese”. La città è stata solo in parte
colpita dai bombardamenti, il confine israeliano è lontano, ma
la colpa di questa città, è quella di essere vicina a
Damasco e quella di aver dato inizio al movimento islamico di
Nasrallah.
Rifai
prosegue il discorso con varie affermazioni “ Questo serbatoio
della resistenza ha un conto aperto con Israele
da molto tempo. Non ci ha sorpreso la violenza dell’attacco e non
ci ha trovato impreparati. La civiltà sionista si misura dal
numero di massacri che compie, se questa è la democrazia che
vogliono esportare, noi allora non la vogliamo. Noi vogliamo un mondo
civile per arrivare alla pace. Voi siete i benvenuti perché
rappresentate la gente libera, lottate con noi, siete venuti qui
subito dopo il conflitto, per vedere. Il popolo libanese e quello
italiano sono simili, quindi ogni cittadino italiano che vieni qui è
cittadino onorario di Baalbek. Spero che il governo italiano possa
giocare un ruolo importante in questo conflitto”.
Riprende
il dibattito Al Jamal che teme purtroppo che i risultati della
resistenza possano essere messi in discussione dalla diplomazia
internazionale, dando una vittoria politica ad Israele che non
corrisponde alla sconfitta militare subita nei trentatre giorni di
guerra. Da qui quindi la critica verso una dirigenza nazionale
accusata di essere troppo incline alle mediazioni. “ La guerra in
Libano non è stata causata dalla cattura dei due soldati
israeliani, né per la difesa dei confini dello Stato
d’Israele. Fa parte invece di un piano politico americano, secondo
le dichiarazioni di Condoleezza Rice, che attraverso questo
conflitto, voleva aprire il varco per la costruzione del “Nuovo
Medio Oriente”. Olmert l’aveva detto chiaramente, il suo
obiettivo era la testa della resistenza. Un terzo di Baalbek è
stato distrutto o danneggiato, per un totale di mille case rase al
suolo o gravemente colpite. Molti danni al mercato e ai negozi. Ora
siamo più determinati di prima a mantenere le nostre armi per
difenderci. Abbiamo deciso di andare in paradiso armati, non c’è
libertà senza armi, non possiamo convivere con questo nemico
criminale senza armi. Ci dispiace che il mondo dia ragione a Israele,
quindi alla forza e non al diritto. Qui la gente sta con chi lotta
per la libertà, questa è una città di libertà”
Usciamo
quindi dalla sala comunale, attraversiamo la città ed
arriviamo nella zona colpita dai bombardamenti. I palazzi abbattuti
non sono tantissimi, ma la sensazione che si prova camminando fra le
macerie è la stessa di sempre di questi ultimi giorni: rabbia,
impotenza, incredulità e tanto dolore. Arriviamo a quello che,
fino a un mese fa, era un grosso supermercato, ora non c’è
più nulla, solo detriti su detriti. Per fortuna quando è
successo era venerdì, giorno di chiusura per la festa
islamica.
Di fronte, un palazzo completamente accartocciato su se
stesso, accanto ad un altro, sparito, che si è lasciato dietro
un’enorme buca grande quanto lui. Ci avviciniamo naturalmente alla
buca, ma alcuni soldati dell’esercito libanese cercano di
allontanarci perché, all’interno della buca c’è
ancora un missile inesploso e stanno quindi cercando di disattivarlo
prima di disinnescarlo.
Usciamo
dalle rovine recenti di una nuova guerra per andare a quelle antiche
dell’Heliopolis, il sito archeologico di Baalbek. Un groviglio di
pensieri mi passa per la testa, mille domande, ma non ho risposte da
darmi, non ho spiegazioni accettabili per arrivare a capire il perché
di tutto questo. Mi trovo quindi catapultata nel passato, tra quello
che resta di una antica civiltà che credeva di poter dominare
per sempre il mondo intero. E’ tutto così imponente e
meraviglioso da toglierti quasi il fiato! Ci siamo solo noi a
calpestare quelle antiche pietre, il turismo, causa appunto la
guerra, è stato bloccato.
Siamo
ospiti a pranzo dagli Hezbollah. E’ l’occasione per continuare a
parlare con loro delle conseguenze politiche del dopo guerra. I
militanti del Partito di Dio sanno che devono dimostrare ai cittadini
libanesi la loro capacità di ricostruire, di rimettere in
piedi il paese, di risarcirlo dalle sofferenze subite, assumendosi
quindi un ruolo da protagonisti, anche per la sopravvivenza del
movimento stesso. “Altri”, ossia le forze legate al primo
ministro, speculano su tutto questo cercando anche di ridimensionare
la forza del movimento. Dietro a questi “altri” ci sono capitali
sauditi ed europei con il consenso degli Stati Uniti. Strumento di
questa intenzione sono proprio le varie Ong, organizzazioni non
governative, che decidono la distribuzione delle risorse in favore di
un governo centrale, che si è dimostrato incapace a difendere
il proprio paese dall’aggressione, e che oggi invece riesce a
trarre profitto dalla sua ricostruzione. Una cooperazione quindi
politica. Per quanto riguarda l’Italia, le Ong, improvvisamente
sono aumentate nel giro di poche settimane, da meno di dieci a
cinquanta.
Finito
il pranzo, il nostro gruppo si divide, chi torna nella città
di Baalbek, chi invece va al campo profughi di Wavell. Io decido di
andare al campo profughi. È sempre molto toccante trovarsi
circondati da tanti bambini che ti corrono intorno, che ti chiedono
solo una foto. È difficile fotografarli, perché mentre
cerchi di fissarne uno ti passano davanti due,tre,quattro, quindi
devi essere veloce, per accontentarli tutti. Ad un certo punto, un
aereo ha sorvolato il cielo con un rumore assordante, ho colto
subito, in un bambino vicino a me, un momento di paura, pronto a
scappare, per nascondersi. Sono questi attimi, queste piccole
sfumature, a volte non percepite, che ti fanno capire quanto male può
fare l’uomo, e mi sono sentita improvvisamente piccola e inerme.
Con questa tristezza ho abbracciato e salutato i bambini e, con il
resto del gruppo, abbiamo lasciato il campo per ritornare verso
Beirut.
Anche
questo giorno è finito, domani a Chatila “per non
dimenticare”
5° Giorno
Venerdì
15 settembre, questa mattina siamo diretti a Mar Eljas, piccolo campo
profughi di cristiani palestinesi, vicino a Beirut. Qui dobbiamo
incontrare le forze politiche palestinesi. Ci saranno due incontri
separati per disaccordi tra i vari gruppi politici. Questo ci coglie un
po’ impreparati, non è un segnale positivo, l’anno scorso invece questo
appuntamento si effettuava tutti insieme. Il primo meeting è con i
rappresentanti delle forze che aderiscono all’Olp: Fronte democratico,
Fronte popolare e Fatah. Organizzazioni che rappresentano la storia
della lotta di liberazione del popolo palestinese.
Il
rappresentante di Fatah inizia con il considerare questa nostra visita
molto importante, oggi ancora di più degli anni passati. ” Il
comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” doveva servire a
ricordare quel massacro, affinché non si ripetesse mai più, ma
purtroppo la realtà dei fatti è molto diversa. Il massacratore è sempre
uno e sempre lo stesso. Noi non siamo qui per applaudire alla vittoria,
ma solo la non vittoria d’Israele, è già una vittoria. La forza del
movimento Hezbollah è data dalla costruzione di un progetto serio,
trasparente, con una forte organizzazione di partito e con una
radicata base popolare. Israele non è un paese che può cadere da solo,
è forte, ma si può sconfiggere. E’ potente ma non è riuscito a vincere
la resistenza libanese. Questa resistenza ha ridato senso e speranza
anche alla lotta palestinese”. Prende subito la parola, il
rappresentante del Fronte Popolare, che continua a parlare del problema
palestinese.
“
Non dobbiamo permettere al nemico israeliano di distruggere l’unità del
nostro popolo, come sta succedendo a Gaza. La condizione dei profughi
palestinesi qui in Libano è sempre difficile. I rapporti con il governo
centrale sono migliorati ma purtroppo è tutto troppo lento. Il governo
ha accettato la presenza di una rappresentanza dell’Olp, dopo oltre
vent’anni. Oggi abbiamo a Beirut un ambasciatore che è il punto di
riferimento di tutti i palestinesi che sono qui presenti. La questione
principale però, per quindicimila palestinesi che vivono attorno alla
cintura di Beirut, è quella di non possedere alcun documento di
riconoscimento. Ora, attraverso l’ambasciatore, hanno ottenuto una
certificazione, in attesa di un vero documento. I palestinesi non hanno
avuto momenti di disperazione, ma solo continue sofferenze. Una piccola
nota positiva è data dal fatto che, il ministero del lavoro, il cui
titolare fa riferimento a Hebollah, nei mesi prima dello scoppio della
guerra, aveva concesso ai palestinesi di poter lavorare, con un
documento che, però non si è mai trasformato in modo concreto. Era una
nota morale, non era una legge. Oltre all’impossibilità di lavorare,
c’è anche quella che riguarda la proprietà della casa. Una legge
impedisce ai palestinesi di poter trasferire la proprietà agli eredi. “
Da Sioniora – dice il rappresentante del Fronte democratico – abbiamo
ottenuto che la casa possa essere registrata al catasto, anche dopo
tanti anni, con una sanatoria, ma non basta”. Il discorso torna sulla
Palestina. “ Oggi il popolo palestinese, che vive in Palestina, –
continua l’esponente del Fplp – vive una grande preoccupazione, si
sente lasciato solo di fronte al potente nemico israeliano. Il progetto
di creare uno Stato palestinese è in pericolo. Grande amarezza per i
rapporti con il resto del mondo arabo. Gli accordi vengono fatti solo
con Israele.” Infine, tutti e tre lanciano un appello: non lasciateci
soli, altrimenti le conseguenze potranno essere gravi, non solo per
l’Olp e per noi.
Dopo
pochi minuti, cambio di guardia, arrivano gli altri interlocutori. Sono
forze che non riconoscono l’Olp, nate da scissioni, anche piccolissime.
La lettura degli eventi per loro è più pessimista.
La
“novità” dell’ambasciatore, non è proprio esatta, in verità si tratta
solo della autorizzazione ad aprire un ufficio di rappresentanza, anche
se ugualmente si tratta sempre di un piccolo fatto positivo. Per quanto
riguarda la condizione dei profughi palestinesi, viene confermato
quello che già si sapeva. “ Il problema è il diritto al lavoro e alla
proprietà, non crediamo che il governo razzista libanese, porrà mai
fine a queste discriminazioni. Ogni volta che si tenta di discuterne,
puntualmente le priorità diventano altre. Ora la guerra del Libano ha
messo la questione palestinese in secondo piano, ma malgrado tutto,
continueremo sempre a chiedere i nostri diritti: diritto di vivere, di
proprietà, di lavoro, d’istruzione”
A
questo punto lasciamo Mar Eljas per recarci alla sede dell’ordine dei
giornalisti a Beirut, dove si terrà la conferenza stampa del Comitato
“Per non dimenticare Sabra e Chatila”, con la presenza anche dei
parenti delle vittime. Questo è uno degli appuntamenti ricorrenti di
ogni anno, ma oggi il presidente dell’Ordine ha una aria solenne, più
determinata. Le sue parole infatti richiamano subito il valore della
resistenza “ un valore che rinsalda anche lo spirito di unità nazionale
del nostro popolo”.
Stefano
Chiarini, giornalista del Manifesto, spiega subito perché la missione
in Libano di quest’anno è stata chiamata “ Da Sabra e Chatila a Cana” .
Perché basta con i massacri israeliani, basta con l’impunità di questi
criminali. “ Siamo qua – continua – per vedere quello che è successo,
per poter riportare indietro le nostre impressioni. Ricordare le
vittime di Sabra e Chatila è un nostro dovere per offrire, nei loro
confronti, solidarietà e dimenticare, invece chi ha fatto i massacri,
significa dare loro la possibilità di farli continuare. Sabra e Chatila
ci riporta al cuore della tragedia del problema palestinese, la pace
non sarà mai possibile se questa questione non verrà risolta. Non è
possibile imporre una pace senza il ritiro d’Israele dai territori
occupati”. Israele vuole, pretende, che venga accettata la famosa
risoluzione 1701 dell’Onu, ma se Israele stesso non ne ha rispettato
oltre settanta di risoluzioni, quale credibilità può pensare di avere?
Si vuole fermare la resistenza libanese, si vuole il disarmo degli
Hezobollah, mentre gli Stati Uniti continuano invece a fornire armi ad
Israele, quindi non esiste equità, ma bensì due pesi e due misure, che
portano solo un estensione dei conflitti in Medio Oriente.
La
conferenza termina con i ringraziamenti alla delegazione da parte del
presidente dell’Ordine, rivolgendo ancora una volta un pensiero alle
vittime di Shatila. Ci saluta cercando di trasmetterci un sentimento
positivo di vittoria perché alla fine si sente in pace con la sicurezza
di essere dalla parte dei giusti.
Raggiungiamo,
a questo punto della mattinata, il campo di Chatila, per una breve
visita e per il pranzo offerto dalle madri e mogli delle vittime della
strage. La visita a questo campo mi procura sempre un’enorme tristezza
mescolata ad una infinita rabbia. Camminiamo velocemente, come al
solito, nei vicoli stretti, dove le case s’innalzano al cielo, come per
cercare aria pura e un sole caldo che è lontano, quasi irraggiungibile.
Non è possibile infatti, se si devono costruire nuove case, aumentare
lo spazio occupato. Rimane solo un’alternativa: andare in alto,
limitando la luce. Praticamente non ci può essere “vita privata” ,
visto lo spazio molto limitato che ognuno può avere per se stesso. In
questi vicoli l’odore che ci assale immediatamente è forte e
caratteristico. In realtà si tratta di un insieme di vari odori
generati proprio dalla situazione di questi campi. I rifugiati nei
campi profughi vivono in zone sovraffollate, in case alle quali mancano
quasi tutti i più naturali servizi: la raccolta dei rifiuti, una
ventilazione appropriata, l’accesso al sole, una adeguata rete di
fognature e di acquedotto. Tutto questo, mescolato all’aroma fragrante
delle varie spezie, usate per la preparazione del cibo, si trasforma,
appunto, in questo specifico odore.
Una rete infinita di fili elettrici, quasi come una tela di ragno, sovrasta lo spazio sopra di noi.
Al
termine della visita al campo, saliamo all’ultimo piano della sede
dell’associazione Assomoud, dove in una piccola ma accogliente stanza,
ci attendono per il pranzo. Sulle pareti ci sono esposti i disegni dei
bambini che frequentano la sede. Parlano di guerra, sono raffigurati
carri armati, missili, bandiere della Palestina, ma anche di piccoli
sogni, rappresentati da case con il sole, evidenziano però, in ogni
modo, tutta la loro mancanza di serenità.
La
tavola è generosamente imbandita, ci sentiamo quasi a disagio per loro
squisita ospitalità. E’ un modo per dirci grazie perché siamo lì con
loro, perché possiamo raccontare ancora della loro esistenza e
sofferenza. Tutte le donne mostrano le foto dei propri martiri, mariti
e figli, di alcuni di loro non si è neppure trovato il corpo.
Raccontano le loro storie, quello che hanno vissuto, provato, ci
mostrano le ferite. Non hanno neppure il diritto di conservare il
proprio dolore. Dopo ventiquattro anni, sono sempre costrette a
rinnovarlo, affinché non si perda nella memoria dei tempi. Non chiedono
molto,chiedono solo di essere riconosciute vittime di quella tragedia
dimenticata, chiedono giustizia per chi ha commesso tale crimine. Ma
continuano ad aspettare……….
Le
donne palestinesi di Sabra e Chatila sono straordinarie, senza nessuna
colpa hanno passato gran parte della loro vita adulta da uno squallido
campo profughi ad un altro, mentre prima vivevano in villaggi nella
Palestina settentrionale. Sono rimaste forti e piene di orgoglio, senza
mai perdere la dignità. Il loro abbraccio, le loro lacrime, mi hanno
riempito il cuore, mi hanno dato forza per continuare a parlare di
loro, a combattere per e con loro.
E’
arrivato il momento della manifestazione a Chatila. Andiamo verso il
luogo di partenza, la piazza dove ha sede l’ambasciata del Kuwait,
edificio dal quale, ventiquattro anni fa, Ariel Sharon, durante quelle
settanta ore drammatiche del massacro, poteva controllare e dirigere
quello che succedeva all’interno del campo, ad opera delle falangi
libanesi. Arrivano le rappresentanze dei vari campi, mancano invece le
bandiere delle forze politiche. Lo striscione italiano del comitato è
molto fotografato, ci si meraviglia che in occidente c’è ancora
qualcuno che s’interessa alla causa palestinese.
Il corteo si dirige
verso la fossa comune, ad aprirlo è proprio la nostra delegazione,
dietro i vari leader palestinesi e libanesi. Per la prima volta è
presente anche il deputato arabo-israeliano alla Knesset, Azmi Bishara.
La sua presenza, ad una manifestazione dove partecipano anche i
dirigenti Hezbollah, non passa inosservata. Arriviamo al luogo dove
sono stati sepolti centinaia delle vittime del massacro e, con nostra
sorpresa, troviamo i rappresentanti delle forze politiche che ci
aspettano per ricordare l’eccidio. Hanno disertato il corteo, forse la
guerra e le recenti tensioni, hanno sconsigliato i partiti palestinesi
a sfilare per le vie di Ghobeiry. Iniziano i discorsi sul palco, apre
la cerimonia il sindaco Al Khansa, poi si succedono il rappresentante
dell’Olp ed i capi delle delegazioni italiana e francese. Approfitto
della situazione per riprendere questi momenti, per fissare l’immagine
di un viso sorridente, dei bambini che corrono, della speranza. Questo
sacrario è diventato tale per l’impegno del Comitato che ha fatto
pressione sul sindaco di Ghobeiry affinché questa area fosse
recuperata. Quando la prima delegazione italiana è arrivata in Libano,
la fossa comune, dove i corpi delle vittime furono gettati, era una
discarica a cielo aperto, una pattumiera. Tutto questo nel tentativo,
da parte delle autorità libanesi, di riuscire a cancellare questo
tragico evento.
Conclude
la giornata la cena offerta dal direttore di As Safir. Si svolge in un
ristorante di lusso che ospita, proprio questa sera, un matrimonio.
L’atmosfera che si respira qui è tipica dei ristoranti libanesi,
musica, danze e allegria. Non riusciamo a resistere alla tentazione di
andare a vedere il matrimonio, e così, quasi in punta di piedi, ci
affacciamo alla sala dove si svolge la festa. Veniamo accolti con molta
simpatia, ci invitano ad entrare, ad unirci a loro nelle danze, la
sposa è bellissima, tutto è perfetto, la musica, il ballo, tutto molto
coinvolgente. Questo è un altro aspetto della vita di questo luogo
meraviglioso. Ringraziamo per la loro cortesia e, con molta
discrezione, lasciamo la festa.
Verso l’ultimo giorno……….a Sidone
6°
Giorno
Ultimo
giorno della nostra permanenza in Libano.
Il
programma prevede, per oggi, solo l’incontro con il sindaco di
Sidone . Partiamo, ormai come al solito, la mattina presto.
Ripercorriamo la solita strada verso il sud, piena di difficoltà
e di ostacoli. Nonostante sia una settimana che mi muovo su queste
vie, non riesco ad abituarmi a questo sfacelo, per cui ne sono sempre
molto colpita.
Sidone,
è la capitale del sud della fermezza e della resistenza, che
ha dimostrato non solo di essere una capitale amministrativa, ma
anche un simbolo dei diritti legittimi del popolo libanese. Con
queste parole il sindaco, Abdul Rahman Bizri, accoglie, con la sua
solita gentile ospitalità, la nostra delegazione. Ci riceve
nella abituale sala per conferenze all’interno del municipio.
Notiamo però, una volta entrati, che c’è qualcosa di
diverso. Non è più la solita sala ufficiale adibita
agli incontri, ma ha un aspetto di “ vita vissuta” che le ha
lasciato un’impronta ben precisa. Il sindaco, infatti, ci spiega
che questo luogo ha accolto, durante le settimane della guerra,
centinaia di profughi in fuga dal sud. Noi siamo i primi ad entrare
nella palazzina del Comune, tornata finalmente alla normalità
e, si scusa con noi, perché non sono ancora riusciti a
rimetterla in ordine come prima. Ci fa notare, infatti, che ci sono
macchie sulla moquette e che l’amplificatore non funziona ancora.
Precisa inoltre che, durante i trentatre giorni di guerra, il Comune
non è mai stato chiuso, il piano terra si era trasformato in
un centro di smistamento al servizio dei profughi. I collegamenti con
Beirut erano praticamente bloccati, a causa della distruzione di
ponti e strade. Saida, preferisco chiamarla con il suo nome, terza
città del Libano, ha accolto quasi il doppio della sua
popolazione abituale. I profughi arrivavano soprattutto dai villaggi
del sud-est, si trattava perlopiù di povera gente: contadini,
piccoli commercianti, immigrati siriani. Molti sfollati sono stati
ospitati anche nelle stanze del Comune. Si calcola che, tra luglio ed
agosto del 2006, circa un milione di libanesi, ha dovuto abbandonare
la propria abitazione. Saida è sempre stata una città
sensibile di fronte a queste situazioni. Qui, infatti, all’inizio
degli anni settanta, il movimento dei pescatori libanesi era riuscito
ad unire le proprie lotte sindacali a quelle dei progressisti
palestinesi, che chiedevano diritti e democrazia. Figura simbolo fu
Maaruf Saad, sindacalista libanese, ucciso agli inizi della guerra
civile, anche per il suo impegno verso il problema palestinese.
“ Non
c’è stato il caos – continua a raccontare il sindaco –
ma la reazione è stata, invece, solo quella della solidarietà.
Tutti quelli che hanno potuto, hanno aperto le proprie case agli
sfollati. Un esempio di partecipazione, di aiuto, è arrivato
anche dai profughi palestinesi. L’apertura del campo di Ain el
Helweh, che si trova alle porte di Saida, è stato un fatto
storico. Con i suoi circa ottantamila abitanti, è il più
grande del Libano, ed è stato creato sessanta anni fa, a causa
proprio delle violenze israeliane, le stesse subite dal nostro
popolo. Tutto questo ha sconfessato quello che il governo americano
ha sempre sostenuto in merito a questo preciso campo, definendolo
solo come” un covo di terroristi”. Invece ha aperto, per la prima
volta, le sue porte agli sfollati, ed ha ospitato centotrenta
famiglie libanesi, pari a diecimila persone. Spero che questo gesto
abbia contribuito a demolire il pregiudizio che qui possono nascere
solo terroristi. I palestinesi vivono in condizioni già molto
difficili ma, nonostante questo, hanno offerto amicizia e
fratellanza. Occorre puntualizzare anche che, questo campo è a
maggioranza sunnita, ma che questo non ha impedito di accogliere gli
sciiti. Non è stato certamente semplice gestire l’emergenza
dei giorni di guerra, dover preparare tutto quello che poteva
servire, come il cibo, coperte e docce, anche perché gli aiuti
statali qui non sono arrivati. Siamo riusciti a soddisfare le
richieste di tutti, grazie anche alla collaborazione tra
l’amministrazione comunale e le organizzazioni della società
civile, che sono oltre trentotto. Il lavoro collettivo è
riuscito a superare tutte le varie lentezze burocratiche.” Il
sindaco, a questo proposito è abbastanza chiaro, il motivo di
questa inefficienza è solo dato da una assenza politica. Ha
dovuto quindi fare affidamento solo alle sue forze interne e
all’aiuto delle varie Ong locali. Si è creata una fitta rete
di volontari che ha permesso di colmare il vuoto lasciato dal
governo. Bizri appare orgoglioso, nel dirci tutto questo, per come ha
reagito la sua gente di fronte a questo enorme dramma. Se uno degli
obiettivi, dell’aggressione militare israeliana, era quello delle
divisioni tra i diversi gruppi sociali libanesi, per creare una
profonda spaccatura al loro interno, allora il governo d’Israele ha
fallito la sua missione. “ Cristiani e Mussulmani si sono aiutati
a vicenda, e questo ci ha permesso di andare avanti – prosegue
sempre il sindaco – nella zona est della città, per esempio
a maggioranza cristiana, sono state messe a disposizione di tutti
persino le chiese! “
L’aiuto
dato agli sciiti, a guerra terminata, è stato ricambiato dal
movimento libanese Hezbollah. Il Partito di Dio ha, infatti,
iniziato a pagare indennizzi ai palestinesi del campo di Ain el
Helweh, che hanno subito danni nel corso della guerra. I
risarcimenti ai “fratelli palestinesi” rientrano infatti nella
strategia di Hezbollah. La loro tempestività ha permesso di
inviare subito fondi anche al campo di Rashdiye, alle porte di Tiro.
“ Fanno
parte della nostra visione economica, umanitaria, sociale e politica,
ha precisato, un alto funzionario del movimento sciita, lo sheikh
Hassan Ezzedine”
Le
scelte del sindaco di Saida non ricordano certamente quelle della
famiglia Hariri ( una delle famiglie più “forti” della
città) Bizri è con la resistenza, mentre le forze del
primo ministro libanese, sono percepite come dipendenti dei governi
occidentali che sostengono Israele. La guerra ha mostrato tutta la
debolezza del governo libanese, per l’incapacità di
fronteggiare la crisi catastrofica prodotta. L’atto di accusa del
sindaco di Saida è chiaro “ lo stato centrale ci ha
trascurato” “Questa città è stata abbandonata a
sé stessa, ha subite perdite enormi: le strade che collegano
la città al resto del paese, una centrale elettrica e tre del
gas, una fabbrica di tessuti. Nonostante tutto – continua il
sindaco – Saida non ha fatto mancare niente ai libanesi che hanno
fatto tappa qui. La cultura della resistenza qui è molto
forte. Siamo riusciti a fronteggiare tutte le emergenze, perché
il nostro aiuto, non è stato solo un aiuto amministrativo e
sociale, ma è stato un dovere di resistenza e fermezza. Tutti
quelli che sono arrivati a Saida, non sono stati solo considerati
degli sfollati, ma semplicemente “ospiti” della nostra città.”
Il sindaco conclude, dicendo che il Libano è un paese che ha
vinto, “ Noi non chiediamo elemosine, gli aiuti devono essere
concordati politicamente e che nessuno tenti di cancellare la nostra
vittoria”. Per ultima cosa, accenna alla missione Unifil 2. E’
felice della partecipazione dell’Italia ma purchè s’impegni
a mantenere fermo l’obiettivo della risoluzione 1701 delle Nazioni
Unite, perché sembra invece instabile. Si pensa, infatti, che
l’alto numero di soldati debba servire a proteggere lo Stato
d’Israele.
L’incontro
termina con l’intervento di Maurizio Musolino, giornalista e vice
direttore della rivista “ La Rinascita della Sinistra” .
Ringrazia il Sindaco per la sua ospitalità e disponibilità
e, ripercorrendo le nostre tappe della settimana, ricorda un Libano
duramente provato dalle distruzioni e dai bombardamenti. C’è
stata una precisa volontà di annientamento, una volontà
d’impedire ai Palestinesi di occupare intere zone in Libano. Sono
state usate armi non convenzionali, lasciando un segno che durerà
anni, impedendo di tornare a vivere in un modo del tutto normale.
Unico paese il Libano che ha saputo resistere alla forza d’Israele,
è un esempio per tutti, e c’è la speranza, quindi, di
riuscire a dare ai palestinesi quei diritti che finora non sono stati
dati.
A
questo punto, concluso l’incontro con Abdul Rahnan Bizri, sindaco
di Sidone, ritorniamo a Beirut.
La
settimana è finita, domani all’alba l’aereo della Mea ci
riporterà in Italia. Abbiamo il pomeriggio libero. Decidiamo
quindi di andare in giro per la città per conoscerla meglio .
Camminiamo per le vie che portano al centro, sono affollate, piene di
negozi, di luci, di suoni. Spesso, durante il cammino, incontriamo
soldati libanesi armati che sorvegliano alcune zone, ma non incutano
timore, anzi sono gentili, sorridono e salutano. Siamo gli unici
occidentali che tranquillamente se ne vanno in giro per Beirut, e
questo desta un po’ di stupore. Arriviamo nel cuore di Beirut, dove
ci sono i palazzi governativi, l’ambasciata italiana. Qui troviamo
esposte, nella piazza, fotografie e striscioni che ricordano le
vittime di questa guerra.
Naturalmente
ci facciamo coinvolgere dalla tentazione di fare shopping, per
portare a casa qualcosa che ci possa far ricordare questo paese,
anche se il ricordo più bello è nascosto dentro ognuno
di noi. Torniamo all’albergo stanchi con tanti sacchetti, con tutto
di più: abiti tradizionali, sciarpe, cd musicali, collane,
orecchini, braccialetti, spezie ecc. Una cosa però non può
certo mancare ed è una visita alla migliore pasticceria di
Beirut, a cui noi facciamo onere!!
La
cena offerta dal sindaco di Ghobeiry conclude la nostra permanenza
nei Paesi dei cedri.
L’alba
purtroppo è arrivata e, con molta tristezza, saliamo
sull’aereo, lasciando dietro di noi, un paese a noi caro.
Allontanandomi da Beirut, penso che questi viaggi siano molto
importanti perché riescono a mantenere un legame tra noi e il
popolo palestinese e libanese. Un legame che si fa, anno dopo anno,
sempre più forte, permettendoci di poter dare, anche se
piccolo, un aiuto e di continuare a tenere viva e sempre presente la
questione palestinese e libanese. E’ un’esperienza straordinaria
ed emozionante ed invito, quelli che hanno trovato interessante
questo diario, a provarla. Non posso non ringraziare, dal profondo
del mio cuore, Stefano Chiarini, che mi ha condotto qui, nel Libano,
nei campi profughi palestinesi, che ha contribuito ad aumentare il
mio interesse verso questi popoli. Dedico a lui, alla sua memoria,
questo mio piccolo resoconto.
Grazie
Stefano.
Per
concludere questa cronistoria, qui di seguito, allego un’intervista
rilasciata a Rainews24, di un militare israeliano che parla della
guerra in Libano.
LIBANO
DEL SUD : 100.000 bombe inesplose
di
Flaviano Masella e Maurizio Torrealta
Per
la prima volta un militare israeliano accetta di parlare in
televisione della guerra in Libano e lancia un allarme: “Il mio
battaglione ha sparato circa 1800 missili, ogni missile contiene
all'interno 650 bombe, si tratta di circa 1,2 milioni di bombe
cluster”. La percentuale di ordigni inesplosi nelle bombe a
grappolo, si aggira intorno al 10 percento, dunque in Libano del Sud
si trovano circa 100 mila bombe inesplose.
Questa
puntata dell’ Inchiesta di Rainews24 è stata realizzata da
Flaviano Masella e Maurizio Torrealta, andrà in onda, anche in
chiaro su Rai Tre, alle 7.40 di Giovedì 28 settembre.
Il
soldato israeliano racconta: “In un’occasione avremmo dovuto
utilizzare contemporaneamente tutti i missili a disposizione del
nostro battaglione. …Doveva avvenire alle 4.45 del mattino. In
seguito quest’ordine fu più o meno cancellato. Sparammo solo
alcuni colpi, e avvenne molto molto più tardi. Pochi giorni
dopo siamo stati informati che questa missione avrebbe dovuto colpire
alcuni villaggi all’ora in cui si prevede che la gente esca dalle
moschee. E questo perché avrebbe provocato grande terrore e
paura tra la gente, e non sarebbero più usciti per andare a
sparare i katiusha..”
“Ogni
volta che sparavamo onestamente io pensavo “per favore no”.
Speravo che succedesse qualcosa per cui non avrebbe funzionato, che
il missile non si sganciasse, che fosse cancellata la missione. Molte
delle missioni che ci sono state assegnate sono state cancellate. Ma
abbiamo sparato abbastanza. Per parte mia, ho provato, se potevo un
po’ ritardare qualcosa, in modo da provocare la cancellazione della
missione. Ho provato a fare cose così, ma con molto tatto,
solo verificando una volta di più la sicurezza per le cariche
o… qualcosa per ritardare. È molto difficile non pensare
alla gente in città molto vicine a te, perché in realtà
eravamo dove’è la retroguardia e si vedono i civili che
soffrono per i katiusha … un katiusha che ti cade vicino fa molta
paura. Ed è difficile pensare che quello che fai sia così
sbagliato. Però quest’arma è talmente, talmente…
dire di massa non è abbastanza….Una specie di giorno del
giudizio, sì. Perché tu semplicemente riempi un intero
blocco di territorio, lo riempi completamente con queste piccole
bombe, ma non così piccole in realtà e questo provoca
grandi danni, enormi. ….. è un’ arma contro obbiettivi di
massa, dove c’è molta gente, molte macchine.
Nonostante
l’allarme, confermato anche dalle Nazioni Unite, Israele non ha
ancora consegnato le mappe precise, dei luoghi bombardati con le
bombe a grappolo, in cui si troverebbero le bombe inesplose. Sono
state fornite delle mappe giudicate dalle Nazioni Unite insufficienti
per l’ identificazione di questo tipo di ordigni.
“Nel
mio caso - continua il militare - ciò che ho fatto era il mio
dovere, ed è fatto, non si può tornare indietro. Ma
queste bombe sono ancora là. E qualcuno deve prendersene la
responsabilità. Credo che dovrebbe essere il mio paese,
Israele deve prendere la responsabilità di questa questione,
affrontare ciò che ha fatto, dare le mappe o qualunque cosa
possa aiutare. Non capisco perché questo debba essere oggetto
di disputa. Queste persone sono là, i Libanesi non sono nostri
nemici adesso. Forse alcuni di loro erano nostri nemici un mese fa,
..ma adesso questa gente non è nostra nemica, non siamo in
stato di guerra contro di loro, ma sono legati a centinaia di
migliaia di bombe che abbiamo lasciato là. Non vedo alcuna
ragione plausibile per cui non dovremmo occuparci di questo,
consegnando le mappe consegnando i dati, mandando soldi. Ci sono
molte cose che si possono fare. …Io amo il mio paese e penso che
stia commettendo un grave errore, è come se vedessi qualcuno
che sta facendo qualcosa di terribilmente stupido e non lo potessi
fermare. Credo che questo paese adesso stia facendo cose che ci
esploderanno in faccia. Perché non ci fermiamo prima che diventi un
problema ancora più grande? I rifugiati devono tornare alle loro case
adesso e tutto è distrutto. Ok, è a causa nostra, e noi possiamo dire
che è a causa loro. Ma comunque questi sono gli effetti con cui ci
dobbiamo confrontare.