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a cura di Mirca Garuti


 

LEGALIZZAZIONE DELLE COLONIE ISRAELIANE
NEI TERRITORI PALESTINESI

Dopo l'approvazione della Knesset (parlamento israeliano) della legge sulla legalizzazione delle colonie realizzate sul territorio palestinese, abbiamo discusso di questo ulteriore pericolo per la pace in Medio Oriente e per i territori di Palestina. Tra gli organizzatori era presente il movimento globale per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), a favore della libertà, la giustizia e l'uguaglianza del popolo palestinese. Un'organizzazione per i diritti umani inclusiva, non violenta, che rifiuta ogni forma di razzismo e di discriminazione razziale.
Questo ha provocato una reazione di indignazione da parte delle comunità ebraiche di Modena e non solo che, attraverso la consigliera comunale del PD, Federica Di Padova, del senatore Carlo Giovanardi (GAL) ed altri esponenti politici locali, ha chiesto il ritiro del Patrocinio da parte del Comune di Modena perchè da loro considerata terroristica e antisemita.(V.articoli di stampa).
Il BDS è nato nel 2005, per la volontà della stragrande maggioranza delle organizzazioni della società civile palestinese. Ispirata dal movimento contro l’apartheid in Sudafrica, si avvale della collaborazione di numerosi militanti di origine ebraica e di forme di lotta democratiche basate sul convincimento a boicottare tutti i prodotti provenienti dal territorio palestinese oggi illegalmente occupati. E'ormai un diffuso movimento internazionale fermamente schierato contro le ideologie politiche, le leggi, le politiche e le pratiche che promuovono il razzismo e il sionismo. Il pilastro ideologico razzista e discriminatorio del regime israeliano di occupazione, colonialismo e apartheid, che ha privato il popolo palestinese dei suoi diritti umani fondamentali a partire dal 1948. (vedi BDS Italia)

 

LE FOTO DELL'EVENTO

 

Durante la serata sono intervenuti:

Miriam Marino    Ebrei contro l'occupazione

 

 

 

 

 

 

Fausto Gianelli        Giuristi Democratici

 

 

 

 

 

 

 Moni Ovadia       

audio  

video messaggio

 

 

 

 

Bassam Saleh        Presidente Ass.ne Amici dei Prigionieri Palestinesi

 

 

 

 

 

 

Mai Alkaila          Ambasciatrice Palestinese in Italia

 

 

 

 



 

Portavoce BDS - Bologna 

 

 

 

 

Le domande del pubblico

 

 

 

 

 

  

Iniziativa organizzata da:
Alkemia – Ass.ne Modena incontra Jenin – Ass.ne per la Pace Modena – BDS Bologna – CGIL Modena - GAVCI - Nexus E.R. - Overseas – Pax Christi Modena
con il patrocinio del Comune di Modena

(Martedì 28 marzo 2017 - Sala Ulivi – Istituto Storico di Modena)


IL POPOLO PALESTINESE
 Viaggio di solidarietà con i palestinesi rifugiati in Libano

(1° parte)

Il Comitato ”Per non dimenticare Sabra e Chatila”, come tutti gli anni dalla sua costituzione (2000), si è recato in Libano per rendere memoria al massacro avvenuto nel 1982. Questo viaggio però è stato diverso. E' stato triste, sofferto, per la mancanza di un amico, di un compagno, Maurizio Musolino, scomparso pochi giorni prima della nostra partenza. Maurizio non era presente fisicamente, ma lo era con il suo amore per il popolo palestinese e libanese. Il Comitato è stato creato da Stefano Chiarini, giornalista de “Il Manifesto”, insieme ad altri intellettuali e giornalisti italiani, libanesi e palestinesi, proprio per mantenere viva la memoria di quel massacro e per ribadire che nessun popolo può vivere sulle terre strappate ad altri con la forza. Maurizio, dopo la morte improvvisa di Stefano (2007), ha continuato la sua opera con il supporto di tanti altri compagni ed attivisti. Ora il testimone è nelle nostre mani ed abbiamo il dovere di continuare a percorrere questa strada, specialmente in questo momento storico molto critico e pericoloso per la sopravvivenza dei diritti e dignità di ogni essere umano. Il Comitato internazionale “Per non dimenticare Sabra e Chatila” ricorda sempre che la questione palestinese, una terra occupata, un popolo in fuga, una giustizia negata è al centro della crisi mediorientale. Oggi si parla sempre meno di Palestina. Oggi si parla di Daesh, di Siria, Iraq e Turchia. Il Medio Oriente è un immenso crogiolo di stati in guerra. Ai profughi palestinesi si affiancano  tanti altri profughi che scappano da guerre, fame, dittature, alla ricerca di una vita dignitosa, nell'indifferenza o addirittura nel respingimento da parte dei paesi occidentali. Un occidente, responsabile di tutto questo, impegnato a ridisegnare i confini di questi stati  per accaparrarsi le loro risorse. La paura dell'altro, fomentata specialmente  da partiti di destra, porta ad innalzare sempre più muri e barriere in nome di una fantomatica sicurezza per proteggere e salvaguardare la propria indipendenza. Si creano, invece soltanto divisioni, separazioni fra esseri umani in base alla nazionalità, alla religione, all'etnia. Mentre il mondo sta impazzendo tra guerre infinite e nuove alleanze che si creano tra le grandi potenze (Usa, Turchia, Russia, Israele, Arabia Saudita, Qatar...) i popoli, in special modo i curdi e i palestinesi, sono solo pedine nelle loro mani sacrificati sull'altare delle trattative. Non è possibile accettare la cancellazione di questi popoli. Loro stessi non lo faranno mai e chi sente ancora di avere un'anima democratica deve essere al loro fianco urlando il loro diritto di esistere. Per questo motivo il Comitato internazionale “Per non dimenticare Sabra e Chatila” continua ad organizzare viaggi nei campi profughi palestinesi in Libano permettendo così a centinaia di persone di conoscere e capire questa realtà. Raccontare significa “Non dimenticare”


I palestinesi registrati presso l'UNRWA (Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) in Libano sono circa 450.000 e vivono in 12 campi distribuiti sul territorio. Il dramma dei palestinesi risale alla prima guerra arabo-israeliana, con la nascita dello Stato d'Israele, anno della Nakba palestinese, con l'espulsione di circa 750.000 persone. Una parte decise di andare via spontaneamente, pensando che fosse solo per poco tempo confidando nella forza dell'esercito arabo, altri invece furono coinvolti personalmente nelle ostilità. Nella prima fase della guerra (novembre '47-maggio '48) fuggirono per scelta le persone più agiate, come commercianti, insegnanti, medici, funzionari ecc.. causando la chiusura di negozi, ospedali, uffici, scuole, provocando disoccupazione e povertà. Nella seconda parte della guerra (maggio'48-gennaio '49) gli arabi rimasti furono obbligati a fuggire. I comandanti israeliani avevano ricevuto l'ordine di “liberare” molti villaggi e città dai suoi naturali abitanti, i palestinesi, per permettere l'insediamento di ebrei per il nuovo Stato ebraico. Circa la metà dei rifugiati (350.000) andò in Giordania, 200.000 nella Striscia di Gaza, 120.000 in Libano, 60.000 in Siria e 4.000 in Iraq. Alla fine della guerra, Israele accettò il rimpatrio solo di 100.000 palestinesi. Una cifra irrisoria. I rifugiati vennero sistemati in campi profughi nei vari stati arabi senza diritti e senza casa, ad eccezione della Giordania che offrì la cittadinanza ed il diritto a lavorare. L'11 dicembre 1948, l'Assemblea delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione n. 194 che consentiva a chi lo desiderava, il diritto al ritorno  nelle loro terre, mentre quelli che non volevano rimpatriare avrebbero avuto diritto ad un risarcimento per le proprietà perdute. Risoluzione che ad oggi  è rimasta scritta solo sulla carta. Tutte le proprietà palestinesi abbandonate sono state subito acquisite dai nuovi immigrati provenienti dall'Europa e da alcuni paesi arabi. Un arabo per un ebreo. La guerra dei sei giorni del 1967 provocò poi altri spostamenti aumentando così il numero dei profughi in giro per il mondo. Oggi si calcola che ci sono circa sette milioni di rifugiati tra la Giordania, West Bank, Striscia di Gaza, Libano e Siria. E' utile ed anche curioso sapere come la contro parte recepisce il problema dei profughi palestinesi. Da leggere l'articolo “Il curioso caso dei profughi palestinesi” di Tiziana Marengo apparso sul sito “L'Informale”. Prima di tutto spiega la differenza che c'è tra profugo, migrante e rifugiato. Per la Marengo i palestinesi che prima del ‘48 abitavano le terre dell’attuale Stato di Israele, non sono da considerarsi “profughi”, ma  “rifugiati”. Si citano le differenze  delle due agenzie dell'Onu: UNHCR e UNRWA. (Il lungo filo della memoria 1°parte). Infine, si chiede perché il numero dei profughi  palestinesi sia così cresciuto dal 1947 ad oggi. L'articolo finisce con questa domanda: “Ci si chiede se davvero la causa della violenza in Medio Oriente fosse Israele, ora invece chiediamo: ma siete sicuri che il problema palestinese derivi da Israele? ed esiste davvero un “problema palestinese” o questo è creato a tavolino solo in pura finalità anti-isreliana?” Il Diritto al Ritorno, come si vede, è una questione aperta di difficile risoluzione. Bisogna però ricordare che ci sono due Diritti al Ritorno: uno concesso agli ebrei e quello negato ai palestinesi. Il pensiero della Marengo riflette il pensiero comune d'Israele: “Israele viene messo sotto accusa a causa di un numero enorme di persone che vivono nella impossibile attesa di un ritorno alle case che avevano abbandonato (una cosa è trattare il ritorno di 100.000 persone, altra, impossibile, il rientro di 6 milioni di persone); e dal lato dei rifugiati è dannoso poiché questo “status” implica una cultura della dipendenza, della lamentela, della rabbia senza alcuna via d’uscita. Nessuno dei rifugiati palestinesi ha invece interesse a cambiare status, queste persone hanno trovato una situazione che gli garantisce cibo, educazione, casa (continuiamo a chiamarli campi profughi ma sono città!), tutto gratuito perché pagato con le sovvenzioni internazionali da tutto il mondo.”
La realtà descritta in questo articolo non corrisponde  alla verità, a quello che i palestinesi sono costretti a subire tutti i giorni sia in Cisgiordania, Gaza, Libano, Siria e Giordania. Israele addossa tutta la responsabilità agli stati in cui si trovano i palestinesi, non parla mai di Occupazione. Israele ha occupato una terra non sua, non per darla al suo popolo, ma per creare unicamente uno Stato ebraico. Non sono stati i palestinesi a volere l'aiuto dell'agenzia Onu “Unrwa”, come non sono stati loro a voler tramandare lo “status di profugo”  per linea maschile a tempo indeterminato.

La domanda comune di chi affronta per la prima volta questi viaggi è sempre la stessa: come fanno i palestinesi a resistere? Come è possibile tutto questo? I palestinesi non hanno tante scelte a disposizione: resistere o morire. Le risposte a queste domande si possono dare solo attraverso una corretta informazione che purtroppo manca. Basta sapere che in Israele i libri scolastici descrivono una realtà distorta del presente ed una falsificazione del passato. Il libro “La Palestina nei libri scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione, di Nurit Peled-Elhanan (EGA-Edizioni Gruppo Abele).  “Il mio obiettivo – afferma l'autrice nell'articolo apparso sul Il Manifesto il 21 ottobre 2015 - era svelare l’architettura della propaganda sionista, un modello che si propaga a educazione, arte, letteratura, archeologia, musica, teatro. Tutte le discipline sono reclutate per dare vita a una storia comune che ovviamente il popolo israeliano non ha, provenendo da ogni parte del mondo”. Lo studio di Nurit Peled non è rivolto al sistema educativo israeliano nel suo complesso, ma aiuta a capire un'ideologia che ha lo scopo di disumanizzare il popolo palestinese e la cancellazione e l'omissione della narrativa araba. Attraverso lo studio di 17 libri diversi di geografia, storia e studi civici, usati nelle scuole pubbliche israeliane dal 1997 al 2009, l'autrice dimostra la sua tesi: “la scuola è il primo mezzo di creazione della memoria collettiva, di una narrativa nazionale per un popolo ed uno Stato frammentato”. La “mentalità da accerchiamento”,  spiega  l’autrice, permette alle autorità di modellare l’individuo, accompagnarlo nel cammino da studente a soldato a lavoratore verso la forma mentis desiderata. La Nakba, la catastrofe del popolo palestinese, non è citata o è giustificata. Nelle scuole - continua Nurit - in pratica non imparano niente sul Medio Oriente, perché lo stato di Israele è loro proposto come parte dell'Europa, né imparano nulla dei loro vicini o delle nazioni confinanti. Neppure della storia degli ebrei negli altri paesi. L'unica cosa che imparano sono i progrom, l'olocausto e il fatto che il sionismo ha salvato gli ebrei dai cristiani. Rappresentazione quest’ultima che potrebbe funzionare per l’Europa dell’Est ma non per i paesi arabi”. Dalla lettura dei libri di testo israeliani si capisce che "i palestinesi costruiscono i loro edifici illegalmente perché non vogliono pagare le tasse e che vivono in modo primitivo perché non amano la modernità". Il palestinese è disumanizzato, descritto come selvaggio a cavallo di asini o cammelli, non educato, “geneticamente terrorista, rifugiato o primitivo”.  “In nessuno dei libri di testo viene trattato, verbalmente o visivamente, alcun aspetto culturale o sociale positivo del mondo palestinese – scrive ancora l’autrice – né la letteratura, né la poesia, né la storia o l’agricoltura, né l’arte o l’architettura”. E' necessario, quindi, che anche nelle  scuole italiane sia data un'informazione oggettiva dei fatti, presenti e passati e che si ristabilisca il fatto storico fondamentale: le persecuzioni degli ebrei, la Shoah sono un crimine europeo. I palestinesi non ne sono assolutamente responsabili. Il conflitto israelo-palestinese è il più antico e pericoloso.

Tutto questo succede perché i nostri paesi restano nel più completo silenzio ad osservare senza prendere posizione.  Anche noi ne siamo complici. Dobbiamo fare di più. Lo diceva sempre  il nostro  amico e compagno Maurizio Musolino in tutti i suoi interventi sulla questione palestinese:
“L'occupazione ha mille sfumature, che si incuneano nella quotidianità della vita rendendola disumana. Non è qualcosa di astratto, di indefinito, ma si sostanzia con soprusi e privazioni, con l’obiettivo di spezzare la resistenza e la volontà del popolo che la subisce. Ed è precisamente questo che sta accadendo in Palestina, dove Israele impone a uomini e donne, colpevoli solo di rivendicare la propria dignità, una segregazione razziale intollerabile. L’Occupazione è negazione della vita, pulizia etnica, volontà deliberata di sradicare un popolo dalla sua terra per renderlo qualcosa di indefinito. E lo fa con la complicità di stati e governi che ora con aiuti diretti e ora con silenzi colpevoli sostengono nei fatti l’Occupazione. Il diritto al ritorno diventa quindi uno degli elementi che sostanziano l’idea di popolo e di autodeterminazione della Palestina. Un elemento che unifica tutto il popolo palestinese, che supera le barriere e le divisioni di schieramenti e di partiti che oggi indeboliscono la resistenza contro l’occupante israeliano.”

I rifugiati palestinesi che si trovano in Libano sono quelli che vivono condizioni economiche e sociali molto dure, senza nessun diritto, né alla proprietà, al lavoro, alla sanità e allo studio, a differenza invece da quelli che vivono in Siria o in Giordania. Quasi tutti i campi sono stati inizialmente fondati nel 1948 dalla Croce Rossa, mentre l'Unrwa inizia a fornire i suoi servizi nel 1950. I campi profughi in Libano si sviluppano in tre fasi. La prima, dal '48 al '69, sono soggetti alla giurisdizione militare libanese; la seconda, fine '69, iniziano i primi scontri tra l'esercito libanese e la resistenza dei fedayyin ed  campi passano sotto il controllo della resistenza palestinese; la terza, con la guerra civile libanese (1975-1990) i campi sono coinvolti negli scontri e subiscono bombardamenti, assedi e distruzione. Per capire i quindici anni di guerra libanese è necessario dividerla in cinque fasi:
1975-1976 fase palestinese – lo scontro è soprattutto tra palestinesi e cristiani
1976-1978 fase siriana – intervento dei siriani come mediatori che, appoggiando ora una parte ora l'altra, in realtà vogliono impadronirsi del potere libanese
1978-1982 fase israeliana – invasione del Libano da parte d'Israele, occupazione del sud del paese e massacro di Sabra e Chatila
1982-1990 fase integralista – discesa in campo di Hezbollah
1988-1989 fase della guerra intercristiana – lo scontro è tra le varie fazioni  della destra maronita seguita alla “Pax siriana” che ufficializza la presenza dell'esercito di Damasco in Libano attraverso un trattato di alleanza.

20/12/2016      

Leggi la 2° parte


 Text/HTML Riduci

DILEK OCALAN (deputata HDP)

"Noi proseguiamo la nostra lotta perchè vincerà la pace"

18 dicembre 2016

Giunta in Italia per ricevere la cittadinanza onoraria al presidente Apo Ocalan dalla Municipalità di Reggio Emilia, Dilek Ocalan, deputata del HDP del parlamento Turco, incontra la comunità kurda modenese e prova a raccontare l'attuale situazione in Turchia. La deriva fascista del governo turco e la feroce repressione attuata verso il suo popolo.



L'intervento di Dilek Ocalan

 

 

 

 

 

L'intervento di Dilek Ocalan in Kurdo

 

 

 

 

 

 

Le domande del Pubblico

 

 

 



 Stampa   

7° Premio Stefano Chiarini 2016
“PALESTINA: PER NON DIMENTICARE”
Modena, Sabato 6 febbraio 2016 ore 15,30
presso LA TENDA, Viale Molza angolo Viale Monte Kosica

Come raggiungerci

ORE 20.00 CENA DI SOLIDARIETA' CON LA PALESTINA iscriviti! 

Il Premio Chiarini, dedicato alla figura del giornalista de "Il Manifesto" Stefano Chiarini, si propone di istituire un riconoscimento all’impegno sul tema del Medio Oriente e in particolare della Palestina, con una speciale attenzione per il mondo dei media e della cultura e dello sport. Quest'anno sarà attribuito a RENZO ULIVIERI, noto allenatore di squadre di calcio come Sampdoria, Perugia, Modena, Bologna, Torino, Napoli etc. per l'impegno dimostrato nei confronti del popolo Palestinese con la sua diretta partecipazione a stage di scuola calcio presso i campi profughi palestinesi in Libano.
Verranno consegnati, inoltre, riconoscimenti alla dottoressa Swee Ang, che negli anni della guerra civile libanese e della strage di Sabra e Chatila lavorava presso il Gaza Hospital a Sabra; all'artista Franca Marini per la realizzazione di un video-artistico realizzato con il popolo palestinese a Gaza. Un messaggio non solo di pace per questo popolo ma un'evoluzione di linguaggi e di ricerca costante sull'immagine volta alla ricerca, attraverso l'arte, di un nuovo metodo di comunicazione tra tutti i popoli; al giornalista Arcangelo Badolati, Direttore Scientifico Corso della Pedagogia della Resistenza UNICAL (Università Calabria).

Ospite d'onore: Abu Said al Khamsa, sindaco di Ghobeiry (Beirut - Libano)

Un ricordo di Stefano Chiarini di Giorgio Stern dell’associazione “Salam ragazzi dell’Ulivo di Trieste”.

Con la partecipazione di:
Abu Wassim, coordinatore di Beit Atfal Assomoud per il sud del Libano, Bassam Saleh responsabile per l'Italia di Al Fatah; Tommaso Di Francesco, condirettore del quotidiano “Il Manifesto”; Ellen Sirgel (USA) infermiera al Gaza Hospital il giorno della strage nei Campi Profughi di Sabra e Chatila (Beirut – Libano) ed altri importanti giornalisti e rappresentanti di associazioni nazionali ed internazionali.

Nel corso dell'iniziativa sono previsti interventi musicali del jazzista Luca Garlaschelli

Verranno inoltre proiettati in anteprima reportage realizzati nei campi profughi in Libano, Giordania e Cisgiordania, risultato di tre viaggi realizzati in contemporanea ad Agosto scorso da numerosi volontari giornalisti, amici di Stefano, etc.

info: Mirca (3393758378), Flavio (3332987481)

A cura di Alkemia, Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, La Tenda
con il Patrocinio e contributo del Comune di Modena


 

GUERRILLA RADIO
Romanzo grafico targato Round Robin Editore
 

 

Racconto incentrato sulla figura dell’attivista e reporter indipendente Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza nel 2011. Lo sceneggiatore e disegnatore di Roma racconta la genesi di questo nuovo progetto all’insegna del “comic journalism” nato con la collaborazione della famiglia di Vik.

 


Intervengono:
Stefano Piccoli - autore
Tommaso Di Francesco - Condirettore de “Il Manifesto”
Mirko Bonini - fumettista  della redazione di Alkemia

Conduce Mirca Garuti – Redazione Alkemia

 

 
La presentazione del libro

 



Le domande del pubblico

 

   

 


IL MIO VICINO...AD EST
Reportage dai campi profughi in Medio Oriente

interventi di:
Mirca Garuti – Resp. Medio Oriente del periodico d'informazione on-line “Alkemia.com”
Novara Flavio – Direttore Responsabile di “Alkemia.com”

Presenta: Alessandro Medici - Associazione Notti Rosse

Attraverso Reportage e testimonianze dirette dai campi profughi in medio oriente cercheremo di approfondire e comprendere ciò che sta accadendo oltre i confini della fortezza Europa, per ribadire: “basta muri, frontiere e sfruttamento”.

 

 

 

Presentazione di Alessandro Medici - Associazione Notti Rosse

 

 

 

 

 

 



Mirca Garuti: la situazione dei campi profughi palestinesi in Libano

 

 

 

 

 

 



 

Novara Flavio: Giordani: terra di profughi palestinesi, siriani, iracheni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il dialogo con il Pubblico

 

 

 

 

 


Organizzato da:

ASSOCIAZIONE

presso Nuovo Circolo Arci - Via Liberazione 66, 42013 Casalgrande (RE)

21/11/15


NO BORDERS
PER LA LIBERTA' DI CIRCOLAZIONE, CONTRO LE GUERRE,
OLTRE LA SOLIDARIETA'
LA NECESSITA' DI AGIRE DOPO LO SGOMBERO DI VENTIMIGLIA

In occasione della “Settimana Nazionale di Azioni” promossa dalla Coalizione Internazionale Sans-papiers, Rifugiati e Richiedenti Asilo CISPM (17/24 ottobre), l'assemblea pubblica di sabato 24 ottobre intende portare un contributo nel rafforzamento della rete di solidarietà, delle lotte per la libertà di circolazione e di residenza e contro le politiche anti migranti e la costruzione dei vari muri e del Regolamento Dublino.
Interverranno:

introduce: Attilio Ratto

 



 

Emilio Quadrelli  USB Genova

  

 

 

 

 

 

 

 

Flavio Novara -  Comitato “Per non dimenticare il diritto al ritorno” viaggio nei campi profughi palestinesi in Giordania

  

 

 

 

 

 

 

 

 

Mirca Garuti - Comitato “Per non dimenticare Shabra e Chatila” viaggio nei campi profughi palestinesi in Libano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Raja - Unione Democratica Arabo-Palestinese (UDAP)

  

 

 

 

 

 

 

 

Felice - Esponenti del movimento No Border di Ventimiglia

  

 

 

 

 

Aboubakar Soumahoro Coalizione Internazionale Sans-papiers, Rifugiati e Richiedenti asilo CISPM / Confederazione USB

  

 

 

 

 

 

MANIFESTO DELL'EVENTO A CURA USB GENOVA:
I Paesi a capitalismo avanzato hanno fatto dell'Africa e del quadrante mediorientale  un teatro di guerra.   Vetrina e sperimentazione di un conflitto che, ogni giorno che passa, rischia di diventare sempre più totale. Lo spettro di un nuovo conflitto mondiale è dietro l'angolo. Queste terre, depredate delle loro risorse economiche, in gran parte materie prime strategiche per le società multinazionali, sono portate al collasso finanziario e quindi, come nella più classica delle politiche colonialiste, poste “sotto tutela” da una qualche coalizione politico – militare occidentale.
Non diversamente si comportano quando determinati territori rappresentano interessi geopolitici e geostrategici di fondamentale importanza. Un esempio su tutti quello del popolo palestinese il quale, dopo essere stato scacciato dalla propria terra con il pieno sostegno di gran parte dei potentati imperialisti occidentali, è costretto a sopravvivere sotto il tallone di ferro delle armi israeliane. Occupazione, guerra, saccheggio sono, da tempo, il pane quotidiano di cui si nutre il popolo palestinese. Oltre 5 milioni i palestinesi costretti a vivere nei campi profughi, anche nella loro terra.


Per un motivo o per l'altro gli eserciti del Primo mondo hanno occupato territori interi, costringendo milioni di persone alla fuga disperata. Persone che ora premono ai nostri confini.
Sulla loro pelle, il capitalismo ha trovato un nuovo modo per arricchirsi. Da un lato appaltando la loro gestione, spesso non dissimile da quella del “sorvegliato speciale”, alle varie aziende del cosiddetto terzo settore; dall'altro reintroducendo l'ottocentesca condizione del “lavoro coatto”. Infatti, la grande trovata delle Amministrazioni locali, è stata quella di appaltare, a costo zero, i lavori socialmente utili ai rifugiati. In questo modo vitto e alloggio diventano sostitutivi del salario. Tutto ciò puzza di schiavismo lontano un miglio. Ben dovrebbe saperlo il nostro sindaco Marco Doria il quale vanta fama, anche se non troppo eccelsa, di storico nonché di economista. Inutile dire che, in un momento di crisi sociale come l'attuale, declinare al “lavoro coatto” i lavori socialmente utili è un modo, neppure troppo celato, di favorire e amplificare la “guerra tra i poveri” finendo con il favorire non poco la destra apertamente xenofoba e razzista. Palesemente questo tipo di  “assistenza istituzionale”  non sarà mai  attaccata, come è avvenuto a Ventimiglia.

Lo sgombero del presidio No Borders di Ventimiglia del 30 settembre scorso rappresenta la brutale repressione  di una forma di solidarietà non tollerata perché contiene in sé stessa la lotta e il grido di accusa contro la ferocia del sistema anti sociale dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Quello sgombero ha dimostrato che non è tollerata alcuna auto organizzazione, alcuna solidarietà vera e attiva. Ma l'esperienza di Ventimiglia si sta ripetendo in molti altri luoghi (Lampedusa, Calais, Parigi,...), perché  difendere pace, libertà di circolazione, salario, diritti e welfare per tutti, combattere l'Europa della troika deve essere il cuore delle azioni per  proseguire nella lotta.

In occasione della “Settimana Nazionale di Azioni” promossa dalla Coalizione Internazionale Sans-papiers, Rifugiati e Richiedenti Asilo CISPM (17/24 ottobre), l'assemblea pubblica di sabato 24 ottobre intende portare un contributo nel rafforzamento della rete di solidarietà, delle lotte per la libertà di circolazione e di residenza e contro le politiche anti migranti e la costruzione dei vari muri e del Regolamento Dublino.

 

Confederazione USB-Liguria.                                Per contatti: liguria@usb.it
Sabato 24 ottobre alle ore 15.00, presso il CAP, via Albertazzi, 3 r - GENOVA


DIRITTO AL RITORNO
I racconti delle missioni in Giordania, Libano e Cisgiordania

Il diritto al ritorno diventa uno degli elementi che sostanziano l’idea di popolo e di autodeterminazione della Palestina. Un elemento che unifica tutto il popolo palestinese, che supera le barriere e le divisioni di schieramenti e di partiti che oggi indeboliscono la resistenza contro l’occupante israeliano. E’ stata questa iniziale costatazione, nello stesso tempo elementare e sconvolgente, che ha portato donne e uomini che ritengono che il diritto al ritorno sia un punto irremovibile e centrale per il futuro del popolo di Palestina a mettere in campo per questa estate una proposta che si è concretizzata con l’invio di missioni nei luoghi della diaspora palestinese. Questo è il racconto di quei viaggi in Libano, Giordania, Cisgiordania.

 

coordina:


 

Bassam Saleh


  

 

 

 

 


interventi:

 

 

Lucio Vitale (delegazione Cisgiordania)

  

 

 

 

 

 

 

Marta Turilli (delegazione Libano)

 

 

 

 

 

 



 

Flavio Novara (delegazione Giordania)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTERVENTI DEGLI OSPITI: Usb, Pcdi, Prc, Rete dei Comunisti  

 

 

 Le conclusioni di:


 

Maurizio Musolino

  

 

 

 

 

 

 

Sabato 10 ottobre 2015, ore 17:30 - Casa del Popolo - Torpignattara


PROTESTE IN LIBANO: MENTRE I POTENTI BALLANO,
IL POPOLO IN SCIOPERO DELLA FAME

di Mirca Garuti

ASCOLTA L'AUDIO


Il centro di Beirut si riempie di manifestanti. Centinaia di persone chiedono cambiamenti al governo libanese. Sabato sera 19 settembre Beirut era in stato di guerra. Le vie del centro, una volta  luogo di divertimento, di relax e di shopping, chiuse da filo spinato,  gersj  e alti muri di cemento difesi da un grande numero di polizia armata. Il palazzo del Parlamento è circondato da filo spinato letteralmente coperto dalla spazzatura gettata dai manifestanti in segno di protesta.
Alla sera, quando ormai quasi tutti i manifestanti se ne sono andati, alcuni ragazzi sono intenti a pulire la strada dai residui della manifestazione di questo pomeriggio. Alcune tende sono ancora montate da chi ha deciso di restare per la notte o di proseguire nello sciopero della fame.
Mi avvicino con cautela,  chiedo il permesso di scattare alcune fotografie e di poter intervistare qualcuno per capire meglio la situazione che sta attraversando il Libano in questo ultimo periodo. Vicino alla tenda di uno scioperante della fame, capeggia uno striscione con scritte arabe che elencano le richieste dei manifestanti:
1) stipendi adeguati al costo della vita
2) nuova legge elettorale
3) nuove elezioni presidenziali
4) restituzione dei fondi ai comuni indipendenti per risolvere il problema dei rifiuti.
All'interno della tenda mi concede un intervista un ingegnere agronomo che è da 15 giorni in sciopero della fame. Ha lavorato per vent'anni presso il Ministero dell'agricoltura e tra due anni andrà in pensione con 400 dollari al mese. Alla mia prima domanda sulla situazione politica attuale e sulla natura della loro protesta, lascia rispondere il Direttore seduto li a fianco:
“Noi facciamo parte di un sindacato autonomo di lavoratori del pubblico impiego. In Libano nonostante ci siano ben 500 sigle sindacali che rappresentano tutte le categorie di lavoratori, praticamente quasi tutte sotto il controllo del governo. A seguito della guerra civile iniziata nel 1975 e conclusa nel 1991 con gli accordi di TA'IF tra l'Arabia Saudita e la Siria”.
I deputati libanesi firmarono un accordo chiamato “d'intesa nazionale” che disegnò un equilibrio dei poteri istituzionali libanesi e riconobbe anche la presenza dell'esercito siriano in Libano. Una guerra durata 15 anni con combattimenti, tensioni, massacri che ha procurato più di 150.000 morti tra militari e civili ed un aumento di una diaspora libanese nel mondo.
La crisi di governo attuale anche secondo i vari partiti politici incontrati, giornalisti ed analisti, si potrà risolvere solo attraverso un accordo esterno regionale ed è da escludere la possibilità di una nuova guerra civile perchè nessuna forza presente in Parlamento ha un interesse ad evocarla.
“Finita la guerra civile – continua il Direttore – si sperava in un cambiamento, ma non è stato così. E' stato colpito il settore pubblico a beneficio di quello privato, aumentando la corruzione e perdendo i diritti della persona. Nel 2005 con la morte di Rafiq al-Hariri, causata da un attentato davanti all'Hotel St.George di Beirut, cadeva la coalizione filo siriana con i sauditi, dando vita a due correnti: una chiamata “8 marzo”, sostenitrice di una politica vicino alla Siria e “14 marzo” per l'Arabia Saudita. Fino alla morte di Hariri la coalizione ha condiviso il potere, poi successivamente è avvenuta una spaccatura che però ha comunque consentito ad entrambi di mantenere i propri legami economici nel paese”.


Nell'arco di questi ultimi 25 anni, fino al 2011,  ci sono state continue lotte, ma da quando in Tunisia il popolo voleva far cadere il governo, questo movimento ha cercato di ottenere in medesimo risultato. Sono riusciti a portare in piazza oltre 30.000 persone ed i rappresentanti di categoria dei servizi pubblici hanno cercato di organizzare un coordinamento per chiedere miglioramenti di vita, come l'aumento degli stipendi.
“Il governo però non ha risposto ed è per questo che ci troviamo in questa situazione da un mese. Questo significa solo il fallimento di un governo che non ha saputo dare risposte di fronte ad un semplice problema: la spazzatura. Siamo sommersi dai rifiuti, non si trova una soluzione. Pochi giorni fa hanno chiuso il centro storico ed un commerciante ha detto che questa area deve essere riservata solo ai ricchi. In risposta a ciò, è stato organizzato, ogni sabato, un mercato di Beirut per tutti gli esclusi”.
Questo movimento è iniziato il 22 agosto. “All'inizio c'era un po' di confusione, ognuno aveva le sue richieste da presentare al governo, ma dopo una settimana, siamo riusciti a formare un coordinamento su alcuni punti che trovavano il consenso di tutti”.  
Il problema dei rifiuti, in realtà, è un problema che riguarda i comuni che si sono appropriati dei fondi destinati a questo servizio, per usarli per varie speculazioni.
“Noi chiediamo che questi soldi  ritornino ai comuni. Domani, sabato 21 settembre, ci sarà un altra manifestazione e così sarà anche per le altre successive settimane. Si sta sfruttando l'attuale spaccatura del governo che ha dato coraggio e la gente ha rotto il silenzio e la paura. La polizia all'inizio è stata molto violenta, ci sono stati molti feriti, ora però, si è un po' calmata”.


Diversi sono i loro obbiettivi: da quelli più semplici, come l'aumento degli stipendi, il problema dei rifiuti o l'eccessivo costo della vita, a quelli di più alta connotazione politica come la richiesta di nuove elezioni, cambiamento politico e nuova legge elettorale che superi lo Stato Confessionale e le quote di rappresentanza di matrice religiosa.
“Noi come movimento comunista guardiamo con sospetto entrambe le coalizioni del 8 e 14 marzo, anche se queste forze parlamentari cominciano a capire che le nostre richieste non sono del tutto negative ed è iniziato un dialogo”.
Il problema riguarda 150.000 tonnellate di rifiuti che non si sa dove possano essere accantonati soprattutto perché in Libano non esiste un progetto o programma volto al riciclaggio. Tra poco riprenderanno anche le università e i manifestanti sperano anche nell'aiuto degli studenti.
“Noi non vogliamo solo benefici per Beirut ma per tutto il Libano dal nord al sud. Chi governa questo paese sono le banche. Il debito pubblico del Libano è salito a 70.000 miliardi di dollari. Tutto il debito è solo delle banche e quello prodotto da Hariri. Tutti oggi devono ubbidire all'economia”.

Quasi a confermare questo, una musica assordante di festa proviene proprio dall'ultimo piano di un palazzo adiacente al presidio.
“Le banche vogliono farsi sentire in questa situazione. E' così ogni sera. Dall'alto dei suoi palazzi, accendono la musica e festeggiano, mentre noi, qui in piazza lottiamo e facciamo lo sciopero della fame. Il nostro obiettivo è quello che chi deve pagare sono solo le banche e non noi”.

Davanti al Parlamento era stato eretto un muro di mattoni dove i ragazzi scrivevano slogan e disegni, ma nell'arco di 24 ore, è stato subito rimosso e sostituito con del filo spinato.
“Questo modo di governare, quello che ha prodotto in tutti questi anni disoccupazione, miseria, stipendi bloccati, ha solo un significato: un gran fallimento. Noi vogliamo cambiare questo tipo di politica. Il governo non sa cosa fare. Unica soluzione è tornare ad un sistema civile senza il sistema confessionale in essere“.
L'ingegnere nel frattempo sembra avere un sussulto e vuole intervenire. Nonostante i suoi 15 giorni di sciopero della fame ci sembra stia bene.
“Io sono un dipendente pubblico. Tutto il settore pubblico dal 1996 ha gli stipendi bloccati, mentre i prezzi dei beni sono aumentati del 121%. Fino al 1996 il debito pubblico era pari a 30 – 35mila miliardi di dollari, poi è pressoché raddoppiato. Quando nel 2012 abbiamo chiesto un aumento degli stipendi, la risposta è stata negativa alludendo al fatto che le entrate del governo erano poche, giusto il contrario per le uscite. Non c'era abbastanza liquidità. Il bilancio di uno Stato deve prevedere due cose: un'entrata di tasse ed una giusta uscita di spese oculate. Perché i ministri non pagano le tasse? Perché si devono fare favori ed elargire soldi alle varie confessioni? Chi sta al governo sono i principi della guerra civile, oggi governatori, che si sono accordati con le banche per spartirsi i soldi e quello che resta, lo si dà al popolo. Chi ha partecipato alle prime manifestazioni – prosegue infervorandosi - appartiene alla classe media, classe che il governo vuole annientare. Se la classe media non si muove, non si muove niente, per questo bisogna continuare nella lotta. Dal 2012 al 19 luglio 2014 ci sono state alcune trattative con il governo che doveva presentare delle proposte. Il parlamento però, ha chiesto una proroga di sei mesi e, alla fine, dopo mille tagli alle proposte da parte delle varie commissioni, non è rimasto nulla. Solo l'idea delle proposte. Per questo si ritorna alla lotta.”
Lascio la tenda con estrema apprensione per il loro futuro, per il futuro di questo paese che ha tanto sofferto e che non riesce a trovare giusta pace.  I governi occidentali dovrebbero riflettere seriamente sulla loro grande responsabilità.

19 settembre 2015 - Beirut


PER NON DIMENTICARE IL DIRITTO AL RITORNO: 

MISSIONI IN PARTENZA DALL'ITALIA

di Maurizio Musolino

LA DELEGAZIONE DI ALKEMIA SARA' PRESENTE IN GIORDANIA!

L’occupazione ha mille facce, mille sfumature, che si incuneano nella quotidianità della vita rendendola disumana. L’occupazione non è mai un qualcosa di astratto, di indefinito, ma si sostanzia con soprusi e privazioni, con l’obiettivo di spezzare la resistenza e la volontà del popolo che la subisce. Ed è precisamente questo che sta accadendo in Palestina, dove Israele impone a uomini e donne, colpevoli solo di rivendicare la propria dignità, una segregazione razziale intollerabile. E lo fa con la complicità di stati e governi che ora con aiuti diretti e ora con silenzi colpevoli sostengono nei fatti l’Occupazione.


L’Occupazione è quindi negazione della vita: impossibilità di lavorare, curarsi, studiare, avere affetti e l’elenco potrebbe continuare, lunghissimo. L’Occupazione è anche pulizia etnica, volontà deliberata di sradicare un popolo dalla sua terra per renderlo altro, un qualcosa di indefinito, un nulla. Il sionismo questo lo ha messo in pratica da sempre, fin dai quei drammatici giorni dopo la seconda guerra mondiale, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati dalle loro case attraverso il terrore e la devastazione. Da lì iniziò la diaspora di questo popolo, campi profughi senza diritti ospitati malvolentieri dagli Stati limitrofi, ignorati da un Occidente opulento e egoista, condannati a non poter ritornare nelle loro case da una comunità internazionale sorda, cieca e muta. In poche parole: complice del crimine che si stava perpetuando.


Il diritto al ritorno diventa quindi uno degli elementi che sostanziano l’idea di popolo e di autodeterminazione della Palestina. Un elemento che unifica tutto il popolo palestinese, che supera le barriere e le divisioni di schieramenti e di partiti che oggi indeboliscono la resistenza contro l’occupante israeliano.


E’ stata questa iniziale costatazione, nello stesso tempo elementare e sconvolgente, che ha portato donne e uomini che ritengono che il diritto al ritorno sia un punto irremovibile e centrale per il futuro del popolo di Palestina a mettere in campo per questa estate una proposta che si concretizza con l’invio di missioni nei luoghi della diaspora palestinese. Le missioni all’inizio dovevano essere cinque: Libano, Cisgiordania, Gaza, Siria e Giordania, ma la ferocia del conflitto che da anni insanguina la Siria ha da subito reso impraticabile questa ipotesi. Nei giorni scorsi un altro pezzo della missione ha dovuto subire una dolorosissima amputazione: Gaza. Dal Cairo la striscia di terra al sud della Palestina è irraggiungibile e il valico di Rafah è chiuso. Il Sinai, sempre più teatro di guerra fra il governo egiziano e le varie milizie presenti sul territorio, è diventato terra di nessuno, una sorta di “campo minato” insuperabile che giustifica agli occhi di una comunità internazionale miope l’ingiustizia criminale contro Gaza, sempre più prigione a cielo aperto per oltre un milione e mezzo di donne e uomini.


Durante i bombardamenti di un anno fa emerse la condizione impossibile in cui vive Gaza; si era parlato di apertura di valichi, di possibili porti e di aeroporti. Finito l’ennesimo massacro e abbassate le telecamere però nulla è cambiato, anzi se possibile tutto è cambiato in peggio e questo meriterebbe una seria riflessione da parte del movimento di solidarietà con la Palestina per non rimandare una mobilitazione efficace alla prossima guerra o al prossimo massacro. Bisogna mettere in campo fin da settembre una iniziativa in grado di superare tutti i nostri particolarismi e personalismi, per chiedere l’immediata fine dell’embargo e l’apertura di un corridoio che consenta ai palestinesi di Gaza di poter entrare e uscire senza dover sottostare alle angherie e alle prepotenze del governo di Tel Aviv.


La missione "Per non dimenticare il Diritto al ritorno" comunque non si ferma e partirà per le tre destinazioni alla fine della prossima settimana (13-15 agosto), forte della consapevolezza che nessun risarcimento potrà mai ripagare le sofferenze e le privazioni di decenni di diaspora. Il riconoscimento di questo diritto è l’unico modo per dare una soluzione all’occupazione delle terre palestinesi.


Il 18 agosto da tre luoghi simbolo, tre campi palestinesi, ricorderemo al mondo che l’occupazione ha generato un esodo forzato del popolo di Palestina e che oggi ci sono palestinesi profughi in Libano così come in Giordania, Siria, Iraq e altri Paesi – non ultimo il nostro Occidente - ma che ci sono palestinesi rifugiati nella stessa Palestina.


L’ebraicizzazione di Israele – punta più alta del programma neocoloniale del sionismo – esclude il diritto al ritorno dei non ebrei, e dunque dei palestinesi nati in quelle stesse terre e dei loro discendenti. La nostra presenza in quei paesi vuole denunciare questo trattamento intollerabile e razzista.


Il tema del diritto al ritorno per il popolo di Palestina, ignorato da troppi, dentro e fuori il mondo arabo-mediorientale, non può più essere eluso o messo da parte in nome di altre e pretestuose compatibilità. Le tre delegazioni ricorderanno le vittime delle stragi e porteranno ai palestinesi solidarietà politica e sostegno umano.


Vogliamo che l’iniziativa che ci accingiamo ad intraprendere, in collaborazione con i nostri amici palestinesi, con i quali da anni lavoriamo insieme nel Comitato internazionale "Per non dimenticare Sabra e Chatila" e con il quotidiano libanese Assafir, sia il momento centrale di un percorso che deve prevedere iniziative su tutto il territorio italiano – tanti incontri si sono svolti in tutta Italia nelle scorse settimane - con al centro “il diritto al ritorno”. La nostra presenza in Libano, Cisgiordania, Giordania, è finalizzata a denunciare una realtà inaccettabile e drammatica che ha origine, appunto, dall‘occupazione della Palestina.


Maurizio Musolino (Comitato Per non dimenticare il diritto al ritorno)

 


NEWROZ 2015

LA RESISTENZA DEL POPOLO CURDO

JIN JIYAN AZADI'

(Donna – Vita – Libertà)

di Mirca Garuti

 

Il Newroz 2013 è stato caratterizzato dalla speranza, chiusa dentro ogni cuore del popolo curdo, di poter intraprendere una vera strada verso la pace. Tutti, quel 21 marzo a Diyarbakir, aspettavano la lettura della lettera del leader storico, Abdullah Ocalan. Una folla oceanica era in attesa di sentire le sue parole:

- “ E’ tempo che le armi tacciano e che le idee parlino"

- “ E’ il momento che la politica vada oltre le armi”

- “ E’ tempo che le nostre forze armate si ritirino oltre il confine”

- “ Questo è un nuovo inizio, non è una fine”

- “ E’ l’inizio di una nuova lotta in favore di tutte le minoranze etniche”

- “ I turchi e i curdi hanno inaugurato insieme il Parlamento nel 1920”

- “ Abbiamo costruito insieme il passato e adesso abbiamo bisogno di mantenerlo insieme”

 La road-map, documento straordinario, è il cuore dei colloqui segreti tra Abdullah Ocalan e lo Stato turco, un processo iniziato nel 2009 e interrotto a metà del 2011.

Si sviluppa su tre diverse fasi:

  • La filosofia della pace” mette in primo piano lo sviluppo di una nuova costituzione che possa dare una definizione di “cittadinanza libera da ogni tipo di riferimento etnico”, fondata su una “completa democrazia” e sui “principi della giurisprudenza internazionale”,

  • Il piano d’azione” prevede il ritiro delle forze del PKK al di là del confine turco dal 21 marzo fino alla fine del mese di luglio. Il “ritiro” afferma però Ocalan deve essere reciproco ed approvato dal parlamento. Erdogan ha affermato che il processo di pace “inizierà de facto quando i membri del PKK si ritireranno in un altro paese”.

  • L’ultima parte “eventuali problemi e conclusioni” dovrebbe mettere fine al processo di pace.

Ma se pensiamo ai molteplici tentativi di dialogo, come ad esempio, all'apertura curda del 2009, alle trattative di Oslo del 2011 oppure agli innumerevoli tentativi di “cessate il fuoco” da parte del Pkk dal 1993 ad oggi, una vera pace rimane solo un'illusione.

Il 2014 e 2015 sono stati, invece, gli anni nei quali il mondo ha scoperto il popolo curdo e la lotta per i suoi diritti e libertà. Non perché si è reso consapevole del loro dramma che continua dal 1924, anno in cui ha inizio la sua repressione, ma solo per l'intensificarsi della guerra civile in Siria. La minoranza curda è sempre stata usata da chi era al potere per raggiungere i propri scopi ed interessi.

Dopo il collasso dell'impero Ottomano, l'azione diretta della Turchia

I curdi sono, infatti, la più ampia nazione al mondo priva del proprio stato e le prime vittime degli accordi coloniali. Dopo il collasso dell'Impero Ottomano da parte dei colonialisti britannici e francesi, la storia ci parla della creazione di stati nazioni che divide la regione del Kurdistan in quattro paesi: Iran, Iraq, Siria e Turchia.  L'accordo Sykes-Picot del 1916 ignora totalmente il diritto di sovranità dei curdi sulla propria terra. Questo non ha portato che molti decenni di massacri, oppressione ed assimilazione.

Mustafa Kemal Ataturk, militare e primo Presidente della Turchia, inizia nel Kurdistan la lotta di liberazione nazionale turca contro la dominazione occidentale e l'occupazione greca. Ataturk, appellandosi alla solidarietà curda-turca, nel corso del conflitto greco-turco, chiede anche il supporto dei capi tribali e religiosi curdi. Dal 1921 al 1924 ci fu quindi un forte contrasto tra la maggioranza della popolazione curda che sosteneva il movimento kemalista e gli intellettuali che sostenevano invece il movimento di liberazione curdo. Questa differenza dimostra la debolezza del movimento nazionale curdo in quel periodo ed indica che il popolo curdo preferiva un Kurdistan autonomo all'interno della Turchia, in accordo con il popolo turco.

Il governo di Ankara fu indotto ad occuparsi per la prima volta del “problema curdo” a seguito della ribellione curda nella regione di Dersim tra il novembre 1920 ed aprile 1921. La ribellione iniziò tre mesi dopo il trattato di Sevres e aveva l'obiettivo dell'indipendenza nei vilayet di Diyarbakir, Elazig, Van e Bitlis.

Dopo la firma del Trattato di Losanna del 1923 (gli art.38 e 39 sono applicabili ai curdi e viene concessa a tutti gli abitanti della Turchia piena protezione della loro vita e libertà senza distinzione di nascita, nazionalità, lingua, razza o religione), il potere kemalista sentendosi forte ed avendo consolidato la sua posizione a livello internazionale, cambiò la sua politica nei confronti dei curdi. Nel 1924 fu approvata una legge che proibiva l'uso della lingua curda, vietando le pubblicazioni e l'insegnamento in tale lingua. Dopo il 1930 il governo turco intensificò la sua politica di sterminio e assimilazione della popolazione curda. Fu promulgata una legge che contemplava la deportazione di intellettuali e capi curdi nelle aree occidentali della Turchia.

Il Kurdistan veniva diviso nel 1934 in tre aree (nel 1932 invece erano quattro). Un'area doveva essere completamente evacuata e veniva anche smembrata la struttura socio-economica della tribù che non era più riconosciuta come entità giuridica. L'intenzione era quella di disperdere e distruggere i curdi come nazione. Inizia così l'occupazione del Kurdistan. Nonostante una protesta internazionale, il governo turco, non solo continuò ad applicare questa legge, ma andò ben oltre! Le forze armate turche, nel periodo dal 1924 al 1938, furono impegnate in 17 campagne militari tutte direttamente o indirettamente connesse alla soppressione delle rivolte curde. Nel 1937 il governo turco, comprendendo di essere incapace di controllare e governare da solo questa popolazione, firmò un patto con Iran, Iraq e Afghanistan di natura anti-sovietico, indirizzato contro il movimento nazionalistico curdo da adottare in un'azione comune.

La provincia di Dersim nell'Anatolia orientale, era la più colpita dall'evacuazione forzata e dalla richiesta del governo turco di consegnare le armi. La popolazione dell'area, curda Alevita, insorge in una delle più sanguinarie rivolte della storia della Turchia moderna. Dersim, (oggi Tunceli) rappresenta il cuore ribelle del Kurdistan, anche se fino alla rivolta del 1937/38, la sua popolazione non aveva mai reagito in maniera molto violenta. Nel 1935 Ataturk disse: “La questione di Dersim è la questione prioritaria della nostra politica interna. E' necessario che il governo sia dotato di un'autorità ampia e illimitata per eliminare ad ogni costo questa ferita interna, questo repellente ascesso”. Dopo quasi tre anni dalle minacciose parole pronunciate dal Presidente, le autorità del governo turco misero in pratica il desiderio dello stesso Presidente.

Mentre l'aviazione turca radeva al suolo interi villaggi, l'esercito dava fuoco alle foreste che ricoprivano le vallate della regione. Molti abitanti furono rinchiusi in grotte e arsi vivi. Venne usato gas asfissiante. Le acque del fiume Munzur scorsero, per giorni, rosse di sangue. I morti furono 50-60 mila. Furono deportati circa tremila notabili e 100 mila abitanti nella Turchia occidentale. I leader della rivolta furono giustiziati nella piazza centrale della città. Una generazioni di bambini cresciuti negli orfanotrofi fu sottoposta ad una sistematica operazione di turchizzazione. Il nome dell'operazione era “Tunceli” (pugno di ferro), nome poi lasciato alla città a monito per l'eternità.  L'area rimase in stato d'assedio fino al  1946 e fu vietato l'accesso agli stranieri fino al 1965. Il Presidente turco Erdogan il 23 novembre 2011, durante una riunione di partito, ha presentato le sue scuse “a nome dello Stato” per i fatti di Dersim, definendoli “massacri”. Fatto inusuale nella storia turca. Si dubita, infatti, della sincerità del presidente, anche perché nel 2006 il ministero della Cultura impedì qualsiasi forma di distribuzione del documentario “Dersim 38” per non danneggiare “l'ordine e la morale pubblica e l'onore delle persone”.

Fino ad uno/due anni fa si parlava, a livello mediatico, solo della repressione subita dai curdi in Turchia  sotto il governo di Erdogan, mentre ora, emergono anche i curdi che vivono in Siria. Purtroppo ci vuole una guerra, ci vogliono morti e distruzione affinché il mondo scopra la realtà delle cose. Quando si parla di Kurdistan, bisogna considerare che non parliamo di uno Stato nazionale regolato da leggi ed usi uguali per tutta la popolazione, ma di una Regione e di un popolo che dal 1923 deve lottare per conservare la sua propria identità nazionale.

Il Kurdistan siriano geograficamente è considerato un'appendice del Kurdistan turco, essendo formato da tre aree all'interno della Siria, divise da territori arabi: la regione di Dagh (montagna dei curdi) a nord ovest di Aleppo; la regione di Jarablus e Kobani a nord est di Aleppo; Cezire tra il Tigri e l'Eufrate, un triangolo al confine turco-iracheno.

Siria terra di scontri

I curdi in Siria sono la più grande minoranza etnica del paese (circa 2 milioni) concentrati prevalentemente nel nord e nord-est ma anche ad Aleppo e Damasco, grazie soprattutto all'accordo di Ankara nel 1921 tra Turchia e Francia che fissava la frontiera turco-siriana in base alla linea ferroviaria Aleppo-Baghdad.

Qamişlo (Kurdistan occidentale) e Nusaybin (Kurdistan turco) erano in precedenza una sola città, ma dopo il passaggio della ferrovia, Qamişlo si trovò in terra siriana e Nusaybin in terra turca. Molti villaggi, comuni e città furono divisi in due. Le tribù, le famiglie, decine di migliaia di curdi che vivevano sulla stessa terra si trovarono separati da barriere di filo spinato e mine. Solo in questi ultimi anni sono stati in grado di incontrarsi di nuovo. Questo autentico dramma, vissuto da migliaia di curdi, è ancora oggi oggetto di documentari e programmi televisivi trasmessi in occasione di festività religiose.

I curdi, durante la prima guerra mondiale, furono vittime di politiche repressive e i loro territori divisi, ad opera delle grandi potenze che non ne riconobbero l’esistenza, né i diritti.

Sotto mandato francese (1920-1941) la Siria diventò il rifugio naturale dei profughi curdi di Turchia e Iraq che fuggivano dalle repressioni in atto nei due paesi. La Siria conquistò l'indipendenza nel 1946 e, in questo contesto, i curdi avevano una buona posizione nel paese, anche perché compresero che sarebbe stato più utile abbandonare l'obiettivo dell'indipendenza per arrivare ad un sistema di governo nazionale che gli preservasse l’identità etnica. Da evidenziare però c'è una particolare situazione: mentre da una parte le comunità curde, che si trovano ai confini turco-iracheni mantengono le caratteristiche nazionali, dall'altra, i gruppi curdi che sono nelle aeree interne siriane sono stati gradualmente arabizzati.

Il Partito democratico Kurdistan-Siria (Pdks) fondato nel 1957, persegue il riconoscimento dei curdi come gruppo etnico distinto con diritti culturali. Con la nascita, invece, della Repubblica araba unita (Rau) l'unione tra Siria ed Egitto nel 1958, le autorità siriane cercarono di ostacolare le attività politiche e culturali curde. Iniziarono gli arresti e le condanne con l'accusa di attività contro l'unione araba. La Siria si separa l'anno dopo dall'Egitto, ma la repressione anti-curda rimane.

La storia del popolo curdo in Siria è passata tra fasi positive e in accordo con il partito Baath, ed altre negative e tragiche. Per contrastare il “pericolo curdo” e salvare l'arabismo della regione, il governo mette in pratica nel 1962 il piano chiamato della “cintura araba”. Piano che prevede l'espulsione della popolazione curda residente nella regione di Cezire, lungo la frontiera con la Turchia, e la loro sostituzione con arabi. I curdi espulsi furono mandati più a sud ma di preferenza “dispersi”. L'esecuzione del piano prosegue però lentamente, sia per non attirare l'attenzione del mondo e sia per la reazione violenta dei contadini curdi che non volevano lasciare i loro villaggi.

La situazione dei curdi nel Kurdistan occidentale ((Kurdistana Rojava) peggiora nel 1963 con l'arrivo al potere, con un colpo di Stato, del partito Baath che intensifica l'arabizzazione dei curdi. Un decreto di 12 articoli pianificò ufficialmente questa politica che portò all’insediamento degli arabi nella regione curda costringendoli all’esilio. L’amministrazione attirò gli arabi offrendo loro facilitazioni economiche e facendoli stabilire in villaggi arabi al fine di tagliare le comunicazioni tra i villaggi curdi rimanenti. Si trattò di una cacciata «incrociata» nel paese: i curdi cacciati dalla regione vennero deportati nelle regioni arabe al centro della Siria. In Siria così come in Turchia, la lingua curda fu proibita sulla stampa e nella società. I nomi delle città e dei luoghi storici curdi furono arabizzati. 300.000 curdi furono privati dei loro diritti fondamentali, come il diritto di essere naturalizzati. Oltre al genocidio culturale, il regime siriano non ha smesso di impegnarsi nelle aggressioni fisiche. Questa politica colpisce soprattutto i contadini, che costituiscono l'80% della popolazione, che devono abbandonare la loro terra e cercare lavoro a Damasco, in Turchia e Libano. Il Piano della “cintura araba” viene abbandonato nel 1976, ma non vengono evacuati i 41 nuovi villaggi arabi.

 Abdullah Öcalan, leader del popolo curdo, ha vissuto più di venti anni in Siria, (1979-1998) dove ha sviluppato il movimento di liberazione del Kurdistan, ha coinvolto direttamente i curdi del Kurdistan occidentale (Kurdistana Rojava) e ha sostenuto la riflessione e la strategia delle loro organizzazioni. Attualmente i curdi del Kurdistana Rojava, attraverso la loro organizzazione, hanno fondato autorità locali autonome.

Negli anni ottanta i curdi erano una forza di sostegno al regima bathista senza però ricevere alcuna concessione sul piano culturale e dei diritti umani. I curdi siriani erano preoccupati dall'instabilità della loro situazione. Come avviene nelle altre parti del Kurdistan, la popolazione curda rimane ai margini della ricchezza prodotta in Siria, subendo una forte discriminazione nelle opportunità di lavoro. Nei primi anni novanta in Siria ci sono circa settemila prigionieri politici curdi, molti dei quali saranno rilasciati con l'amnistia del 1995. In questi anni le relazioni tra Siria e Turchia hanno vissuto forti momenti di tensione dovute alla strumentalizzazione della questione curda da parte del regime di Hafez al Assad per ottenere dalla Turchia concessioni su questioni strategiche come la gestione delle riserve idriche del Tigri e dell'Eufrate. Sotto pressioni e ricatti internazionali e per evitare un confronto armato con la Turchia, il governo siriano firmò un trattato di sicurezza, l'accordo di Adana (1998) che sancì la fine dell'appoggio di Damasco al Pkk. Abdullah Ocalan fu arrestato poco dopo in Kenya e consegnato alla Turchia.

Solo nell'estate del 2000, si aprì una nuova fase di disgelo e tolleranza tra la nuova dirigenza di Bashar Al Assad e il popolo curdo. “Un'armonia” di breve durata, perché nel 2004 a Qamislo, nel corso di una partita di calcio, le forze governative siriane con l'aiuto di nazionalisti arabi attaccarono con estrema violenza i curdi. Le manifestazioni di protesta durarono dieci giorni e ci furono 32 morti, centinaia di feriti e 2000 arresti.

Il dominio della famiglia Assad e l'inizio della guerra civile.

La Siria è governata da cinquant'anni dalla famiglia Assad in un costante stato d'emergenza, di censura e di intimidazione. La rete televisiva Al Jazeera, durante i primi mesi della primavera araba, definì la Siria “il regno del silenzio” perché non si sentiva nessuna voce di protesta o dissenso. A differenza di Egitto e Tunisia, la Siria non ha una popolazione omogenea rispetto alla religione ed all'etnia. C'è una maggioranza sunnita che convive con grandi minoranze cristiane, curde e alawiti (una setta islamica vicina agli sciiti di cui fa parte la famiglia Assad e gran parte dell'elite economica e militare del paese).

In Siria non sempre ha regnato il silenzio, specialmente quando i Fratelli Mussulmani negli anni ottanta occuparono la città di Hama, nella parte orientale del paese. L'assedio durò 27 giorni. Si calcola che l'occupazione abbia causato la morte di almeno 10 mila persone – 40 mila secondo altre stime. Negli anni successivi ci furono altre piccole insurrezioni, soprattutto con i curdi che abitavano nel nord del paese.

Le proteste in Siria ebbero inizio il 6 marzo 2011 a Daraa, una città a maggioranza sunnita a 110 chilometri a sud di Damasco verso la Giordania. A Daraa la situazione era molto difficile. Oltre alla povertà e disoccupazione, la città era invasa di profughi arrivati dal nord del paese a causa della siccità a cui il governo non era riuscito a porre rimedio. L'atmosfera in alcuni paesi arabi era tesa e le notizie che circolavano, in quel momento, erano di libertà: folle di persone erano scese in piazza ed erano riuscite a rovesciare il governo tunisino ed egiziano.

Un gruppo di ragazzi dai 11 ai 16 anni scrisse alcune frasi con uno spray rosso sui muri di quattro scuole: “il popolo vuole rovesciare il regime” - “è il tuo turno, dottore”. Il giorno dopo le scritte sui muri furono coperte da vernice bianca e immediatamente, polizia ed agenti dei servizi segreti si misero sulle tracce dei responsabili. Una quindicina di ragazzi furono arrestati. I giorni passavano ma i ragazzi non venivano rilasciati. I genitori iniziarono allora una protesta, ma venivano scacciati. La CNN riporta una frase di un ufficiale: “Dimenticatevi dei vostri figli. Se volete davvero dei figli, dovreste cominciare a pensare di farne degli altri. Se non sapete come fare, possiamo farvelo vedere noi”. La notizia, nonostante la censura, superò il silenzio. Alcuni prigionieri politici iniziarono uno sciopero della fame. I ragazzi di Daraa non erano più soli. Uno dei responsabili di Amnesty International per la Siria ha affermato: “Arriva il punto in cui l'insulto non è più sopportabile. Il popolo smette di inginocchiarsi e risponde”.

Il 15 marzo, infatti, per la prima volta in Siria, migliaia di persone scesero in piazza per protestare contro il governo. Ci sono state manifestazioni silenziose dove la gente camminava tenendo in alto le foto dei parenti, amici scomparsi, altre invece più dure dove le persone urlavano slogan contro il regime e ci furono scontri con la polizia. Il regime rispose con durezza. Ci furono ancora molti arresti, ma mentre il governo aumentava lo scontro, aumentavano anche le proteste.

Il 18 marzo, dopo la preghiera del venerdì, i cortei si erano diffusi in quasi tutte le città del paese con la partecipazione di migliaia di manifestanti. La polizia rispose caricando le folle con lacrimogeni ed idranti. In un giorno furono uccise sei persone. Dopo una piccola tregua, il 25 marzo ripresero le proteste. A Daraa marciarono contro il governo più di 100 mila persone e almeno una ventina furono uccise dalle forze di sicurezza. Nel corso del mese di aprile, il governo schierò l'esercito contro i dimostranti ed autorizzò l'uso di armi da fuoco e carri armati per disperdere la folla nelle strade e piazze. Contemporaneamente il governo fece piccole concessioni, come ad esempio quella di revocare lo stato d'emergenza in vigore da 50 anni.

All'inizio di maggio la repressione era diventata estremamente feroce. Il numero delle persone uccise durante le dimostrazioni era salito a più di mille. Questo però non arrestò la rabbia del popolo. I manifestanti, soprattutto nel nord del paese, cominciarono ad assaltare le caserme delle forze di sicurezza ed a impossessarsi delle loro armi. Iniziò la reazione dei soldati. Alcuni di loro, costretti a sparare sulla folla, iniziarono a disertare ed unirsi ai manifestanti.

Il 29 luglio, quattro mesi dopo le prime proteste, un gruppo di ufficiali disertori proclamò la nascita dell'Esercito Libero Siriano (FSA). E' guerra civile.

Tra la fine del 2011 e l'inizio del 2012 la guerra diventa sempre più violenta. I ribelli ricevono finanziamenti da parte di alcuni paesi arabi per iniziare ad acquistare armi più sofisticate. Il regime comincia a fare un uso massiccio di armamenti pesanti, in particolare durante l'assedio di Homs, “la capitale della rivolta”. Così è chiamata dai ribelli.

A luglio gli scontri si intensificano anche a Damasco. A questo punto iniziano a verificarsi importanti cambiamenti all'interno dello schieramento dei ribelli. Cominciano ad arrivare combattenti stranieri, spesso già esperti militari. Alcuni scelgono l'Esercito libero (FSA), altri invece danno vita a nuove brigate e bande autonome. Un gruppo di combattenti provenienti dall'Iraq che aveva combattuto con Abu Musab al Zarqawi, capo di al Qaida in Iraq, insieme ad altri miliziani, formarono il 23 gennaio 2012 il Fronte al Nusra, un gruppo estremista islamico. Inizialmente le forze più laiche della FSA combatterono insieme ad al Nusra, ma poi successivamente i loro rapporti si deteriorarono perché al Nusra si dimostrò migliore nel trovare fondi all'estero ed a reclutare volontari. Tra la fine del 2012 e l'inizio del 2013, numerosi esperti cominciarono a definire “guerra per procura”, quello che stava accadendo in Siria. Attraverso gruppi di miliziani integralisti islamici locali, nel conflitto erano entrati in competizione alcuni paesi arabi sunniti che finanziavano i ribelli, con altri paesi (Iran) e gruppi (Hezbollah) che appoggiavano invece il governo Assad.

Nei primi mesi del 2013 il regime siriano era riuscito a vincere nei confronti della FSA. In campo jihadista invece era in atto una scissione, causa vari scontri tra la leadership siriana ed i miliziani ISI (Stato Islamico dell'Iraq), guidati da Abu Bakr al Baghdadi. Nell'aprile 2013 Al Baghdadi proclamò la nascita dell'ISIS (Stato Islamico dell'Iraq e del Levante). La divisione definitiva ci fu nel febbraio del 2014.

I gruppi islamici in guerra per la dominazione sunnita sul Medio Oriente

Nel 2001 il mondo conosceva Osama bin Laden che guidava il movimento di Al Qaida. Dopo la sua uccisione, in un raid americano in Pakistan il 2 maggio 2011, subentrò un medico egiziano, Ayman al-Zawahiri. Altra figura emblematica per capire lo sviluppo di questo movimento, è Abu Musub al-Zarqawi, un giordano che negli anni ottanta e novanta era stato, all'interno dei mujaheddin e di al Qaida, uno dei rivali di Bin Laden.

Al Qaida era nata per essere un movimento sunnita che doveva difendere i territori abitati dai musulmani dall'occupazione occidentale. Al Zarqawi, invece, decise di fondare un gruppo con obiettivi diversi. Voleva creare un califfato islamico esclusivamente sunnita, attraverso una campagna di sabotaggi continui e costanti in alcuni stati musulmani creando una rete di “regioni della violenza” nelle quali la popolazione locale fosse obbligata a sottomettersi alle forze islamiste occupanti. Nel 2003, per esempio, il suo gruppo fece esplodere un autobomba in una moschea nella città irachena di Najaf durante la preghiera del venerdì: rimasero uccisi 125 musulmani sciiti.

Nel 2004, nonostante le differenze, il suo gruppo si avvicinò ad Al Qaida, diventando il gruppo di Al Qaida in Iraq (AQI), unicamente perché l'affiliazione portava vantaggi ad entrambi.

Nel 2006 Al Zarqawi fu ucciso da una bomba americana. Il suo posto fu preso da Abu Omar al-Baghdadi che fu ucciso poi nel 2010. Attualmente guida l'organizzazione Abu Bakr al-Baghdadi. Il gruppo di al-Baghdadi, nel 2011, aveva ripreso potere anche per le politiche violente e settarie che negli ultimi quattro anni, il primo ministro sciita dell'Iraq, Nuri al-Maliki aveva attuato nei confronti della popolazione sunnita.

Nell'aprile 2013, grazie anche alla guerra in Siria con nuove prospettive d'espansione sul suo territorio, il gruppo Al Qaida in Iraq divenne Stato islamico dell'Iraq e del Levante (ISIS). Il Levante è l'area del Mediterraneo orientale: Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro. L'ambizione dell'ISIS è molto forte e ampia. La brutalità dell'ISIS era nota a Al Qaida già nella guerra in Siria tanto che nel febbraio 2014 Zawahiri espulse l'ISIS da al Qaida.

La guerra civile in Siria dopo i primi tre anni non ha portato alla vittoria nessuna delle due parti in causa. Il regime ha ottenuto importanti vittorie grazie agli aiuti dei suoi alleati (Iran e Hezbollah), mentre l'opposizione è divisa. La parte moderata, l'Esercito Libero Siriano ha l'appoggio internazionale e riceve rifornimenti da paesi arabi come Arabia Saudita e Qatar, ma deve combattere, oltre il governo, anche contro i vari gruppi dei ribelli islamici e in particolare contro l'ISIS. All'inizio del 2015 le due forze principali in Siria sono rimaste il governo di Assad e l'ISIS. Il governo controlla la gran parte delle zone costiere a maggioranza cristiana o alawita, oltre che Damasco e gran parte del sud del paese. L'ISIS, invece, controlla un terzo del paese nella parte nord orientale ed ha stabilito la sua capitale a Raqqa. Qui ci sono le principali risorse petrolifere che hanno assicurato al gruppo un costante flusso di denaro. L'Esercito Libero Siriano controlla una piccola area intorno alla città di Aleppo e alla città di Dar'a. Lo scorso ottobre l'ISIS ha cercato di conquistare la città di Kobane, controllata da curdi siriani.

Le conseguenze del Colonialismo Occidentale

La domanda più ricorrente che ci si pone è quella di come sia stato possibile un'ascesa così forte da parte di questi gruppi jihadisti in Medio Oriente. Dove sono i movimenti radicali, i gruppi studenteschi, le organizzazioni femministe, le lotte di liberazione nazionale, i movimenti operai, contadini ed intellettuali di sinistra? Cosa è successo per rendere i gruppi jihadisti gli attori principali in grado di cambiare la geopolitica della regione? Forse la risposta ha radici profonde all'interno della storia coloniale ed imperialista dell'area. In occidente si segue l'avanzata dell'ISIS in Iraq e in Siria senza preoccuparsi di analizzare il ruolo che hanno avuto in questo caos i rispettivi governi. Per non parlare poi di come molti media rappresentino la popolazione della regione solo come dei fanatici divisi tra etnie e religione.

Guardando la storia del Medio Oriente, forse si può cercare una risposta nelle politiche dei poteri coloniali dall'inizio del 20° secolo ad oggi. Il prossimo anno, infatti, ricorre il centenario dell'accordo Sykes-Picot (1916) che divise l'Impero Ottomano in stati nazioni artificiali. Un secolo di dominio coloniale seguito poi da governi corrotti in mano ai Signori del petrolio e controllati dalle potenze imperiali. Questo controllo è poi aumentato nel periodo della Guerra Fredda per prevenire l'influenza dell'ex Unione Sovietica nella regione. E' iniziata così una crociata contro la sinistra. Decine di migliaia di membri di partiti, sindacati e movimenti studenteschi, nel corso degli anni '80, sono stati uccisi nelle prigioni iraniane, turche, siriane, irachene, egiziane e di altri paesi della regione. E' in questo periodo che sono sorti i primi gruppi jihadisti. Nell'ultimo decennio, questi gruppi, in particolar modo dopo l'occupazione dell'Afghanistan e dell'Iraq, hanno ottenuto uno status legittimo tra le persone come coloro che combattono “gli invasori stranieri” e “gli infedeli”. Tutto questo ha trasformato la regione mediorientale in un campo di sterminio dove gli estremisti islamici possono condurre la loro lotta senza creare problemi nei paesi occidentali.

Dopo l'ondata delle guerre imperialiste iniziate ufficialmente dopo l'11 settembre 2001, è emersa la possibilità di promuovere un Islam moderato in accordo con l'economia mondiale neo liberale. Il governo dell'AKP di Erdogan in Turchia rappresentava proprio quel modello di stato islamico moderato che con le sue politiche economiche neo liberali poteva riconciliare la rabbia del popolo contro l'Occidente e operare come agente del capitale nella regione. E' diventato così il futuro del Medio Oriente. Questo ha consentito al governo turco di guadagnare maggior potere e fiducia nella propria rivendicazione a ruolo guida della comunità islamica sunnita globale. In realtà ha solo portato ulteriore devastazione e violenza tra sunniti e sciiti.

Il sostegno della Turchia insieme ai paesi del Golfo, ai gruppi jihadisti in lotta contro Assad, ha volutamente fatto sprofondare la Siria in un caos totale con l'obiettivo di distruggerla. La Turchia, infatti, ha peggiorato la situazione trasformando se stessa e le province confinanti con la Siria, in un luogo di transito degli estremisti islamici. E' stata anche accusata di fornire supporto logistico e militare ai gruppi jihadisti: l'ISIS e il Fronte Al-Nusra sono quelli che hanno beneficiato di questo sostegno. Questo avviene sotto gli occhi delle nazioni occidentali che di fatto non ribadiscono che respingere e sconfiggere l'ISIS e il suo Califfato nero è prima di tutto una lotta antifascista in difesa della libertà e l'emancipazione dei popoli.

L'ISIS, fin dall'inizio di questa guerra in Siria, è diventato il flagello per il Kurdistan, il Medio Oriente ed il mondo intero.

  

I curdi e la libertà in Siria

I curdi del Kurdistan occidentale (Kurdistan Rojava) e quelli che vivono all'interno della Siria hanno sempre corso il rischio, insieme a tutti gli altri curdi delle altre nazioni confinanti, di scomparire. Soprattutto come popolo, a causa delle politiche negazioniste di cui sono stati oggetto. La rivolta popolare contro il regime siriano ha contribuito ad aprire la strada per un cambiamento della situazione, attirando l'attenzione del mondo su questa piccola parte del Kurdistan. Questa regione è diventata la chiave per risolvere la questione curda e un modello di organizzazione politica per tutto il Medioriente. Questo perché da alcuni anni, nel Rojava, è in corso un processo politico di trasformazione della società e da quando il conflitto siriano si è trasformato in guerra civile, il movimento curdo guidato dal PYD (Partito di Unione Democratica) ha preso il controllo di gran parte della regione. E' infatti nel novembre 2013, che il PYD ha dichiarato la piena autonomia e proposto una costituzione chiamata Carta del Contratto sociale.

Kurdistan occidentale: nasce il Movimento della Società Democratica

La regione autonoma del Kurdistan occidentale è divisa in tre cantoni, ciascuno con il proprio autogoverno democratico e autonomo: Cizire, con più di un milione di abitanti e la sua ricchezza del sottosuolo è la più importante della regione. I giacimenti di petrolio della regione Rimelan-Cizre sono i più importanti (Rimelan ha lo stesso potenziale di Kirkuk). Kobane, regione agricola situata davanti alla pianura di Suruc, nel Kurdistan del Nord (Turchia), attraversata dall'Eufrate, uno dei maggior fiumi della Mesopotamia, abitata da più di 500.000 curdi. Efrin, a causa delle migrazioni interne, ha raddoppiato la sua popolazione stimata sui 500.000 abitanti. Tutti e tre i cantoni sono dotati di assemblee popolari e forze di autodifesa, le YPG (miste) e la YPJ (solo da donne). La Carta del Contratto Sociale è la costituzione più democratica che la popolazione di questa regione abbia mai avuto. La Rojava può essere considerata un modello di un confederalismo democratico nel Medio Oriente nel quale ogni comunità ha il diritto all'autodeterminazione e all'autogoverno.

La zona orientale è stata per molto tempo controllata dall'esercito governativo, ma poi, a causa delle continue infiltrazioni di bande terroriste e jahdiste, contro gli abitanti, specialmente curdi, il 12 luglio 2012 è stipulato un accordo tra le varie formazioni curde, in particolare tra il Consiglio Siriano Curdo (CNSC) ed il partito PYD (ramo siriano del PKK) per adottare una linea comune per la difesa della popolazione locale. L'opposizione armata del CNS (Consiglio Nazionale Siriano) e del ELS (Esercito Libero Siriano) accusano i curdi di essere alleati del governo di Assad, perché il Presidente siriano, strategicamente, ha concesso ai curdi, dopo solo qualche settimane dall'inizio delle rivolte, fino a quel momento considerati stranieri, la cittadinanza della regione orientale dell'Hasak. Certamente la rivolta popolare contro il regime di Assad è stata l'occasione per i curdi di portare la propria lotta ad un livello superiore. Il movimento, pur partecipando attivamente alla rivoluzione e facendo tesoro della sua esperienza storica, ha intrapreso un corso indipendente, prendendo le distanze sia dalle forze del regime e sia dalle forze di opposizione. Si presentano come la terza forza che può proporre una soluzione al conflitto. Per rimanere mobilitati politicamente ed attivi nella rivoluzione i curdi decidono quindi di creare il Movimento della Società Democratica (TEV-DEM) e l'Assemblea Popolare del Kurdistan occidentale (MGRK).

La strategia curda è quella di organizzare la propria resistenza sviluppando una propria politica indipendente. La rivoluzione del 19 luglio 2012 gli ha permesso di prendere gradualmente il controllo di tutte le assemblee comunali mettendo in atto il suo piano strategico sviluppato in tre fasi. La prima, diretta a prendere il controllo delle zone rurali e dei villaggi collegati al Comune, la seconda verso le istituzioni civili e servizi pubblici connessi allo Stato e la terza al controllo di tutte le città curde. Dal 19 luglio 2012, il movimento curdo era pronto per entrare nella terza fase della sua strategia. Dopo Kobane, sono state liberate tante altre città, come anche quartieri curdi delle città siriane di Aleppo, Raqqa e Hassaké. In due-tre mesi tutte le collettività locali curde sono andate nelle mani del popolo, ad eccezione di Qamislo, la più grande città della regione.

Il mese di luglio rappresenta per il popolo curdo un punto di svolta importante della sua storia:

Il 2 luglio 1979, il suo leader Abdullah Ocalan varca il confine del Nord Kurdistan per andare in Kurdistan occidentale aprendo così la strada per una rivendicazione identitaria.

Il 14 luglio 1982, quattro quadri del PKK, detenuti nel carcere di Diyarbakir, iniziano uno sciopero della fame, che li condurrà alla morte, per protestare contro il sistema carcerario, le pressioni e la tortura contro i curdi. Questa nuova forma di resistenza si è poi diffusa in tutto il Kurdistan portando la voce del popolo curdo a tutto il mondo.

Il 19 luglio 2012, i curdi, dopo aver cacciato le forze del regime, prendono la gestione del governo locale delle città del Kurdistan Rojava per mettere in pratica i principi della “autonomia democratica”, tra cui il controllo politico, l'amministrazione della giustizia e delle attività economiche e socio culturali, le questioni riguardanti i diritti delle donne e l'organizzazione delle forze di legittima autodifesa.

Gli eventi del 19 luglio hanno anche rafforzato l'unione dei tanti partiti politici curdi, permettendo quindi al PYD, la forza più grande della regione, insieme ad altri sedici partiti, in una riunione dell'Assemblea del popolo del Kurdistan occidentale, di creare l'Assemblea nazionale curda della Siria (ENKS). Il 24 luglio le due assemblee hanno poi annunciato la fondazione dell'Alto Consiglio Curdo, riconosciuto da centinaia di migliaia di curdi scesi in piazza per festeggiare questo importante momento. Successivamente l’Alto Consiglio Curdo ha istituito tre comitati: il “Comitato della diplomazia”, il “Comitato dei Servizi Sociali” e “Comitato della Difesa”.

Curdi e integralisti del Califfato: uno scontro senza esclusione di colpi

Dalla metà del 2013, i curdi delle tre regioni autonome della Siria settentrionale sono stati impegnati in un conflitto armato contro l'ISIS, ma questo non ha suscitato molto interesse nell'opinione pubblica internazionale. Era considerato solo un sotto conflitto distinto all'interno del grande conflitto siriano. Solo quando, il 10 giugno 2014, le forze estremiste dell'ISIS hanno conquistato Mosul (Iraq) il mondo ha aperto gli occhi. Tra giugno e la fine di luglio l'ISIS si è concentrato poi nuovamente sul Kurdistan occidentale con l'intenzione di massacrare la popolazione del Cantone di Kobane. Tutto il popolo curdo si è mobilitato in massa dando sostegno alle forze delle YPG e YPJ favorendo così una resistenza storica. Trovando resistenza a Kobane, l'ISIS ha provato un'offensiva nella regione di Cizire nella città di Hasakah che si trova vicina al confine siriano-iracheno. Dopo giorni di combattimento, l'ISIS è stata costretta ad arretrare. Dopo queste disfatte i gruppi terroristi si sono diretti verso il Kurdistan iracheno.

Il 3 agosto l'ISIS ha attaccato una delle zone più antiche e sacre della nazione curda, Sinjar (Singal), massacrando curdi yezidi, senza nessuna differenza tra civili e combattenti. Le forze peshmerga nell'arco di 24 ore hanno abbandonato le loro postazioni e l'ISIS ha preso il controllo della città. Il numero dei morti, feriti, dispersi è ancora ignoto, ma si parla di 1500-2000 civili morti. A seguito di questi attacchi, più di 50.000 yezidi sono scappati verso le montagne di Sinjar e più di 300.000 tra donne, bambini e anziani sono stati sfollati. Migliaia di donne sono state rapite e ridotte in schiavitù o sono state vittime di stupri. I rifugiati in montagna sono poi rimasti isolati ed hanno dovuto affrontare la fame e la sete. Quasi 300 bambini sono morti per fame e disidratazione e molte donne hanno preferito il suicidio piuttosto che finire nelle mani dell'ISIS. Questo brutale attacco ha spinto le unità armate delle YPG ad intervenire dal Kurdistan occidentale per proteggere i civili in fuga ed aprire un corridoio umanitario per la popolazione bloccata in montagna. Ciò ha salvato molte vite ed ha impedito all'ISIS di controllare zone più ampie del territorio.


L'appoggio non tanto segreto della Turchia all'ISIS

Lo stato islamico è tornato ad attaccare anche con armi pesanti, come i carri armati T-72, la popolazione curda del cantone di Kobane (15 settembre 2014) utilizzando anche armi consegnate dalla Turchia. Decine di villaggi sono attaccati con i cannoni. L'obiettivo è quello di fare un altro massacro come quello della popolazione yezidi. Le forze di difesa YPG e YPJ stanno resistendo mentre il governo dell'AKP di Erdogan sta sostenendo queste bande. Il confine turco rimane chiuso ai profughi, mentre invece è aperto per i miliziani dell'ISIS. Se la comunità internazionale vuole fermare l'ISIS bisogna intervenire sulla Turchia. L'Ufficio d'informazione del Kurdistan in Italia (UIKI) lancia un appello al Governo italiano, all'Europa ed alle organizzazioni umanitarie per un intervento verso la Turchia affinché cessi di appoggiare l'ISIS. A metà di ottobre, con l'intensificarsi dell'attacco a Kobane, qualcosa cambia. Gli Usa, per frenare l'avanzata dell'Isis, ha iniziato una serie di bombardamenti aerei e, attraverso i suoi velivoli, ad inviare anche armamenti al PYD. Una decisione che ha trovato una forte contrarietà da parte delle autorità turche che hanno sempre considerato le PYD una organizzazione terroristica. La politica interna della Turchia è infatti legata al futuro della questione curda del Medioriente. L'obiettivo di Erdogan è quello di impedire di ristabilire un governo autonomo a Kobane. La speranza della Turchia è che l'Esercito Libero Siriano, che lotta contro Assad, prenda il controllo di Kobane. Il premier Ahmet Davutoğlu ha dichiarato che Ankara non vuole al proprio confine “nè il PYD, né il regime di Assad e nemmeno l'ISIS”. L'atmosfera in Turchia resta tesa. Durante varie manifestazioni curde a favore di Kobane, iniziate il 6-7 ottobre e continuate per più giorni, hanno perso la vita oltre 40 persone in scontri con la polizia e gruppi vicini al PKK e ad islamici radicali. Per il momento, dopo la terza settimana di assedio dell'ISIS al cantone di Kobane, Ankara assiste impassibile al graduale indebolimento delle unità curde di difesa popolare (YPG). Numerosi carri armati dell'esercito turco sono stati posizionati sulle alture interessate ai combattimenti, tutti puntati verso la regione curda. Una linea di confine di oltre 100 chilometri. La Turchia teme la presenza di “regioni autonome curde” ai propri confini per la possibilità che questo possa estendersi anche nelle sue regioni sudorientali. Le condizioni di Ankara per dare aiuto a Kobane sono quelle di rinunciare, da parte del PYD, a pretese autonomiste e di smettere di collaborare con il regime di Assad. La Turchia avrebbe anche chiesto a Washington la possibilità di istituire una zona cuscinetto al confine con la Siria ed una dichiarazione di una “no fky zone”. Il portavoce della Casa Bianca ha però ribadito il rifiuto di questa richiesta, ribadendo che l'obiettivo continua ad essere solo l'ISIS. Il co-leader del PYD, Muslim ha però dichiarato che il partito curdo è riuscito ad accordarsi su molti punti con il governo di Ankara. Quello che i curdi attendono è “l'autorizzazione a passare dai confini turchi per poter portare aiuti a Kobane dagli altri cantoni”. Ma, alla fine la Turchia non ha mantenuto le sue promesse. E' immorale che da una parte una città sia minacciata da un massacro e dall'altra ci siano solo gli interessi di alcuni stati.

Dopo 133 giorni di resistenza Kobane è libera! “E' la vittoria della linea della libertà sull'oscuro ISIS”, queste sono le parole del Comando Generale YPG. I combattenti delle YPG e YPJ, giovani uomini e donne del Kurdistan e tutti i volontari che li hanno raggiunti da tutto il Kurdistan ed altri paesi, si sono battuti con molto coraggio ed hanno opposto una forte resistenza al terrore. Questa vittoria è il frutto della rivoluzione del Rojava. “Questa è stata una battaglia tra l’umanità e la barbarie, tra la libertà e la crudeltà e tra i valori comuni dell’umanità e i nemici dell’umanità. È la correttezza, lo spirito di libertà e il libero volere dei popoli e dell’umanità, che hanno vinto questa battaglia”, ha sottolineato ancora il Comando Generale YPG.

L'anno 2014 è stato molto importante per il Kurdistan e le popolazioni del Medio Oriente. Uno dei comandanti delle YPG, Cemil Mazlum sottolineando che l'ISIS, in superiorità tecnica e numerica, si è scontrata con la filosofia di Ocalan, con lo spirito di sacrificio ed una forte organizzazione delle forze curde, ha dichiarato: “Inoltre, abbiamo capito il nemico in modo corretto e anticipato che cosa avrebbe potuto fare. Su questa base, ci siamo preparati per attacchi e barbarie di qualsiasi livello, e abbiamo combattuto il nemico con una chiara superiorità morale e coraggio. Le bande di ISIS erano superiori a noi per quanto riguarda le tecniche, le braccia e il numero di militanti, ma la determinazione eroica, la motivazione, l’impegno e il coraggio dei combattenti delle YPG/YPJ sono stati il nostro più grande vantaggio contro l’ISIS. Di fatto, Kobanê ha assistito allo scontro fra la superiorità tecnica e un popolo in lotta per la propria libertà, che finora ha vinto la guerra”.

Il ruolo delle donne nel conflitto e nella società curda

Le donne hanno avuto un ruolo molto importante in questo contesto. Le Unità di protezione del popolo contano circa 45mila unità, il 35% sono donne (quasi 16mila). C'è in gioco il posto che le donne occupano nel mondo e per questo le guerriere sono orgogliose di aver imbracciato le armi, così come lo sono le loro madri. A Kobane la guerra è una scelta obbligata per chi ha cura della propria vita e libertà, di quella dei compagni, della regione e delle idee. Queste donne stanno portando avanti anche una battaglia sul fronte interno per affermare il loro diritto a conquistarsi la libertà. La partecipazione alla guerra le ha portate a sentirsi uguali, hanno preso a difendere se stesse con il rischio di morire, senza nessuna predilezione al martirio. A loro la guerra non piace, come non piace uccidere, lo dicono nelle tante interviste rilasciate a giornalisti. Una combattente racconta, infatti, che pulire il suo fucile non era difficile, ma per riuscire a sparare ha dovuto combattere la paura. Ogni donna, prima di tutto, ha dovuto fare i conti con se stessa e con la sua normale passività di fronte alla vita quotidiana. Mentre rivendicano di essere una brigata di sole donne che vivono in modo del tutto indipendente, rivendicano e praticano anche l'uguaglianza ed insegnano qualcosa agli uomini. La loro lotta ha qualcosa di sovversivo che forse non sarà decisiva da un punto di vista militare, ma lo sarà da quello politico. La straordinaria resistenza delle donne curde non nasce dal nulla, ma ha radici molto lontane. E', infatti, doveroso ricordare la figura di Sakine Cansiz (assassinata con le sue compagne Fidan Dogan e Leyla Saylemez a Parigi il 9 gennaio 2013) che insieme a poche altre compagne negli anni '70 diede inizio all'auto-organizzazione delle donne nel movimento curdo.

“Erano anni molto difficili, dove si viveva in clandestinità e lottando sia contro lo Stato turco e la sua feroce repressione, sia contro la sinistra turca che non vedeva di buon occhio il movimento curdo, definendolo “nazionalista”, sia contro i pregiudizi sociali dell'epoca interni alla stessa società curda, che voleva per le donne un destino già scritto di mogli e madri. Un lavoro che le è costato lunghi anni di prigione, torture, esilio. Ma che è la vita che Sakine Cansiz aveva scelto per sé, l'unica che avrebbe potuto condurre.” [Dal libro “Tutta la mia vita è stata una lotta” di Sakine Cansiz 1°volume]

Gli occhi della delegazione Italiana

E' in questo contesto che la delegazione italiana come Osservatori internazionali è arrivata il 18 marzo scorso in Kurdistan, suddivisa in vari gruppi per poter raggiungere più luoghi del territorio del Kurdistan turco. La delegazione di cui facevo parte era la “Delegazione di Van” e, Kobane era la nostra meta finale (22 marzo) insieme agli altri gruppi.

  

Partiamo la mattina presto da Diyarbakir per raggiungere la cittadina di Suruc vicina al confine siriano a 45 km a sud ovest della città di Urfa. Oggi è un importante distretto agricolo famoso per la produzione del melograno. Incontriamo nella sede del Municipio il responsabile della Commissione della diplomazia del partito DTK (Congresso della Società democratica) di Diyarbakir, Mustafa Dogal. Senza troppi giri di parole, ci comunica subito che raggiungere Kobane è praticamente impossibile, le autorità turche non concedono permessi. Dogal si trova a Suruc da cinque mesi con un ruolo da diplomatico. Il nostro programma per oggi prevede, dopo questa breve introduzione sulla situazione odierna, un sopralluogo vicino al confine dove potremo vedere Kobane ed una visita ad un campo profughi.

La città di Suruc conta 101.000 abitanti e dall'inizio della guerra, sono arrivati in tutta la provincia di Sanliurfa, a cui Suruc appartiene, 126.000 profughi. La popolazione si è praticamente raddoppiata. Il numero totale delle persone fuggite da Kobane che si trovano nel territorio del sud est turco è di 180 mila. Dalla liberazione di Kobane sono riusciti a tornare alle loro case nel Cantone circa 50.000 persone. Il rientro è organizzato, tre volte alla settimana, dai responsabili dei campi con il partito locale e con le famiglie. Le persone sono così accompagnate al confine con l'aiuto di mezzi di trasporto presi a noleggio. “Dal 1945 - continua Dogal - Turchia, Siria, Iran e Iraq, quattro paesi sotto le Nazioni Unite, continuano a praticare un embargo verso il popolo curdo. Sono 70 anni. L'unica soluzione da fare è quella di esercitare una forte pressione sulle Nazioni Unite, prima si farà e prima la Turchia sarà costretta a cambiare la sua politica. Ogni persona che viene qui e non passa a Kobane, quando torna indietro se non fa niente, se non dice niente, serviranno ancora altri 70 anni per cambiare qualcosa. Tutto è nelle nostre mani”. Dogal si raccomanda, quando andremo al confine, di non osare troppo, di non andare troppo vicino al confine. E' una zona militare, c'è l'esercito turco, soldati, e sono pazzi. In passato, alcune persone sono state uccise solo perché si sono avvicinate troppo. La Turchia non ha riconosciuto ai profughi curdi di Kobane lo status di rifugiati e per questo non è intervenuta in questa emergenza. La municipalità di Suruc ha accolto invece per cinque mesi la popolazione di Kobane, non come rifugiati, ma come parenti, liberi di scegliere se restare o tornare alle proprie case.

Il trattato di Losanna ha diviso il confine separando di fatto persone della stessa famiglia da uno stato ad un altro. A chi resta, la Turchia però non rilascia un permesso di lavoro. Suruc ha prestato aiuto sia a quelli che sono rimasti e sia a chi è tornato a Kobane. Da ricordare infatti che Kobane per l'80% è ancora distrutta, specialmente la parte occidentale con molti corpi di combattenti insepolti ed ordigni esplosivi non disinnescati. A Suruc si trovano 6 campi profughi, di cui 5 gestiti dalla municipalità ed uno dalla protezione civile del governo turco, messo in piedi quattro mesi dopo la fine della guerra con Kobane liberata. La municipalità non ha ricevuto nessun aiuto né dalle Nazioni Unite e né dalla Turchia. Gli aiuti sono arrivati da 103 diverse municipalità e da diverse organizzazioni turche ed europee, niente dal governo turco o da governi europei. “I governi europei - afferma Dogal - rappresentano ufficialmente il governo turco. Il campo profugo turco è in realtà come un campo militare ed occorre un permesso per entrare e uscire. Il governo turco pretendeva inoltre che i rifugiati lasciassero i campi gestiti dalla municipalità di Suruc per trasferirsi in quello ufficiale turco. Ma era troppo tardi. I rifugiati volevano solo tornare alla loro case o a quello che ne era rimasto.”

La relazione di Dogal prosegue con toni più politici soprattutto inerenti al conflitto siriano.

“E' più interessante parlare dell'intera coalizione che parlare solo del bombardamento delle Nazioni Unite sulla Siria. Quando hanno iniziato a bombardare l'ISIS – continua Dogal – era tardi, ma è sempre meglio che niente. Le forze di coalizione dovrebbero continuare, perché come popolo curdo non abbiamo abbastanza potere militare, ma come coraggiosi, abbiamo potere. Abbiamo bisogno di attrezzature, le YPG/ YPJ hanno bisogno di più armi, l'Isis ha grandi armi, ma nonostante questo sono stati sconfitti e, grazie al coraggio curdo e alla resistenza”.

Per 70 anni, a causa delle divisioni, dei confini e dei regimi dittatoriali non è stato possibile creare un'unità curda. Il popolo curdo è stato volutamente diviso per evitare una reale unificazione. Per quanto riguarda il rapporto con i Peshmerga, arrivati dall'Iraq, Dogal è molto diplomatico. Afferma infatti che il loro aiuto è stato minimo, ma è solo l'inizio. E' stato un passo importante per la costruzione di una unità dei curdi.

“Senza unità i curdi non possono essere così potenti, come dovrebbero esserlo, e non solo i curdi da soli, i fratelli come voi, come noi – prosegue Dogal - Voi venite dall'Italia, ma le vostre radici sono qui, tutta la civiltà è nata in Mesopotamia. Se si legge la storia, le persone si sono mosse in Europa e negli Stati Uniti partendo dalla Mesopotamia, tra il Tigri e l'Eufrate. Bisogna tenere in considerazione le proprie radici. Il popolo curdo non sta combattendo solo per il popolo curdo, ma combattiamo per la democrazia in tutto il mondo. Se l'area che dovrebbe essere controllata dai curdi, sarà controllata dai curdi, l'intero mondo sarà al sicuro. Se l'occidente aiuterà il popolo curdo a controllare questa area, i fondamentalisti non potranno più manovrare in quest'area. Per questo bisogna supportare il popolo curdo affinché controlli questa zona e non solo contro l'Isis di oggi, ma anche contro quelli che verranno, perché spesso cambiano solo il nome, ma restano gli stessi. Il popolo curdo è l'assicurazione dell'intero mondo”.

Per quanto riguarda la questione del PKK (Partito del Lavoratori del Kurdistan), Dogal ci chiede: “Se il PKK è considerato un gruppo terroristico, perché la coalizione sta combattendo con loro? La storia aveva detto che Nelson Mandela era terrorista, ma poi cosa è successo? Il popolo curdo non è terrorista ed il mondo lo capirà. Dopo Kobane ed il massacro degli yezidi, lo capirà, tardi, ma capirà. Il popolo curdo non ha mai voluto occupare un altro territorio, non ha mai voluto seguire l'esempio dell'Isis in nessuna terra. Quello che il popolo curdo vuole è solo vivere nella sua terra, sul suo terreno con dignità ed onere, come gli altri popoli. Quello che vogliamo è la democrazia per l'intero mondo e per le donne”.

Sul processo di pace e sulle dichiarazioni di Ocalan, Dogal si esprime solo a livello personale.

“Le autorità turche negli ultimi trent'anni hanno trovato sempre delle scuse per non concedere l'autonomia al popolo curdo, come per esempio, attribuire la responsabilità al PKK perchè non accetta di deporre le armi. Il PKK però negli ultimi tre anni ha portato avanti “il cessate il fuoco” ma il governo turco non ha fatto nessun passo verso una riconciliazione. Il governo turco ora afferma che se il PKK abbandona la Turchia, è pronto a concedere al popolo curdo i suoi diritti. Sul processo di pace si sono aperte delle differenze di posizione tra Erdogan ed il primo ministro turco, ma siamo vicino alle nuove elezioni politiche ed è una consuetudine per Erdogan, per prendere più voti, rilasciare dichiarazioni che poi non metterà mai in pratica. Ad Erdogan piace il potere, vuole dimostrare a tutti chi è il Re, ma chi l'ha messo su lo può anche buttare giù. Tutto questo è normale per Erdogan, ma è lui che non è normale!”.

    Audio Mustafa Dogal 


In direzione di Mesher a due passi dal confine e dal conflitto

La delegazione, subito dopo l'incontro con il diplomatico Mustafa Dogal nella sede del Municipio di Suruc, si dirige verso il confine con Kobane raggiungendo il villaggio di Mesher.

Mesher è infatti l'ultimo centro urbano turco prima della frontiera, tra Suruc e la Siria. Mesher e Kobane si guardano, si salutano, si aiutano, distano solo tre chilometri e, con l'aiuto di un binocolo o di uno zoom di una macchina fotografica si può guardare dentro alle case o di quello che è rimasto in piedi.

  

  

 Arriviamo al confine. Scendiamo dal pulman. Alla nostra destra c'è una grande collina verde dove ci sono alcune pecore che tranquillamente mangiano l'erba, non sembrano sorprese o preoccupate, per loro è solo una silenziosa giornata di sole senza spari. Sulla strada ci sono camionette e militari che imbracciano fucili o Kalashnikov. Sono giovanissimi, ci guardano un po' curiosi, ma abituati a questi occidentali che vogliono passare per vedere quello che resta di questa guerra. L'emozione mi prende allo stomaco, alla testa, dimentico lo zoom della mia macchina fotografica sul pulman, solo una volta a casa capisco che ho perso un'occasione per scattare delle fotografie più intense. Il tempo a nostra disposizione è poco. I miei compagni di viaggio iniziano a correre per raggiungere un punto migliore e il più vicino possibile allo spazio a noi consentito, dove riprendere o scattare immagini. C'è confusione, si sente gridare a qualcuno di tornare indietro, qualcun'altro vuole una foto con un soldato, ognuno esprime come vuole i propri sentimenti. Appena tre chilometri mi separano da Kobane, da quello che è rimasto della “Stalingrado del Medio Oriente”, così è stata chiamata Kobane dai primi giornalisti che sono riusciti ad entrare al termine dei quattro mesi di combattimento. Da qui riesco a vedere i palazzi, le case distrutte, le automobili, i furgoni abbandonati oltre il confine turco dai profughi in fuga e, sullo sfondo in lontananza, anche la bandiera delle YPG. Siamo tutti su questa linea con le macchine fotografiche e cineprese a guardare case distrutte. Penso ai combattenti, agli abitanti di Kobane, al loro tentativo di rivoluzionare la società esistente attraverso la proposta di una nuova costituzione chiamata “Carta del Contratto sociale”. Un documento laico, egualitario e anticapitalista. Alcuni principi sono già stati messi in pratica, come l'uguale divisione delle cariche amministrative fra uomini e donne, le forze di difesa speciali di sole donne (YPJ), la coesistenza sullo stesso territorio di etnie e religioni diverse.

Domani noi tutti torneremo alle nostre case e poi? Una domanda mi attraversa la mente mentre mi guardo attorno: “ma perché solo ora tanta gente è qui oggi? Perchè negli altri anni, per festeggiare il Newroz insieme al popolo curdo in Kurdistan, eravamo circa una trentina di persone, mentre in questo viaggio siamo in 120? Occorre una guerra, una devastazione per far muovere le persone? Ma poi mi dico che in fondo non c'è bisogno di affrontare un viaggio per essere vicino e supportare i diritti del popolo curdo e, il gran numero di persone presenti in quest'occasione, è solo per dimostrare al mondo intero, ma specialmente, al governo turco che siamo in molti a schierarsi con il popolo curdo, con la loro determinazione, coraggio e resistenza. La loro lotta deve essere anche la nostra. Dove mi trovo ora è “La linea” descritta da Serena Tarabini il 15 gennaio scorso nel suo racconto di un viaggio sul confine turco-siriano. Ricordare le parole di Serena è un omaggio per tutti quelli che hanno vissuto sulla propria pelle questa aggressione.

“La linea” si compone tutte le mattine a Mesher, villaggio collocato fra la cittadina di Suruç, ultima enclave urbana turca prima della frontiera, e la Siria. Un aggregato di poche case che lambisce il confine, dalla quale ciò che succede a Kobane si vede e si sente. Uno in mezzo a tanti altri, ma che si distingue. Le sue poche centinaia di abitanti, a cui si sono aggiunte una quarantina di famiglie fuggite da Kobane, assieme a ex combattenti, volontari, simpatizzanti, visitatori internazionali che vi transitano, ogni mattina formano una lunga linea rivolta verso una Kobane dalla quale si alzano colonne di fumo e provengono i suoni delle mitragliatrici e delle granate, mentre il ronzio degli aerei della coalizione si avvicina o si allontana. Nella “linea” decine, a volte centinaia di persone, rivolgono il loro omaggio ai combattenti di Kobane, scandendo slogan e innalzando canti di lotta. Un gesto simbolico pieno di orgoglio, di storia, di forza e di coraggio. Un rituale non privo di pericoli quando si svolge a pochi metri dal confine e si è sotto il tiro dell’esercito turco: un’attivista curda di 28 anni, Kader Ortakaya, a Novembre vi ha perso la vita, colpita alla testa da una pallottola sparata da un soldato. Questa catena umana che corre parallela lungo il confine, fa anche da linea di congiunzione fra due fronti di resistenza, quello militare che si svolge dentro Kobane, dove le Ypg e le Ypj, le truppe di liberazione maschili e femminili curde combattono l’Isis a costo della vita, e quello umanitario dall'altra parte della frontiera, dove si sono rifugiate le decine di migliaia di profughi provenienti da Kobane. “La linea” è uno dei tanti gesti che fanno di Mesher un luogo speciale, un osservatorio permanente sugli sviluppi del conflitto e un presidio di solidarietà dai caratteri simili a quelli della “comune”. Ma non c’è solo Mesher, tutta questa zona ha qualcosa di eccezionale....«Questa guerra non è la nostra guerra» ci dice Fatma, nome di fantasia per una dei 20 membri eletti al governo del cantone di Kobane e responsabile dell’ordine e della sicurezza a Suruç. «Chiunque si definisca un democratico dovrebbe sostenere questa nostra resistenza, perché stiamo combattendo contro l'Isis, che sono dei fascisti e dei terroristi»... Sono tante le linee che ho visto in questo viaggio: quelle formate dalle tende dei campi profughi, dalle macchine che fuggitivi siriani sono stati costretti dall'esercito turco ad abbandonare lungo il confine, dalle ambulanze che trasportavano morti e feriti, dalle persone in attesa di un pacco o di una visita medica, dal fumo delle esplosioni, sono tante linee le strade che tagliano l’infinita pianura mesopotamica. E poi la linea di frontiera, irta di filo spinato, brulicante di carri armati e uomini in divisa. Che continua con tutte le linee di frontiera dell’Europa e del mondo: innocenti righe tracciate su un pezzo di carta, nella realtà selettive e crudeli barriere sulle quali si infrangono le speranze e la vita di chi fugge dall'orrore.

Foto di Giorgio Barbarini

  

I combattimenti sono cessati, Kobane è libera ed ora si contano i danni della devastazione. La guerra contro l'Isis ha avuto un costo molto alto. Il Consiglio esecutivo della provincia di Kobane ha costituito un Comitato con il compito di documentare tutti i danni subiti. E' stato quindi redatto un rapporto (http://www.uikionlus.com/rapporto-sui-danni-nel-cantone-di-kobane/) nel quale sono dettagliate tutte le necessità di cui Kobane ha bisogno per riprendere una vita normale. Tutto è stato distrutto: infrastrutture, ospedali, agricoltura, istruzione, economia e capitale sociale.

 

Immagini  Suruc 

 

Lasciamo la linea del confine per raggiungere uno dei sei campi profughi a Suruc: Suruc Belediyesi – Kobani – Cadir Kenti. Siamo accolti all'ingresso da tanti bambini curiosi. Il campo è abbastanza grande con tante tende grigie ben allineate. Possiamo girare liberamente all'interno del campo e ci dividiamo per non essere troppo invadenti nei confronti delle persone che lo occupano. La prima sensazione in queste occasioni è di disagio. Le nostre intenzioni, il nostro impegno è sincero, ma potremmo essere fraintesi nel momento in cui non incidiamo sulle prese di posizione dei nostri governi. Entro nel campo e subito una dolcissima bambina dai capelli castani con una giacca rosa, mi prende la mano e mi accompagna a conoscere il campo per tutto il tempo a nostra disposizione. Comunichiamo a gesti, avrei voluto conoscere la sua famiglia, sapere con chi si trovava lì, ma purtroppo, per la differenza linguistica, le mie domande sono rimaste insoddisfatte. Noto, come ci aveva raccontato il diplomatico Dogal, molti spazi vuoti, segno che molte tende sono state smontate per l'inizio delle operazioni di rientro a Kobane. La mia impressione è stata positiva perché mi trovavo di fronte ad una situazione d'emergenza messa in atto semplicemente dalla buona volontà di persone per aiutarne altre in estrema difficoltà. Questo non è il solito campo profughi dove vengono ammassate moltitudini di persone per un tempo indefinito, qui si tratta di un campo allestito per aiutare chi sta scappando da una guerra, si tratta dello stesso popolo e come tale è considerato. Sono liberi di scegliere se restare o ritornare alle proprie case. Le parole diventano inutili di fronte a tutto ciò, forse le immagini rendono meglio la situazione. Porto nel cuore con me il viso di quella bambina sorridente e spero che sia ora con tutta la sua famiglia nella sua casa a Kobane, come del resto, anche per tutte le altre persone presenti nel campo. L'unico rimprovero e delusione è quello di non aver potuto sapere le storie di quelle persone, delle loro paure, speranze, richieste d'aiuto. Non era programmato un incontro esplicativo con alcuni rappresentanti del campo.


 
Immagini del campo profughi

22/05/2015

Fonti:

- Dal libro”Storie dei curdi” di Mirella Galletti

- sito “Osservatorio Balcani e Caucaso”

- sito “Uiki Onlus” I curdi in Siria

- sito “il Post”: tre anni di guerra in Siria – quatto anni di guerra in Siria – che cos'è l'Isis

-sito “Info Aut” La rivoluzione in Rojava

-sito “Ossin.org” La minoranza curda nella crisi siriana


NEWROZ 2015

reportage fotografico di Mirca Garuti


 

 

  

   INCONTRO CON TUHAD-DER  - VAN 



 

 

 

 

   NEWROZ VILLAGGIO CUBUKLU - VAN 

 

 

 

 

 

 NEWROZ VILLAGGIO UNCULAR - VAN 

 

 

 

 

 

 

  NEWROZ VAN

 

 

 

 

 

 

  IL LAGO DI VAN 

 

 

 

 

 

 

  IN VIAGGIO DA VAN A DIYARBAKIR 

 

 

 

 

 

 

 

 

  NEWROZ DIYARBAKIR 

 

 

 

 

  SURUC AL CONFINE CON KOBANE 

 

 

 

 vedi anche FOTO KOBANE


Sesta edizione Premio Stefano Chiarini 2015
“PALESTINA: IL DIRITTO AL RITORNO”
Modena, domenica 1 febbraio 2015 ore 10,00
presso LA TENDA, Viale Molza angolo Viale Monte Kosica

come raggiungerci...

Le foto dell'evento:


Il Premio Chiarini, dedicato alla figura del giornalista del Manifesto Stefano Chiarini, si propone di istituire un riconoscimento all’impegno sul tema del Medio Oriente e in particolare della Palestina, con una speciale attenzione per il mondo dei media e della cultura. Quest'anno sarà attribuito a Moni Ovadia, attore teatrale, drammaturgo, scrittore, ricercatore, cantante e interprete di musica etnica e popolare di vari paesi, per il suo impegno per la diffusione, attraverso la sua arte, della questione palestinese. Consegnato, inoltre, un riconoscimento al Gruppo musicale “I Kalamu” band calabrese di musica folk-rock  per il loro impegno nella costante lotta alle mafie ed alla ricerca di una comunicazione tra tutti i popoli.

Hanno inoltre partecipato: Moni Ovadia, Mai Alkaila Ambasciatrice Palestinese in Italia, Sirkku Kivistu, attivista pro-PalestinaFinlandia, Kassem Aina, presidente Comitato internazionale per il diritto al ritorno (Libano), Mohammed E.A.Eleyan, Dipartimento Affari profughi Olp, giornalisti, amici di Stefano e rappresentanti di associazioni nazionali ed internazionali, etc.

 

Presentazione e apertura

di MIRCA GARUTI

               



 

 

 

 

 

SIRKKU KIVISTU,

attivista pro-palestina Finlandia
traduzione  Raffaele Spiga

       



 

 

 

 

 

GIANPIETRO CAVAZZA

Vicesindaco e Assessore alla Cultura e all'istruzione di Modena

   

 

 

 

 

 

 

 

“DIRITTO AL RITORNO”
Video realizzato dalla redazione di Alkemia

La vita del popolo Palestinese, dai campi profughi dal Libano a Gaza.
La felicità e il dolore di chi da troppo tempo attende di poter tornare a casa, di poter esistere e di essere riconosciuti, secondo il diritto internazionale, come legittimi proprietari di un territorio oggi occupato da Israele.


 

 

 

MAI ALKAILA

Ambasciatrice Palestinese

   

 

 

 

 

 

 


 

OSAMA QASIM AL RIMAWI

Giovani Mussulmani Italiani (GMI - Modena)

  

 

 

 

 

 


 “RICORDO DI STEFANO CHIARINI”

KASSEM AINA – Pres.Te Com.Inter. per il Diritto al ritorno  (Libano)

Traduzione di Bassam Saleh

 

  

 

 

 


 

“LETTURA ARTICOLO DI STEFANO CHIARINI

ERMANNO BUGAMELLI

  

 

 

 

 

 

 

Presentazione

“per non dimenticare Sabra e Chatila...”

di MAURIZIO MUSOLINO

 

  

 

 

 



 

MOHAMMED E. A. ELEYAN - Dipartimento affari profughi OLP

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LETTURA POESIA DI DAWISH

OSAMA QASIM AL RIMAWI - TAKWA HADDAD (in Italiano)

 

  

 

 

 

Premiazione

MONI OVADIA


Attore teatrale, drammaturgo, scrittore, ricercatore, cantante e interprete di musica etnica e popolare di vari paesi, viene riconosciuto il premio chiarini 2015 per il suo impegno per la diffusione, attraverso la sua arte, della questione palestinese. Moni Ovadia, oggi è considerato uno dei più prestigiosi e popolari uomini di cultura ed artisti della scena italiana. il suo teatro musicale, ispirato alla cultura yiddish, che ha contribuito a fare conoscere e di cui ha dato una lettura contemporanea. Moni Ovadia è anche noto per il suo costante impegno politico e civile a sostegno dei diritti e della pace ed è un punto di riferimento per le giovani generazioni.
recentemente sul gesto del pontefice ha affermato che: «il pugno di francesco è lungimirante» e la battuta del pontefice non è casuale né ingenua: «è stato un modo con cui non solo ha chiarito che come papa difende la chiesa ma anche che non è indifferente al ridicolizzare le fedi, il tutto però sdrammatizzando. oggi si tende a commentare tutto in diretta. dovremmo cominciare a riattivare l'uso del cervello e lasciare da parte le budella».

Le sue dichiarazioni dopo la premiazione:
“..vorrei fare molto di più perché nella coscienza di ogni persona per bene, nella coscienza di un uomo che riconosce i valori centrali dell'umanità, il dramma del popolo palestinese è una ferita aperta. Nella nostra coscienza di esseri umani, di cittadini europei, di cittadini del mondo e dovrebbe essere una ferita aperta anche nella coscienza ebraica...”

Audio:
   

Audio fotografico:


Premiazione
GRUPPO MUSICALE KALAMU


Band calabrese di musica folk- rock in costante impegno di lotta alle mafie ed alla ricerca di una comunicazione tra tutti i popoli. i testi spaziano dai temi sociali a brani di carattere intimistico. Tra impegno ed ironia per parlare a tutti in una costante ricerca di comunicazione.

Audio:  

Video della premiazione:

 

    


ANDREA PICCININI - Ricordo della Professoressa Ada Lonni di Torino 

Azione BDS – RAFFAELE SPIGA (comitato Boicottaggio Disinvestimenti Sanzioni -  Bologna)

Missione “Diritto al Ritorno” 2015 - GUSTAVO PASQUALI

  

La festa finale con “Bella Ciao”:

 

I DISEGNI DEI BAMBINI DEL CAMPO PROFUGHI CHATILA (LIBANO)

Laboratorio di arte e ritratti di Roberta Ravoni

 

  

 

 

A cura di Alkemia, Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, LaTenda


 

(scarica o ascolta l'audio della giornata)

LE FOTO DELLA GIORNATA di Mirca Garuti

Non è stata una domenica qualsiasi quella del 29 novembre scorso  a Lucca. L'Auditorium San Romano ha accolto molti militanti, attivisti e intellettuali per partecipare ad un confronto su quale progetto futuro per una resistenza non violenta alla repressione israeliana e quale percorso intraprendere affinché siano riconosciuti i diritti dei palestinesi e il ritorno dei profughi.
Durante la giornata è stato inoltre lanciato,  per evitare, come chiaramente espresso da Norberto Julini, che “tra un anno ci ritroviamo qui a fare la conta dei danni e le medesime analisi”, un obiettivo: lavorare affinchè anche il nostro governo riconosca lo Stato di Palestina.
Una giornata dunque intensa, ricca di focus di analisi e confronto che meritava di essere raccontata e che abbiamo cercato di sintetizzare.
Apertura dei lavori e di Norberto Julini (Pax Christi) e i saluti di Ilaria Biechina, Stefano Baccelli (Presidente prov. di Lucca) e la Direttrice UNRWA Italia.

 

AUDIO INIZIO LAVORI


FOCUS - LA CAMPAGNA “PONTI E NON MURI” DIECI ANNI DOPO: LA SOCIETA' CIVILE INTERNAZIONALE SI RACCONTA...

L'esperienza diretta di chi opera sul campo è tra le parti più importanti di questo focus. Dalla denuncia della voluta distruzione di una scuola costruita dagli italiani a Gaza, non durante un raid aereo ma con l'avanzata di terra dell'esercito israeliano e il rifiuto di chiedere i danni, votando contro ad una mozione presentata in parlamento; al racconto in collegamento dalla Cisgiordania, di Patrik ultimo cooperante dell'ISM colpito al petto mentre difendeva, durante il raccolto, i contadini palestinesi. Anche Stephanie Westbrook ha elencato i successi della campagna BDS nel mondo e della necessità che questa campagna di boicottaggio diventi attiva per distruggere il regime di apartheid, come del resto è stato fatto per il Sud Africa. Soprattutto perché sono i palestinesi stessi che ce lo chiedono. Stefano Gambini ha poi ricordato, come illustrato nella dichiarazione dell'ONU, che le falde acquifere di Gaza, a causa della rottura delle fognature, rischiano entro il 2020 di essere  inutilizzabili.

Don Nandino Capovilla incontra:
Massimo (rapp.te di Operazione Colomba)
Stefano Gambini (cooperante a Gaza)
Josè Henriquez (segr,ario di Pax Christi international)
Maya (rapp.te ISM)
Annibale Rossi (rapp.te di Vento di Terra)
Stephanie Westbrook (leader del BDS)


 

AUDIO COLLEGAMENTO CON PATRIK

 

 


AUDIO DELL'INCONTRO 1p

AUDIO DELL'INCONTRO 2p

 

 

 

 

 

 

OMAR SULEIMAN: LE POESIE DI DARWISH


 

 

 

FOCUS – LA COMUNITA' INTERNAZIONALE: COME LE NAZIONI UNITE STANNO LAVORANDO PER LA PACE, LA GIUSTIZIA, I DIRITTI UMANI

Il focus non poteva che cominciare che con il saluto dell'ambasciatrice palestinese in Italia e la descrizione dettagliata ed aggiornata di Ray Dolphin, dove attraverso la proiezione di carte e specifiche descrizioni grafiche, ha evidenziato la lampante violazione dei diritti internazionali soprattutto in riferimento agli insediamenti israeliani e le zone di totale controllo dove i Palestinesi non possono neppure entrare. Per esempio, in Cisgiordania  le zone dove non solo è vietato l'accesso ma anche la coltivazione da parte dei Palestinesi, sono l'85%. Ha  parlato, subito dopo, della realizzazione di oltre 400 km di muro su un totale di  700 km che, nonostante abbia ottenuto il permesso dalla Corte Internazionale per la sua realizzazione all'interno dei territori d'Israele, è stato compiuto su suolo palestinese.
Nicolò Rinaldi ha espresso, invece, la difficoltà all'interno del Parlamento Europeo di riuscire ad avanzare una seria discussione sulla questione Palestinese, non solo a causa del peccato originale dell'Olocausto, ma anche per i troppi legami commerciali relativi ad armamenti e tecnologia con il governo israeliano. Altra motivazione è che comunque Israele viene considerata un enclave, un presidio occidentale in una terra araba. Un lavoro parlamentare che, a fatica, comincia a dare qualche frutto e prova di andare oltre il semplice versamento di circa 900 milioni di euro all'UNRWA. Cosa che, al contrario, non fanno i governi arabi, anche se, prima o poi, dovranno affrontare.
Luisa Morgantini ha elencato i valori e i risultati della lotta non violenta nei territori occupati soffermandosi, in particolare, sulla pochezza del messaggio di Ban ki-Moon che mantiene equidistanza tra i due contendenti mettendo sullo stesso piano oppressori ed oppressi. Un atteggiamento che evidenzia l'impossibilità per le Nazioni Unite di poter avere un ruolo decisivo nei processi di pace e nella realizzazione di due popoli in due stati.

Renato Sacco, coord.re naz. Pax Christi, incontra:

 

Ray Dolphin (rapp.te dell'ONU e dell'OCHS)

 

 

 

 

 

 

Nicolò Rinaldi (Parlamentare Europeo)

 

 

 

 

 

Luisa Morgantini (ex pres.te parlamento europeo)

 

 

 

Presentazione del progetto “1000 biglietti per Gaza” dall'associazione “InvictaPalestina”

InvictaPalestina  ha organizzato il primo concorso nazionale di Arte Contemporanea “I popoli che resistono”.  Le 40 opere, omaggiate dagli artisti, saranno poi estratte al termine della vendita dei biglietti.  L'obiettivo è quello di raccogliere  2.500 euro da destinare alla ricostruzione di Gaza.
 




FOCUS - LA POLITICA ISRAELIANA TRA OCCUPAZIONE E MASSACRO: LE PAROLE PER DIRLO

Gideon Levy: “Una cosa va detta subito e senza esitazione: quello che Israele, il mio Paese, vuole fare è accaparrarsi più terra possibile. E questa non è una questione complessa, come spesso si dice. E’ molto semplice: dal ’48 gli ebrei colonizzano la terra palestinese e le loro politiche non sono cambiate. E questo ha un nome: colonialismo. Oggi, poi, dobbiamo parlare chiaramente di un vero regime di apartheid. … Con il mio lavoro voglio documentare tutto, perchè un giorno, quando tutto sarà finito, gli israeliani non possano dire 'non sapevamo'. Sono nato e vissuto a Tel Aviv sentendomi una vittima e non certo un occupante e ho pensato questo fino agli anni '80, quando ho cominciato a lavorare per Haarez, che mi ha inviato nei Territori Occupati. Solo lì ho cominciato a vedere e a capire. Come chiamereste un regime in cui uno dei due popoli gode di tutti i diritti mentre l'altro non ha nulla? Io lo chiamo apartheid”.
Moni Ovadia invece affronta il problema che “in Europa siamo tenuti sotto ricatto violentissimo attraverso l'uso ideologico ideologico della Shoah, come critichi l'occupazione o le azioni del governo israeliano, immediatamente parte subito l'insulto o la maledizione. Moni risponde alle accuse di antisemitismo, di essere nemico del popolo ebraico, di ebreo che odia se stesso. Il tutto senza mai rispondere alle mie argomentazioni”

Grazia Careccia intervista:

GIDEON LEVY (giornalista israeliano)  

 

 

 

 

MONI OVADIA (attore e intellettuale)  

 

 

 

 

 

 

Le risposte di Ovadia e Levy alle domande del Pubblico 

 


 

 

 

FOCUS – UNA LUNGA STORIA DI RESISTENZA: COME E' CAMBIATA LA RESISTENZA PALESTINESE IN 12 ANNI DI MURO DI APARTHEID

Gli ultimi anni raccontati ed analizzati da un importante intellettuale arabo e rappresentate dell'OLP in Italia, Washim Dahmash  e da Mohammed Khatib coordinatore dei comitati per un opposizione non violenta al governo Israeliano nei territori occupati. Due punti di vista che pur partendo da due diversi modi di agire politico ed attivo,  giungono alla medesima conclusione:  liberare il popolo palestinese dall'oppressione israeliana.

Anna Clemente intervista:
Mohammed Khatib (cood.re comm.lotta popolare non violento palestinese)
Washim Dahmash (prof.re lingua e letteratura araba a Cagliari)



AUDIO DELL'INCONTRO  

 

 

 


WASHIM DAHMASH Legge le poesie di Darwish


 

 

 

Per altre informazioni o approfondimenti:
http://www.bocchescucite.org/giornata-onu-una-voce-nel-deserto-i-video-e-gli-interventi-di-lucca-2014/

https://www.youtube.com/channel/UCop3V1dXcqFYbhewDp0vEEA


 

FERMATO IL GENOCIDIO A GAZA

STOP AL MASSACRO


In tutta, TUTTA, la Palestina stasera si festeggia. Non si festeggia solo il cessate il fuoco, che sarebbe il minimo, dopo 51 giorni di particolare ferocia che solo chi è sporco di putrida malafede dalla testa ai piedi non riesce a chiamare col giusto nome di crimine di guerra.
Non si festeggia solo il cessate il fuoco ma si festeggia la vittoria.

GAZA ha pagato caro ma ce l'ha fatta. Non è finita, è solo il primo passo, ma è il primo passo significativo. Per la prima volta le divisioni interne sono state messe all'angolo e stasera TUTTI i palestinesi, di qualunque colore sia il loro stendardo, stanno festeggiando nelle strade, nelle piazze, perfino tra la polvere delle rovine prodotte dagli F16 che con accanimento disumano hanno tagliato la vita a circa 2200 persone.
C'è qualcosa che né Israele ne i suoi lerci alleati, compresi quelli di casa nostra, hanno saputo sconfiggere: la forza della dignità e insieme la straordinaria forza della vita che ha risposto per ogni bimbo ucciso con 10 bimbi nati per raccoglierne il testimone.

L'Unicef alcuni giorni fa comunicava che in un mese e mezzo Israele aveva fatto strage di 450 bambini (poi purtroppo saliti a circa 520) ma comunicava anche la nascita, nello stesso periodo, di 4.500 bambini vivi e belli, nonostante le condizioni terribili in cui avvenivano i parti.
Di molti dei bambini uccisi abbiamo le immagini delle loro risate, dei loro vestiti di festa o del loro compleanno, immagini solari che si sono decomposte sotto le bombe che hanno frantumato quei corpi. Se la legalità internazionale avesse fatto il suo corso, se Israele non fosse stato rifornito di armi, peraltro vietate come le "dime", quei bambini seguiterebbero a ridere e i 2.200 morti e i 10.800 mutilati e feriti non ci sarebbero stati.
Se ci sarà finalmente un banco degli imputati, Israele non dovrebbe sederci da solo, chi lo ha sostenuto ne dovrebbe condividere le responsabilità.
*
Intanto nelle strade si ride, si canta e si respira l'aria della vittoria. Ma mentre si festeggia è bene non dimenticare che molte carogne, anche di piccolo cabotaggio, oltre a quelle di maggiore autorevolezza, dopo aver esaurito il repertorio della "corruzione nell'Anp" si sono sbizzarrite su Hamas, spendendosi in fantasiose affinità con l'Isis al fine di impedire un sostegno unitario alla lotta che si è svolta a Gaza per la libertà e la dignità di tutto il popolo palestinese.
Seguendo il tormentone dettato ai media e recitato con maggiore o minore abilità da quasi tutti i nostri opinion maker, in una sorta di coazione a ripetere che ha contagiato anche molte persone oneste, abbiamo letto e sentito che la colpa dell'eccidio stava nei razzi lanciati da Hamas e dalla Jihad.

Abbiamo visto scambiare i ruoli tra vittime e carnefici e tra occupati e occupanti. Abbiamo sentito parlare di scudi umani senza mai una parola di condanna verso Israele che ignorando la loro eventuale (e mai dimostrata) funzione di scudi li ha regolarmente assassinati.

Abbiamo saputo che grazie a quella debolezza umana che a volte porta un disperato a farsi spia, alcuni capi di Hamas sono stati uccisi radendo al suolo le case in cui si trovavano e con chiunque vi si trovasse dentro. Non abbiamo mai sentito ipotizzare che se i capi dell'IOF fossero stati uccisi bombardando le loro case sarebbe stato l'equivalente di ciò che Israele stava regolarmente facendo a Gaza e "occasionalmente" anche in Cisgiordania. Hamas non aveva le armi per farlo, ma se le avesse avute avremmo di nuovo sentito dire dai nostri geni della comunicazione che uccidere un capo dell'IOF è un atto di terrorismo mentre uccidere un capo di Hamas è atto giusto e pertanto non punibile.

Abbiamo sentito i difensori di Hamas ripetere che Hamas spara solo dei razzetti più o meno innocui e abbiamo sentito i suoi accusatori dire che Hamas ha armi raffinate e pericolosissime. Proviamo a riflettere senza faziosità: se Hamas avesse avuto solo razzetti la situazione oggi sarebbe come nel gennaio 2009 dopo piombo fuso. Hamas non ha certo le armi di Israele, ma ha qualcosa di più che quattro razzetti innocui e, da chiunque li abbia avuti, li ha utilizzati per dire a Israele che Gaza non è più un agnello sacrificale che si può sgozzare senza rischiare neanche un graffio. Anche dal sud del Libano è arrivato un avvertimento a Israele, era l'equivalente armato delle manifestazioni pacifiche che si sono svolte nel mondo, diceva così: Gaza non è sola, ci siamo anche noi.

Abbiamo sentito dire che Israele doveva difendersi dai gazawi che scavavano i tunnel, ma, come per un'interruzione di corrente raziocinante, i nostri analisti dell'informazione non hanno mai ricordato mai che i tunnel sotterranei sono il portato dell'assedio illegale che rende Gaza un campo di concentramento.

Abbiamo sentito dire che i soldi arrivati alla dirigenza di Hamas finivano in lussuose ville mentre il popolo era alla fame. Ora, mentre una parte dei tunnel veniva distrutta dagli F16 israeliani, veniva detto che mentre il popolo era alla fame i dirigenti di Hamas facevano costruire i tunnel. Insomma non erano più le ville ma i tunnel gli affamatori del popolo gazawi e, ovviamente, non l'assedio. Per cui Israele, usciva regolarmente assolto.

Ma oggi la Palestina è in festa perché sa che attraverso tutti quegli uomini, quelle donne, quei bambini massacrati senza accettare di genuflettersi è stato detto al mondo VOGLIAMO LA LIBERTÀ perché è NOSTRO DIRITTO. Vogliamo che vengano rispettati i diritti umani perché, appunto, sono i nostri diritti.
*
Oggi godiamo con tutto il popolo palestinese questa vittoria costata tanto sangue, ma senza dimenticare che se Israele non finirà davanti alla Corte penale internazionale, si sentirà libero di ripetere le sue periodiche mattanze e il sacrificio di Gaza non sarà servito a molto.
Gaza oggi ha vinto e tutta la Palestina ha vinto, sprecare la vittoria sarebbe un altro crimine.

Da Facebook post di Patrizia Cecconi - 27 Agosto 2014 -


Gaza, tregua permanente annunciata alle ore 19 del 26 agosto, dopo 51 giorni di aggressione sionista, che ha causato 2200 morti e più di 11000 feriti, e distrutto quartieri interi comprese scuole chiese e moschee.  Ha vinto la resistenza del popolo palestinese a Gaza, una sconfitta della macchina da guerra israeliana. Hanno vinto l'unità delle forze della resistenza insieme alla eroica volontà popolare di sfida e fermezza.  L'unità della delegazione unitaria Olp, Hamas e Jhad islamica. Grazie a tutti quelli che hanno sostenuto e creduto nella capacità della fermezza del popolo palestinese e nella sua giusta lotta contro l'occupazione sionista della Palestina. Attendiamo ora l'attuazione dell'accordo, che prevede: la fine dell'aggressione israeliana, l'apertura dei valichi, la ricostruzione di Gaza, l'aumento a 6 miglia fino a 12 miglia, a fine anno, delle acque territoriali per la pesca, la cancellazione  della zona di sicurezza ai confine con Israele. Le altri questioni, aeroporto e porto,  saranno discusse entro un mese. La lotta del popolo palestinese continua: boicottaggio dei prodotti israeliani, lotta popolare contro il muro, la colonizzazione, l’occupazione ed ebraicizzazzione di Gerusalemme, la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi e per aumentare il livello delle istituzione internazionali per processare i criminali di guerra israeliani.

Da facebook post di Bassam Saleh
- 27 agosto 2014 -

 


GAZA SOTTO LE BOMBE

L'offensiva di terra, i bombardamenti e l'uccisione della popolazione civile. Donne e bambini di Gaza “avvisati” dall'esercito israeliano cinque minuti prima di essere uccisi. Le descrizioni, i racconti e le riflessioni durante e dopo la distruzione dei tunnel di Hammas e delle scuole per l'infanzia volute dai volontari italiani. Le immagini della disperazione e di quelli uccisi dai bombardamenti israeliani nonostante accolti nei rifugi messi a disposizione dall'ONU.

Altri servizi:

UNA COOPERANTE IN PRIMA LINEA - di Meri Calvelli

TUTTA COLPA DI HAMMAS  - di Gideon Levy

L'INCUBO DI GAZA - di Noam Chomsky

IL GOVERNO ISRAELIANO HA PERMESSO L'ASCESA DI HAMMAS - di Isaan Tharoor/The Washington Post

LETTERA ALLA FAMIGLIA DELLA MILLESIMA VITTIMA - di Ilan Pappè

ONG ITALIANE : MASSACRO SILENTE 

LA LETTERA  SUL MASSACRO DI GAZA - di Javier Bardem

GAZA, I PIU' COLPITI SONO I BAMBINI - di Marco Cesario

GLI ERRORI DELLA LEADERSHIP DI ABBAS - di Amira Hass

ISRAELE NON VUOLE LA PACE - di Gideon Levy 

LA VOCE DI UN MEDICO SOTTO LE BOMBE DI GAZA 

UNA DISCUSSIONE MANCATA IN CONSIGLIO COMUNALE DI MODENA (03/07/14)


INTERVISTA DA GAZA A MICHELE GIORGIO
10 luglio 2014 - ore 11.20 – Radio Città Aperta

Il volto della Guerra e le opinioni dalla voce del Giornalista de Il Manifesto presente a Gaza e intervistato dai giornalisti di Radio Città Aperta.

  

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DIRETTA DA GAZA SU ATTACCO ISRAELIANO (Nenanews)


ISRAELE E CURDI IRACHENI:
UN CONNUBIO ALL’INSEGNA DEL PETROLIO
(E DELLA TRADIZIONE DI ABRAMO)

di  Marco Cesario


Mentre l'Iraq si sfalda, lo Stato Islamico (ex ISIL) proclama il ritorno del califfato ed Abu Bakr Al-Baghdadi s'autoproclama califfo del neonato stato e Wali (leader) di tutti i musulmani, i rapporti economici tra Israele e i Curdi d'Iraq rifioriscono, segno di una fin troppo discreta (e segreta) amicizia che rivede la luce proprio in queste ultime convulse settimane in cui il Medio Oriente sta letteralmente esplodendo e gli equilibri stanno cambiando velocemente.

 Nel deserto lasciato dalla ritirata dell'esercito iracheno (che ha abbandonato tank, blindati e jeep ai jihadisti che avanzavano senza incontrare resistenza), i Curdi, grazie all'efficiente apparato dei combattenti, i Peshmerga (letteralmente "coloro che affrontano la morte") hanno consolidato la propria autonomia regionale riuscendo con un'operazione scaltra e rapida a evitare, nella débacle dell'esercito iracheno, di perdere il controllo di un centro nevralgico d'importanza fondamentale come la città di Kirkuk, uno dei maggiori centri d'estrazione petrolifera d'Iraq ma anche capitale storica per i Curdi, al centro di frizioni tra Bagdad ed Erbil.

Israele dal canto suo, sin dall'inizio dell'offensiva dell'ISIL, ha seguito con crescente timore il formarsi di un califfato islamico in Medio Oriente. La sua stessa esistenza è minacciata. Nella dizione "al-Shams" ovvero "la Grande Siria" è incluso tutto il Levante dunque anche Israele. E c'è un altro fronte oltre la Siria e l'Iraq: la Giordania, anch'essa minacciata dall'avanzata delle truppe jihadiste. Non è un caso che il re hashemita Abdallah di Giordania, temendo uno sforamento delle truppe dello Stato Islamico in territorio giordano, abbia dispiegato l'esercito lungo i confini con l'Iraq.

Governo Regionale Curdo: verso la creazione di uno stato consolidato?

In questo contesto d'instabilità i Curdi stanno legittimando il proprio ruolo nella regione, forti di un'autonomia amministrativa e desiderosi di ottenere, sul lungo periodo, una vera e propria indipendenza politica. Per proteggere il proprio territorio i Curdi dispongono di un esercito composto da oltre 350 mila combattenti.

La regione autonoma curda, oltre a disporre di un forte esercito, controlla direttamente il valico di frontiera con la Turchia tanto che gli stessi cittadini iracheni non curdi non sono autorizzati ad entrare nella regione se non sono 'invitati' (da sponsor curdi).

Sui palazzi governativi è issata e sventola non la bandiera irachena ma quella curda, si parla e s'insegna il curdo (e la lingua araba s'eclissa). Insomma se il consolidamento del Governo Regionale Curdo (Hikûmetî Herêmî Kurdistan) è un dato di fatto, le recenti mosse del leader curdo Barzani, di fronte al precipitarsi degli eventi in Iraq, ha accelerato questo processo: in primo luogo la decisione di vendere petrolio in maniera indipendente dal governo di Baghdad (attraverso un oleodotto in Turchia) ma anche il controllo strategico della città di Kirkuk ed infine il referendum per l'indipendenza (che però è questione molto più complicata).

Le dichiarazioni del ministro degli esteri israeliano Lieberman e dello stesso premier israeliano Benjamin Netanyahu ("Il popolo del Kurdistan, moderato e affidabile, merita l'indipendenza politica") vanno in questo senso.
Israele, di fronte al collasso dell'Iraq e alla minaccia di uno stato sunnita nemico, vedrebbe di buon occhio la creazione di uno stato indipendente curdo nella regione. La chiave di questa posizione è il petrolio che Israele può acquistare direttamente dal Kurdistan il quale può trasformarsi in un insperato alleato nella regione.

Petrolio curdo in Israele

Cruciale per il governo regionale curdo è infatti vendere il proprio petrolio, bypassando l'autorità centrale del governo d'Iraq, attraverso un oleodotto indipendente. In quest'ottica è stata lanciata la nuova rotta d'esportazione verso il porto turco di Ceyhan, nella Turchia meridionale, che ha ampliato in maniera esponenziale l'export di petrolio curdo.
La vendita diretta del petrolio curdo a terzi ha provocato attriti enormi con Bagdad che sostiene che quel petrolio invece appartiene all'Iraq e deve essere venduto solo attraverso il Ministero del Petrolio di Bagdad. Dal canto loro i Curdi portestano contro Bagdad quando quest'ultimo vende petrolio a terzi senza che il Governo Regionale Curdo benefici dei dividendi della vendita.

I giacimenti curdi producono attualmente circa 120.000 barili al giorno, ma nel tempo la produzione potrebbe raggiungere i 300.000 barili. Insomma una manna dal cielo per Israele, in questi giorni impegnato nella più violenta operazione militare contro Gaza e Hamas sin dai tempi di Piombo Fuso.

Un esempio lampante di quello che potrebbe consolidarsi come pratica nel tempo è ciò che è avvenuto alcune settimane fa: un carico di petrolio curdo che ha navigato per settimane nel Mediterraneo nelle cisterne della petroliera Altai (battente bandiera liberiana) ha finito per attraccare nel porto di Ashkelon (Israele) dove sono stati scaricati milione di barili di petrolio prodotti nelle regioni curde dell'Iraq settentrionale. Dato che per anni i Curdi hanno cercato invano di raggiungere un accordo con il governo centrale sulle quote e la condivisione dei ricavi, in mancanza di un accordo, il governo regionale curdo si ritiene autorizzato a vendere il petrolio a qualsiasi acquirente, anche ad Israele, il vecchio e discreto alleato, il quale accetta di buon grado il petrolio curdo.

Curdi iracheni ed Israele: un'amicizia discreta nel nome di Abramo

I legami storici tra Israele e Curdi, mai ufficializzati ma sempre presenti, risalgono agli anni '60 quando cioè agenti dei servizi segreti israeliani erano dislocati in territorio curdo iracheno per aiutare le autorità locali. La cooperazione si è intensificata con la caduta di Saddam Hussein e soprattutto grazie alle imprese israeliane che negli anni hanno penetrato il mercato curdo iracheno ed anche in ambito militare i peshmerga curdi hanno ricevuto adeguato addestrmento anche da parte di unità d'élite di commando israeliani.

C'è poi la tradizione secondo la quale gli Ebrei ed i Curdi avrebbero un antenato comune: il patriarca della Bibbia Abramo. E' un'antica credenza dei Curdi d'Iraq infatti quella che Abramo fosse d'origine curda.
Una tradizione vuole infatti che Abramo nacque ad Edessa (Urfa), nell'attuale Turchia, a soli 40 km dall'attuale frontiera siriana mentre tutta la sua famiglia proverrebbe da Carre (l'attuale Harran, sita nel Kurdistan turco).
Il padre di Abramo, Terah, secondo la Bibbia, lasciò Ur per sistemarsi e morire proprio ad Harran. Esistono poi parallelismi tra Israele e il Kurdistan, entrambe nazioni non arabe 'accerchiate' da nemici che s'oppongono alla loro esistenza e indipendenza.

I Curdi d'Iraq guardano inoltre ad Israele come esempio di uno stato indipendente fondato su un potente esercito in grado di fronteggiare e sconfiggere più nemici (vedi Guerra dei Sei giorni). Dal lato israeliano uno stato curdo nella regione potrebbe diventare, per ragioni economiche, politiche e strategiche, un alleato prezioso, forse il più prezioso, per il proprio futuro.

11 Luglio 2014 su www.eastonline.eu


OMICIDI IN PALESTINA
A MODENA IN CONSIGLIO COMUNALE UNA DISCUSSIONE MANCATA

di Mirca Garuti


Ancora una volta a Modena, in Consiglio comunale, la questione del conflitto Israelo-Palestinese è stata affrontata in modo superficiale e priva d’approfondimento. E’ sufficiente leggere l’Ordine del giorno, approvato il 3 luglio scorso, relativo agli ultimi avvenimenti che stanno sconvolgendo la terra di Palestina.
Si condanna l’assassinio dei quattro ragazzi senza prendere in considerazione che questo è solo la conseguenza dell’occupazione della Palestina da parte d’Israele e della cultura dell’odio alimentata dalla continua espansione delle colonie, insediamenti illegali, e dei continui soprusi perpetrati ai danni del popolo palestinese.
Troppo comodo commemorare quattro morti in Palestina ed esprimere anche l’incoraggiamento “a non smettere di perseguire la strada della ricerca della pace in Medio-oriente”. Il capogruppo del PD Paolo Trande e i consiglieri Federica Di Padova e Marco Forghieri, dovrebbero documentarsi e non usare strumentalmente fatti di cronaca per conquistarsi il ben volere dei cittadini. Sono state omesse, per esempio, le aggressioni da parte di alcuni estremisti della comunità ebraica di Roma nei confronti di manifestanti filo palestinesi, come non sono stati condannati gli spari contro la sede dell’Ambasciata Palestinese a Roma.
Si condanna, quando non si può fare altrimenti, ma il silenzio della comunità internazionale è evidente, come ha dichiarato Don Nandino Capovilla di Pax Christi, “…non stiamo parlando di uno scontro tra due eserciti, non stiamo parlando di un campo di battaglia. Il Patriarca attuale è stato chiarissimo in questi giorni - “Basta con questa logica di vendetta” - ma da parte della comunità internazionale, è necessaria una ripresa della chiarificazione, perché senza un congelamento immediato della colonizzazione, senza un ripristino dei diritti per tutti, nella stessa terra, l’incubo si avvolge solamente in una spirale, che può solo portare ad un peggioramento della situazione”.
L’informazione deve essere corretta e quell’Ordine del Giorno non lo è. Si cita “cordoglio e ferma condanna per i quattro giovani “barbaramente assassinati”. In verità, in merito alla morte dei tre giovani coloni israeliani, non c’è assolutamente chiarezza: gli esiti delle autopsie non sono stati rivelati, non si sa da chi siano stati rapiti, nessuno ha rivendicato questo atto politico. Chi aveva interesse a “rapire” questi tre coloni, in un momento in cui le forze politiche palestinesi avevano trovato un’unità nazionale e nuove elezioni?
Nel testo si definisce “arabo” il quarto giovane barbaramente assassinato, forse il nuovo Consiglio comunale ha paura di usare la parola “Palestinese” perché tale termine si parifica a quello di “terrorista”?
Mohamed Abu Khedir è un ragazzo palestinese del campo profughi di Shuaffat.
La commemorazione delle morti non centra nulla con le parole del Ministro degli esteri italiano, condivise dal Consiglio Comunale di Modena, che fa appello “affinché tutte le parti mostrino che chi attenta alla sicurezza di Israele non potrà prevalere minando la via del dialogo, unica speranza di pace vera e duratura nella regione”.  Ma, esprime così solo una posizione politica evidente nei confronti d’Israele giustificando ogni sua azione. Nulla è stato espresso nei confronti d’Israele, come invece ha fatto Amnesty International, rispetto all’escalation di violenza esercitata sulla popolazione civile nei territori occupati. Rastrellamenti, raid notturni, perquisizioni, blocchi stradali, completa chiusura di molte città, bombardamento sulla striscia di Gaza. Invasioni e assalti a campi profughi, ad oltre 1000 case, università e ad ambulatori medici. Sequestrati illegalmente più di 500 cittadini palestinesi, tra cui molti minorenni..
Solo attraverso la richiesta dell’applicazione delle numerosissime risoluzioni ONU, mai rispettate da Israele, gli Entri locali e le comunità internazionali possono dare un vero contributo ai processi di pace tra Palestinesi ed Israeliani.

07/07/2014

Comunicato Stampa del  Documento dell'O.D.G Consiglio comunale Modena


PALESTINA:  TERRA DI VIOLENZA UMANA
di Mirca Garuti


Ascoltare in queste ore i vari servizi che passano per la televisione, da quella nazionale a Rainews o Euronews, è veramente penoso! Nessuno deve gioire per la morte che coinvolge  altri esseri umani, questo è vero, ma, le morti di questi tre coloni ebrei israeliani, si collocano in un contesto molto particolare. Guardare il volto di Benjamin Netanyahu che chiede “vendetta”, che si rivolge ad Hamas, ritenuto l’unico responsabile di queste uccisioni, definendoli “bestie”, ma, nessuno, proprio nessuno, si è fatto la domanda del perché? Il  mondo guarda Israele, piange i tre ragazzi uccisi, ma chi piange tutte le vittime che ha fatto Israele dal 1947 ad oggi? Non ci troviamo di fronte ad una nazione “normale” che vive in pace con il suo popolo, ma si tratta di uno Stato che  occupa un altro Stato da ben 66 anni. Uno Stato, vittima di un massacro, che continua, a sua volta, ad uccidere, a ferire, a deportare e ad arrestare innocenti. Uno Stato che continua a non rispettare tutte le Risoluzioni emesse dall’ONU, che usa la Detenzione Amministrativa a suo gradimento, che non rispetta i diritti dei minori, che toglie l’energia e l’acqua agli abitanti di queste terre. Uno Stato che è in guerra da sempre, perché vuole piena autonomia su tutta la Palestina. Uno Stato che in nome della sua “sicurezza” è riuscito ad avere l’appoggio di quasi tutto il mondo e negare al popolo palestinese il diritto all’autodeterminazione nel proprio paese. Cosa dovevano fare i palestinesi dal 1947 ad oggi? Per Israele solo andarsene, è ovvio, andare a chiedere ospitalità negli altri stati arabi e zitti e muti. Ma le cose non sono andate così. I Palestinesi si sono difesi, hanno combattuto, ma specialmente, hanno resistito e resistono ancora in attesa che il mondo non abbia più paura di ammettere che lo Stato d’Israele è uno stato sionista, fascista e razzista. Non è necessario elencare qui tutte le operazioni militari e massacri ideati dal governo d’Israele contro il popolo palestinese sia nella sua terra e sia in altri stati, come il Libano, perché niente è stato casuale, tutto era programmato dall’inizio di questa storia. L’obiettivo era terrorizzare la popolazione e creare una destabilizzazione permanente tra i vari stati arabi al fine di diventare la maggior potenza in Medio Oriente.

Dal 12 giugno scorso, giorno della scomparsa dei tre coloni, Gilad Shaer (16 anni), Naftali Frenkel (16 anni) e Eyal Ifrach (19 anni) nei pressi dell’insediamento di Allon Shvut, nell’area colonica di Etzion tra Betlemme ed Hebron, l’esercito d’occupazione israeliano ha sferrato una violenta offensiva militare contro i palestinesi. Invasioni ed assalti in varie città e campi profughi: i soldati entrano nelle case, staccano la luce, sfondano le porte e, con la scusa di cercare prove del rapimento, procedono a saccheggi e devastazioni. Più di 1000 case hanno subito questa sorte, come è successo anche alle scuole, università ed ambulatori medici. Sono stati sequestrati più di 500 cittadini palestinesi e 8 sono stati uccisi.
Chi ha ucciso i tre coloni ha minato la causa palestinese proprio nel momento in cui si era formato un nuovo governo d’unità nazionale, quindi, a chi giova tutto questo? Questa voglia di vendetta non giustifica queste rappresaglie, punire un’intero popolo per un crimine commesso da pochi responsabili, forse… ancora non si sa la verità!

La vendetta è già iniziata, sia in Israele e sia in Italia.

Mohamed Hussein Abu Khdeir, 17 anni, palestinese che viveva nel campo profughi di Shuafat è stato trovato in un bosco a Gerusalemme Est, completamente bruciato. Il giovane, questa mattina, è stato bloccato e costretto a salire su un auto nera da un gruppo di coloni estremisti, mentre stava per entrare in moschea per pregare. Il suo corpo è stato trovato un’ora dopo in un’altra zona della città.
Nel centro di Gerusalemme coloni impazziti continuano a gridare “Morte agli arabi”. Ma…. qualcuno ha detto loro che stanno occupando una terra che appartiene ad altri? Come si comportano i coloni nei confronti della popolazione autoctona? Si sono chiesti a chi giova la morte dei tre ragazzi?
A Roma, in Piazza Venezia, ieri, squadristi sionisti hanno aggredito e picchiato violentemente un giovane solo perché aveva al collo una kefiah. In serata altri sei giovani sono stati brutalmente assaliti e  feriti.
Lunedì  30 giugno, sui muri esterni dell’Ambasciata palestinese a Roma sono apparse scritte ingiuriose, mentre, il giorno dopo verso le 20,30 da una macchina in corsa sono stati esplosi alcuni colpi di arma da fuoco contro la sede diplomatica.

Gli insediamenti illegali delle colonie non si fermano. Presto, infatti, sarà costruita nell’area dove sono stati ritrovati i corpi dei tre coloni, una nuova colonia israeliana, dal nome Maalot Halhul,

Quanti ancora dovranno morire per “pareggiare” i conti?

La causa di tutta questa situazione rimane sempre e solo una: l’Occupazione della terra di Palestina.


02/07/2014


PALESTINA:IL NUOVO GOVERNO NAZIONALE TRA ASPETTATIVE E OCCUPAZIONE ISRAELIANA

Ascolta l’intervista con la saggista e analista di questioni mediorientali Cinzia Nachira

Ha giurato il 2 giugno il nuovo esecutivo di unità nazionale palestinese, presieduto da Rami Hamdallah. Il governo di tutto il popolo palestinese, è stato definito, poiché nasce dopo la riconciliazione fra Hamas, che dal 2007 governa la Striscia di Gaza, e al-Fatah, il movimento palestinese più moderato che controlla la Cisgiordania.
Ha il compito di portare Cisgiordania e Gaza alle elezioni entro l’anno. Ma i parlamentari sono costretti a tenere le riunioni in videoconferenza, viste le restrizioni imposte dall’occupazione di Israele che tiene sotto assedio la Striscia di Gaza e frantuma la Cisgiordania a causa delle colonie e dei check points.
Intanto la lotta dei prigionieri politici palestinesi si fa sempre più dura: a decine sono ricoverati in ospedale dopo oltre un mese di sciopero della fame, Tel Aviv pensa a una legge per alimentarli contro la loro volontà anche se l’associazione dei medici israeliani si dice contraria parlando di “metodo di tortura”.

 

 

Dal sito Radio Onda D’Urto
04/06/2014


L'OCCUPAZIONE, LA SOCIETA' ISRAELIANA E I MEDIA
Intervista con Gideon Levy

di Marco Cesario

 
"Il nodo del conflitto israelo-palestinese sono le colonie a cui i governi di Tel Aviv non vogliono rinunciare. Ma finché non lo faranno, non ci sarà pace in Medio Oriente".


 Tel Aviv -  La sede del quotidiano israeliano Haaretz si trova al termine di una lunga strada alberata e dagli appezzamenti di verde estremamente curati. Il verde dei giardini, di un colore così vivace stride con l'architettura circostante, fatta di palazzi fatiscenti, mostri di cemento sventrati e anneriti dallo smog, complessi edilizi semi-abbandonati della peggiore architettura degli anni '60 e '70. All’improvviso, in mezzo ad un nugolo di case costruite quasi senza senno, spunta un elegante edificio Bauhaus o una villetta curata di due o tre piani circondata da maestosi alberi, fiori e giardini. E' qui che incontro Gideon Levy.


L'accordo Hamas-OLP sarebbe un'ottima notizia se funzionasse” dice a Pagina99 Gideon Levy, Vincitore dell'Emil Grunzweig Human Rights Award nel 1996, del premio della Fondazione Anna Lindh (2008) per un articolo sull'uccisione di Palestinesi da parte dell'esercito israeliano e del Peace Through Media Award nel 2012. Levy tiene una rubrica su Haaretz dal titolo “Twilight Zone” in cui fa resoconti dettagliati sulle attività dell'esercito israeliano nei territori occupati. E' una delle voci critiche più autorevoli d'Israele.


Il 29 Aprile scorso è scaduto il termine dei 9 mesi decisi nello scorso luglio a Washington, sotto la spinta del presidente Obama e di John Kerry, per trovare un accordo di pace tra israeliani e palestinesi. Un nuovo fallimento?


In realtà non si tratta di 9 mesi ma di 45 anni. Il vero processo di pace è infatti iniziato agli inizi degli anni '70. Ogni volta si tratta sempre sullo stesso tema. E ogni volta non si riesce a trovare un accordo. Non credo si possa realmente giungere a un accordo tra le parti. E la ragione è semplice: fin quando Israele non deciderà di mettere fine all'occupazione non si potrà mai raggiungere alcun accordo. E' chiaro come il sole. Il problema è che Israele non ha intenzione di rinunciare ai territori occupati. E' questo è il nodo del problema, il centro della discordia. Tutto il resto è di minor entità. Non credo che il governo di Netanyahu voglia rinunciare ai territori e non credo che alcun altro governo dello stato d'Israele voglia, con sincerità ed onestà, assumersi questa responsabilità.
 
Il negoziatore capo palestinese Saeb Erekat ha addossato la colpa del fallimento al premier Netanyahu mentre per quest'ultimo la trattativa è finita anche di fronte al fatto che l'Anp non voglia riconoscere Israele come "Stato ebraico". Ora s'aggiunge l'accordo di unità nazionale tra OLP e Hamas, quest'ultima definita da Israele, Usa e Ue un'organizzazione terroristica.


In primo luogo non sono sicuro che quest'accordo funzionerà perché già in passato ne sono stati siglati diversi, poi saltati. Credo che questo essere divisi sia il principale problema ed il più grande errore dei palestinesi. Dividendosi fanno il gioco del governo israeliano che cerca in ogni modo di dividerli. I palestinesi del '48 da quelli del '67, gli abitanti di Gerusalemme da quelli della Cisgiordania, di dividere i cittadini della Cisgiordania da quelli di Gaza, di dividere i palestinesi della diaspora da quelli residenti in Palestina ed infine di dividere Hamas dall'OLP. Ovviamente tutto ciò non è solo responsabilità degli israeliani. Io spero che questa volta l'accordo non fallisca e che i palestinesi trovino davvero un'unità. Ma resto molto scettico. Se funzionasse questa sarebbe un'ottima notizia per chiunque voglia la pace perché infine si avrebbe un solo interlocutore palestinese. Mi sembra chiaro che se Hamas s'allea con l'OLP vuol dire che accetta, direttamente o indirettamente, di trattare con Israele.
 
L'ANP ha annunciato l'adesione a 15 trattati internazionali e ha manifestato l'intenzione di aderire ad altri 60.


L'adesione a questi trattati è perfettamente legittima, l'autorità palestinese ha pieno diritto. Israele costruisce colonie senza sosta e ciò non costituisce un problema. E quando l'ANP s'appella alla comunità internazionale – il che che costituisce non solo un suo diritto ma anche un suo dovere - Israele dice che si tratta di una “decisione unilaterale”. Per me questo è totalmente inaccettabile. L'ANP ha pieno diritto ad aderire ai trattati internazionali.
 
Come vede il ruolo d'Israele nel Mediterraneo?


Israele risiede in una zona geografica in cui la maggior parte dei paesi non ne accetta l'esistenza. Ma non bisogna dimenticare che Israele fa di tutto per non essere accettato. Israele ha infatti un'unica ispirazione: quella di essere un paese europeo, americano, occidentale, un paese che nonostante la sua posizione geografica, volta completamente le spalle al mondo arabo-musulmano. Israele non solo intrattiene pessimi rapporti con i propri vicini ma cerca di evitare qualunque contatto con la cultura e la lingua araba, la sua musica, la sua storia. La cultura araba è praticamente un tabù in Israele. Mentre io credo sinceramente che invece di voltare le spalle al mondo arabo, Israele dovrebbe rivolgere il suo sguardo verso di esso perché ciò avrebbe anche conseguenze politiche importanti. Un esempio è la Turchia. L'unico paese nel Medio Oriente che accetta l'esistenza d'Israele (e con il quale i rapporti commerciali e turistici sono più che floridi), un rapporto rovinato in seguito alla questione della Freedom Flotilla. Mi chiedo: era davvero necessario che il governo israeliano agisse in quella maniera?
 
In quanto giornalista critico del governo lei è molto esposto. Come vede il ruolo dei media critici nella società israeliana?


I media in Israele hanno molta influenza. La maggior parte dei media collaborano attivamente alla filosofia dell'occupazione territoriale. Molte volte penso che senza i media israeliani l'occupazione non sarebbe durata tanto. I media collaborano attivamente con questo stato di cose negando l'occupazione, nascondendola, disumanizzando e demonizzando i palestinesi. Io rappresento un'esigua minoranza come commentatore all'interno dell'opinione pubblica israeliana. Devo dire che il mio giornale, Haaretz, rappresenta una specie di isola in Israele in quanto a libertà ed indipendenza dell'informazione. Ma non so quantificare l'impatto dell'informazione che io ed il giornale su cui scrivo abbiamo sull'opinione pubblica. Posso solo dire con certezza che Israele senza Haaretz sarebbe un posto molto peggiore in cui vivere.
 
Dal Sito "Pagina 99"
31/05/2014

Reportage di Marco Cesario a Gerusalemme:


http://www.eastonline.eu/it/opinioni/open-doors/gerusalemme-la-citta-della-discordia


http://ita.babelmed.net/cultura-e-societa/103-israele/13421-vita-quotidiana-a-gerusalemme-est-sgomberi-demolizioni-e-discriminazioni.html

 

APPELLO DI GIDEON LEVY AL BOICOTTAGGIO DI ISRAELE


RICORDANDO LA NAKBA
1948-2014

di Mirca Garuti

 


Il 16 maggio a Modena, abbiamo voluto ricordare i 66 anni della Nakba Palestinese.
La Catastrofe. L’espulsione del popolo palestinese, dalla sua terra, dalle sue case, dai suoi villaggi. Espulsione eseguita dall’esercito israeliano per cercare di raggiungere l’obiettivo del movimento politico europeo, chiamato sionismo, che puntava alla colonizzazione della Palestina. Il conflitto israele-palestinese è un conflitto politico tra un movimento coloniale ed un movimento di liberazione nazionale, non è un conflitto religioso. Israele è l’occupante di una terra che non gli appartiene.

La Nakba è stata ricordata anche in tantissime altre città italiane, come Roma-Firenze-Bologna-Milano-Monza-Cagliari-Salerno, con tante iniziative diverse, ma tutte, con un unico scopo: quello di RICORDARE E NON DIMENTICARE.

Ci sono alcuni momenti storici molto significativi da dover ricordare per capire quello che è successo.

Dichiarazione Balfour, 2 novembre 1917 - Il ministro degli esteri Lord Balfour trasmette una lettera per conto del governo inglese al vice presidente dell’organizzazione sionista: "Caro Lord Rothschild, sono lieto di trasmetterle, a nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni ebraico-sioniste, esaminata e approvata dal gabinetto. Il governo di Sua Maestà vede con favore la creazione in Palestina di una “sede nazionale” per il popolo ebraico e intende fare tutti i suoi sforzi per favorire la realizzazione di questo obiettivo, essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, o i diritti e lo status politico goduti dagli ebrei in ogni altro paese”
In quel momento il popolo ebraico era composto di 50.000 immigrati, mentre le comunità non ebraiche erano 750.000.
In questa dichiarazione i palestinesi, diventano i “non ebrei”. I palestinesi così “non esistono”, questa è la politica sionista. Da una parte, quindi, la popolazione palestinese (araba musulmana e cristiana) che non intende farsi spogliare dei suoi diritti, e dall’altra un gruppo di ebrei sionisti che, contro anche il parere della maggioranza degli ebrei del mondo, vuole impadronirsi della Palestina per creare uno Stato ebraico, dal quale sarebbe rimasto escluso, per definizione, chi non fosse stato ebreo.

Il 29/11/1947, l’Assemblea Generale dell’ONU con la Risoluzione 181, raccomanda la spartizione della Palestina in due stati: uno, arabo-palestinese e l’altro ebraico ed una zona internazionale di Gerusalemme sotto la giurisdizione dell’Onu. La parte araba con 1.250.000 arabi-palestinesi occuperà solo il 42,88% del territorio, mentre quella ebraica con 600.000 ebrei il 56,47%. Già da questi numeri si capisce dove si vuole arrivare.

Gli ebrei erano considerati gli “immigrati europei”. Molti di questi immigrati, giunti negli anni ’30, erano tedeschi in fuga dal nazismo e, quasi tutti, erano istruiti, colti, appartenevano ad una alta classe borghese.

Il 15 maggio 1948, decaduto il Mandato britannico sulla Palestina, le forze sioniste guidate da Ben Gurion autoproclamarono la costituzione dello Stato d’Israele ed iniziò l’espulsione senza tregua della popolazione palestinese. Le milizie delle organizzazioni terroristiche sioniste ebraiche, l’Haganà, l’Irgun, la Banda Stern, assalirono città e villaggi palestinesi, massacrando gli abitanti, distruggendo le abitazioni, costringendoli alla fuga incalzandoli verso i confini degli stati limitrofi.

Una leggenda sionista di questo periodo, sostiene che, in realtà, si è trattato di un “esodo spontaneo” dei palestinesi. E’ vero solo nel senso che, quando abbandonarono le loro abitazioni, specie negli anni 1947-48, lo hanno fatto solo perché sollecitati in modo molto pesante e con la promessa di un ritorno, da parte dalle autorità britanniche, o ingannati, negli anni successivi, dalle promesse di un esercito della salvezza giordano.

La Nakba fu una catastrofe di massa.

A seguito della Nakba, le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 194 che sanciva il Diritto al Ritorno dei profughi palestinesi ai luoghi d’origine, e/o il risarcimento dei danni materiali e fisici subiti. Diritto che poi fu riconfermato nelle successive Risoluzioni n. 242 – 237 del 1967 e 338 del 1973.

Con la Nakba si ebbe l’espulsione di 815.000 palestinesi su un totale di 1.400.000
Si può parlare di “Pulizia etnica della Palestina”, in quanto le vittime sono persone che sono fuggite per paura.
I palestinesi del ’48 furono le vittime di una politica sistematica di espulsione in massa, attuata dalle forze ebraiche con la violenza, con il terrorismo e massacri contro civili.
L’idea della pulizia etnica è presente nell’ideologia dominante del movimento coloniale sionista fin dalle sue origini.
L’obiettivo dei sionisti era: il massimo di terra con il minimo possibile di arabi. Senza l’espulsione di 800.000 palestinesi, lo Stato ebraico non si sarebbe potuto creare.

L’occupazione della Palestina è stata paragonata ad uno stupro, da una giornalista israeliana, corrispondente del quotidiano Ha’aretz, Amira Hass.

Il diritto al ritorno è un diritto nazionale e inalienabile.
Il diritto al ritorno dei Rifugiati palestinesi è il nucleo della causa palestinese.
Israele nega il diritto al ritorno alle case d'origine per 7,4 milioni di rifugiati palestinesi e persone sfollate. Nel frattempo, Israele si adopera per il reinsediamento dei rifugiati palestinesi in esilio e la sua leadership sempre più chiede il riconoscimento internazionale dello Stato di Israele, come stato ebraico esclusivo.
I palestinesi vivono sotto controllo militare in Cisgiordania, sotto assedio nella Striscia di Gaza, sotto discriminazione istituzionale all'interno di Gerusalemme ed in condizioni strazianti in esilio.
I palestinesi, che in passato avevano trovato rifugio in Siria, stanno vivendo una seconda catastrofe. Stanno subendo la guerra e la distruzione della loro vita a Yarmouk, Nierab, Sit Sainab, Khan Al Shiekh, Dar'a ed altri luoghi in tutta la Siria, dove risiedevano i rifugiati palestinesi. I palestinesi, sfollati per la seconda volta in paesi come il Libano, Giordania, Turchia ed Egitto, sono costretti ad affrontare ulteriori umiliazioni e condizioni insopportabili che portano a tentare una
fuga, via mare, come atto disperato ed estremo. Fuga che spesso finisce con la morte di centinaia di profughi palestinesi senza nessun riconoscimento pubblico.
Il 66 per cento del popolo palestinese è rifugiato in altri paesi o sfollato all’interno del suo stesso paese.  Il diritto al ritorno è dunque una condizione necessaria per raggiungere l'autodeterminazione del popolo palestinese frammentato ed esiliato.
Il Diritto internazionale conferisce ai rifugiati palestinesi il diritto al ritorno volontario alle loro case, al restauro delle loro proprietà e al risarcimento. Questo diritto inalienabile non può essere oggetto di negoziazione o baratto.
La Risoluzione delle Nazioni Unite 181 (1947 ) che ha determinato la divisione della Palestina in due stati, ha portato allo spostamento tra 750.000 e 900.000 palestinesi. La Comunità internazionale ha definito la sua responsabilità per la protezione e l'assistenza umanitaria ed ha sancito il diritto al ritorno nelle case d’origine di tutti i rifugiati e profughi palestinesi, con le Risoluzione dell'Assemblea Generale 194 (1948) e la Risoluzione del Consiglio, 237 (1967).
 
La repressione militare dell’esercito israeliano d’occupazione, continua. L’ininterrotta espropriazione di terre palestinesi, la costruzione del muro dell’apartheid, l’edificazione delle colonie ebraiche, l’ebraicizzazione di Gerusalemme Est, le infinite azioni di punizione collettiva con le quali si martirizza la popolazione civile palestinese, hanno tutte lo scopo dichiarato di continuare la pulizia etnica dei Territori Occupati. Tutto questo, naturalmente, avviene con il silenzio dei governi europei che preferiscono firmare accordi di cooperazione nel campo militare e della ricerca con Israele, stabilendo rapporti privilegiati economici e culturali, piuttosto che denunciare ed impedire la morte, la violenza, i soprusi, la strage del popolo palestinese.


Contributi:

link per vedere le foto della giornata del 16 maggio a Modena: https://www.flickr.com/photos/48807279@N03/sets/

video : http://bambuser.com/v/4622417

racconti:  Ayn Al-Zaytun  

       Deir Yassin - 9 aprile 1948

                  El Ramle


Quinta edizione Premio Stefano Chiarini 2014

“PALESTINA: IL DIRITTO AL RITORNO”
Modena, sabato 8 febbraio 2014 ore 15.30
presso LA TENDA, Viale Molza angolo Viale Monte Kosica

Il Premio Chiarini, dedicato alla figura del giornalista del Manifesto Stefano Chiarini, sarà attribuito al gruppo Modena City Ramblers per il loro impegno per la diffusione, attraverso la loro presenza e musica, della questione palestinese. Verrà consegnato anche un riconoscimento al Dr. Angelo Stefanini docente all’Università di Bologna presso il Dip.to di Scienze Mediche e Chirurgiche e Direttore scientifico del Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale, per la dimostrata competenza ed oggettività nel campo dell’informazione sulla situazione umanitaria in Palestina e la realtà della vita nei territori occupati. (...)

 

CRONACA DELLA GIORNATA DI PREMIAZIONE


A GAZA PER IL DIRITTO AL RITORNO

di Mirca Garuti e Flavio Novara

Era il dicembre 2009 quando, in occasione della Gaza Freedom March, abbiamo provato ad entrare a Gaza ma siamo stati subito bloccati al Cairo dalla polizia di Mubarac. Quest'anno, invece, la delegazione “Per non dimenticare...il diritto al ritorno” composta da ventisette volontari tra cui i tre modenesi, Goretta Bonacorsi, Mirca Garuti e Flavio Novara, è riuscita ad entrare a Gaza nonostante l'embargo. Grazie anche al contributo, presenti al Cairo nei primi giorni, di altri due modenesi Franco Zavatti e Ivano Poppi. Obiettivo è stato consegnare gli aiuti (offerte economiche e medicinali) all'ospedale Al Awda e manifestare solidarietà con il popolo palestinese ribadendo il loro diritto a tornare nelle terre d'origine. (...)

 

UNA TESTIMONIANZA DIRETTA  DA GAZA

di Mirca Garuti

Un gruppo di donne e uomini, pochi giorni fa, è entrato nella Striscia di Gaza. Si tratta della delegazione italiana “Per non dimenticare… il diritto al ritorno”. L’obiettivo era quello di denunciare il trattamento razzista ed intollerabile del governo israeliano nei confronti del popolo palestinese, a cui vieta il diritto di ritornare nelle loro terre d’origine. La Striscia di Gaza, un pezzo della Palestina occupata, si trova, da molti anni, sotto assedio, costretta alla fame, all’oscurità e privata dell’autodeterminazione reale e della libertà. (continua…)

LEGGI LA CRONOSTORIA DI QUEI GIORNI ANCHE SU FACE BOOK


L’AGGRESSIONE A MARCO RAMAZZOTTI STOCKEL

LE CONSIDERAZIONI DOPO LA TRISTE NOTTE ALLA SINAGOGA/
CENTRO CULTURALE DI VIA C. BALBO


di Marco Ramazzotti Stockel *


Quando é il servizio d'ordine della Comunità a decidere chi possa partecipare ad un evento e chi possa parlare, siamo caduti nella violenza fascista. Il fatto che questo servizio risponda al presidente della comunità é ancora più grave.
 
Quando sono stato aggredito, solo due persone, non ebree, sono venute in mio soccorso, Pasqualina Napoletano e Andrea Amato. Dov'era Tobia Zevi? Io ho risposto ad un invito di Tobia Zevi. Lui ha tranquillamente abbandonato il suo invitato ai violenti. Vera tempra morale. Il PD ha qualcosa da dire?
 
Che tendenzialmente la Polizia sia schierata non contro gli iper-sionisti violenti ma a loro difesa, mi fa pensare che siamo messi molto male.
 
Le accuse di antisemitismo a tutti quelli che non accettano le politiche di Israele é una accusa ridicola. Il problema a Roma non é l'antisemitismo, ma la violenza fascista di alcuni membri della comunità ebraica. L'accettazione ad occhi chiusi delle politiche di Israele é cecità!
 
Che questa gente si senta difesa dal Presidente della Repubblica é molto grave.
 
Una prima conclusione dell'episodio: ebrei che escono dalla comunità. Una seconda: la minaccia di creare una seconda comunità, la divisione degli ebrei romani. Una terza: la rabbia di questi poveri violenti (ripeto: poveri violenti) contro chi scrive e chi pensa la dice lunga sulla loro capacità di analisi, sulla loro capacità di far politica analizzando il mondo in cui viviamo.
 
Ma che succederà quando Israele dovesse cambiare politica? Contro chi vorranno dirigere le loro violenza?
 
Le contraddizioni interne ad Israele non sono immediatamente visibili, ma sono gigantesche agli occhi di chi segue gli avvenimenti in Medio Oriente. I negoziati di pace vanno avanti a rilento ed é probabile che finiscano male. Ma intanto gli USA, con Obama e Kerry, hanno preso grandi distanze dalla politica israeliana. Il mondo ebraico americano cambia profondamente e rapidamente, ma i sionisti - anche quelli nostrani - non sembrano accorgersene.
 
Il mondo muta a gran velocità, ma il presidente Pacifici, i dirigenti della comunità ebraica, il rabbino capo Disegni aiutano la loro gente a capire le novità?
 
Nessun programma televisivo, nessun “talk-show”, si azzarda a discutere dei rapporti tra Italia, Israele, Mediterraneo, Medio Oriente. Eppure si tratta di discutere degli interessi strategici dell’Italia e del futuro dell’Europa.  Guerre, rivoluzioni, grandi trasformazioni, politiche energetiche, ma non se ne parla. Ebraismo, sionismo, Islam, diritti umani, diritto internazionale, convivenze: temi che non interessano?
 
Un ebreo come me é chiamato traditore. Con gli altri ebrei che denunciano le politiche di Israele, siamo i veri difensori dell'ebraicità e del popolo di Sion. Denunciamo le politiche sioniste perché sono l'origine di una ondata di antisemitismo a livello mondiale. Questo é il vero pericolo.
 
Le politiche sioniste sono una profonda corruzione della cultura ebraica.  Il sionismo è mettersi al centro del mondo e, allo stesso tempo, chiudersi con Israele al mondo. Con la sua violenza, ha isolato gli ebrei dal resto del mondo. Troppi ebrei nascondono le loro origini culturali per paura. Dovremmo avere politiche che valorizzino la nostra cultura, ma la comunità preferisce la violenza, l’intolleranza.
 
In ultimo: sono italiano. Non intendo essere metà e metà: metà israeliano e metà italiano. Le mie battaglie politiche le faccio qui, per gli ebrei italiani e per i palestinesi che mi sono vicini come gli ebrei italiani. Uno dei violenti che mi ha sbattuto fuori dal Centro di via Balbo e che probabilmente mi ha colpito alla testa, urlava che suo cugino era stato ucciso in un attentato in Israele. Allora facciamo la mattanza dei Palestinesi? E i Palestinesi non si sentiranno legittimati ad una mattanza di Ebrei? Dove finiremmo? Il mio problema è, piuttosto, da dove rincominciamo.
 
Ci vuole coraggio a capire, a ragionare, a negoziare. Io lo faccio da italiano ebreo e lo faccio anche per difendere la comunità che mi chiama traditore.
 

 
Ieri sera, domenica, nella trasmissione "Che tempo che fa" é stata presentato un libro della figlia del giudice Chinnici, ucciso dalla mafia. Desidero fare alcune mie considerazioni, collegando lotta alla mafia e quel che é successo alla sinagoga / centro ebraico di via Balbo a Roma.
Come ogni ragazzo ebreo, ho dovuto pensare e ripensare, assaporare il sapore di morte e l' orrore dell'Olocausto. Nel silenzio, di nascosto. Ogni ebreo vive il suo Olocausto: la sensazione di non avere diritti, non essere una persona, essere un giocattolo nelle mani di persone crudeli e inumane.
Ho partecipato, nel mio piccolo, alla lotta alla mafia, facendo controlli al mercato della frutta e verdura di Palermo, nel 1973.
Sono convinto che la legalità sia una delle risorse della lotta di classe, a casa nostra, e della lotta internazionalista per l'indipendenza dei popoli e la giustizia nei rapporti internazionali.
Credo nelle istituzioni, anche se possono lavorare più o meno bene. Ma sta a noi cambiarle in meglio.
Sono nato nell'epoca delle indipendenze africane, sono cresciuto in Africa e questa lotta per le indipendenze mi ha profondamente marcato. Anche qui, le posizioni dei coloniali e dei neo-colonizzatori si misuravano e si scontravano con il diritto all'indipendenza e allo sviluppo dei popoli colonizzati e dei neo-indipendenti.
Vivere con gli Africani musulmani mi ha posto immediatamente il problema di scegliere tra una concezione della vita razzista o non razzista. Non potrei mai tradire i miei amici/amiche e compagni/e africani e musulmani: ho condiviso molto con loro e lo farò fino alla fine.

Legalità, lotta contro il razzismo e contro l'apartheid.

Coscienza della propria identità politica - italiano di sinistra, culturale - ebreo.

Tutto questo - per un minimo di coerenza - significa, per me, lottare per i diritti dei Palestinesi e contro ogni Islamofobia.
I Palestinesi hanno avuto negata la loro indipendenza. La legalità internazionale é stata violata infinite volte a danno dei Palestinesi. Vivono da sessanta anni sotto l'attacco di un regime coloniale, razzista, che si regge sull'apartheid e che li vuole liquidare etnicamente. E gli Israeliani? si considerano le vittime del mondo. Tutto si giustifica perché c'é l'anti-semitismo.

Ma chi crea anti-semitismo?

I Palestinesi di oggi sono gli ebrei di ieri.

Ho vissuto, per 5 anni in Angola, l'aggressione dei Sud Africani dell'apartheid contro gli Angolani e io ero dalla parte degli Angolani. Ma il Sud Africa aveva il suo più potente appoggio militare in Israele (la bomba atomica, i carri armati, i caccia-bombardieri ....). Combattendo il Sud Africa, combattevo inevitabilmente contro Israele. Ma era anti-semitismo? No, era lotta per il diritto all'indipendenza, contro il militarismo, per una vita pacifica, contro il razzismo. Israele ha avuto e ha politiche disumane. Non é difendibile.
Israele, con le sue politiche disumane, mette in pericolo gli ebrei di tutto il mondo. Combattere le politiche sioniste é anche combattere per una vita vivibile per gli ebrei.
I sionisti della Comunità di Roma si rendono colpevoli di violenza (mi hanno colpito alla testa così forte che sono caduto per terra), di ricatto morale (sei un traditore, sei fuori dalla comunità perché non la pensi come Sharon e Netanyahu), hanno preso la giustizia nelle loro mani, non riescono a dialogare se non con coloro che sono sempre d'accordo con loro. I sionisti tradiscono la cultura ebraica.
Cercherò in tutti i modi di spiegare, nelle mie conferenze, la differenza profonda tra ebraismo e sionismo e la mia vicinanza con le vittime del sionismo.

Continuerò a combattere il sionismo di Israele come quello nostrano.
Se non avessi questo atteggiamento,  dovrei vergognarmi di me stesso.

20/01/2014

*Antropologo e laureato in Giurisprudenza, Fellow del Churchill College di Cambridge, Gran Bretagna. Studi negli USA, Francia, Portogallo.
Sposato con due figli (è nonno). E’ cresciuto in un paese musulmano. Ha lavorato in 25 paesi africani, 3 asiatici, 1 latino-americano e 10 paesi occidentali. Ha lavorato in 12 paesi musulmani. I suoi committenti sono stati ONG, imprese, governi europei e africani, agenzie delle NU. Lavora prevalentemente su progetti di sviluppo, dalla loro concezione fino alla loro valutazione finale. E’ direttore tecnico di cantieri di sminamento. Ha insegnato in Angola e in Mali. Vive in Italia. Fa parte della Rete ECO (ebrei contro l'occupazione)


FOTO REPORTAGE

LIBANO 2013 DAI CAMPI PROFUGHI PALESTINESI

di Mirca Garuti

                      


(Leggi la Seconda parte)

IL LUNGO FILO DELLA MEMORIA
I PROFUGHI PALESTINESI in LIBANO

di Mirca Garuti
(terza parte)


  


Il sud del Libano rappresenta la resistenza e la lotta per la libertà contro tutte le invasioni. Per i profughi palestinesi, il sud è, nello stesso tempo, gioia e dolore. Gioia, perché qui hanno trovato un rifugio dalla violenza israeliana. Dolore perché, senza diritti, sono costretti a difendersi. Vivere lottando soprattutto perché la loro terra, le loro case ed i loro parenti sono irraggiungibili, nonostante si trovino a pochi chilometri di distanza. Un sogno, un miraggio.
Il viaggio nel sud del Comitato inizia da Sidone. Sidone (Saida in arabo), cittadina portuale a circa quaranta chilometri da Beirut, è circondata da bananeti ed agrumeti. Sidone, un tempo città fenicia ricca ed importante, è oggi capitale del sud del Libano e rappresenta il simbolo della resistenza patriottica libanese e del Movimento di Liberazione Nazionale di tutto il mondo arabo. Con il suo Castello del Mare costruito dai crociati, le sue moschee, i caravanserragli, i suq con i soffitti a volta, è una delle località più affascinanti del Libano.

 


Come primo appuntamento, la delegazione rende omaggio alla memoria del Martire Maarouf Saad, difensore di tutte le classi sociali più deboli e povere, ucciso nel 1975 dalle forze fasciste di destra libanesi, durante una manifestazione di protesta dei pescatori. Il suo assassinio segna l’inizio della guerra civile libanese che scoppierà due mesi più tardi.


Siamo accolti dal figlio, Osama Saad, deputato del partito panarabo nasseriano, uno dei partiti fondamentali per il Libano, specialmente a Sidone. Offre sostegno ed appoggio a tutti i popoli del mondo che si trovano sotto occupazione. In Libano, la loro lotta è rivolta a cambiare il sistema politico vigente per arrivare ad una giustizia sociale, contro la destra libanese. Osama, inoltre, è molto attento a tutte le questioni che riguardano il Medio Oriente e le sue analisi sono sempre precise ed interessanti. Aveva, infatti, già previsto, due anni fa, che le così dette “Primavere arabe”, col tempo, avrebbero avuto delle involuzioni. E così è stato.

(http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/OSAMASAADAMODENA/tabid/1274/Default.aspx)

Audio Musolino spiega Osama

 

  

Osama Saad, nei giorni successivi, ci ospita nuovamente a Sidone. Dopo aver visitato la meraviglia del Castello del Mare, ci fa conoscere la Fondazione Maarouf Saad. Al suo interno, si trova la scuola nazionale di Sidone, frequentata da 182 studenti palestinesi, libanesi ed ora anche siriani che vivono a Sidone. Questa scuola fu costruita da un emiro nel 1920. Quando a Sidone arrivarono i turchi e l’emiro fu esiliato in Toscana, la scuola venne regalata ai francesi quando iniziarono il loro mandato in Libano. Qui, infatti, ha vissuto il console francese sino a quando, cessato il suo dominio, la scuola diventò un ospedale governativo.



 

Siamo accolti da un gruppo di scolari che ci danno il benvenuto, leggendo scritti e poesie.

    Audio fondazione Saad

 

 

 

La delegazione del comitato visita il Centro culturale Maarouf Saad. Sono presenti varie forze nazionaliste, islamiste, organizzazioni non governative e nasseriane.

  Osama Saad apre l’incontro: “Il cammino della resistenza, attraverso tutte le sue varie forme, compreso anche la lotta armata, continua in tutto il mondo arabo. Siamo sicuri della nostra vittoria contro l’occupazione sionista e capaci di smantellare il sistema sionista della terra araba fino alla liberazione della Palestina. Noi consideriamo questo sistema, razzista, aggressivo, espansionistico e, per questo lo combattiamo. Quando venite qua, al nostro fianco, ci sentiamo più forti e coraggiosi. Combattiamo lo stesso nemico. La nostra lotta è comune contro l’imperialismo, il sionismo e la reazione di una parte del mondo arabo. Vinceremo questa comune battaglia, anche nella nostra regione, per una democrazia, una libertà, una vita dignitosa, affinché tutti possano avere la giustizia sociale che stiamo cercando.”
Maurizio Musolino, come portavoce del Comitato, riafferma il motivo del nostro viaggio: ricordare e raccontare. “Veniamo qui – dice Maurizio – anche per chiedere diritti per i vivi, per i palestinesi che vivono all’interno dei campi. Sappiamo che i libanesi sono al nostro fianco. Insieme dobbiamo lottare per questo e per chiedere il riconoscimento del Diritto al Ritorno, perché i palestinesi devono poter ritornare alle loro case. Il nostro pieno appoggio è per la resistenza libanese. Siamo per un Libano libero ed indipendente da qualsiasi influenza.”
Dopo i consueti discorsi d’apertura, ascoltiamo alcuni interventi da parte del pubblico presente in sala. Katia, rappresentante del partito nasseriano: “Noi vogliamo la pace in tutto il mondo, in modo particolare nei paesi arabi. Siamo pronti a lavorare con voi per affrontare il nemico sionista e americano, per dire Basta a queste aggressioni. Abbiamo il diritto di vivere in pace.”
Si susseguono altre dichiarazioni, testimonianze e richieste, ma si possono riassumere in una sola. Sono profughi da 65 anni. Chiedono che noi, popolo europeo, facciamo pressione sul governo libanese, affinché possa loro garantire diritti civili e sociali. “Abbiamo il diritto di vivere con dignità finché non riusciamo a tornare nelle nostre terre, nelle nostre case, in Palestina”.
Un partecipante a quest’incontro, si alza e chiede. “ Qual è la vostra conclusione, dopo tanti anni che venite qua? Siete convinti che, prima o poi, il sionismo cesserà? E che la Palestina ritornerà ai palestinesi?" Maurizio risponde: “In questi giorni abbiamo visto tanti campi e incontrato amici.  Abbiamo sentito la forza e l’ostinazione a non arrendersi, anche in situazioni molto difficili, come, per esempio, nel campo di Naher El Bared, oppure in situazioni di sovraffollamento che rendono la vita nei campi praticamente impossibile. Nonostante tutto questo, abbiamo visto la capacità di continuare a fare cultura, per non dimenticare le origini del popolo palestinese, trasmettendole da generazione a generazione. Contro questa determinazione nessuno può vincere. Siamo sicuri che i palestinesi vinceranno, anche se oggi possono sembrare i più deboli. Il mondo cambia. Vent’anni fa l’esercito israeliano sembrava invincibile. Nel 2006, invece, proprio qui in Libano, si è dimostrato il contrario. Si poteva fermare”.

Audio teatro culturale Saad


A Sidone la delegazione incontra anche l’ex sindaco, Abdul Rahman Bizri. Molti partecipanti del Comitato hanno già avuto in passato il piacere di conoscerlo, in modo particolare, subito dopo la guerra dei trentatré giorni del 2006. Saida, terza città del Libano, capitale del sud, è l’esempio della resistenza e della solidarietà. Durante quella guerra il Comune non è stato mai chiuso, anzi, è stato trasformato in un centro di smistamento al servizio dei profughi. Tutti a Saida avevano aperto le porte delle proprie case per aiutare chi era in fuga dalla guerra, compreso i campi profughi palestinesi. Il campo di Ain El Helweh, per esempio, definito dal governo americano “un covo di terroristi” aveva ospitato circa 10.000 persone, senza alcuna distinzione di etnia religiosa.
L’ex sindaco Bizri saluta il Comitato: “Ci sono persone nuove, e questo è un bene, perché significa che questa causa sta andando avanti.”
Bizri fa un piccolo accenno alla figura di Ariel Sharon. Afferma che, nonostante sia morto, la richiesta della sua condanna di fronte ad un tribunale internazionale deve continuare.  Si tratta di una condanna per i crimini che sono stati commessi, una condanna morale che oggi è indispensabile. Intorno alla figura di Sharon è sorto un mistero: non esiste la certezza che sia morto. Nessuna comunicazione ufficiale. Alcuni sostengono che le autorità israeliane aspettino condizioni politiche migliori per poter diffondere la notizia. Altri ancora sostengono che si tratta solo di voci infondate, che Sharon sia ancora ricoverato e che si trovi in uno stato vegetativo da quel 4 gennaio 2006.
L’ex sindaco è però curioso di sapere da noi quali sono le nostre sensazioni e cosa abbiamo notato di diverso rispetto agli anni precedenti. Cosa è cambiato in fondo nel paese dei cedri? I nuovi problemi sono legati alla situazione in Siria, alle migliaia di profughi che sono arrivati in Libano, al sovraffollamento dei campi palestinesi, mentre i vecchi problemi sono sempre quelli relativi ai non diritti dei profughi palestinesi in questa terra ed alla questione palestinese in generale.
 Bizri descrive al Comitato la situazione in Libano per la conseguenza della guerra in Siria. Per la prima volta, si è riunito un Comitato congiunto di tutte le organizzazioni del campo di Ain El Helweh, a cui hanno partecipato tutte le forze palestinesi sia interne e sia esterne al campo, compreso anche quelle islamiste. Lo scopo era quello di fare in modo di “tenersi fuori” da possibili interventi esterni. "Secondo cifre ufficiali – continua l'ex sindaco – il Libano ha ospitato da 700.000 a 800.000 siriani (Bizri non vuole fare delle differenze tra siriani e palestinesi-siriani, perchè sono tutti fratelli, per lui sono semplicemente siriani), in verità, i numeri veri oscillano da 1.000.000 a 1.200.000 persone uscite dalla Siria.” Bizri si occupa anche, all'interno del governo libanese, di monitorare la percentuale di malattie infettive rispetto alla situazione generale sanitaria. La richiesta di vaccini è, infatti, aumentata ed ha raggiunto il milione. Questo dato è significativo perchè rispecchia il numero delle persone presenti. La crisi siriana non ha solo effetti politici e di sicurezza, ma anche sociali. “Se ci sarà un attacco militare - prosegue Bizri – dovremo prevedere l'arrivo di tantissimi altri profughi, per questo motivo stiamo tenendo sotto controllo questo fenomeno. A Sidone sono state ospitate 5000 famiglie e se si considera che ogni famiglia siriana/palestinese è composta di 7/8 persone, sono presenti quindi circa 30/40.000 “ospiti”. Di tutta questa moltitudine, 4/5000 persone si trovano all'interno del campo di Ain El Helweh. Una situazione dunque esplosiva!”
Bizri espone la sua analisi sulla Siria. “La Siria è come tutti gli altri stati arabi. Al suo interno c'è di tutto: corruzione e mancanza di democrazia e di controllo. La Siria ha bisogno quindi di riforme democratiche per la libertà e di un controllo sullo stato attraverso libere elezioni. A differenza di altri paesi arabi, in Siria ci sono garanzie sociali, sanità e istruzione per tutti ed inoltre è iniziata un’apertura economica.  La sua colpa è data dalla politica interna: è uno di quei paesi che non ha mai firmato trattati di pace con Israele, ha ospitato organizzazioni in disaccordo con Israele, (es.Hamas), ha appoggiato la resistenza libanese e sostenuto tutte le resistenze del mondo arabo. All'interno della Siria c'era un'opposizione nazionalista che poteva essere molto importante, ma è stata messa a tacere. Esiste poi la parte peggiore che è quella che rifiuta la società civile, cercando di portare tutto verso un estremismo insopportabile. Al confine della Turchia con la Siria gruppi estremisti si stanno massacrando tra loro. A causa della profonda crisi siriana, dopo un lungo periodo di leggi fuori controllo, dove ognuno poteva fare ciò che voleva, sembra che si stia tornando ad un equilibrio strategico a livello di potenze mondiali. Questo ci può dare un po’ più di speranza di poter evitare un’altra guerra. In Libano volevamo avere, nei confronti della Siria, un’unica posizione, volevamo le riforme all’interno della Siria, mantenendo però intatta la sua posizione politica e strategica per il ruolo che aveva nel mondo.”
Abbiamo infine chiesto all’ex sindaco di Saida alcune informazioni sulla Legge elettorale in Libano.
“Il Libano – afferma l’ex sindaco – corrisponde a ciò che è spiegato in un libro uscito negli Stati Uniti “The Revenge of Geography (La rivincita della geografia)”, dello scrittore Robert Kaplan*. Questo dimostra che esiste un rapporto organico tra la Siria ed il Libano e la possibilità che il Libano si possa staccare dalla Siria è finita con la guerra del 1967. Perché il Libano non ha partecipato alla guerra, è stato neutrale, ha seguito la classe politica d’elite, l’occidente, mentre, invece, doveva partecipare al conflitto. Poteva, forse, subire una sconfitta, come gli altri paesi arabi, ma a quel punto, poteva nascere un nuovo Libano. Da quel momento, invece, è finito lo Stato libanese.  Il paese dei cedri decise di seguire l’estero, la classe politica maronita che poi lo porterà alla guerra civile nel 1975. Non ci saranno imminenti nuove elezioni finché non sarà chiarito il quadro regionale che decide."

Audio Ex sindaco Sidone

 

*"Se volete conoscere la prossima mossa di Russia, Cina o Iran, non leggete i loro giornali né domandate cosa hanno scoperto le nostre spie: piuttosto consultate una mappa. La geografia può rivelare gli obiettivi di un governo tanto quanto le sue riunioni segrete. Più dell’ideologia o della politica interna, ciò che di base definisce uno stato è il punto che occupa sul pianeta. Le mappe colgono gli eventi fondamentali della storia, della cultura e delle risorse naturali. Con il medio oriente in tumulto e una transizione politica turbolenta in Cina, date un’occhiata alla geografia per capirci qualcosa. In teoria, la geografia, come mezzo per spiegare la politica mondiale, è stata messa in ombra da economia, globalizzazione e comunicazioni elettroniche.
Mentre alcuni continuano a premere per un intervento in Siria, è utile ricordare che lo stato moderno che porta quel nome è un fantasma geografico di ciò che fu dopo la caduta dell’impero ottomano, che includeva quelli che sono oggi Libano, Giordania e Israele. Persino quella vasta entità era più una vaga espressione geografica che un luogo ben definito. Nonostante ciò, il moderno stato siriano, per quanto tronco, contiene tutte le divisioni interne della vecchia regione ottomana. Fin dall’indipendenza, nel 1944, la sua composizione etnico-religiosa, con alawiti nel nord-ovest, sunniti nel corridoio centrale e drusi nel sud, lo rende una Yugoslavia araba in gestazione. Questi frazionamenti sono ciò che per lungo tempo ha reso la Siria il cuore pulsante del panarabismo e lo stato più estremo nel respingere Israele. La Siria potrebbe placare le forze che da sempre minacciano di smembrare il paese, solo facendo appello a un’identità araba radicale, andando oltre il richiamo della setta. Questo non significa però che la Siria debba ora sprofondare nell’anarchia, perché la geografia ha molte storie da raccontare. Sia la Siria sia l’Iraq hanno radici profonde in specifici terreni agricoli che risalgono a millenni fa, rendendoli meno artificiali di quanto non si possa supporre. La Siria potrebbe comunque sopravvivere come una sorta di equivalente del XXI secolo di una Beirut, Alessandria e Smirne degli inizi del XX secolo: un mondo levantino di identità multiple, unito dal commercio e ancorato al Mediterraneo. Le divisioni etniche basate sulla geografia possono essere superate, ma solo se prima ne riconosciamo l’eccezionalità." ( stralci tratti dal libro di Robert D. Kaplan “The Revenge of Geography” - Copyright Wall Street Journal, per gentile concessione di MF/Milano Finanza. - Traduzione Studio Brindani- settembre 2012)

 

Il nostro viaggio nel sud continua verso Tiro (Sour) che si trova a 80 km da Beirut con destinazione Qana. Lungo il percorso, in prossimità del fiume Litani, che durante l’occupazione israeliana dal 1978 al 2000 parte delle sue acque furono utilizzate per irrigare Israele e, durante la guerra del 2006, fu luogo di scontro tra l’esercito israeliano ed Hezbollah, superiamo la Rocca del Castello di Beaufort. Si tratta di un vecchio avamposto militare, conteso da quasi tutti gli invasori negli ultimi 1000 anni, in cima ad uno dei più elevati crinali della regione e lo si può vedere da molte miglia di distanza. Le sue origini risalgono al periodo bizantino. Tra le sue mura sono passati i protagonisti della storia del Libano: crociati, sultani, re, guerriglieri, invasori stranieri. Tutti hanno voluto mettere la propria bandiera sulle torri del castello. Nel 1920 sventolava la bandiera francese. Era il periodo del protettorato che finì, nel 1943, con l’indipendenza del Libano. Nel 1976 fu invece conquistata dai guerriglieri palestinesi dell’Olp e difesa dai ripetuti attacchi sia da parte dei cristiani-maroniti e sia dagli israeliani. Nel 1982, durante la feroce invasione del Libano da parte d’Israele, fu occupata dall’esercito israeliano che vi mantenne un presidio fino alla sua ritirata, nel maggio 2000. Durante la loro ritirata, prima dell’abbandono, per distruggere le tracce della loro occupazione, fecero saltare in aria parti del Castello, ignorando la precisa richiesta del governo libanese di rispettare il sito storico già pesantemente danneggiato.

  

Dopo Tiro, in direzione sud-est a 14 km, raggiungiamo il piccolo villaggio sciita di Qana. E’ una fermata obbligatoria, per ricordare i tanti massacri avvenuti qui da parte dell’esercito israeliano.
Durante il viaggio, Maurizio Musolino racconta che cosa rappresenta Qana non solo per i palestinesi e libanesi, ma anche per tutti noi, assumendoci il compito di portare la loro voce al di fuori di questi confini.

Audio Maurizio Qana

Va ricordato il massacro avvenuto all’interno della così detta “Operazione Grappoli d’ira” iniziato l’11 aprile 1996, dal primo ministro israeliano Shimon Peres per fermare la resistenza Hezbollah, interrompendo così il processo di pace in corso (Accordi di Oslo). L’attacco durò 16 giorni. Peres era convinto che solo l’uso di un massiccio bombardamento dal cielo, terra e mare, avrebbe potuto dissuadere la popolazione dall’appoggiare le milizie di Hezbollah che combattevano per la liberazione dei territori occupati del Libano. L’aggressione fu particolarmente violenta: secondo stime attendibili furono impiegate 35.000 bombe. Il 18 aprile, circa 800 persone si rifugiarono a Qana, all’interno della base delle forze di pace delle Nazioni Unite. La base fu bombardata con attacchi ripetuti e mirati: morirono 102 persone e 120 rimasero ferite. Fu un vero e proprio massacro: bruciati vivi, corpi deturpati e sfigurati, carne e sangue fusi con l’acciaio, bambini decapitati.  Subito gli israeliani cercarono di far credere che non sapessero dell’esistenza dei civili all’interno della base, ma poi, secondo le indagini condotte dalle Nazioni Unite, la verità fu che Israele bombardò deliberatamente il bunker del campo.

“Il 18 aprile 1996, alle 14:10, i cannoni israeliani aprono il fuoco sulla postazione del reparto fijiano delle forze di peace-keeping a Favjiya-Qana dove hanno cercato riparo i circa 800 abitanti del villaggio che non sono riusciti a fuggire. Si tratta in prevalenza di bambini, donne e vecchi. Gli israeliani lanciano sui tre rifugi circa 12 scariche di proiettili da 155mm, donati loro dagli USA. Tali proiettili sono progettati per esplodere a 7 metri d’altezza per poter uccidere il maggior numero di persone o produrre amputazioni letali.  7 bombe colpiscono, con voluta precisione, i ripari del battaglione fijiano. La carneficina è spaventosa. In ciò che resta dei ripari, distrutti e incendiati, giacciono i cadaveri di 102 civili arabi, in un ammasso di corpi irriconoscibili, alcuni dei quali stanno ancora bruciando. I feriti, molti dei quali in condizioni gravissime, sono 116.
Nel massacro muoiono anche 4 militari del battaglione ONU delle Fiji.”(dalla “Diaspora Palestinese in Libano ed i tempi della guerra civile” di Mariano Mingarelli)

Dopo il 1996, sono successi altri bombardamenti, come per esempio, nel 1982 dove sono morti centinaia di persone. Quello che colpisce di questi attacchi è il fatto che si sono svolti tutti a danno di strutture dell’Unifil, dove al suo interno si rifugiavano solo civili con la speranza di trovare un posto sicuro. Colpire i luoghi dove si rifugiano i civili è però un elemento che si ripete spesso nella strategia del governo israeliano. In tempi più recenti, Israele bombardò ancora una volta Qana nel luglio del 2006, durante la guerra dei 33 giorni.

Il comitato visita questo luogo di memoria dove sono sepolte le vittime di questa strage. Israele colpì nella notte una palazzina di tre piani dove avevano trovato rifugio varie famiglie: 60morti, tra cui 37 bambini.

  

In questo piccolo cimitero si trovano in semicerchio le immagini di questi bambini che hanno perso la vita sotto le macerie. Purtroppo molti di loro portano lo stesso cognome; una tragedia che ha distrutto intere famiglie.

“Dal 1948 - così ci racconta un responsabile del luogo - le autorità competenti libanesi non hanno mai costruito dei rifugi antiaerei. La popolazione, quindi, aveva come rifugio solo la propria casa. Durante l’aggressione israeliana del 2006, l’esercito israeliano non ha risparmiato nessuno, ha bombardato tutto. A Qana, da un nostro censimento, le case distrutte completamente sono state 64 e 1200 hanno subito danni consistenti. In questo quartiere, la gente, per lo più vecchi, donne e bambini, non ha avuto la possibilità di scappare e si è rifugiata nei piani bassi di una palazzina in costruzione a pochi metri da qui. Gli israeliani si accaniscono contro i civili perché proteggono, secondo loro, la resistenza. La gente sostiene la resistenza perché ha bisogno di chi la protegge dall’occupazione israeliana.”

 

 

 

 

Audio Qana

Lasciamo il villaggio di Qana per raggiungere il campo di El Buss

  

Nel campo di El Buss vi è un importante centro di consultorio familiare con un ospedale psichiatrico per la cura psicologica rivolta a donne e bambini, vittime di violenza. L’associazione di Assumoud, compresa l’estrema gravità del problema, è riuscita, grazie all’aiuto di un’associazione finlandese, a sviluppare questo progetto. Sia l’UNRWA e sia la Mezza Luna Rossa Palestinese non hanno questo tipo di servizio. Il centro di salute psicologica è stato aperto nel 2007 ed è l’unico per tutti i campi profughi del sud del Libano e per i nove raggruppamenti di palestinesi. Non è solo rivolto ai bambini palestinesi, ma a chi ne ha bisogno, siano esse siriani, libanesi, egiziani, o  altro. Questo servizio si trova solo in 5 centri gestiti da Beit Atfal Assumoud in tutto il Libano. I finanziamenti per quest’importante attività arrivano solo da tre paesi: Norvegia, Finlandia e da un’associazione francese.


La responsabile del centro, illustra al Comitato, le funzioni di questo consultorio:
“Il nostro lavoro è rivolto ai ragazzi fino a 18 anni ed ai loro familiari. Il nostro staff lavorativo è composto di uno psicologo, da vari operatori sociali ed operatori socio-psicologi. La cura di queste persone avviene mediante sedute quotidiane. Gli operatori sociali lavorano a tempo pieno, mentre gli specialisti secondo le necessità. La crisi siriana e l’arrivo di tanti palestinesi hanno creato al centro numerosi problemi.  Non siamo in grado di risolverli tutti e le conseguenze sono lunghe liste d’attesa a cui non riusciamo a dare delle risoluzioni. Queste persone, in fuga dalle città in cui vivevano, catapultate in una realtà totalmente diversa, costrette a dipendere da altri non avendo più niente, hanno subito profondi disagi e crisi difficili da risolvere. Abbiamo dovuto affrontare subito un primo soccorso: avevano bisogno di cibo, d’indumenti e di un tetto. Tutto il sud si è mobilitato per dare questo tipo d’aiuto a quelli che scappavano dalla vicina Siria. Noi abbiamo ricevuto tanti bambini palestinesi, usciti dalla Siria, con uno stato psicologico molto provato perché hanno visto gli effetti della guerra. Questi bambini hanno bisogno di cure immediate per evitare che questo stato di cose possa peggiorare. I loro stessi genitori hanno chiesto aiuto, perché non sanno come affrontare questo tipo di problema, non sanno più come comportarsi per poterli aiutare a superare queste paure, questi disagi. Noi quindi abbiamo insegnato ai genitori come fare organizzando delle assemblee. Inoltre, abbiamo anche messo in campo altre attività socio-psicologiche per tutti i bambini con l’obiettivo di riuscire a scaricare le loro tensioni interne, le loro paure non dichiarate, per farli parlare, per raccontare. Questo esperimento lo stiamo facendo in due campi: Burij El Shemali e Rashidieh, dove vi è un alto numero di famiglie ed è rivolto a bambini tra i 6 e 13 anni con questo tipo di problemi. Tutte le famiglie palestinesi provenienti dalla Siria che si trovano all’interno del nostro bacino d’utenza, hanno il diritto a partecipare a tutte le attività organizzate da Assumoud, anche se questo comporta naturalmente una diminuzione dei nostri fondi. Ma non importa. Andiamo avanti. Prima della crisi siriana, avevamo una situazione finanziaria molto buona, ora invece i costi, offrendo servizi e cure a tutte queste persone, sono triplicati.  Oggi siamo in uno stato d’emergenza e la mancanza d’aiuti dall’esterno e di fondi ha reso difficile portare avanti il nostro programma. Il nostro finanziamento durerà fino a dicembre e poi se non ne troviamo altro, per il 2014 saremo a terra. Per noi è estremamente importante riuscire a trovare altri finanziamenti, perché altrimenti corriamo il rischio di non riuscire a portare a termine il nostro lavoro. I ragazzi del sud del Libano difficilmente potranno arrivare a Beirut per continuare la cura. La comunità internazionale applica una forte discriminante nei confronti dei profughi. Se chiediamo ad un ente libanese di occuparsi delle cure di un bambino palestinese-siriano, ci rispondono che non possono, non è un loro compito, ma dell’UNRWA, mentre se è un bambino siriano, allora tutto è possibile perchè paga la commissione europea. Oggi l’UNRWA ha diminuito i suoi contributi. Succede quindi che se un bambino ha bisogno di fare delle analisi, dove prima l’Unrwa ne rimborsava il 50%, ora invece, spesso non dà nulla ed è per questo, che ci dobbiamo attivare attraverso amicizie o a livello personale. Non esiste più un servizio permanente né per i palestinesi che vivono qui e né per quelli che arrivano dalla Siria.” 

Il primo problema che incontrano i palestinesi siriani sul suolo libanese, è l’accento linguistico, poi, si rendono conto che quello che manca in realtà, sono i diritti a cui erano abituati. Poiché la loro permanenza continua, cominciano a sentirsi come i loro predecessori del 1948, quando pensavano che il loro allontanamento fosse solo per qualche settimana. A questo punto, cominciano le ricerche di altri eventuali profughi provenienti dallo stesso villaggio siriano, dalla stessa città, per stare insieme, ma il loro desiderio è solo quello di poter tornare presto in Siria.
I sintomi psicologici riscontrati nei bambini sono per lo più quelli relativi al rifiuto di staccarsi dalla famiglia, alla mancanza di sonno, alla paura, all’angoscia, all’anuresi, al fenomeno di malattie viaggianti, al bisogno di essere sempre in movimento e quello di mangiare sempre o niente.

Audio El buss

  

Dopo la visita al centro, c’inoltriamo per le vie del campo. Notiamo la presenza dei nuovi palestinesi fuggiti dalla Siria. Ci salutano. Incrociamo anche una famiglia seduta su un muretto, nell’attesa, forse di un miracolo… chissà ora dove sarà… non sono arrabbiati, sono semplicemente stanchi ed amareggiati.
Sono giovani. Una giovane coppia con due figli. Sono ben vestiti e l’uomo racconta che sono arrivati da Damasco. Nel campo non c’è posto, così hanno deciso di affittare una camera in città. In Siria, il padre faceva il geometra, aveva una piccola impresa con dipendenti. Ora non ha più nulla. In Siria era libero, mentre ora è solo stanco di essere chiamato “palestinese”. Un nome a causa del quale, tutte le porte sono chiuse. Solo l’Unrwa potrebbe agire ma non risedendo dentro il campo, nulla vale il suo diritto. Ci racconta anche un fatto strano: due suoi fratelli vivono in Germania ed hanno la cittadinanza tedesca. Una normativa tedesca prevede l’ingresso di 5000 famiglie siriane. Lui ha preparato tutta la documentazione.  I suoi fratelli sono tedeschi e sua moglie siriana, sperava, quindi, in un possibile ricongiungimento familiare. E’ andato allora, al consolato europeo, ma gli è stato anche qui, negato l’accesso in Germania perché palestinese. L’uomo allarga le braccia e cita alcuni versi del poeta palestinese Tamim Barghouti “Tu sei palestinese, non devi vivere, devi vivere solo per i posti di blocco e le restrizioni”.

Noi dobbiamo andare, ma lui prosegue dicendo che i palestinesi vivono nell’attesa della morte. “Ci vogliono così.  Noi siamo destinati a vivere così, ma io sono fiero d’essere palestinese, vado a testa alta e porto la causa palestinese con me”.
Un ultimo saluto e li lasciamo lì soli sul muretto, in attesa…

12/12/2013

continua…


SIRIA: UN PAESE ANCORA IN GUERRA


Il 6 aprile 2013 il giornalista italiano Domenico Quirico e il suo collega belga Pierre Piccinin da Prata sono stati rapiti in Siria e tenuti in ostaggio per 152 giorni, fino all’8 settembre. Quell’esperienza è raccontata dai due protagonisti nel libro uscito a novembre intitolato: “Il paese del male. 152 giorni in ostaggio in Siria” (Neri Pozza, pp. 176, euro 15).
Una narrazione sofferta e probabilmente terapeutica, che pone a chi legge questioni spinose e non solo relativamente alla guerra in Siria. Non sorprende, ma lascia comunque l’amaro in bocca, che in Italia si parli di Siria, ma più in generale di vicende che escono dai ristretti confini dello Stivale, solo in occasioni drammatiche come quella del rapimento di un connazionale.
Ma la guerra in Siria continua; come scrive Quirico nelle righe finali riportando le parole di uno dei suoi carcerieri: “Vedi, ve ne andate, liberi. allora non è vero che voi eravate i prigionieri e noi i custodi. Tutti, voi e noi, eravamo altrettanto prigionieri. Ma con una differenza: che voi potete lasciare questa tragedia, partire, noi restiamo qui…”.
E quindi il giornalista prosegue: “E’ solo ora, partendo, che capisco l’essenza di questo posto. Dopo cinque mesi sono diventato parte del luogo, della disperazione, della morte, del cibo sudicio e scarso, del caldo e del color sabbia. Ora, mentre cammino nella terra di nessuno tra Siria e Turchia, ho la sensazione di comprendere i problemi di questa falsa rivoluzione, i suoi paradossi e perfino il suo squallore. Sento una gelosa, assurda fratellanza con tutti quei siriani che cercano di non andare ancora più a fondo”.

11 dicembre 2013
Dal sito di Radio Onda D’Urto
Ascolta Domenico Quirico che conversa con la saggista Cinzia Nachira.  


Come osano i leader israeliani piangere la morte di Mandela?
di Michel Warschawski (AIC – Alternative Information Center)

“Mandela fu un personaggio esemplare della nostra era e sarà ricordato per essere stato un leader dalla grande statura molare. Fu un combattente per la libertà che rifiutò l’uso della violenza..” Con queste parole, il Primo Ministra israeliano, Benjamin Netanyahu, non solo rivela una scarsa conoscenza della storia sudafricana (questo è il meno) ma ha superato il limite della decenza. Nel coro unanime a livello mondiale di ammirazione per Mandela, l’unica cosa che i rappresentati dello stato di Israele avrebbero dovuto fare, era tacere con umiltà e per la vergogna.

(Foto: Desertpeace.wordpress.com)

 
Stando a numerosi rapporti, Israele ebbe stretti legami diplomatici e nucleari con il Sud Africa dell’apartheid.
Fino ad oggi nessun leader israeliano ha mai chiesto perdono a Mandela e al popolo sudafricano per il ruolo attivo dello stato di Israele nelle difesa e nel mantenimento del regime dell’apartheid a Pretoria. L’alleanza tra Israele e il Sud Africa razzista fu strategica da un punto di vista economico, ma anche militare e ideologico. Anni dopo che la maggior parte della comunità internazionale aveva lanciato il boicottaggio del regime sudafricano, Israele continuava ad avere eccellenti relazioni con Pretoria, aiutandola ad aggirare le sanzioni internazionali. Stando ai media internazionali, Israele non avrebbe potuto continuare il proprio programma nucleare senza la collaborazione del Sud Africa dell’apartheid. Tale alleanza non si basava solo su interessi comuni, ma anche sulla condivisione della filosofia dell’essere due paesi di bianchi che si trovavano circondati da paesi ostili di non bianchi e dall’essere accomunati dalla battaglia contro il comunismo e contro l’affermazione dei popoli del terzo mondo.

Alcune settimane fa ho visto un appassionante reportage trasmesso alla televisione israeliana a proposito di un famoso miliardario israeliano che fu contemporaneamente un produttore cinematografico di successo e un agente del Mossad. Tra le molte rivelazioni (almeno, per me, lo sono state), l’uomo ha ammesso di aver ricevuto milioni di dollari dall’amministrazione statunitense e dal regime del Sud Africa per produrre dei film il cui unico obiettivo doveva essere la legittimazione dell’apartheid.. inclusi i suoi leader filo-nazisti. Quando gli venne chiesto se prova rammarico per ciò che ha fatto, rispose con un “sì, un po’” anche se i suoi occhi rivelavano che stava mentendo. 

Quando Mandela venne finalmente scarcerato e accettato globalmente come il leader indiscusso del nuovo Sud Africa, i vari governi israeliani hanno continuato a mantenere una certa distanza da quel comunista/terrorista africano e hanno preferito Desmond Tutu, considerato più moderato, al leader dell’ ANC.

Israele sicuramente non fu l’unico paese ad appoggiare il regime dell’apartheid e gli Stati Uniti hanno spesso utilizzato lo stato israeliano per portare avanti alcuni dei loro sporchi lavori. Il forte legame tra Tel Aviv e Pretoria non era tuttavia solo il frutto di interessi comuni ma anche di una visione simile del mondo e di valori condivisi. Questo è esattamente il motivo per cui Israele è stato l’ultimo paese a recidere i legami con il regime sudafricano.

Il “lutto” di Netanyahu e le affermazioni del Presidente israeliano Shimon Peres sono tanto false quanto la risposta data dal produttore cinematografico/agente del Mossad. Speriamo che la famiglia, gli amici e tutti i sostenitori di Nelson Mandela non permettano a queste persone e alle loro affermazioni di profanare gli eventi in ricordo di Mandela, uno dei più grandi lottatori per la libertà del secolo scorso.
11 Dicembre 2013

(tradotto da AIC Italia/Palestina Rossa) 
(dal Sito “Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus)


Su Alkemia Word
TALAL SALMAN: IL CONFLITTO SIRIANO
Quali ripercussioni in medio oriente

 


Video relazione del direttore del più importante quotidiano libanese As Safir, dott. Talal Salman. Dalla strumentalizzazione dell'occidente, alle milizie integraliste “rivoluzionarie” guidate dall'Arabia Saudita e dal Qatar. Il tentativo di Israele di ridisegnare quell'area geopolitica, il ruolo della Russia e della Cina e il pericolo, in caso di intervento USA, dell'estensione del conflitto.


Beirut - 17 settembre 2013 – Libano


A MODENA, L’AMBASCIATRICE PALESTINESE IN ITALIA
di Mirca Garuti

 


Oggi 23 ottobre, il Sindaco della città di Modena Giorgio Pighi, ha dato il benvenuto all’Ambasciatrice Palestinese in Italia, Mai Alkaila insieme alla delegazione palestinese.


 

La Presidente del Consiglio comunale, Caterina Liotti apre l’incontro ringraziando l’Ambasciatrice palestinese per la visita alla nostra città. La Presidente modenese auspica che si possa arrivare, anche con l’aiuto di tutta la comunità internazionale, ad una vera pacificazione tra il popolo palestinese e quello israeliano. Infine, rileva l’amicizia che la nostra città sente nei confronti del popolo palestinese. All’incontro sono intervenute altre autorità del Comune di Modena e della Provincia: Fabio Poggi assessore di Modena con delega alla Cooperazione internazionale, il vice presidente della Provincia Mario Galli, il vice sindaco del Comune di Fiorano Modenese Marco Busani e l’assessore del Comune di Formigine Maria Costi.
Oltre alle autorità, sono presenti anche alcuni rappresentanti d’associazioni impegnate in progetti di solidarietà, di promozione allo sviluppo dell’informazione, dei diritti umani per il sostegno del popolo palestinese, come “Modena incontra Jenin”, “Alkemia”, “Pax Christi” e “Gavci”.


L’ambasciatrice, dopo aver ascoltato le autorità modenesi e le varie associazioni, ringrazia tutti i presenti per l’impegno messo in atto nel dare, in diversi modi, solidarietà ed appoggio al popolo palestinese. “La pace ha bisogno del vostro sostegno, ma occorre fare di più” – dice Mai AlKaila – e prosegue, affermando che “la nostra dirigenza ha scelto la pace, una pace vera, a differenza d’Israele che non ha ancora rispettato la firma degli accordi di Oslo”. L’ambasciatrice parla, inoltre, della politica d’occupazione da parte del governo israeliano che continua imperturbabile a sottrarre acqua e terra ai palestinesi a favore dei coloni, promuovendo così il loro arrivo in Israele a scapito invece del trasferimento della popolazione palestinese in altri stati. Mai Alkaila non dimentica di citare la costruzione illegale del Muro dell’apartheid che divide villaggi e città palestinesi, della detenzione amministrativa, norma ancora in vigore nell’ordinamento d’Israele, usata per lo più nei confronti dei palestinesi per una detenzione senza obbligo di un provato reato a tempo indeterminato. L’ambasciatrice termina affermando che “Israele viola ogni giorno i diritti del popolo palestinese attraverso gli arresti indiscriminati, la distruzione di case, di alberi, l’uso dei tanti checkpoint che obbligano la popolazione palestinese a dover sostare per lunghe ore prima di poterli attraversare per raggiungere i luoghi di lavoro, di studio e di cura”. Per tutto questo, Mai lancia una richiesta d’aiuto, a noi popolo occidentale per sensibilizzare e fare pressione su ogni comune, città, regione, paese europeo affinché si possa veramente raggiungere una vera pace in Palestina.


La delegazione palestinese, oltre all’Ambasciatrice, era formata da: Mahmoud Abu Adeh membro del Comitato esecutivo della “Palestine General Federazion of Trade Unions” di Betlemme, Shaheen A.M.Shaheen amministratore Doha Municipality del Governorate di Betlemme, Monica J.A.Salem responsabile delle donne sindacato palestinese P.G. of T.U. e Hani Gaber funzionario dell’Ambasciata Palestinese a Roma.
I responsabili del sindacato nazionale palestinese puntano il dito sull’enorme problema del lavoro in Palestina. La disoccupazione è molto alta ed i lavoratori palestinesi che lavorano in Israele non hanno nessun diritto, nessuna garanzia. Molte volte non sono neppure pagati. Nelle loro buste paga c’è la trattenuta relativa alla sanità e alla pensione, ma, a loro non ritorna nulla, non hanno nessun beneficio e sono obbligati a pagare per qualsiasi prestazione di cui hanno bisogno. Non possono vendere i propri prodotti che producono in ogni settore. Tutto questo produce solo povertà e disoccupazione. Israele non porta via solo terre, acqua e lavoro ma anche la loro dignità di uomini e donne.
La donna in Palestina è sempre stata all’avanguardia, in prima linea, è sempre stata considerata importante sia per la società e sia per la famiglia. Oggi, il 25% nei vari settori della società è occupato da donne.  L’obiettivo, però, è quello di riuscire a raggiungere il 50%. La vita delle donne in Palestina non è certo facile, è difficile e dura,  in quanto sono loro che, di solito, devono portare avanti la famiglia, perché il marito o i figli o i fratelli sono in prigione o morti.

Nel corso dell’incontro è presentato il progetto “Operazione Rondine, diritto come misura e giustizia come livella “ dell’associazione Gavci, che fa appello agli enti del governo locale, le autorità locali d’Israele e Palestina, alle associazioni transnazionali dei governi locali perché si uniscano in una corale mobilitazione e idealmente, con delibera formale, procedano a reclamare Gerusalemme quale Word District-Capitale Mondiale della Pace. Questo progetto è anche oggetto di un convegno che si terrà nel pomeriggio a Bologna alla presenza di tutta la delegazione palestinese.

 

 


L’ambasciatrice, come ultimo atto, consegna al Comune di Modena due piatti prodotti in Palestina con dipinta la bandiera della pace ed altri doni simbolici della terra di Palestina.
La presidente Caterina Liotti, offre all’Ambasciatrice come dono una riproduzione della statuetta che si trova all’angolo del Palazzo comunale “La Bonissima”. La statuetta doveva probabilmente rappresentare l’onestà del commercio. La leggenda più diffusa racconta, però, che si tratta di “una dama ricca che, in un periodo di carestia, aveva sfamato il popolo, chiedendo aiuto agli altri notabili della città. Cessata la carestia, avrebbe festeggiato con tutta la popolazione nel suo palazzo, cacciando solo quelli che non l’avevano aiutata nell’opera buona”.
La Presidente del Consiglio nel consegnare la statuetta all’Ambasciatrice sottolinea l’importanza della donna in questa campagna verso la Pace.

23/10/2013



SIRIA
UNA GUERRA DA EVITARE

di Mirca Garuti


Un’altra guerra imminente?  Se si leggono i titoli dei tanti quotidiani italiani e stranieri, sembra proprio di sì. Le tante voci che tentano di alzarsi a difesa di un popolo, anzi, dei popoli che fanno parte dell’area circostante la Siria, restano inascoltate. Gli interessi personali dei Grandi Stati sono più importanti di tutto e tutti. L’uomo, per l’ennesima volta, dimostra tutta la sua capacità distruttiva nei confronti dei suoi stessi simili! La storia non insegna, il passato non è in grado di dimostrare l’inutilità di un’altra guerra, si è sordi e ciechi, quando in gioco c’è solo il proprio interesse e potere. Quando le armi chimiche sono usate dagli “amici” si rimane in silenzio, si fa finta di niente, mentre, quando sono utilizzate dai “nemici”, allora s’insorge, si grida all’orrore ed al dovere dare una lezione. Come il solito, due pesi e due misure, secondo la convenienza!
La crisi economica porta sempre e solo alla guerra. Il Presidente americano, incurante dei tanti “No alla guerra”, prosegue il suo cammino verso una sicura catastrofe. A lui non interessa se tantissime persone innocenti moriranno! O è tanto cieco e sordo, oppure è solo un burattino nelle mani di qualcuno più forte di lui.

“La strategia usata è sempre la stessa. Prima fase: si grida alla mancanza di democrazia e di diritti umani. Seconda fase: s’inviano consiglieri che sostengono i militanti della libertà e s’inventa un aggettivo per la rivoluzione in atto (dei gelsomini, dei cedri, arancione ecc.) I consiglieri partecipano anche alle proteste e agli scontri, aumentando così di numero ed intensificando il loro coinvolgimento. Terza fase: la causa della guerra.” (da “Left “del 31/08/2013 – nota di Maurizio Torrealta)

 

La Siria  per tutti è quella rappresentata dal governo di Bashar al-Assad oppure dai così detti “ribelli”. Pochi parlano della terza forza del paese: i curdi siriani. In Siria come in Turchia la lingua curda fu proibita nella stampa e nella società. Oltre al genocidio culturale, il regime siriano non ha mai smesso le aggressioni fisiche nei loro confronti. I curdi vivono da sempre una tragedia umana. In questa guerra la posizione dei curdi è stata neutrale, hanno  preso le distanze sia dalle forze del regime e sia da quelle di opposizione, organizzando una propria resistenza, cercando di sviluppare una politica indipendente.

Il quotidiano “The Independent” il 26 agosto scorso ha pubblicato una corretta analisi sulla situazione siriana, affermando che: “Mentre il mondo nella scorsa settimana si è concentrato sugli orrori a Damasco, i ribelli anti-governativi hanno condotto una campagna di pulizia etnica contro i curdi siriani nel nord-est del paese, costringendo 40.000 di loro, in meno di una settimana, a fuggire attraverso il Tigri nel nord dell'Iraq. Così molti stanno cercando di sfuggire a quello che le Nazioni Unite dicono che è il più grande singolo esodo dei profughi dalla guerra. Il ponte di barche sul Tigri che stavano utilizzando è vicino al collasso e ha dovuto essere chiuso, intrappolando decine di migliaia di curdi terrorizzati all'interno della Siria .”
Ma chi sono questi ribelli? Sempre sul quotidiano inglese: “I ribelli non vogliono negoziare con il governo, in parte perché sono così frammentati che avrebbero difficoltà a concordare una squadra di negoziatori che rappresenti i diversi filoni di opposizione. Secondo una stima, ci sono 1.200 diverse unità militari ribelli in Siria  che variano nel formato: da gruppi familiari di alcune decine di combattenti a piccoli eserciti di miliziani ben organizzati e pesantemente armati di carri armati e artiglieria.”

Approfondimenti:

Gli interessi economici della Francia interventista di Marco Cesario da Linkiesta

Dossier: “I curdi in Siria”  (link su uikionlus)

“Contro la Guerra del Levante” – Paola Caridi, dal sito “Invisibile Arabs”

-    L'Iran, non la Siria, vero bersaglio dell'Occidente di Robert Fisk

-    L'infernale illusione delle armi di Adonis

Appello di UikiOnlus

Appello del Partito comunista libanese

-   Notizie dalla Siria - Nena News Agency 

-   No alla guerra imperialista di Bassam Saleh



Articoli su Alkemia

- L'IMPERO IN DECLINO - Intervista con Gilbert Achcar

- SIRIA: UNA VIA PACIFICA ALLA SOLUZIONE DELLA CRISI - di Giovanni Sarubbi - Intervista ad Ossamah Al Tawil membro del Comitato Esecutivo del Coordinamento Nazionale Siriano per il Cambiamento Democratico

 

PRIME RIFLESSIONI SULLA DINAMICA DELLA RIVOLUZIONE EGIZIANA

 

Intervista a Gilbert Achcar rilasciata il 3 luglio al canale televisivo The Real News Network (TRNN) e trasmessa in due parti il 4 luglio.

Gilbert Achcar è cresciuto in Libano ed è ora professore presso la Scuola di Studi Orientali e Africani dell’Università di Londra. Tra le sue opere: "Scontro tra barbarie", "Terrorismo e disordine mondiale" (2002, pubblicato in 13 lingue); "La guerra dei 33 giorni" (con Michel Michel Warshawski, edizioni Alegre), "La poudrière du Moyen-Orient" (2007), con Noam Chomsky, "Les Arabes et la Shoah" (2009) e, più recentemente, "Le peuple veut" (2013).

Puoi illustrarci la tua reazione alla notizia che il presidente Morsi, il leader democraticamente eletto d’ Egitto, è stato rimosso dal potere dall’esercito egiziano?

Direi che, in un certo senso, si tratta della ripetizione dello stesso scenario che ha avuto luogo nel febbraio 2011. Quel che effettivamente possiamo constatare in entrambi i casi è che si tratta di un colpo di stato, un colpo di stato militare, nel contesto di un’immensa mobilitazione, con la sola differenza che coloro che sono al potere sono diversi e la composizione della folla, la mobilitazione di massa, è anch’essa diversa rispetto al 2011.

Nel gennaio-febbraio 2011, abbiamo assistito, come si sa, ad un immenso movimento di protesta, quella grande rivolta nella quale erano coinvolte tutte le correnti di opposizione al regime di Mubarak. Si trattava dei liberali, dei movimenti di sinistra, ma anche i Fratelli Musulmani. Essi rappresentavano una componente importante della mobilitazione in quel momento. In quella grande mobilitazione di massa si riscontravano lo stesso tipo di aspettative nei confronti dell’esercito, l’idea cioè che l’esercito sia dalla parte del popolo, che esso potrebbe rappresentare gli interessi del popolo. Mi ricordo, d’altronde, che proprio l’8 febbraio 2011, appena tre giorni prima della caduta di Mubarak, The Real News Network mi aveva intervistato ed io avevo messo in guardia contro simili illusioni circa l’esercito e i militari.

Quello che stiamo vedendo adesso è solo il risultato di una sorta di gioco delle parti. I Fratelli Musulmani sono al potere e i sostenitori del vecchio regime, quello di Mubarak, per le strade a fianco dei liberali, con la sinistra, con l’opposizione popolare ai Fratelli Musulmani. È in un certo senso, come ho già detto, una ripetizione dello stesso scenario, naturalmente con una differenza fondamentale: la natura della forza politica che è al potere.

In entrambi i casi assistiamo ad una grande mobilitazione. E questa sollevazione è assolutamente affascinante. È qualcosa che va oltre le aspettative, anche tra chi, come me, rifiuta tutti quei commenti cupi ai quali si assiste ogni volta che le elezioni portano al portare forze simili alla Fratellanza Musulmana. Abbiamo assistito ad ogni tipo di commento che indicava come la primavera si fosse trasformata nell’autunno [islamista] o addirittura in inverno [fondamentalista]; molti hanno visto in questi eventi un motivo, se non una scusa, per denigrare tutte le rivolte nella regione. Ci sono stati anche altri, come me, che hanno invece insistito sul fatto che ci troviamo solo all’inizio di un processo rivoluzionario di lunga durata. Ho anche detto che, in effetti, ero abbastanza contento di vedere i Fratelli Musulmani accedere al governo perché questo sarebbe stato il modo migliore per fare in modo che essi finalmente si esponessero e, in questo modo, perdessero la loro capacità di ingannare la gente con slogan demagogici del tipo “l’Islam è la soluzione”.

Ci puoi dire qualcosa sugli interessi fondamentali in gioco nella rivolta in Egitto e quali quelli politici che la animano?

Come ho appena detto, siamo di fronte a una folla molto eterogena, politicamente parlando. Ho visto in tv alcune interviste con gente per le strade. Molte persone, nei caffè o in luoghi simili, esprimono la loro preferenza per Mubarak piuttosto che per Morsi. Vi sono dunque, naturalmente, un gran numero di sostenitori del vecchio regime, un gran numero di persone che sono, come dire, una massa piuttosto conservatrice, che è contro i Fratelli musulmani a causa del profonda incapacità mostrata in questo anno al potere. Si sono comportati in modo veramente deplorevole, mostrando una totale inettitudine, e sono stati capaci di mettere contro di loro proprio tutti.

Vi sono quindi sostenitori del vecchio regime; ma in questa grande mobilitazione avete immense masse di persone che agiscono partendo dalla loro situazione di classe, se così possiamo dire, constatando che nulla è stato fatto contro il deterioramento delle loro condizioni vita; il governo non ha fatto altro che continuare le politiche sociali ed economiche del regime precedente. Troviamo poi anche l’opposizione liberale, che si oppone ai Fratelli musulmani per motivi politici, ma che non contesta le loro politiche economiche e sociali, poiché i liberali, in sostanza, condividono le stesse opzioni. Abbiamo poi la sinistra. Si tratta quindi, come ho detto, di una massa molto eterogenea. Nello stesso modo in cui nel 2011 abbiamo visto forze molto eterogenee, di natura assai diversa, riunirsi attorno ad un obiettivo comune che era la loro opposizione a Mubarak, oggi assistiamo allo stesso fenomeno nella opposizione a Morsi.

Naturalmente questo non risolverà il problema. Qualsiasi illusione che l’esercito e o chiunque verrà portato al potere dall’esercito (perché l’esercito si trova di nuovo nella posizione di king maker) possa e voglia apportare miglioramenti alle condizioni sociali ed economiche e alle condizioni di esistenza dei lavoratori in Egitto è semplicemente infondata. Tutte le illusioni di questo tipo sono per l’appunto solo questo: illusioni!

Ci troviamo quindi di fronte ad uno scontro tra coloro che sostengono il colpo di stato dei militari perché vogliono la restaurazione dell’ordine, convinti che i Fratelli Musulmani non riescono a raggiungere questo obiettivo, quelli cioè che desiderano un ritorno alla normalità nel paese; cosa che in realtà significherebbe la fine di tutte le mobilitazioni sociali e di tutti gli scioperi che si sono sviluppati in modo assai intenso negli ultimi due anni. Vi è quindi questo tipo di persone. Dall’altra parte poi ci sono quelli che si ribellano a Morsi perché ha continuato le politiche sociali di Mubarak.

Ci troviamo quindi in piena contraddizione. Il problema è che, con l’eccezione di gruppi marginali, vi è poca consapevolezza di questa situazione. La tragedia sta nella mancanza di una forza di sinistra che possa contare su una credibilità popolare reale e su una chiara visione strategica di ciò che sta accadendo. Questa mancanza pesa enormemente.

Hai finora delineato il modo in cui questo processo rivoluzionario, che ha avuto inizio il 25 gennaio 2011, sta evolvendo. In sostanza stai dicendo che non si vedono emergere leader del movimento rivoluzionario in grado di candidarsi alla leadership in occasione delle prossime elezioni promesse dall’esercito…

Vi è stata l’apparizione di una figura che poteva svolgere un ruolo di unificatore delle aspirazioni, chiamiamole così, sociali e progressiste della popolazione. Era il candidato nasseriano Hamdeen Sabahi, con riferimento al Nasser che ha governò l’Egitto fino al 1970. Questo candidato ha rappresentato una proposta che si può configurare come una sorta di nazionalismo di sinistra. È arrivato terzo (nel 2012 con il 20,72% contro il 23,66% di Ahmed Shafik – un ufficiale, un rappresentante del vecchio regime – e il 24,78% di Mohamed Morsi). È stata la vera e propria sorpresa delle elezioni presidenziali. Rappresenta l’unica figura realmente popolare nella vasta gamma della sinistra egiziana.
Il problema è che anche lui condivide totalmente il discorso oggi prevalente secondo il quale l’esercito è nostro amico, è con il popolo, ecc. Difende, inoltre un’ alleanza con i liberali e con altri che sono veri e propri superstiti del vecchio regime come Amr Moussa (il segretario generale della Lega Araba tra il 2001 e il 2011, e ancora prima ministro degli Esteri tra il 1991 e il 2001). Recentemente ha addirittura dichiarato che era stato un errore per il movimento popolare, prima che Morsi giungesse al potere, lanciare rivendicazioni quali “Abbasso il regime militare”; e questo mentre il Comitato supremo delle forze armate (CSFA) governava il paese con il pugno di ferro. Queste dichiarazioni non sono per nulla rassicuranti. Tuttavia bisogna riconoscere che è stata l’unica personalità emersa in grado di attrarre si di sé le aspirazioni popolari al cambiamento a sinistra e non a destra (sia nella variante di una leadership islamista o in quella di un ritorno al precedente regime). La questione che ora si pone, se l’esercito manterrà il programma annunciato – il che è ancora tutto da verificare – che prevede la tenuta di elezioni presidenziali a breve termine, è vedere che cosa accadrà in queste elezioni e come questo candidato – l’unico in grado di imporsi a sinistra – si posizionerà: che tipo di discorso svilupperà , quale programma, ecc. È questo un aspetto sul quale dovremo concentrare la nostra attenzione, sempre che – lo ripeto ancora una volta – le elezioni abbiano effettivamente luogo. È troppo presto per pronunciarsi a tale proposito, poiché i Fratelli Musulmani per i momento continuano ad opporsi al colpo di stato e a denunciarlo per quello che è: un colpo di stato. E lo è davvero. E questo anche se non si tratta di un semplice putsch contro un governo democraticamente eletto, ma di un colpo di stato contro un governo un eletto sì democraticamente, ma che ha suscitato l’opposizione della stragrande maggioranza della popolazione egiziana. Le mobilitazioni contro Morsi hanno raggiunto livelli mai visti. E’ stato un avvenimento assolutamente senza precedenti.

Qual è il ruolo degli Stati Uniti in tutto questo? Sono stati felici di sostenere Mubarak per decenni con i militari al potere. Che ruolo hanno giocato in questa situazione e qual è il ruolo che gli Stati Uniti potrebbero svolgere nel prossimo periodo?

Il movimento di opposizione in Egitto, vale a dire l’opposizione a Morsi, ha la forte convinzione che Washington abbia sostenuto Morsi. C’erano infatti molti segnali che indicavano il sostegno di Washington a Morsi; messe guardia contro un intervento dell’esercito, l’insistenza sulla necessità di seguire sempre la via costituzionale, sebbene l’attuale Costituzione goda di una legittimità assai discutibile. Questo enorme movimento, infatti, non riconosce questa come una costituzione legittima, ma come qualcosa imposto dai Fratelli Musulmani. L’ambasciatore degli Stati Uniti al Cairo ha fatto una dichiarazione, all’inizio delle proteste contro Morsi, nella quale ha affermato che esse erano dannose per l’economia. Una dichiarazione che è apparsa come flagrante sostegno a Morsi. Vi sono quindi ampie indicazioni che vanno in questa direzione.

In realtà Washington si trova in una situazione di grande difficoltà. Coloro che sostengono, e sono tanti, soprattutto su Internet, tutte queste teorie del complotto secondo cui Washington sarebbe onnipotente e tirerebbe le fila di tutto quello che sta accadendo nel mondo arabo sono completamente fuori strada. Penso invece che l’influenza di Washington, degli Stati Uniti in tutta la regione, si trovi ad un livello estremamente basso. Questa situazione è il risultato della sconfitta in Iraq, perché quella è stata una grande sconfitta per il progetto imperiale degli Stati Uniti.

Abbiamo assistito alla combinazione di questo disastro per la politica imperiale degli Stati Uniti con il rovesciamento di alleati fondamentali per Washington come Mubarak.

Washington ha cercato di puntare sulla Fratellanza Musulmana. Infatti, durante l’ultimo periodo, dopo l’inizio delle rivolte nel mondo arabo, o immediatamente dopo, Washington ha scommesso sui Fratelli Musulmani. Si ê trattato in realtà di una loro rinnovata alleanza poiché gli Stati Uniti hanno lavorato a stretto contatto con i Fratelli Musulmani negli anni ’50, ’60, ’70, di fatto fino al 1990-1991. Sono sempre stati in stretto contatto con i Fratelli Musulmani. Hanno rinnovato questa collaborazione convinti che nelle attuali condizioni del mondo arabo, di fronte a tutte queste mobilitazioni di massa – che costituiscono il più importante e nuovo sviluppo a partire dal dicembre 2010/gennaio 2011 – avevano bisogno di alleati con una vera base popolare, con una vera e propria organizzazione popolare. Coloro che meglio incarnavano questa opzione e che erano disposti a lavorare e a cooperare con Washington sono stati i Fratelli Musulmani. Questo è quello che hanno fatto e questo è ciò che essi continuano a fare.

La situazione ha ormai raggiunto un punto in cui Washington ha dovuto constatare che la Fratellanza Musulmana ha fallito. Quindi, anche dal punto di vista di Washington, scommettere su di loro non è più possibile. Non sono riusciti a riportare l’ordine in Egitto. Non sono stati in grado di controllare la situazione. Il principale alleato di Washington in Egitto è ovviamente l’esercito, un esercito che ha legami molto stretti con Washington. Esso è in parte finanziato da Washington (dalla fine degli anni 1970, a seguito della conclusione di un trattato di pace con Israele, l’esercito egiziano riceve finanziamenti annuali; attualmente pari a circa 1,3 miliardi dollari). La maggior parte dei pagamenti degli Stati Uniti verso l’Egitto, che si colloca appena dopo Israele dal punto di vista degli importi riscossi, va all’esercito. L’attuale generazione di ufficiali è stata addestrata negli Stati Uniti, ha partecipato a manovre militari congiunte, ecc. Si tratta quindi di un esercito strettamente legato a Washington. E, naturalmente, non è concepibile che Washington prenda posizione contro i militari. Credo che adotteranno una posizione conciliante. Ciò che conta è che essi non dirigono la situazione. E coloro che pensano che gli Stati Uniti siano i registi occulti di tutta l’operazione, come ho già detto, sono completamente fuori strada.

Puoi ora dirci cosa accadrà in Egitto? Mohamed El-Baradei è una delle figure dell’ opposizione tra i leader che hanno incontrato l’esercito. Pare che i leader sindacali non abbiano incontrato l’esercito. Ci puoi dire quali le possibili implicazioni di tutto questo? Infine, dopo la crisi di questo governo dei Fratelli Musulmani, se ci dovessero essere nuove elezioni, pensi che i Fratelli Musulmani potrebbe vincere?

Comincerò con l’ultimo punto. No, io non vedo come i Fratelli Musulmani potrebbero in questo momento vincere delle elezioni. Le prossime elezioni saranno elezioni presidenziali, perlomeno in base alle indicazioni del comandante dell’esercito El-Sissi contenute nel suo discorso. Se si guarda a quello che è successo nelle precedenti elezioni, si ricorderà che Morsi è stato eletto al secondo turno grazie ai voti che non erano “pro-Morsi”, ma piuttosto contro Shafik, l’altro candidato, un ex soldato considerato rappresentante di una totale continuità con il regime di Mubarak. Morsi ha ottenuto, anche allora, poco meno del 25% dei voti al primo turno. E non sono affatto sicuro che i Fratelli Musulmani otterrebbero di nuovo questo 25%. Quindi, no, non penso che sia davvero possibile, per non parlare del fatto che mi è difficile immaginare l’esercito organizzare delle elezioni che permettano a Morsi, o a qualcuno a lui legato, di ritornare al potere. Questo mi pare perlomeno piuttosto improbabile.
Quello che accadrà è esattamente ciò a cui mi riferivo quando ho fatto allusione alla questione del candidato nasseriano. Questo fronte di opposizione assai eterogeneo si presenterà alle prossime elezioni con un unico candidato? Se è questo quel che succederà, il candidato non sarà il nasseriano al quale ho fatto allusione [Hamdeen Sabahi], ma piuttosto qualcuno come El-Baradei, un liberale.

In qualche modo tutto questo sarà un altro passo, l’apertura di una nuova fase in processo rivoluzionario che sarà bel lontano dall’essere portato a termine. Esso continuerà, e passerà per molti anni, se non decenni, di instabilità prima di giungere in una fase in cui le cose cambieranno profondamente sulla base di politiche economiche e sociali diverse. Per raggiungere questo obiettivo è necessario che si produca un cambiamento sociale e politico profondo. Tutto questo oggi non è ancora visibile. È perciò troppo presto per fare previsioni a questo proposito.

Quello che però possiamo dire è che è altamente improbabile che l’esercito cerchi di ripetere quello che ha fatto dopo il precedente colpo di Stato dell’11 febbraio 2011, quando, nello stesso modo, l’esercito ha allontanato Mubarak dal potere. Quello che adesso hanno fatto con Morsi. Essi hanno a lungo governato il paese la prima volta, prima dell’elezione di Morsi (tra il febbraio 2011 e la fine di giugno 2012, ndr). Mi sembra difficile che possano fare la stessa cosa perché hanno capito che questo è per loro dannoso e che di fatto oggi il potere in Egitto è diventato una sorta di patata bollente. Solo che… chi potrebbe desiderare di affrontare tutti i problemi che abbiamo davanti, uno dei quali, non certo il meno importante, è rappresentato dai Fratelli Musulmani stessi? Staremo a vedere cosa succede. Se questi ultimi verranno semplicemente sopraffatti, obbligati a capitolare, ciò accadrà con un accumulo di molto risentimento e ci sarà una forte opposizione da parte degli ambienti islamici verso chiunque verrà dopo Morsi.

D’altra parte vi è una situazione economica terribilmente difficile, molto preoccupante, con un paese sull’orlo della bancarotta, ai limiti di un profondo disastro economico. La sola politica proposta, da parte di un ampio schieramento che va da Morsi ad El-Baradei passando per i militari, corrisponde all’agenda delle misure neoliberali che l’FMI promuove in Egitto. È veramente difficile definire fino a che punto il Fondo monetario internazionale rappresenti nei fatti proprio quello che è stato criticamente definito da molto tempo, cioè il fondamentalismo monetarista internazionale. A tal punto fondamentalista nella sua prospettiva neoliberale da spingere l’Egitto, dopo tutto quello che abbiamo visto, ad approfondire ulteriormente l’applicazione di quelle stesse politiche economiche già attuate sotto Mubarak e che hanno portato a questa profonda crisi economica: nessuna crescita e, in ogni caso, creazione di pochissimi posti di lavoro, una disoccupazione enorme, in modo particolare tra i giovani. Come detto, essi continuano a preconizzare le stesse politiche. L’FMI ha esercitato forti pressioni sul governo Morsi affinché mettesse in atto ulteriori misure di austerità, con nuove riduzioni dei sussidi erogati sui prezzi del carburante e di altri prodotti di base. Essi continuano a sostenere tali politiche. Morsi non le ha attuate per la semplice ragione che non era in grado di farlo. Non era politicamente abbastanza forte per poterlo fare. L’unica volta che ha tentato di farlo ha assistito a una tale reazione che lo ha costretto ad annullare immediatamente, via Facebook, le misure che aveva annunciato. È stato davvero ridicolo.

È una vera e propria patata bollente. Proprio per questo, lo ripeto ancora una volta, quello a cui stiamo assistendo non è altro che un episodio di una lunga storia, che di fatto si trova ancora alle sue battute iniziali. Assisteremo a numerosi altri sviluppi nei prossimi anni in Egitto e nel resto del mondo arabo.

(traduzione a cura della redazione di Solidarietà - pubblicato da fabur49 il 10 luglio 2013 sul sito di Sinistra Critica)

 - “Egitto, la questione sociale alla radice dei grandi sconvolgimenti politici" (Intervista rilasciata il 30/06/13 di Gilbert Achcar)


(Leggi 2° parte)

VERSO IL KURDISTAN: INCONTRI E TESTIMONIANZE
(3° parte)

di Mirca Garuti

DIYARBAKIR: MADRI DELLA PACE e TUHAD FED, associazioni che si occupano di madri e famiglie che hanno perso o che hanno in carcere mariti, figli, padri, fratelli o sorelle.

 

ASCOLTA L’INTERVISTA AL DEPUTATO CURDO ALTAN TAN



Lasciati i festeggiamenti del Newroz, siamo ancora a Diyarbakir per gli ultimi due appuntamenti molto importanti.
Diyarbakir è una grande città in movimento piena d’energia, simbolo dell’identità e della tenacia del popolo curdo. E’ una città storica con monumenti, antiche case costruite in basalto nero ed ornate con decorazioni a stampo su pietra, moschee in stile arabo ed un imponente cerchia di mura che si snoda per quasi 6 km, con numerosi bastioni e torri.

Incontriamo le Madri della Pace nella sede della loro associazione. Ci accolgono sorridenti, sono tante, di tutte l’età e tutte portano sul capo un gran foulard bianco che ci ricorda subito altre Madri, quelle della Plaza de Mayo in Argentina. L’incontro con queste donne è emozionante. La “questione Donna” è un argomento molto sentito all’interno della nostra delegazione. Oltre all’associazione Alkemia, infatti, c’è l’avvocato Simonetta Crisci che fa parte della Casa internazionale delle donne a Roma e la giornalista Emanuela Irace che scrive per la rivista “Noi Donne”, un mensile di politica e cultura fondato nel 1944. L’associazione “Verso il Kurdistan”, da oltre dieci anni, prosegue un progetto di sostegno a distanza di queste donne, offrendo loro l’opportunità di poter continuare ad avere una vita dignitosa, in mancanza di mezzi di sostentamento.

Le Madri della Pace sono donne adulte, sono le madri dei detenuti, dei guerriglieri, dei rifugiati, dei martiri. Le loro vite sono spezzate, non per questo, però, sono rimaste immobili e mute. (vedi Madri della Pace - 2012)

Organizzate in associazioni, a Diyarbakir, Van e Istanbul, sono riuscite a trasformare il loro dolore in forza, diventando protagoniste di molte iniziative, sit-in e lotta per i diritti umani, per la pace e la democrazia. Ogni anno organizzano un congresso per decidere insieme nuove strategie e confrontarsi sui vari problemi e situazioni.
In un appello del 2002, le Madri sostenevano "Vogliamo costruire un futuro di pace e libertà per le future generazioni” Nell’appello precisavano inoltre le loro richieste: “Apertura di un dialogo di pace, amnistia generale per i prigionieri politici, abolizione della pena di morte, delle leggi d’emergenza, scioglimento delle formazioni paramilitari dei "guardiani di villaggio", diritto al ritorno dei profughi e alla ricostruzione, istruzione nella lingua madre, e un nuovo patto costituzionale di cittadinanza che garantisca pluralismo culturale e piena libertà d’espressione e di pensiero.”
La ragione della loro battaglia non violenta è rivolta alla riconciliazione tra il popolo curdo ed il governo turco. Da sempre cercano di portare all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale gli scopi delle loro azioni. Per questo raccontare le loro storie è importante, perché Raccontare significa “Esistere”.

 

  

 

Nonostante la sofferenza che traspare dai loro visi segnati dal tempo e dal dolore, sono donne serene e fiere di se stesse. Non hanno più paura, hanno visto la morte e la disperazione troppe volte per temere ancora la vita. Sono sedute intorno a noi, pronte a raccontare le loro storie senza versare nessuna lacrima.

   Husinè Guler ha 75 anni ed ha sei figli.  Descrive l’angoscia che la tormenta ogni giorno da 15 anni nell’attesa di ricevere qualche notizia sulla sorte di uno dei suoi figli, andato in montagna a combattere. Un altro figlio e suo marito di 80 anni sono stati condannati alla pena massima, 36 anni di carcere, arrestati, forse, durante un’operazione militare o in uno scontro armato. Il figlio ha già scontato 11 anni, mentre il marito 20. Husinè proviene da un villaggio vicino a Diyarbakir che fu bruciato dall’esercito. Oggi vive qui a Diyarbakir con due figli.

 

Serine Unat, ha dieci figli.  Non ha notizie di un figlio da 21 anni. Era uno studente di medicina. Gli mancavano solo 6 mesi dalla laurea, ma questo non gli ha impedito di partire per andare a combattere in montagna. Durante una perquisizione avvenuta nell’abitazione, suo marito è stato colpito violentemente alla testa dal calcio di una pistola da un militare dell’esercito turco. Dopo pochi mesi è deceduto. Da 50 anni vive a Diyarbakir. Ha dovuto lasciare il suo villaggio a causa della violenza dei “guardiani del villaggio”.

 

 

 

 

Nafiye Vigit, ha 5 figli: uno in carcere e due si nascondono, in quanto sono ricercati. Uno di questi era uno studente della facoltà di medicina al terzo anno. Suo marito è malato di cancro.

 

 

 

Leyla Astan ha perso il marito, quando aveva 25 anni in un incidente d’auto ed ha 4 figli. Ha trascorso la sua giovane vita fuggendo da un villaggio all’altro. Prima, per il suo villaggio dato alle fiamme e poi, di nuovo, a causa di una denuncia fatta alla polizia da un vicino di casa.
La sua famiglia - dice – era ricercata”. E’ stata quindi costretta a trasferirsi a Diyarbakir. Suo fratello era il Presidente del partito DEP (ora BDP) a Batman. E’ stato ucciso in un agguato al mercato. E’ stata un’esecuzione eseguita dallo Stato. Leyla vive con un figlio, mentre gli altri sono sposati. La sua sofferenza però non ha fine. Ora il suo dolore è per i nipoti. Il figlio di suo cognato, studente di medicina, ha dovuto abbandonare gli studi a causa della continua oppressione della polizia. Arrestato più volte e torturato, ha scelto la strada della montagna. E’ diventato martire. I suoi familiari però non hanno mai avuto il suo corpo. Un altro cognato è stato ucciso nella sua auto, una notte, nel 1993, mentre rientrava a casa, in un agguato in un villaggio nel distretto di Batman.  Lasciava tre figli piccoli.


Sultan Aksoy. Nel 1993 uno dei suoi figli è stato ferito, arrestato e torturato. E’ rimasto invalido. Nel 1994 è stato ucciso. Altri due figli hanno fatto 3 anni di carcere. La voce di Sultan, a questo punto, s’incrina, trattiene le lacrime, mentre racconta: ” I poliziotti hanno perquisito la nostra casa, con molta violenza, per tre volte, ma non siamo stati arrestati”. Sultan abitava in un paese vicino a Mardin. Il Governo turco, dietro minacce di morte, ha obbligato la sua famiglia ad abbandonare il villaggio. Sono stati quindi espulsi e si sono poi trasferiti a Gaziantep.
Sultan, guardandoci negli occhi, termina così il suo racconto: “Dopo tutta questa sofferenza, noi offriamo ugualmente la nostra mano per la pace”.



  L’ultima donna che vuole lasciare la sua testimonianza è Karain. Ha sei figli: uno, martire; uno, scomparso da 21 anni ed un altro che vive in Europa, dove si è trasferito dopo la sua scarcerazione.  Era un guerrigliero. Karain è di Diyarbakir e vive con due figlie. Suo marito è morto sotto tortura. L’ultima figlia, Fatma, è stata uccisa un anno fa. Era con un gruppo di 15 guerriglieri. L’esercito turco ha usato contro di loro armi chimiche. Fatma aveva 23 anni. Karain ci fa vedere, orgogliosa ma triste, la fotografia della figlia ritagliata da un giornale. 



Ascoltare le storie di queste Madri ci fa capire l’importanza di questi racconti. È sempre doloroso dover ricordare, ripercorrere momenti tristi, sofferti, ma è indispensabile per far capire cosa c’è dietro l’Associazione delle “Madri della Pace”. E’ questo il messaggio che, la delegazione italiana “Verso il Kurdistan” , rivolge a queste donne coraggiose. Questo deve essere il nostro impegno. Dobbiamo far conoscere a chi ci circonda, al mondo che è fuori di qui, chi sono queste donne, cosa e come hanno vissuto, cosa hanno patito e cosa, invece, oggi sono in grado di fare. Le Madri della Pace vanno in ogni luogo dove si svolgono azioni, iniziative, interventi per impedire disordini o scontri. Sono gli scudi umani del popolo curdo. Sono state in montagna sotto la pioggia e la neve, niente, le può fermare. La loro è la battaglia per la pace. In merito al discorso di Ocalan, hanno di nuovo ripetuto che loro pregano per la pace, sono pronte per la pace, ma “Aspettiamo un passo in avanti da parte del nostro governo turco”, hanno così concluso la nostra domanda.

Audio Ass. Madri della Pace 

 

  


 Ci troviamo ora nella sede di Tuhad Fed, federazione formata dai familiari dei detenuti del PKK e KCK. L’associazione è stata fondata nei primi anni novanta, mentre la federazione negli anni 2000.
La federazione è composta da 9 associazioni e 2 uffici di rappresentanza. Sono responsabili di 10 mila detenuti e 82 carceri. Il loro scopo è quello di sostenere le necessità sia dei detenuti e sia delle loro famiglie, dare sostegno giuridico e denunciare le violazioni dei diritti umani. La responsabile di Tuhad Fed dichiara: “ Siamo un’associazione per i diritti umani, non politica, siamo i portavoce dei detenuti, lottiamo anche per la libertà di Abdullah Ocalan e denunciamo le sue cattive condizioni carcerarie”. Ogni anno, il 4 aprile, ci ricorda, è il compleanno di Ocalan e si celebra ad Amara, suo villaggio natale, con una conferenza stampa e vari festeggiamenti. Da un anno e mezzo il loro presidente si trova in totale isolamento, non può vedere i suoi avvocati e non può far sentire la sua voce al popolo curdo. Per questo il popolo ha reagito duramente, compiendo molte azioni violente. All’interno delle prigioni, in quel periodo, le guardie carcerarie aggredivano i detenuti politici con estrema violenza, non facendo distinzione tra donne e bambini, contribuendo così, ad incrementare le numerose rivolte. In alcune strutture, diversi detenuti civili si univano a queste ribellioni, come nel carcere di Urfa.   A causa di un incendio, provocato proprio durante alcuni tumulti, morirono 13 detenuti civili, di cui uno solo era stato condannato, gli altri 12 erano ancora in attesa di giudizio. Per questo ci furono trasferimenti forzati di molti detenuti in altre carceri. La responsabile poi continua, affermando che ”Noi abbiamo 137.000 detenuti, il popolo per questa guerra è diventato molto povero e, la conseguenza è l’aumento di crimini comuni. Le guardie carcerarie si divertono ad umiliare i detenuti, specialmente se sono curdi.” Tuhad Fed fece una conferenza stampa ed organizzò una manifestazione. La polizia reagì molto violentemente, usando i soliti mezzi in uso, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua, con il risultato di lasciare dietro di sé ancora morti.

  


 I detenuti politici decisero, allora, d’iniziare uno sciopero della fame senza termine. Lo sciopero è iniziato il 12 settembre 2012 in sette carceri da 64 detenuti. E’ durato 68 giorni, coinvolgendo 78 carceri e circa 10.000 detenuti, sostenuti dalle famiglie, da intellettuali, scrittori e dalla sinistra turca.  Il 30 ottobre personaggi dello spettacolo in Piazza Taksim ad Istanbul decisero di dare voce ad alcuni dei 700 detenuti curdi in sciopero della fame, leggendo il testo di otto lettere, specificando i motivi della loro lotta: fine dell’isolamento di Ocalan, il diritto all’istruzione in curdo e di potersi difendere in tribunale nella propria lingua madre. 


Centinaia di accademici delle più importanti università del paese hanno poi firmato un appello per “La fine del conflitto e il ritorno immediato al tavolo delle trattative” e, giornalisti dei media di sinistra o pro-curdi hanno manifestato ad Istanbul scandendo lo slogan: “Non vogliamo scrivere notizie di morte”.  Personaggi famosi in Turchia, come la cantante Sezen Aksu o lo scrittore Yaşar Kemal, si sono infine appellati al primo ministro Recep Tayyip Erdoğan perché non lasciasse la voce dei detenuti inascoltata. La direzione delle carceri invece si accanì sui detenuti in sciopero, mettendoli in isolamento, con torture fisiche e non dando loro né acqua e zucchero e né vitamine. Il governo turco negò al mondo l’esistenza di questi scioperi in atto nelle sue carceri. Allo scadere dei 68 giorni, le condizioni dei detenuti erano diventate veramente critiche, al limite della morte. Il 17 novembre Ocalan, tramite una lettera consegnata a suo fratello Mehmet, sollecitava i detenuti ad interrompere subito lo sciopero della fame.(vedi prima parte Newroz di Diyarbakir)
Questo sciopero si è rivelato molto importante – continua la responsabile - perché ha visto l’unione di tutti i curdi che vivono nei quattro paesi del Kurdistan (Turchia, Siria, Iran e Iraq) insieme con quelli della diaspora, in altre parole a chi vive all’estero, anche con l’appoggio dei socialisti del popolo turco ed i difensori dei diritti umani. Questa solidarietà è la dimostrazione di quanto il proprio presidente è importante per il popolo curdo, al contrario, invece, da quanto sostenuto dal governo turco. Lo sostengono da 34 anni.” Ora è in atto un nuovo processo di cambiamento. Durante questi scioperi della fame, ci sono stati alcuni incontri, tenuti segreti, tra il governo turco e Ocalan. Nella prima settimana di gennaio scorso, invece, sono ripresi i colloqui e, questa volta, dandone notizia alla stampa, creando così un’ondata di speranza per il popolo curdo. Le lettere di Ocalan, per il suo popolo, non sono state una sorpresa, perché era già a conoscenza della sua linea di difesa: Ocalan non difende la guerra, ma, difende la lotta per i loro diritti. Durante i 14 anni d’isolamento ha lottato per creare e progettare una fraternità tra i popoli della Turchia ed i curdi. Nella lettera, infatti, – dice ancora la responsabile – “Ocalan esprime il suo desiderio affinché tutti i popoli della Turchia vivano uniti in una patria libera”. Questi messaggi sono, inoltre, importanti, sia a chi non conosce la questione curda e la figura di Ocalan per comprendere la sua idea e, sia  al popolo curdo per esaminare le nuove condizioni ed organizzare una nuova lotta cambiando i metodi finora utilizzati. Perchè questo sogno possa diventare realtà, occorre che questi “incontri” si trasformino in “trattative” e per “trattare” il Presidente Abdullah Ocalan deve essere libero. Solo così lo Stato turco si potrà dimostrare sincero.

La responsabile ricorda che Ocalan aveva iniziato questo processo di pace già nel 2009, presentando una road map che includeva anche il ritiro dei guerriglieri, ma con la garanzia, da parte del governo turco, di dare diritti civili costituzionali al popolo curdo. Processo durato fino al Trattato di Oslo nel 2011. Anche in quest’occasione si parlava del problema legato alle armi dei guerriglieri, ma prima di deporre le armi, erano necessarie serie e precise garanzie, da parte del Parlamento turco. “Tutto questo era già successo nel 1999 - ripete la responsabile - allora il governo turco non aveva fatto niente e furono massacrati 500 guerriglieri perché, rispettando gli ordini del loro Presidente, non avevano sparato”. Ora le cose saranno diverse.  Senza garanzia, i guerriglieri non deporranno mai le armi. Ocalan attende un segno positivo da parte del governo per continuare le trattative. La responsabile, inoltre, ci confida che, nell’incontro con i deputati curdi, Ocalan ribadisce che "Questa è l’ultima occasione per lo Stato turco, se non saranno accolte le sue richieste, ci sarà una nuova grande guerra popolare con almeno 50.000 curdi pronti a combattere per i loro diritti”. Per quanto riguarda invece le lettere scritte da Ocalan, quella che noi abbiamo ascoltato durante il Newroz a Diyarbakir, è quella scritta per il popolo e lo stato turco, mentre quella diretta alla sua organizzazione del PKK, è rimasta segreta. La responsabile ci fa presente che, in questo stesso momento, il comandante del PKK a Bonn sta rilasciando un messaggio in risposta alla lettera ricevuta da Ocalan. “Fra le tante richieste rivolte al governo turco – continua la responsabile – c’è anche quella inerente all’amnistia per i detenuti politici curdi, ma, dobbiamo aspettare la fine di giugno per avere una risposta. Questo è il periodo di tempo stabilito.” 

 

La responsabile porta la discussione sull’uccisione di Sakine Cansiz (una fondatrice del Pkk insieme al leader Ocalan nel 1978), Fidan Dogan e Leyla Soylemez, uccise il 9 gennaio scorso a Parigi e sui continui arresti del popolo curdo. Tutto questo danneggia la loro relazione con l’Europa. Noi vogliamo – incalza la responsabile – che voi facciate pressione sul vostro governo, non vogliamo solo progetti economici. L’Unione Europea dà molti soldi alla Turchia che acquista armi e ci uccide. Noi siamo uccisi dai vostri soldi. Voi potete fare critiche serie per queste scelte dei governi nel vostro paese. Anche i curdi della diaspora soffrono molto, come noi. Il nostro partito è considerato “terrorista” e noi lottiamo per quest’ingiustizia. Voi ci vedete, siamo forse terroristi? Tutto questo deve essere spiegato in Europa. La Germania e la Francia sono vicini al governo turco e l’Italia ha un ruolo molto passivo. Vi chiediamo di essere il nostro portavoce in Europa ed ognuno di voi può spiegare ai suoi amici, conoscenti, la nostra sofferenza e l’ingiustizia che, tutti i giorni, siamo costretti a subire”.  Il nostro incontro termina con gli ultimi aggiornamenti che riguardano, sia i lavori della diga sul sito di Hasankeyf ed il massacro di Roboski. Le opere per costruire la nuova diga sono sospese, le banche hanno ritirato i finanziamenti ed il governo turco sta cercando altri finanziatori. Per la questione di Roboski, lo stato voleva pagare un’indennità alle famiglie colpite dal massacro, ma loro hanno rifiutato. Lo stato continua a sostenere nel suo rapporto che non si è trattato di un massacro voluto, ma è stato un errore. Le famiglie di Roboski sono andate più volte ad Ankara per chiedere giustizia e vogliono portare questo processo alla Corte europea.


L’associazione Onlus “Verso il Kurdistan” dal 1999 ha attivato il progetto “Oltre le sbarre”. E’ un progetto di affido a distanza che permette il sostegno di famiglie che, dopo l’arresto del capofamiglia o dei figli, si trovano in condizioni economiche particolarmente difficili. Attraverso la formula dell’adozione, si può esprimere così la propria solidarietà ai detenuti politici e alle loro famiglie. Anche quest’anno al termine del nostro incontro, l’associazione “Verso il Kurdistan” consegna personalmente gli affidi raccolti in Italia.

AUDIO TUHAD FED

Documento sulle carceri Turche

 

 

  


Ultimo giro al bazar di Diyarbakir. E’ quasi sera, il cielo è grigio, ha appena smesso di piovere, giro tra le stradine del Gran Bazar, molti stanno chiudendo la loro giornata di lavoro, non c’è molta gente. Sono triste. Io parto, torno a casa. Sento su di me il peso dell’indifferenza, dell’immobilismo in cui versa la maggior parte delle persone che hanno ancora molti privilegi. Sento ancora le parole della responsabile di Tuhad Fed che ho da poco incontrato ed ascoltato. Riuscirò veramente ad essere ambasciatore di questo popolo? Riuscirò ad arrivare al cuore di tanti sconosciuti con i miei racconti e le fotografie delle donne, dei bambini e degli uomini di questo popolo dimenticato dal mondo? Oggi, con la crisi economica e di lavoro che regna in Italia ed in Europa, è ancora più difficile attirare l’attenzione verso queste situazioni, ma, come questo popolo fiero e dignitoso m’insegna, non perderò la fiducia. Continuerò a parlare di tutti quei popoli che lottano ancora per ottenere una giustizia, per non essere più oppressi, per non dover più andare in carcere perché sei curdo o palestinese, per poter, semplicemente, vivere.

Fonti: Osservatorio Balcani & Caucaso

02/06/2013


 

NELLA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLE DONNE
RICORDIAMO LE DONNE PALESTINESI PRIGIONIERE NELLE CARCERI ISRAELIANE

 

Mentre il mondo festeggia la Giornata Internazionale delle Donne, noi celebriamo la Palestina e le sue figlie. Festeggiamo la madre, la figlia, la sorella, la zia. Festeggiamo l'insegnante, la studentessa, l'operaia, la contadina, l'infermiera, la dottoressa, l'architetta, l'ingegnere. Festeggiamo l'organizzatrice, la dimostrante, l'attivista, colei che lancia le pietre, la combattente per la libertà. Festeggiamo la sorella nella lotta, la compagna che resiste. Festeggiamo la prigioniera, la donna ferita, l'esiliata, la martire. Festeggiamo la donna che possiede la terra, che la lavora, che la ama e la protegge. Festeggiamo Lina, Samar, Patima, Mona,  Asma, Nawal, Manal, Ena’am, Intisat, Ala’a, Hadeel, Salwa, Ayat ed Eman.

 E in questo giorno, ogni giorno ricordiamo le prigioniere palestinesi che hanno sacrificato la loro libertà affinché le generazioni future possano avere la libertà, e ne possano godere. In questo giorno e ogni giorno, ricordiamo quelle donne che hanno sacrificato la loro libertà per la libertà della Palestina. Dal 1967 più di 800.000 palestinesi, comprese 15.000 donne, sono stati arrestati e  imprigionati dalle autorità israeliane. Durante la Prima Intifada, almeno 3.000 donne sono state fermate e durante l'Intifada Al-Aqsa più di 900 sono state rinchiuse nelle prigioni israeliane. Ogni giorno ci sono irruzioni e si operano fermi. Alcune volte le donne fermate vengono rilasciate dopo pochi giorni, altre dopo poche settimane, oppure restano in detenzione a tempo indeterminato.
13 sono le donne palestinesi tra i 4.750 palestinesi attualmente nelle prigioni israeliane; la più anziana è Lina Jarbouni che viveva nei territori occupati nel 1948, ed è stata arrestata 11 anni fa. Le sue compagne di prigionia sono Mona Qa'adan, Nawal Al-Sa'adi, Asma Al-Batran, Manal Zawahreh, Ena'am Al-Hasanat, Intisat Al-Sayed, Ala'a Abu-Zaytoun, Ala'a Al-Jua'aba, Hadeel Abu-Turki, Salwa Hassan, Ayat Mahfouth e Eman Bani Odeh.

Le autorità israeliane commettono moltissime violazioni contro le donne detenute nelle loro carceri. Le più gravi di queste sono: il modo brutale con cui vengono arrestate davanti alle loro famiglie e ai figli in tenera età; i metodi fisici e psicologici usati durante gli interrogatori; la proibizione di vedere i loro figli; le carenze sanitarie ed assistenziali per le donne incinte; le costrizioni fisiche durante il parto; le punizioni, come l’isolamento e uso della costrizione fisica; la detenzione in luoghi inadatti; le perquisizioni usate dalla polizia carceraria a mo’ di provocazione; gli insulti, le aggressioni e l’uso dei gas lacrimogeni. Inoltre, sono maltrattate quando sono portate in tribunale o quando devono incontrare i familiari e perfino durante i trasferimenti da una sezione a un'altra del carcere. Talvolta vengono loro negate le visite dei familiari. Durante i periodi di isolamento le prigionieri politiche sono spesso messe insieme alle criminali, senza rispetto per le necessità dei figli che vivono con loro in carcere.
 

 Incinta, fa lo sciopero della fame- PatimaZakka ha 42 anni. Al momento dell’arresto era incinta. E' stata rilasciata in cambio di un video di Gilad Shalit durante la sua detenzione. Fatima era stata accusata di aver cospirato per fare un attentato suicida contro un autobus pieno di militari  israeliani. L'accusa aveva chiesto una condanna a 12 anni di prigione per la ladre di otto figli. "Non sapevo di essere incinta prima dell'arresto", dice Fatima. "L’ha scoperto un'infermiera quando ero detenuta. I miei otto figli sono rimasti a casa senza di me. Nessuno mi ha mai insegnato a far saltarein aria delle persone. E' vero che loro [gli israeliani] avevano ucciso mio fratello e molti miei parenti, ma questo succede a molta gente in Palestina." Fatima dice di essere stata sottoposta a diverse tecniche durante gli interrogatori. 
"Mi hanno torturato mentre ero incinta", dice. Mi hanno tenuto in una cella gelida, spostandomi di continuo da una cella a un'altra. Volevano che avessi un aborto spontaneo: i maltrattamenti mi hanno provocato perdite di sangue." Questo ha spinto Patima a iniziarelo sciopero della fame. Ha resistito 21 giorni. "Non mi hanno lasciato scelta," spiega. "Allah sia lodato. Non ho avuto un aborto spontaneo. Mio figlio è nato in carcere. Si chiama Youssef."

Partorire con mani e piedi legati. Samar Isbeh è stata arrestata quando aveva 22 anni, in seguito a una protesta studentesca. E' stata condannata a due anni e mezzo di carcere. Ora ha 28 anni e vive a Gaza, mentre la sua famiglia e quella di suo marito vivono in Cisgiordania. "Sono stata arrestata tre mesi dopo il mio matrimonio. Ero a capo di un Consiglio studentesco dell'Università islamica. Abbiamo organizzato una protesta contro l'occupazione. Sono stata arrestata a casa di mio marito a Tulkarm. Due giorni dopo, anche  mio marito è stato arrestato e condannato a 9 mesi di prigione, sebbene non avessero nulla di cui accusarlo," dice Samar.

Ora è stata deportata nella striscia di Gaza e le è stato negato l'accesso a Tulkarm e quindi non può vedere né il marito né i figli. "Ero alle prime settimane di gravidanza quando sono stata arrestata. Ho subito ogni tipo di tortura. Mi hanno tenuto per 66 giorni in una cella sotterranea. mi hanno costretta a stare in equilbrio  su un seggiolino, mi hanno tenuto in una cella gelida," dice Samar. Quando è iniziato il travaglio mi hanno legato le mani e i piedi: mi hanno fatto il taglio cesareo, non perché fosse necessario, ma semplicemente per odio. Mi hanno lasciato il bambino, ma hanno trattato anche lui come un prigioniero."

La storia di Samar riflette un'attitudine ed un odio che hanno radici profonde, non soltanto nei confronti del popolo palestinese, ma anche delle donne. Durante la prigionia è stata umiliata, maltrattata, esposta a situazioni che mettevano a rischio la sua vita e quella del bambino non ancora nato.  E’ stata legata come un animale in una stalla. La storia di Samar, tuttavia, non è l'unica, ma riflette la storia di continui abusi perpetrati nei confronti delle donne palestinesi. Tra il 2000 e il 2005, almeno 60 donne palestinesi hanno partorito ai  checkpoint israeliani per essere stato loro negato il trasporto in un ospedale vicino, e 36 bambini sono morti in conseguenza di questo.

Nel marzo 2012 nove donne palestinesi hanno presentato proteste formali contro la Shin Bet (i Servizi Segreti israeliani), per i maltrattamenti subiti durante i lunghi interrogatori. L’esperienza di Samar riflette i maltrattamenti che sistematicamente sono usati contro le donne palestinesi da parte delle forze di occupazione.

 Una protesta frequentemente sollevata da molte prigioniere politiche palestinesi, riguarda la pratica abituale di denudarle e sottoporle ad umilianti ispezioni intime e corporali. Le donne che rifiutano di sottoporsi a questi abusi, spesso sono inviate in isolamento.

Frequenti sono gli insulti degradanti ed a sfondo sessuale, da parte del personale carcerario, e le minacce di stupro (rivolte anche a membri della famiglia). Questi fatti, che caratterizzano l'esperienza carceraria delle donne palestinesi, dovrebbero essere considerati e trattati, come atti di sistematica violenza razzista e di discriminazione legata al sesso, operati dallo Stato. Uno Stato, che permette che le donne prigioniere, vengano abitualmente denudate e sottoposte ad ispezione corporale, come forma di punizione, viola gli obblighi che gli competono, ai sensi della normativa internazionale che tutela diritti umani e della Convenzione contro la tortura e ogni altro  trattamento crudele, inumano e degradante.

Fonti: http://avoicefrompalestine.wordpress.com/; http://www.middleeastmonitor.com/; http://samidoun.ca/; http://rt.com/news/; http://www.addameer.org/


Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese - AAMOD

08/03/2013


ROSARIO CITRINITI:

“INIZIO LO SCIOPERO DELLA FAME CON I DETENUTI PALESTINESI.

LA LORO LOTTA SARÀ ANCHE LA MIA”


Carissimi amici, accogliendo
l’appello promosso da Amnesty International,
l’appello lanciato dall’Arcivescovo Atallah Hanna,
l’appello lanciato dalle organizzazioni palestinesi,
tutti riguardanti i prigionieri palestinesi detenuti illegalmente nelle carceri israeliane molti dei quali in sciopero della fame da molti mesi ed alcuni in serio pericolo di vita ( SAMER ISSAWI, 200 GIORNI DI SCIOPERO DELLA FAME ) in solidarietà con la loro lotta di resistenza, dalle ore 17 di oggi lunedì 18 febbraio la loro lotta sarà anche la mia, con le stesse modalità inizierò uno sciopero della fame finché gli organismi nazionali e/o internazionali non prenderanno impegni reali per assicurare il rispetto dei diritti umani nelle carceri israeliane con un intervento immediato atto a salvare i detenuti in sciopero della fame e alla scarcerazione di tutti i prigionieri palestinesi in carcere senza né accuse né processi. (Da Amnesty International: ISRAELE: DETENUTO IN PERICOLO DI VITA )
Alcuni amici allestiranno presto una tenda per la notte nella gradinata della chiesa parrocchiale non essendo stato possibile portare avanti l'iniziativa dentro il luogo di culto. Un abbraccio e grazie per la partecipazione all'iniziativa.
 
Rosario Citriniti - Invictapalestina
Pentone (CZ) 18 febbraio 2013

SEGUI LA CRONACA DELLA PROTESTA

 

Mercoledì 27 febbraio

10° giorno di solidarietà con Samer Issawi

Cari amici, con lo sciopero della fame iniziato sul Sagrato della Chiesa di Pentone (CZ) abbiamo provato a scuotere l’indifferenza generalizzata, digiunando con Samer pubblicamente, ma l’Italia, a parte una piccola nicchia, è rimasta cieca e sorda al pari degli altri paesi.
 
Non abbandoneremo mai Samer e gli altri, ma da domani cambieremo forma di lotta, allo sciopero della fame, sostituiremo altre pratiche di solidarietà con i prigionieri politici palestinesi, più visibili e più efficaci. Le forme cambiano ma il nostro sostegno resta immutato.

Si ringraziano quanti hanno solidarizzato con l'iniziativa e anche chi, segnalando la propria indignazione, ha fornito motivo di riflessione.

Un abbraccio - Rosario

"Nessuno ha mai commesso un errore più grande di colui che non ha fatto niente perché poteva fare soltanto poco" - Edmund Burke


D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
Italo Calvino, Le città invisibili

Martedì 26 febbraio

Nono giorno di sciopero della fame in solidarietà con Samer Issawi e i prigionieri nelle carceri israeliane.

Ieri sera ho ricevuto la visita del mio amico medico Gianni, insieme abbiamo partecipato nel 2005 alla “Carovana dei Diritti” da Strasburgo verso Gerusalemme per chiedere in particolare l'applicazione delle risoluzioni Onu sulla Palestina. La Carovana fu bloccata da Israele sul ponte di Allenby e neanche in questa occasione le bandiere della pace, consegnate da  decine di associazioni dei paesi attraversati dal convoglio,   raggiunsero Gerusalemme. Gianni mi ha trovato in buona salute.
Ieri sera nella Casa Umanista c’è stato un breve incontro con altre associazioni torinesi ed insieme abbiamo concordato un momento informativo per Mercoledi  27 in piazza Castello angolo via Garibaldi, l’appuntamento è alle ore 17, chi vuole potrà poi partecipare al momento di preghiera contro tutte le guerre, organizzato dal Centro Sereno Regis nelle stesso luogo fino alle 19.
In questi giorni sono arrivate molte mail , la maggior parte di solidarietà all’iniziativa di sostegno ai prigionieri palestinesi altre di  critica all’iniziativa partita dalla Calabria:
Qualcuno suggerisce di fare scioperi della fame per i problemi italiani e occupandosi di politica estera non ritiene opportuno pubblicizzare l’iniziativa anche se scrive su un giornale nazionale.  Qualcuno ha anche ritenuto inopportuna e poco rispettosa la lettera scritta a Samer Issawi.
Io resto convinto che lo sciopero della fame  di Samer Issawi, insieme ad altri eventi accaduti negli ultimi giorni,  è stato causa scatenante delle rivolte in atto, è riuscito anche a creare uno sciopero più ampio, si parla di oltre 4000 detenuti che hanno aderito alla stessa forma di lotta. A questo punto è necessario il martirio? Io penso di NO.
 


Lunedì 25 febbraio
 
Ottavo giorno di sciopero della fame in solidarietà con Samer Issawi e i prigionieri nelle carceri israeliane.
 
Ho dormito al caldo della "Casa Umanista" in via Martini 4/b Torino.
Questa mattina c'è molto silenzio, il pc è sempre acceso e scorro le pagine della posta elettronica e Ringrazio Giorgio della Casa Umanista per i comunicati alla stampa, Antonino ed Enrico ISM-Italia per le informazioni postate alle varie organizzazioni.
Poi scorro la bacheca di FaceBook e penso a Vittorio! Penso a quanti ne parlano e a quanto lo usano per aumentare la propria notorietà, ma quanti lo imitano?
 
Il Centro Invictapalestina nasce in Calabria con un bellissimo intervento di Wasim Dahmash e Marco Ramazzotti, non sono tardati ad arrivare gli auguri di Vittorio, in quell'epoca era a GAZA e ci siamo meravigliati di vederci raccontati nel suo BLOG da lui, così lontano ma cosi vicino e attento.
 
Oggi apro le pagine di FaceBook  e ritrovo Daria & Maksim: Messaggi scritti col cuore e foto spiritose, poi scorro col mouse sulle tristezze della quotidianità... chi "scende il cane", chi augura buon giorno al mondo, chi prende l'ombrello intonato alle calze per andare a votare, chi ci descrive come ammazza il tempo tra un divano e una poltrona, e poi notizie più importanti che scorrono veloci e non riesci ad acchiappare in tempo per leggerle. Josè Saramago molti anni fa ci aveva avvertiti che saremmo diventati la società del mouse, molti click ma poche azioni, utenti anziché cittadini.
 
Il 25 febbraio 1994 il colono ebreo fondamentalista Baruch Goldstein, membro del partito estremista Kach, entrò nella sala di preghiera riservata ai fedeli musulmani, indossando la sua divisa da soldato. Aprì il fuoco sui fedeli col fucile d’assalto Galil, uccidendo trenta persone e ferendone 125. I superstiti lo picchiarono a morte. Non venne scelto un giorno a caso per il massacro. Il 25 febbraio era infatti il giorno in cui nel 1994 cadeva la festa del Purim (che commemora la liberazione del popolo ebraico nell’antico Impero Persiano, come riportato nel libro di Ester).
 
Oggi Samer Issawi è in fin di vita isolato in una cella  della prigione di Ramle, il fratello Fadi morì in quel massacro.

Domenica 24 febbraio

Oggi 7° giorno di sciopero della fame.

Lo sciopero continuerà presso la Casa Umanista via Martini 4/b, zona Università, Palazzo Nuovo, contrariamente a quanto comunicato precedentemente.

Sono arrivato a Torino e ho trovato accoglienza nella sede della casa umanista: La Casa Umanista è un luogo di cultura e di attività ispirate ai principi del Nuovo Umanesimo Universalista. Accoglie e promuove iniziative e realtà che hanno come obiettivo l’aggregazione sociale, lo sviluppo della creatività, l'affermazione dei diritti umani e l'evoluzione dell'essere umano. E' un luogo dove la nonviolenza diventa azione.

In serata  è stato possibile dedicare un momento a Samer Issawi, l'informazione e la verità sono sempre le prime vittime di ogni conflitto, aiutateci a smascherare in ogni luogo la falsa ricerca di pace di un paese che quotidianamente porta avanti la pulizia etnica del popolo palestinese.
Leggete: La pulizia etnica della Palestina (Pappé Ilan scrittore israeliano)


"D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda."
Italo Calvino, "Le città invisibili"


Sabato, 23 febbraio

Cari amici, oggi è il 6° giorno di sciopero in solidarietà con Samer.
Ieri sera ho partecipato alle funzioni religiose anche senza essere credente/praticante. Prima di iniziare il percorso della Via Crucis il Parroco ha letto un messaggio di denuncia sull'occupazione israeliana, alla fine delle 14 stazioni sono stato invitato a spiegare le ragioni della protesta, ho avuto così occasione di parlare nei dettagli di Samer Issawi nelle carceri israeliani ad appena 16 anni, poi ho letto "la denuncia", brano scritto da Don Nandino Capovilla per la 10° stazione della Via Crucis.

Finita la funzione religiosa grande sorpresa: Davanti alla tenda la 4° classe della scuola elementare al completo, armati di notes e matita pronti a riportare le mie risposte alle loro 10 domande, faranno un elaborato in classe e poi lo recapiteranno ad Invictapalestina. Il Centro  ha donato alla maestra libri sull'argomento e un Premio per l'elaborato più impegnativo e completo.
Abbiamo poi smontato la tenda e il digiuno è proseguito nel "Centro di documentazione" Invictapalestina finalmente al caldo.

Oggi alle 14.40 aereo da Lamezia per Torino, dove lo scioperò continuerà insieme ad altri amici in una tenda che nel frattempo sarà allestita in via Garibaldi nei pressi del Centro Studi Sereno Regis.

Riporto i 2 brani di seguito:

Lettura del Parroco ai fedeli.

Le Vie Crucis che celebriamo, non sono semplicemente archeologie devozionali o particolari spiritualità, che variegano il mondo cattolico. Esse sono scritte, ancora oggi, con il sangue di migliaia di oppressi che lottano per la loro liberazione. Tra questi ci sono i palestinesi che sono ogni giorno costretti in interminabili checkpoint, in uno stato di umiliazione continua e terribile. La Palestina è fatta di gente scacciata dalle proprie case, di agricoltori senza terra, di artigiani senza bottega. Il ripercorrere i passi di Cristo, sotto il peso di una condanna ingiusta, ci dovrebbe immerge proprio in quell’atmosfera quotidiana della Terra Santa, dove il dolore e l’umiliazione sono un dato costante per un popolo che percorre le stesse strade di Gesù, divenute calvario di morte, di paura e di insicurezza totale.

Su tutto questo, domina il tristissimo segno del muro. Quel muro che in Europa commemoriamo caduto, venti anni dopo, perché ci siamo accorti che era un terribile segno di inciviltà e di ingiustizia. Ma quello stesso muro, ben più raffinato e ben più ingiusto, divide ora ancor più di due popoli, due lingue, due culture, due religioni.

Purtroppo, la passione di Gesù non ha spazi privilegiati. Si ricompone in ogni angolo della terra. Perciò, la Via crucis diventa vivente, ogni giorno su strade che portano ai calvari di oggi.


Don Nandino Capovilla: 10° stazione, In prigione, in prigione

E' una montagna di dolore questo calvario su cui arrancano più di diecimila famiglie palestinesi.
Una serie di norme, in gran parte contrarie al diritto internazionale, condanna persino i ragazzini a marcire nelle prigioni israeliane anche per vent'anni, senza processo né capo d'imputazione.
Ragazzini rei di aver scagliato pietre contro i carri armati, ragazzini che una volta uomini, potrebbero imbracciare le armi per mal riposto desiderio di riscatto.  

Sette famiglie su 10 piangono i loro parenti senza sapere dove sono, ignorando le torture che subiscono, le volte in cui verrà rinnovata "la detenzione amministrativa", quella forma di arresto senza accusa su cui nemmeno gli avvocati potranno indagare.

Le madri di quanti sono in carcere si ritrovano spesso sulle piazze di Ramallah o di Nablus, per affidare a un megafono gracchiante tutto il grido che il cuore non contiene più, e tengono sul petto un piccolo quadro con la foto del figlio, come se fosse morto.

 

Venerdi 22 febbraio

Oggi 5° giorno di sciopero della fame in solidarietà con i detenuti palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Giornata di sole in Calabria e notte molto serena grazie a Don Gaetano, parroco di Pentone, che mi ha sottratto alla pioggia torrenziale offrendomi ospitalità nella sacrestia della Parrocchia San Nicola di Bari. Peppino ha portato una stufetta per asciugare sacchi a pelo e coperte, i ragazzi come tutte le sere latte e tè. Questa mattina Enzo è arrivato con la sua panda e mi ha portato al bar per un latte super caldo. Questa sera in Chiesa ci sarà la Via Crucis, subito dopo la tenda sarà smontata e lo sciopero continuerà in altro luogo fino alla liberazione di Samer. Voci danno la sua liberazione come imminente ma non ci fidiamo della "giustizia israeliana" soprattutto quella inflitta ai palestinesi. La tenda è metà di visite e riflessioni, ieri sera una riflessione molto importante... Siamo derubati del nostro tempo! Molti si rendono conto che vorrebbero fare... vorrebbero informarsi ma non hanno tempo, altri passeggiano per ammazzare il tempo, la riflessione si sposta dalla Palestina al nostro modo di vivere con la distruzione graduale della Comunità e il prevalere degli egoismi personali che poco per volta distruggono il tessuto sociale. Anche a Pentone c'è aria di campagna elettorale, più che in altri luoghi si discute, mi sembra con pochi contenuti, i nomi dei candidati, ancora una volta, mi sembra siano al centro dell'attenzione ma non i programmi e i progetti per una società rinnovata. Nessuno degli schieramenti politici si è pronunciato sui diritti negati ed in particolare sulla situazione Palestinese. Ieri ho ricevuto la visita del Sindaco di Pentone che ha contattato la Croce Rossa di Catanzaro per informare sulla protesta in Atto.

Segue la traduzione della mia lettera a Samer, fatta da Massimo (USA) chi può farla recapitare a Samer nelle carceri sioniste?

Dear Brother, dear Sami,

The echo of your struggle has reached Calabria (ITALY).

In a small town of this region, we have set up a ‘tent of hope, where, for the past four days, I have been on a hunger strike, in solidarity with you and with all our Palestinian sisters and  brothers, who are engaged in their daily resistance to the inhumane Zionist occupation, which has been trying to silence your aspirations to freedom and to thwart your indomitable will.
Here, in Calabria, I founded “Invictapalestina’ (Indomitable Palestine), and in these days, more and more people want to learn about the beautiful land of Palestine. They need me as a source of information through events, videos, books etc., and they need you as a luminous example of courageous resistance to the Israeli occupation, which you first experienced when you were barely 16.
Zionism is driven by an urge to suppress freedom, suppress life, in order to continue with its project of evictions, ethnic cleansing and Apartheid.
To counter this project, I have a propostion for you:
-          Dear Sami, choose life over martyrdom.
-          By choosing to end our hunger strike together, you in your prison in the Occupied territories and I here, in Italy, we continue to embrace the collective, daily struggle, that will soon bring, together with all people of conscience all over the world, to the liberation of your land.
As brothers, together we will wait for your liberation, will share the same food, the same house. We shall share your house in Palestine, rebuilt with the colors of Spring and of Calabria’s olive orchards, and my house here with the colors and the flag of your land.
I am not asking, of course, that your renounce your struggle. Mine is a call to life, to continue the struggle with renewed energy. Together we will embrace our mothers, our sisters and our brothers, you in Palestine and I in Italy..
Once freed from the Israeli chains, we will make sure that you can come to Italy to tell your story of resistance. We will welcome you with the songs of our Partisans, who liberated us from the Nazi-fascists. Afterwards, I will follow you to Palestine, and you will be my guide to the landmarks of revolt, resistance, art, and music of  your beloved Land.
I conclude with Mahmud Darwish’s words:
If you shout with all your strength and an echo replies
“Who’s there?”
You can say “Thank  you”  to your identity.
Looking forward to your reply
A big hug,    Rosario -- Invictapalestina


Giovedì 21 febbraio

Oggi 4°giorno di sciopero in solidarietà a Sami (mi hanno detto che è il suo diminuitivo)
Piove dalle ore 14, alcune donne hanno portato latte, acqua, tè, altre hanno portato via coperte e guanciali da asciugare in casa, Enzo ha portato 2 teli provvidenziali di plastica  che Vincenzo e Marta hanno steso sulla tenda per evitare ulteriori infiltrazioni d'acqua.
Ieri sera ho ricevuto visite da Mario, Antonio, Nicolas, Francesco, Peppe, Michele, Raffaele, Manuel, Matias. Il più piccolo 9 anni il più grande 14, con grande curiosità hanno fatto domande sulla Palestina, sono andati via tardi poi alcuni sono ritornati con i giubottini gonfi, poi un po' timidi hanno svuotato le tasche lasciandomi succhi e latte caldo in un microscopico termos.
La salute è buona e il morale alto, la lettera che segue è indirizzata a Sami, sarebbe da tradurre in arabo/inglese e recapitarla con le proprie organizzazioni direttamente a Sami.
I Link che seguono aggiornano quotidianamente la situazione in Palestina e in Calabria, Grazie Mirca e Gabriella, altre notizie sul sito di Palestinarossa.

Per contatti info@invictapalestina.org  o segreteria@invictapalestina.org , risponderà a tutti  Simonetta. https://sites.google.com/site/parallelopalestina/sciopero-della-fame

Caro fratello, Caro Sami
L’eco della tua lotta è arrivata in Calabria (ITALIA).
In un piccolo paese di questa regione abbiamo montato una tenda della speranza nella quale da quattro giorni anch’io faccio lo sciopero della fame in solidarietà con la tua lotta che poi è quella di tanti fratelli e sorelle palestinesi che ogni giorno s’impegnano per la fine dell’occupazione sionista che con crudeltà inaudita cerca di piegare le vostre  speranze di libertà e la vostra ferrea volontà.
Io, in questo piccolo paese della Calabria,  ho fondato InvictaPalestina,  Palestina  indomita, Palestina  mai vinta e in questi giorni di lotta sono molte le persone che vogliono sapere, informarsi, conoscere la bellissima terra di Palestina. Hanno bisogno di me per continuare ad informare con manifestazione, video, racconti, hanno bisogno di te come valoroso testimone della violenza israeliana che hai incontrato a soli sedici anni.
Il sionismo ha la necessità di spegnere la speranza, spegnere le vite,  per poter affermare il suo dominio con espulsioni, pulizia etnica e apartheid, per contrastare questo progetto  ti faccio una proposta.
Caro Sami,  ti propongo di scegliere la vita al martirio, scegliendo di comune accordo di sospendere il nostro sciopero per camminare insieme nella lotta di liberazione del popolo palestinese, t’invito a sospendere insieme,  io in Italia  tu nelle carceri israeliane,  lo sciopero in corso e sostituirlo con la lotta collettiva, quotidiana, che un giorno, insieme a tutti le persone che resistono e solidarizzano col tuo popolo, porterà sicuramente alla  liberazione della tua terra.
Come fratelli aspetteremo insieme la tua liberazione, divideremo poi lo stesso boccone,  la stessa casa. Condivideremo  la tua casa in Palestina ricostruita con i colori della primavera e gli ulivi della Calabria, la mia in Calabria con i colori e la bandiera della tua terra.
Quello che ti chiedo non è la rinuncia alla lotta, è un appello alla vita per poter lottare con più energia, abbracceremo insieme le nostre mamme,  le nostre sorelle e i nostri fratelli, insieme, io in Italia e tu in Palestina.
Una volta liberato dalle catene israeliane,  faremo di tutto per farti venire in Italia per raccontare la tua storia di resistenza, ti accoglieremo con le canzoni dei nostri partigiani che ci liberarono dal nazifascismo, io ti seguirò, poi, in Palestina e tu mi guiderai nei villaggi simbolo delle rivolte, della resistenza, dell’arte, della musica della tua adorata Palestina.
Concludo con le parole Mahmud Darwsh:
Se gridi con tutte le tue forze e l’eco ti risponde:
“Chi c’è”
Dì alla tua identità: Grazie!
In attesa di una tua risposta, un grande abbraccio Rosario - Invictapalestina

 

Martedì 19 febbraio

Secondo giorno di sciopero della fame sulle gradinate della chiesa San Nicola di Bari a Pentone (CZ) Sveglia alle ore 6,30 con la visita della guardia medica che ha confermato lo stato di buona salute. Visite di Michele, Enzo Marino e Lauretta detta da biccherara, madre di 13 figli 3 dei quali emigrati negli Stati Uniti, ha portato latte e tè col silenzio della mamma consapevole della sofferenza altrui, mentre altri nel chiacchiericcio vuoto quotidiano, con la discarica di Alli a pochi chilometri strapiena di rifiuti, un progetto di centrale biomasse nel vicino parco della Sila, con i giovani senza nessuna prospettiva di lavoro, polemizzano sulla opportunità dell'iniziativa. Molti in paese sono preoccupati per il freddo soprattutto notturno, ma come si può sentire freddo se fra una incursione israeliana e l'altra si sogna la Palestina libera?
Grazie per i messaggi di solidarietà di Miriam da Viterbo, Pina da Padova, Enrico, Giorgio e Consolata da Torino, Criss da Lisbona, Enrico da Roma, Silvia da Padova, Francesco da Milano, Patrizia da Gaza, Pati e Pamela da Lecce, Apicella da Londra, sicuramente ho dimenticato qualcuno!


Per informazioni, risposte, materiale da diffondere:  info@invictapalestina.org


TUNISIA: RITORNA LA PAURA
ASSASSINIO DI CHOKRI BELAID

di Mirca Garuti

 

Chokri Belaid, segretario del Partito patriottico di sinistra democratica (Watad) e portavoce  del Fronte Popolare, è stato ucciso mercoledì 6 febbraio, mentre usciva dalla sua abitazione, con quattro colpi d’arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata.

Chokri Belaid, fin dall'inizio della rivoluzione, aveva capito che era necessario creare una mobilitazione generale con i vari partiti di sinistra nel mondo per costruire un fronte unico democratico nel Mediterraneo. Sosteneva, inoltre che, per contrastare l'avanzata della destra religiosa in Tunisia, bisognava formare un'alleanza, anche con l’appoggio dei sindacati per avere così una forza maggiore all’interno dell’Assemblea Costituente. Gli obiettivi principali del suo partito (Watad)  si riassumevano in tre punti: diritti economici e sociali – diritti civili e diritti per le donne – sviluppo. Queste sono state le sue parole pronunciate un anno fa in un incontro avuto nella sede del suo partito durante il nostro viaggio in Tunisia. (v. speciale Alkemia)

A quell’incontro era presente anche Maurizio Musolino del PdCI che lo ricorda in un comunicato come “un progressista, un laico, un comunista, amante del suo paese e della sua gente. Per anni si era fieramente opposto al regime di Ben Alì e oggi era in prima fila per la difesa dei diritti delle donne e dei lavoratori tunisini. Chokri era un uomo del dialogo e ricercava con ostinazione l'unità delle forze di sinistra. Credeva nella laicità e nella convivenza”. Lo colpì inoltre, il suo continuo richiamarsi alla tradizione e al pensiero gramsciano e la sua consapevolezza dell'importanza di rafforzare la presenza della sinistra nel sindacato.
“Evidentemente tutto questo era insopportabile per quelle forze che lavorano alla restaurazione, tradendo le aspirazioni e i sogni di tanti uomini e donne liberi della Tunisia.”

Il suo pensiero politico espresso durante l’intervista rilasciata nel dicembre 2011 ad un anno dalla rivoluzione Tunisina
                                                                         

 

                   

    

         

 

La versione integrale dell’incontro con i membri del suo partito.

           

 

 


La notizia della sua uccisione ci ha colto di sorpresa ed, immediatamente, il nostro pensiero è andato al popolo tunisino, alle sue sofferenze, alla sua lotta, al suo desiderio di essere libero e di poter vivere una vita dignitosa. Una mano ha fermato la vita di una persona che credeva nella democrazia, nel diritto di tutti, nella laicità. Ora il paese è sotto choc, nel caos, il governo è in bilico. Il premier Jebali ha annunciato, infatti, la formazione di un governo d’unità che conduca la Tunisia alle elezioni. E tutto questo perchè?

Chokri Belaid, era soprattutto uno dei massimi esponenti del Fronte Popolare, coalizione delle forze della sinistra di classe, laiche e progressiste per il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione, di cui Watad ne è parte. Per questo Chokri era stato già oggetto di minacce e intimidazioni che lui stesso aveva denunciato come provenienti dai  militanti del partito al potere Ennadha (comunicato del Fronte Popolare Tunisino in Italia). Il suo partito fa parte, insieme a Nidaa Tounes (l’Appello di Tunisia) e Al Massar (La Via, sinistra) di una specie di gruppo dell’opposizione, avviato poche settimane fa, per tentare di mettere insieme la frammentazione dei partiti laici per ottenere una migliore posizione alle prossime elezioni. Nidaa Tounes, partito centrista fondato il 20 aprile scorso dall’ex premier ad interim Beji Caid Essersi,  è riuscito a costituire a novembre una sua delegazione all’interno dell’Assemblea Costituente. Recentissimi sondaggi sulle intenzioni di voto dei tunisini, per la prima volta hanno evidenziato un sorpasso, lieve ma indicativo, dell’opposizione laica di Nidaa Tounes nei confronti del movimento islamico Ennadha. E’ diventato il secondo gruppo in parlamento con l’accredito del 20% dei consensi.

Belaid, lo scorso 14 gennaio aveva partecipato alla manifestazione per ricordare il secondo anniversario della caduta del regime di Ben Ali. Più volte aveva accusato l'attuale governo di corruzione e di non aver realizzato gli obiettivi della rivoluzione.

L’ultimo intervento politico di Chokri Belaid risale alla sera precedente del suo assassinio alla televisione locale Nessma: è stato un atto d’accusa contro Ennahda. Belaid aveva, infatti, affermato che “Ci sono gruppi all’interno di Ennahda che incitano alla violenza, chiunque critica Ennadha può essere vittima di violenza”. La sua denuncia era diretta a Rachid Ghannouchi, accusato di difendere le squadracce dei fondamentalisti salafiti. Inoltre, sosteneva che il partito Ennahda stava cercando di ottenere il progressivo controllo della macchina dell’amministrazione, della giustizia ed anche dell’apparato militare e che questo avrebbe portato nuova violenza, ogni volta che all’Assemblea Costituente si sarebbe discusso di un articolo “retrogrado e contrario alla libertà”.  Chokri Belaid ha dunque, fino all’ultimo, cercato di difendere la laicità dello Stato ed i diritti di tutti.

La situazione in Tunisia, in questi due anni, è sempre stata molto critica, fragile. Il popolo, infatti, di fronte al nuovo sistema di potere al quale partecipano anche partiti laici - la sinistra moderata di Ettakatol e il Congresso per la Repubblica - è sfiduciato, deluso perché tutto questo potere ha pensato solo di occupare le sedie lasciate vuote da Ben Alì, senza affrontare nessuno dei problemi dei cittadini. Il risultato è quello di aver portato la Tunisia ad avere un bilancio economico in deficit, gli investitori in fuga, l’industria, il turismo e l’agricoltura fermi. Il Ministro delle finanze annuncia ulteriori aumenti del prezzo dei carburanti, dell’energia elettrica e del tabacco.

Il Fondo Monetario Internazionale incalza il governo con la richiesta di altre riforme strutturali. Di fronte a tutto ciò, il 23 gennaio scorso il Fronte Popolare rifiuta l’offerta del FMI per un incontro privato. Il FMI, accettando per 23 anni la dittatura di Ben Alì, ha in pratica imposto alla popolazione tunisina una politica antisociale e antidemocratica, determinando così solo povertà, disoccupazione e corruzione. Il Fronte Popolare propone invece al FMI un incontro pubblico durante un dibattito televisivo, ripetendo il concetto che il popolo tunisino, attraverso la rivoluzione, ha apertamente espresso la sua volontà di porre fine a questo tipo di politica. Il FMI, invece, non solo dimostra di ignorare quello che chiede il popolo, ma pretende di continuare con la stessa politica, anzi, con il nuovo piano di austerità e l’indebitamento estero firmato con il governo della Troika (Ennadha, Ettakatol e Congresso per la Repubblica) la rafforza. L’ultimo rapporto dell’esperto delle Nazioni Unite sul debito condanna i comportamenti dei creditori e del Fondo Monetario Internazionale e, sottolinea che “gli stati creditori e le istituzioni finanziarie internazionali non dovrebbero approfittare di una crisi economica, finanziaria o legata al debito estero per promuovere riforme strutturali nei paesi debitori”. Il Fronte Popolare, quindi, non riconosce alcuna legittimità al FMI nel continuare a decidere della sorte del popolo tunisino e chiede al FMI di cessare tutte le ingerenze e gli atti ostili contro di esso e la restituzione di ciò che è stato indebitamente sottratto al popolo tunisino. Il Fronte Popolare chiede anche che il governo della Troika cessi ogni collaborazione con il FMI e l’immediata sospensione degli interessi, il congelamento del debito ed una verifica sul debito tunisino che deve coinvolgere la società civile per comprendere come si è formato, il suo uso e per individuarne le responsabilità. Il 4 febbraio scorso il governatore della Banca centrale della Tunisia, Chedly Ayari, appare in conferenza stampa congiunta con i rappresentanti del FMI.

La Tunisia è precipitata di nuovo nel caos, dopo l’uccisione di Chokri Belaid.  Questo vile attentato è un segnale di debolezza da parte del partito di governo. Hema El Hamami, portavoce del Fronte popolare ha annunciato, in una conferenza stampa, di ritirare i propri rappresentanti dall'Assemblea Costituente, chiedendo le dimissioni del governo in carica e la formazione di un nuovo esecutivo ad interim per difendere il paese da questa nuova ondata di violenza.
Il giornalista Rached Cherif scrive sul giornale Nawaat “Belaid aveva ricevuto molte minacce per la sua opposizione tenace alla politica del governo attuale. Aveva denunciato a più riprese l'aumento della violenza politica”. Il portavoce del governo, Samir Dilou ha affermato che si è trattato di un “crimine abominevole”. Il primo ministro tunisino, Hamadi Jebali di Ennahda ha condannato naturalmente l'omicidio sostenendo che, “è stato un atto criminale, un attacco terroristico non solo contro la persona di Belaid, ma contro tutta la Tunisia” ed ha annunciato le dimissioni del governo per sostituirlo con un governo di tecnici. Su tutte le tv italiane, è apparso, in diretta da Strasburgo, il presidente della Repubblica tunisina Moncef Marzouki che, di fronte ai parlamentari europei, ha così commentato l'omicidio del leader dell'opposizione Chokri Belaid: “Un assassinio odioso e brutale che rappresenta una minaccia all'intero paese. Belaid lo conoscevo bene, era un amico”. Il partito Ennadha ha sconfessato, però più tardi quanto annunciato dal suo primo ministro Jebali. Questo dimostra solo una grossa frattura all’interno del partito che può portare solo ad un aumento delle proteste.

Dedico queste poche righe a Chokri Belaid che ho conosciuto un anno fa nell'occasione di un viaggio in Tunisia alla scoperta di un paese dopo la rivoluzione popolare. E’ sempre molto triste parlare di una persona che viene uccisa perché contraria ad un’idea di potere ma, quando questa ”persona” prende forma, ti ha parlato, spiegato le sue idee, la sua lotta, il suo credere nei diritti, allora tutto si complica, arriva lo sconforto, una tristezza infinita che ti avvolge in un immenso silenzio.
L’ideologia di Chokri Belaid si inspirava ad Antonio Gramsci, rivolgo quindi a Chokri ed a tutto il popolo tunisino questo suo pensiero:

“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. chi vive veramente non
può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria,
non è vita. Perciò odio gli indifferenti”  -  Antonio Gramsci –

07/02/2013


L'IMPERO IN DECLINO

Intervista con Gilbert Achcar


Gilbert Achcar è professore presso la Scuola di Studi Orientali e Africani dell'Università di Londra. Il suo ultimo volume s'intitola Gli Arabi e l'Olocausto. Narrazioni della guerra arabo-israeliana (New York, Metropolitan, 2010). Il suo prossimo libro, La gente vuole: Un'analisi radicale della rivolta araba, sarà pubblicato nel mese di giugno 2013 (Los Angeles, University of California Press).

È stato intervistato da David Finkel della redazione di Against the Current (Controcorrente).


Against the Current: Dal suo punto di vista particolare, europeo e vicinorientale assieme, può descriverci come sono state viste le elezioni negli Stati Uniti all'estero?

Gilbert Achcar: Come si può immaginare, le reazioni sono state diverse in Europa e nel Vicino Oriente. In Europa, c'è stata una specie di sospiro di sollievo per la rielezione di Obama. Romney infatti era visto sotto una luce molto negativa dalla maggior parte delle persone e il commento più comune è stato di soddisfazione per il fatto che non sia stato eletto.

Nel Vicino Oriente, invece, questa volta c'era molta indifferenza, diversamente dal 2008, quando ci fu grande entusiasmo per Obama, per le ovvie ragioni del suo colore e del suo background rispetto alla tradizione dei presidenti degli Stati Uniti. In seguito, questo ha portato Obama ad essere visto, nella migliore delle ipotesi, come molto debole nei confronti della classe politica statunitense e soprattutto nei confronti di Israele, per il modo in cui la sua amministrazione si è prostrata di fronte all'arroganza e alle provocazioni israeliane.
Questo ha creato un'enorme delusione perché la gente aveva creduto che le cose sarebbero davvero cambiate.
Inoltre, in generale, quest'amministrazione ha effettivamente dovuto gestire l'impero nel suo punto più basso di prestigio nella regione, essendo venuta immediatamente dopo la devastante amministrazione Bush, disastrosa dal punto di vista dell'impero degli Stati Uniti.

Lo scrittore neo-conservatore Charles Krauthammer nel 1990 aveva annunciato un "momento unipolare" (incontrastato potere degli Stati Uniti dopo il crollo del blocco sovietico). Non molto tempo dopo l'11 settembre 2001, però, con l'invasione dell'Iraq del 2003, l'amministrazione Bush è riuscita a dissipare tutto il capitale politico che gli Stati Uniti avevano accumulato sin dal 1990.
Nell'ultimo periodo, gli USA hanno dovuto affrontare un calo reale della loro influenza, soprattutto nel Vicino Oriente, dopo il picco della loro egemonia nel 1990-'91, quando intrapresero la prima guerra contro l'Iraq.
Il ritiro USA dall'Iraq, senza avere raggiunto neanche uno degli obiettivi fondamentali che l'amministrazione Bush aveva in mente quando iniziò l'invasione, è una sconfitta tremenda e un disastro per il potere degli Stati Uniti.
Penso che sia stato Henry Kissinger a dire che se gli Stati Uniti fossero stati sconfitti in Iraq sarebbe stato "peggio del Vietnam". Credo che questo sia esattamente ciò che è accaduto, perché quel che è in gioco in Medio Oriente e nel Golfo è molto più di quello che rappresentava il Vietnam.

USA isolati sulla Palestina

ATC: Questo ci porta direttamente alla mia prossima domanda sul significato del voto dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite sullo status di "Stato non membro" per la Palestina. Un fatto che sembra molto più di una sconfitta per gli Stati Uniti di qualsiasi altra cosa, e che potrebbe significare molto per la realizzazione concreta di uno stato palestinese.

G.A.: Esatto, questa è una delle prove più evidenti di quello che stavo dicendo. Si tratta di un vero e proprio schiaffo a viso aperto che ha messo a nudo un grado di impotenza dell'impero abbastanza sorprendente, e che non avevo mai visto dall'ultimo periodo di declino nel 1970. Ora è evidente quanto gli Stati Uniti e Israele siano isolati assieme a Canada, Repubblica Ceca e alcuni stati insulari fittizi del Pacifico.

Il modo in cui l'Europa in particolare ha rotto con Washington è solo un indicatore di questo declino della potenza imperiale, soprattutto rispetto a ciò che sta accadendo nel Vicino Oriente. Il livello di mancanza di una risposta concreta a quanto accade nella regione e i tentativi di adattarsi alla situazione, senza alcuna reale alternativa all'investimento nei Fratelli Musulmani come si sta tentando di fare, tutto questo indica quanto l'egemonia regionale degli Stati Uniti stia perdendo terreno.

Per quanto riguarda quanto questo abbia che fare con "la soluzione dei due Stati" (Israele- Palestina), bisogna dire che per tutti i paesi che hanno votato a favore, o che si sono astenuti sulla risoluzione, ovviamente, il voto era strettamente collegato all'opinione che hanno di questa soluzione. Hanno ritenuto che un voto negativo sarebbe stato interpretato come un rifiuto di questa formula che sostengono ormai da anni. Questo infatti è anche il modo in cui l'Autorità Palestinese ha presentato la questione, e cioè come "l'ultima occasione per la soluzione dei due Stati".
Tra i palestinesi il risultato è stato per lo più visto come una vittoria morale dopo una lunga catena di sconfitte di tutti i tipi e di fronte a una forza militare schiacciante come quella di Israele, che continua il suo accanimento contro Gaza. Il voto è venuto anche sulla scia di un'altra vittoria morale, il fiasco dell'ultimo attacco di Netanyahu su Gaza.

ATC: L'Europa continuerà a mantenersi fortemente contraria all'espansione di Israele nella zona "E1"? (Il progetto intorno all'area di Gerusalemme Est annunciato da Israele immediatamente dopo il voto delle Nazioni Unite, che taglierebbe la Cisgiordania in due).

G.A.: Questo resta da vedere, ma l'espressione di rabbia questa volta è nettamente superiore rispetto alle precedenti occasioni. È un segnale specifico nei confronti dell'espansione di una colonia che è qualitativamente più dannosa delle decisioni passate, per il problema di Gerusalemme Est e le sue implicazioni per l'integrità territoriale di un ipotetico Stato palestinese.

Netanyahu ha preso il voto degli Stati Uniti come un via libera, quindi sono davvero gli USA ad avere la responsabilità diretta di questo, anche se Washington ha cercato di prenderne le distanze. Israele non avrebbe avuto il coraggio di sfidare il mondo e Washington, ma può sfidare tutti gli altri fino a quando gli Stati Uniti rimangono in gioco.
Come tutti sappiamo, la leva finanziaria europea su Israele è relativamente limitata. Esistono mezzi attraverso i quali potrebbero esercitare pressioni, come lo stop agli accordi commerciali privilegiati o la pratica reale del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), ma una cosa del genere è talmente al di là delle politiche europee che è difficile da immaginare.

Il nocciolo della questione è che Israele dipende soprattutto dagli Stati Uniti, ed è impressionante che anche questo presidente, Obama, che per molti versi ci si aspettava essere favorevole ai palestinesi, abbia rinunciato a qualsiasi possibile lotta.
Se si guarda ai decenni dopo Eisenhower, è l'amministrazione Bush Senior che appare come quella che ha avuto la maggiore influenza su Israele. Nel 1991, ad esempio, proprio al culmine dell'egemonia degli Stati Uniti, ha spinto il governo di Yitzhak Shamir a partecipare ai negoziati di Madrid, minacciando di sospendere le garanzie per un prestito di 10 miliardi dollari che Israele in quel momento stava cercando. Da allora non abbiamo più visto niente di simile.
Naturalmente Bush Junior era in totale sintonia con i governi più di destra in Israele e dal 2001 abbiamo assistito ad uno spostamento continuo verso l'estrema destra. Spostamento che è proseguito anche con l'amministrazione Obama e che non è altro che un riflesso del profondo declino dell'influenza degli Stati Uniti: Washington non è in grado di esercitare pressioni sul suo alleato più affidabile.

ATC: Abbiamo la sensazione che ci sia un accordo grazie al quale Israele non attaccherà l'Iran contro la volontà degli Stati Uniti, che sarebbe comunque folle, in cambio gli Stati Uniti permettono ad Israele di avere mano libera sui territori occupati palestinesi e su Gaza. Ha senso un'ipotesi di questo tipo?

G.A.: Credo che queste "trattative", se vi piace, non siano esplicite, ma possono esistere implicitamente. L'amministrazione Obama ha effettivamente dovuto affrontare le minacce di un'azione unilaterale da parte di Israele. Bisogna aggiungere che la rielezione di Obama è una sconfitta per Netanyahu, che scommetteva su Romney, nella convinzione che Romney avrebbe acconsentito, e forse anche partecipato, ad un'azione militare contro l'Iran.

La verità è che non solo l'amministrazione Obama, ma anche gli alti ufficiali del Pentagono sono molto preoccupati per una tale prospettiva (quella di un'azione israeliana). Non sono disposti a correre un grosso rischio solo per fare piacere a Netanyahu. Lo stesso accade anche nell'esercito israeliano. Ci sono indiscrezioni che trapelano dal settore della sicurezza e dagli ambienti dell'intelligence israeliani che sostengono che sarebbe un'impresa folle.
L'Iran ha missili e razzi e così pure Hezbollah in Libano. Non sarebbe un'azione senza rischi come invece è stato l'attacco a Gaza.

Il risultato finale è che Netanyahu, dopo aver indetto le elezioni per gennaio, con la sconfitta di Romney, ha dovuto ridurre le sue ambizioni ed ha attaccato Gaza in una manovra elettorale sostitutiva del suo desiderio di colpire l'Iran. Azione che sembra essere un fallimento.
Quanto a cosa accadrà dopo, penso che sia difficile immaginare che Israele lanci un attacco su un bersaglio come l'Iran senza un chiaro nulla osta degli USA. Sarebbe così folle che non credo che l'esercito israeliano accetterebbe.

ATC: Lei aveva previsto con precisione che le vittorie delle rivolte non violente della primavera araba non si sarebbero ripetute nel caso di regimi come la Siria. Come vede la crisi che è esplosa lì e cosa stanno cercando di fare le forze esterne?

G.A.: Le politiche di Stati Uniti ed Europa, Gran Bretagna in particolar modo, si sono concentrare per evitare quello che considerano un cambiamento "caotico". Il motto di Washington, già da subito, a partire dal gennaio 2011, è stato "transizione ordinata", una frase ripetuta innumerevoli volte dai funzionari degli Stati Uniti, Obama e Hillary Clinton inclusi.
Questa è la "transizione ordinata" che hanno imposto allo Yemen con l'aiuto del Gulf Cooperation Council (GCC) delle monarchie del petrolio: una specie di sistemazione che ha depredato il movimento yemenita popolare della sua vittoria, un compromesso del tutto frustrante che non funziona perché ha lasciato il paese completamente instabile. Hanno negoziato un accordo in cui il presidente ha consegnato il potere al suo vice, mentre lui continua ad operare dietro le quinte e la sua famiglia gestisce l'esercito, un reale tentativo di interruzione del processo rivoluzionario.
Questo è esattamente ciò che gli Stati Uniti cercano di ottenere quando c'è una grande rivolta di massa e il cambiamento diventa inevitabile, come in Libia, dove l'obiettivo dell'intervento è stato quello di cercare di controllare il processo. Anche se non potevano farlo via terra perché i ribelli libici non avrebbero accettato truppe straniere, hanno continuato a negoziare con il figlio di Gheddafi (Seif al-Islam). Ma la rivolta non rispetta limitazioni di questo tipo, e il regime è stato poi abbattuto dagli insorti nella sua stessa capitale.

In Siria hanno nuovamente cercato di ottenere una "transizione" senza dare un reale sostegno alla rivolta. Naturalmente non c'è un intervento militare diretto degli Stati Uniti o della NATO, e il rifiuto di armare la rivolta spiega il forte squilibrio tra la ribellione armata e il regime. Obama stesso aveva parlato di una "soluzione Yemen" per la Siria. Non molto tempo fa, il primo ministro britannico David Cameron aveva detto che la sicurezza di Assad avrebbe potuto essere garantita se avesse lasciato il paese.

Questa è arroganza imperiale senza limiti. Indica chiaramente quali sono le reali intenzioni di queste persone, e quanto sia sbagliato credere che Washington stia cercando di rovesciare il regime. La loro preoccupazione principale è ciò che Washington e Londra chiamano "la lezione dell'Iraq". Lì infatti, hanno smantellato l'esercito e l'intero Stato, per poi accorgersi che era un grave errore. In realtà, anche questa è una valutazione sbagliata dei motivi della loro sconfitta in Iraq, che sono ben più profondi, ma, dal loro punto di vista, hanno commesso un errore enorme nello smantellamento dello stato baathista, e non vogliono ricaderci.
Stanno ripetendo la stessa formula in Siria: cercano di trovare un accordo con tutti i settori disponibili del regime. Non stanno ottenendo successo in questa direzione, non più diquanto non sia accaduto in Libia, perché il conflitto è tale, dopo tanta distruzione perpetrata da parte di un regime e una famiglia regnante, disposti a distruggere il loro paese, con intere città come Homs e Aleppo - mi ricorda l'attacco israeliano in Libano e la distruzione della periferia di Beirut nel 2006 - che diviene inimmaginabile che la gente sia disposta a convivere con qualsiasi settore abbia fatto parte di una tale macchina statale organizzata su una base confessionale com'è questa. Credere che sia possibile è una pia illusione.

ATC: Dunque, in che direzione crede che si evolverà la situazione a questo punto?

G.A.: Non credo che ci sia altra possibilità che la fine del regime, la situazione è completamente irreversibile. Perciò la domanda importante non è se il regime cadrà, ma in quanto tempo ciò avverrà. Più tempo ci vorrà e maggiore sarà il costo umano e anche il costo politico, perché questo protrarsi della situazione sta creando le condizioni per undeterioramento della scena politica anche all'interno della rivolta.
In assenza di un sostegno occidentale, il supporto alla rivolta è venuto dalla monarchia saudita, incanalatasi attraverso le forze fondamentaliste sul campo. È la profezia del regime che si realizza, perché fin dall'inizio ha detto che si trattava di una "congiura dei salafiti e di al-Qaeda" e ha fatto del suo meglio per produrre questo risultato. Tutto questo,naturalmente, è molto preoccupante, ed è per questo che più a lungo prosegue il conflitto e peggio sarà per il futuro della Siria.

È nell'interesse del futuro della Siria che il regime cada molto presto. Purtroppo sembra piuttosto difficile, ma se si fa il confronto con l'anno scorso, quando la situazione stava appena cominciando a militarizzarsi, il regime ha perso molto terreno e diventa chiaro quanto velocemente le cose possano svilupparsi. Dipende anche da ciò di cui cui dispone la rivolta, ci sono notizie infatti di un sostegno da parte del Qatar e dell'acquisizione da parte dei ribelli di missili terra-aria. Ma in mancanza di simili elementi, o senza un collasso interno alle forze del regime, la situazione può benissimo durare per diversi mesi, anche un anno o più.

ATC: Infine, c'è la nuova crisi politica in Egitto. Può darci una valutazione in breve?

G.A.: Il problema in Egitto non è una sorpresa perché, da un lato, la Fratellanza Musulmana è di gran lunga la più potente forza organizzata dopo il crollo delle istituzioni del regime di Mubarak. Quindi c'era da aspettarsi la loro vittoria elettorale. Il punto chiave però non è che abbiano guadagnato il potere, ma la fragilità reale della loro vittoria. La vittoria elettorale di Morsi infatti, non è stata travolgente, e agli occhi del movimento di massa lui non comanda alcuna autorità.
Appena decretata la concentrazione del potere, ecco che si solleva una grande e ostinata spinta che gli si oppone. I Fratelli Musulmani hanno una forza molto potente, in grado di organizzare le masse, ma quel che c'è di nuovo è che ormai c'è un gran numero di persone pronte a dire "No". Nel lungo periodo questo regime è in realtà molto debole, una "tigre di carta", perché non ha soluzioni per tutti i maggiori problemi economici e sociali che hanno portato alla rivolta anti-Mubarak.

Le radici profonde di tutto questo si possono trovare nelle difficoltà economiche e nell'enorme disoccupazione. Morsi nel suo programma non ha nulla se non una politica di continuazione col precedente regime. Ha appena firmato un accordo con il Fondo Monetario Internazionale contenete le stesse condizioni di sempre, che creeranno un'insoddisfazione ancora maggiore.
Così, lo sconvolgimento che ha avuto inizio nel mese di gennaio 2011 è tutt'altro che finito.
Siamo solo all'inizio di un processo rivoluzionario molto lungo, e il rapido discredito che sta calando sui Fratelli Musulmani in Egitto e in Tunisia è motivo di ottimismo per il futuro, non lo è invece il diffuso pessimismo soprattutto in Occidente, dove in molti avevano delle aspettative errate ed ora giudicano negativamente l'intera rivolta.

Gennaio / febbraio 2013, ATC 162

(Traduzione dall'inglese Fatima Sai)


IL MEDIORIENTE NELLE ULTIME SETTIMANE
di Cinzia Nachira


    Il Medioriente nelle ultime settimane è tornato alla ribalta dell’attenzione internazionale. Ormai da molti mesi l’interesse in Occidente per le rivolte che stanno cambiando il volto del Medioriente e del Maghreb è diminuito perché gli eventi in corso non soddisfano le attese occidentali, deludendo tutti coloro che si aspettavano un percorso lineare. In realtà in Occidente sono stati sottovalutati due fattori. Per un verso alcuni  paesi coinvolti erano succubi di dittature ultra decennali e per questo ogni forma di espressione culturale, politica, sociale o sindacale è stata repressa e conseguentemente molti dei leader che oggi sono protagonisti della scena politica sono tornati dopo lunghi periodi di esilio in Occidente, dove avevano trovato rifugio. Per un altro verso, l’elemento che oggi desta più smarrimento in Occidente è il ruolo di primo piano svolto dalle organizzazioni politiche islamiche che all’inizio delle rivolte nel dicembre 2010 sembravano essere marginali. Ma, come spesso succede, la realtà è ben più complessa di ciò che si desidera e quindi ci si trova ad un bivio: cercare di comprendere ciò che avviene, districandosi fra la complessità dei dati sul terreno, oppure ignorare la realtà adattandola ai propri desideri.
   Inoltre, molti paesi della regione negli anni scorsi sono stati teatro di gravi crisi interne, soprattutto legate all’impoverimento generalizzato delle popolazioni, fin dagli anni ’90 del XX secolo. Ma ciò che due anni fa ha reso  diverse dalle precedenti le rivolte che sono  scoppiate è stato il prevalere del loro carattere politico e del loro coraggio. Questo elemento, più degli altri, è diventato la miccia che non  si è ancora spenta.
   Per quanto il mondo arabo rappresenti da diversi punti di vista un insieme organico è anche vero che ognuno dei paesi mediorientali hanno vissuto vicende specifiche che oggi li influenzano. Sottolineare questo aspetto è necessario anche per non commettere l’errore di porre tutto sullo stesso piano. Questo rischio è particolarmente presente e da alcuni anni si intrecciano due elementi: per un verso la sconfitta dei partiti laici che dagli anni sessanta fino alla fine degli anni settanta del secolo scorso avevano tentato di imporsi sulla scena politica e, per un altro verso, come conseguenza, l’affermarsi delle organizzazioni politiche islamiche. Spesso si è stati tentati, e lo si è tutt’ora, di risolvere questo enigma annullando le differenze.


    L’Occidente cambia tattica


   Una cosa è certa: nessuno si aspettava che dalla Tunisia nel dicembre 2010 si estendesse un movimento di massa di grandi proporzioni. Le potenze Occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa, hanno tentato all’inizio di rinnovare il loro appoggio ai dittatori che fino a poche ore prima erano dei loro alleati e clienti di vecchia data e di consolidata lealtà. Ma quando è diventato chiaro che la dinamica era irreversibile, perché le piazze non si svuotavano malgrado la repressione brutale, il loro atteggiamento è cambiato. Il quesito che si poneva sia agli Stati Uniti che all’Europa era semplice: per garantire i propri interessi nella regione conveniva sostenere o abbandonare i vecchi alleati? Evidentemente, nel decidere la risposta venivano presi in considerazione una serie di diversi elementi, fra cui anche il fallimento delle politiche che dal 2001 fino al 2009 avevano avuto come risultato principale quello di impantanare l’Occidente nelle due guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq. Era molto più difficile uscire da queste guerre di quanto non fosse stato scatenarle.
   Inoltre, le guerre scatenate in Iraq e Afghanistan avevano avuto anche il “risultato” di radicalizzare tutti i movimenti di opposizione nel mondo arabo, per cui scegliere dei nuovi alleati per l’Occidente era un’operazione tutt’altro che facile. In questo contesto, l’unica soluzione era quella di modificare le alleanze, per non intaccare i rapporti, strategicamente importanti, con Israele e  i paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa. Gli stessi paesi del Golfo erano tutt’altro che esenti dal “contagio” delle rivolte: dall’Arabia Saudita al Bahrein, passando per il Qatar. Anche in questi paesi l’opposizione riprendeva vigore e le manifestazioni popolari mettevano in pericolo i paesi ricchi di petrolio. Questi per l’Occidente non solo rappresentavano interessi legati al petrolio ma erano anche importanti sedi di basi militari statunitensi organizzate all’epoca della guerra del Golfo nel 1991. Tutto questo andava preservato e in questo senso gli interessi statunitensi ed europei andavano coincidendo in modo sempre più evidente con quelli delle monarchie petrolifere. Fino ad oggi queste monarchie hanno saputo intrecciare i metodi più classici di “contenimento” delle rivolte interne attraverso una fortissima repressione. Grazie alle loro immense ricchezze hanno potuto sostenere le forze politiche islamiche nei diversi paesi in rivolta (in Tunisia hanno largamente finanziato Ennhda). In questo modo i partiti islamici hanno potuto facilmente riorganizzarsi e vincere le elezioni. Ovviamente, l’influenza dei paesi del Golfo è stata molto apprezzata dagli Stati Uniti che alla fine hanno stabilito buoni rapporti con le forze politiche islamiche che fino al novembre 2010 erano considerate terroristiche e destabilizzanti.
   In questo modo, pur non avendo giocato un ruolo di promotori delle rivolte, i partiti islamici hanno potuto accreditarsi nella regione come i nuovi interlocutori dell’Occidente. Nel gennaio 2011 l’amministrazione statunitense auspicava “una transizione nell’ordine” e questa sembrava essersi realizzata. Questo elemento, inoltre, si era rivelato un punto importantissimo di forza anche nell’orientare l’atteggiamento occidentale verso i paesi nei quali le rivolte erano sfociate in guerre aperte: in Libia e in Siria. È qui possibile solo un accenno, ma è essenziale sottolineare il fatto che tanto il regime di Gheddafi quanto quello degli Assad, pur avendo una facciata “antimperialista”, soprattutto dal 1991, intrattenevano stretti rapporti sia con gli Stati Uniti che con l’Europa. Il ruolo diverso della Libia e della Siria nella regione ha determinato il diverso approccio occidentale.
   Ancora una volta, però, la realtà ha smentito coloro che pretendevano che le “primavere arabe”, come sono state definite in Occidente, fossero un argomento chiuso, dopo la vittoria elettorale dei partiti islamici in numerosi paesi (dal Marocco all’Egitto). Soprattutto in Tunisia e in Egitto, pur avendo i partiti islamici vinto le elezioni e prevalendo nelle assemblee costituenti dei due paesi, le manifestazioni contro il nuovo assetto non sono in realtà mai terminate.

  Per gli interessi occidentali nella regione, in particolare l’Egitto oggi riveste un’importanza fondamentale. È ormai chiaro che gli Stati Uniti e l’Europa hanno scelto come interlocutore privilegiato il presidente Mohamed Morsy. Ma, al contrario del regime di Mubarak, i Fratelli Musulmani devono preoccuparsi di non perdere né il consenso popolare e neppure gli equilibri ereditati dal vecchio regime che essi hanno l’interesse a preservare. Questi equilibri riguardano soprattutto l’esercito che in Egitto è una parte essenziale del potere economico, visto che gestisce direttamente una quota importante degli aiuti militari statunitensi ed è nello stesso tempo formato da una base sociale popolare. Con il decreto presidenziale Morsy si concedeva dei poteri che ponevano le sue decisioni al di sopra di qualunque tipo di controllo ed estendevano contemporaneamente i poteri dell’esercito tentando di neutralizzare gli appetiti dei generali. Fin dalla presa del potere di Nasser tutti i presidenti egiziani provenivano dall’esercito, anche se poi svestivano la divisa a favore degli abiti civili, e questo dà l’idea del rilievo dell’esercito nella società egiziana.
   Morsy, il primo presidente non militare, aveva quindi la necessità sia di accreditarsi come interlocutore affidabile verso l’Occidente, sia di dare l’impressione che la transizione dopo Mubarak fosse reale. Un’occasione gli è stata offerta da Israele che attaccando Gaza il 14 novembre scorso pensava di mettere in difficoltà l’Egitto. Al contrario, Morsy aveva saputo sapientemente sfruttare la crisi di Gaza. In primo luogo il Cairo è diventato il crocevia dei negoziati, ma nonostante questo Morsy non ha rinunciato a fare dichiarazioni di fuoco contro Israele, come non avveniva da decenni. L’invio del primo ministro egiziano a Gaza sotto i bombardamenti ha aperto la strada alla fine dell’isolamento politico di Gaza e della leadership di Hamas. Inoltre, dopo il primo ministro egiziano, a Gaza si sono recate delegazioni di tutti paesi in qualche modo coinvolti nella vicenda, dalla Turchia fino alla Lega Araba.
Tutto questo ha definitivamente convinto gli Stati Uniti che il quadro regionale era cambiato e che mantenere un atteggiamento di difesa ad oltranza delle scelte militari di Israele metteva a rischio i propri interessi strategici.


   L’aggressione a Gaza e il riconoscimento dell’ONU


   Quanto analizzato finora dimostra chiaramente che la Palestina non poteva restare estranea agli eventi che si susseguivano a livello regionale. E se anche il popolo palestinese è rimasto ai margini delle rivolte arabe, inevitabilmente nessuno poteva onestamente pensare che queste non lo avrebbero influenzato. E questo anche perché Israele è invece rimasto saldamente ancorato alla vecchia visione regionale, sperando contro ogni evidenza che la nuova situazione potesse essere gestita con i metodi consolidati: guerra e copertura occidentale. In questo contesto regionale reso ben più fluido dalle rivolte e dai nuovi equilibri le  leadership palestinesi, quella dell’Autorità Nazionale Palestinese – in Cisgiordania – e quella di Hamas – a Gaza – sono state costrette a fare i conti con un distacco sempre più profondo tra le loro politiche e il popolo che intendono rappresentare.
   Hamas, evidentemente, ha avuto maggiore possibilità di rientrare nel gioco regionale per due motivi: perché gode ancora del fatto di aver vinto le elezioni legislative nel 2006 e perché grazie al prevalere dei Fratelli Musulmani ha maggiore visibilità e credibilità. Questo spiega anche il motivo per cui Khaled Meshaal, il leader di Hamas in esilio, nei mesi scorsi ha deciso di rompere l’alleanza con la Siria trasferendo il suo quartier generale a Doha, in Qatar. Quando in ottobre l’emiro qatariota si è recato a Gaza in visita ufficiale, Hamas cominciava a trarre i profitti delle proprie scelte politiche. Con l’ultima aggressione contro Gaza, Israele ha dato una nuova dimostrazione di aver compreso poco o nulla del mutato scenario politico regionale ed internazionale. A spingere Israele a scatenare la nuova, terribile, aggressione contro Gaza appare chiaro che è stata la fine dell’isolamento politico di Hamas molto più che le elezioni israeliane che si svolgeranno il prossimo 22 gennaio. Inoltre, fin dai primi giorni dell’aggressione di Israele contro Gaza era evidente che Hamas era riuscito a prevalere sulle altre organizzazioni politiche palestinesi della Striscia. Non a caso Meshaal, una volta giunto al Cairo per tentare di arrivare ad una tregua, ha potuto parlare anche in nome del Jihad Islamico. Inoltre, Hamas è in procinto di rinnovare i suoi quadri dirigenti e Meshaal, pur dichiarando di non ripresentarsi alla guida dell’ufficio politico di Hamas, deve affrontare anche il problema, soprattutto dopo il 21 novembre (giorno dell’entrata in vigore del cessate il fuoco con Israele), del grande consenso ottenuto dalla leadership dell’interno. Non è la prima volta che nello scenario politico palestinese si propone la dicotomia tra le direzioni politiche in esilio e quelle che invece sono sul campo. Certamente, Meshaal è riconosciuto come l’architetto della tregua, anche se questa è stata possibile, ancora una volta, soprattutto grazie al mutato clima generale. Il suo trionfale ritorno a Gaza, per il 25° anniversario di Hamas, è stato anche un grande rito. Gigantografie dello Sceicco Yassin, leader carismatico fondatore dell’organizzazione nel 1987 e ucciso dagli israeliani nel 2004, erano al fianco di quelle di altri leader assassinati, da Abdel Rantisi fino ad Ahmed Jaabari. Meshaal era circondato dai membri del governo in carica a Gaza e il suo discorso ha sottolineato un dato: la direzione politica in esilio riconosce pienamente l’autorità di quella dell’interno. Tutto questo con una folla immensa di palestinesi con le bandiere verdi di Hamas. Meshaal nel suo discorso ha anche ribadito che non vi è riconoscimento possibile di Israele e che la resistenza continuerà fino alla liberazione. E ha concluso sostenendo che la riconciliazione è a portata di mano: un evidente invito all’Autorità Nazionale Palestinese e a Fatah. Inoltre, e non accadeva dalla rottura del 2007, una delegazione di Fatah era presente a Gaza. In definitiva, un discorso ampio e generico volto a preservare i risultati politici ottenuti con il cessate il fuoco. Ma non solo.
   L’Autorità Nazionale Palestinese durante la settimana di bombardamenti a Gaza sembrava definitivamente messa in un angolo. Ma nonostante il grande vantaggio di Hamas, anche grazie al tacito consenso internazionale, resta il fatto che in ogni caso l’organizzazione islamica palestinese non offre all’Occidente quella affidabilità dimostrata dall’ANP e da Fatah fin dal 1993.

 Per questa ragione di fondo gli Stati Uniti hanno deciso di giocare su due tavoli contemporaneamente: far accettare il cessate al governo più oltranzista nella storia di Israele, mantenendo tuttavia un atteggiamento che reiterava l’accettazione del “diritto alla difesa” di Israele. Su un altro piano, pur chiedendo a Mahmud Abbas di rinunciare all’iniziativa di chiedere all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di ammettere la Palestina come Stato non membro e con status di osservatore, in realtà non hanno fatto nulla perché la richiesta dell’ANP venisse rifiutata. A differenza di Israele, gli Stati Uniti hanno compreso che i palestinesi con il voto dell’Assemblea Generale hanno ottenuto molto meno che con gli accordi di Oslo nel 1993. Anzi, passata l’euforia per le “vittorie” di Hamas e dell’ANP è probabile che la realtà si presenti pesantemente gravida di pericoli. Primo fra tutti quello che Israele imponga un accordo che registri di fatto la parcellizzazione della Cisgiordania creata con la costruzione del Muro di separazione unilaterale, iniziata da Israele nel 2002.
   Evidentemente, il voto favorevole dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre  ha dato un sostegno fondamentale all’ANP di Abu Mazen, aiutandolo ad uscire dall’angolo in cui era finita. Ma tutti sanno che il consenso popolare seguito all’esito della votazione è legato da un fragile filo. Per questa ragione sia gli Stati Uniti che l’Europa hanno reagito in modo negativo all’annuncio israeliano della costruzione di 3000 nuove abitazioni nei pressi della colonia di Maale Adunim alle porte di Gerusalemme. In definitiva, il cessate il fuoco del 21 novembre raggiunto con Hamas e il voto favorevole dell’Assemblea Generale sono due facce di una stessa medaglia. È evidente che Hamas e l’ANP, se vogliono conservare il consenso, dovranno raggiungere un accordo di riconciliazione, tutt’altro che scontato, e questo dovrà significare per il popolo palestinese, in tutte le sue componenti, un miglioramento effettivo delle condizioni di vita.
   Ovviamente, è comprensibile il sollievo e perfino la gioia sia dei palestinesi della Striscia di Gaza sia della popolazione della Cisgiordania. Le stesse scene di giubilo collettivo si videro nel 1993 all’indomani della firma degli accordi di Oslo e tuttavia furono sufficienti pochi anni perché l’illusione fosse dolorosamente svelata. Certo, il clima politico regionale ed internazionale di oggi è profondamente diverso da quello degli anni novanta del secolo scorso e ciò che emerge fino a questo momento è che saranno determinanti sia le scelte delle due direzioni politiche palestinesi, sia la disposizione dell’Occidente a farsi valere nei confronti di Israele. In questo senso le speranze dell’Occidente di “chiudere” il dossier palestinese-israeliano con artifici diplomatici privi di sostanza politica potrebbe rivelarsi, ancora una volta, un boomerang i cui effetti sarebbero per l’ennesima volta dolorosamente pagati dal popolo palestinese.

Dicembre 2012


PREMIO STEFANO CHIARINI 2013

Anteprima intervista a
Ascanio Celestini

di Mirca Garuti e Novara Flavio


A pochi giorni dalla consegna del premio Stefano Chiarini abbiamo raggiunto telefonicamente Ascanio Celestini vincitore dell’edizione 2013 per porgli alcune domande non solo riguardo al premio che gli verrà consegnato il 2 febbraio a Modena, ma anche in merito alla questione palestinese.
Dall’esperienza negativa vissuta anni addietro in Israele, definito “…una sorta di laboratorio. Nel senso che se funziona li, questa cultura del confine e dei tanti confini interni, può funzionare da qualche altra parte. E questo fa veramente paura.”, all’appoggio alla nave Estelle della freedom flotilla 3 che aveva come obiettivo rompere l’assedio di Gaza e portare aiuti umanitari al popolo di Palestina. Un azione da lui stesso definita “un modo concreto per spezzare il vincolo che ci vede attivi solo come crocerossine che fanno l’elemosina”.

 

Ascolta l'intervista

 
La giuria ha deciso di assegnare il Premio all'attore Ascanio Celestini (che consiste nel pagamento per un anno dell’adozione di un bambino palestinese rifugiato in Libano) per sottolineare il suo impegno attraverso il teatro e interventi televisivi a rompere il muro ipocrita del “politicamente corretto” che colpisce gli strati più deboli delle popolazioni e che da sempre rappresenta uno dei principali strumenti dell’informazione nell’opera di manipolazione sulla questione palestinese.


Il Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila, Alkemia,
Circolo de Il Manifesto

presentano:

QUALE FUTURO SULLA PALESTINA

Incontro con

FAUSTO GIANELLI - Giuristi Democratici

e

MICHELE GIORGIO - Autore del libro NEL BARATRO

(I Palestinesi, l’occupazione israeliana, il Muro, il sequestro Arrigoni)

“Tre palestinesi sono stati uccisi oggi nei Territori occupati…”. Per questa notizia non c’è bisogno di andare a vedere che giorno è. È ininterrottamente lo stesso giorno, quasi un intercalare temporale nell’arco di più di mezzo secolo in Medio Oriente. Che quotidianamente ripropone, scriveva Eduard Said «la tragedia di essere vittima delle vittime». Dalla prefazione di Tommaso Di Francesco

 

 

Michele Giorgio*: "Israele ha raccolto per tre anni informazioni su Gaza attraverso i suoi servizi segreti e per questo che ritengo che l'attuale offensiva solo inizio poteva essere stata colpendo obiettivi mirati, ma non in seguito. Gli ulteriori bombardamenti sono stati volutamente mirati a colpire le abitazioni. Per non parlare dell'attacco portato anche dalla marina militare".

1° PARTE  

 

 

Fausto Gianelli: "Non è vero che il riconoscimento dell'ONU della Palestina come stato osservatore ne riconosce l'autorità. Anche perchè la Palestina era già uno stato. Esisteva e quindi questa è un accettazione, un riconoscimento già dato. Bisogna però vedere se questo può nei fatti cambiare le cose in seno alla Corte Internazionale. Anche perchè già in precedenza non aveva risposto alle richieste di giustizia dei palestinesi.
Grave è che si continui a sottovalutare la questione degli omicidi mirati. Soprattutto perchè non si prende il considerazione che non è solo una questione di Giustizia ma di Democrazia. Un capo di stato può decide di uccidere senza un regolare processo e preventivamente che possa commettere un reato. Una grave prassi, per il Diritto Internazionale, che pare stia diffondendosi. Mi risulta, infatti, che anche il presidente Obama ogni settimana si trovi in una riunione con la CIA a valutare e decidere tra i nomi riportati su una lista".

2° PARTE

 

* Michele Giorgio è originario di Caserta, dove è nato nel 1961. Giornalista professionista, vive a Gerusalemme ed è corrispondente dal Medio Oriente del quotidiano Il Manifesto; collabora inoltre con altre testate giornalistiche. Da due anni amministra il sito d’informazione Near East News Agency (Nena news)



                   

GAZA: TREGUA DALLE ORE 20,00 DEL 21/11/2012

I dettagli dell'accordo tra Israele e Hamas:

- Israele fermerà l'operazione militare contro Gaza e tutti gli attacchi da terra, mare e cielo comprese le incursioni ai confini e omicidi mirati;

- Le fazioni palestinesi fermeranno le aggressioni da Gaza, inclusi lancio di razzi e attacchi ai confini;

- Tutti i valichi saranno aperti da 24 ore dopo il cessate il fuoco, riducendo le limitazioni nel passaggio di beni e persone da e per Gaza:

- L'Egitto sarà garante del rispetto dei termini del cessate il fuoco.

(traduzione di Nena NewsAgency)



OPERAZIONE “PILLAR OF CLOUDS”
(COLONNA DI NUVOLE)
GAZA SOTTO ASSEDIO

di Mirca Garuti

Sta succedendo di nuovo! Gaza è di nuovo sotto assedio. L’incubo di “Piombo Fuso” è alle porte.
Sembra impossibile, ma è tutto vero. Come al solito, i titoli dei giornali e le televisioni riportano il dolore, la paura, lo sdegno della popolazione israeliana colpita dai razzi lanciati dalla Striscia di Gaza. Arriva solo la notizia dell’uccisione di tre civili israeliani, due giovani donne ed un uomo,  a Kyriat Malachi, 25 chilometri a nord di Gaza. Il missile che ha centrato la casa è stato lanciato dopo che un missile israeliano, con una perfetta operazione mirata, aveva ucciso il capo militare di Hamas Ahmed Al-Jabari,  mentre guidava la sua automobile in una strada di Gaza.

Sul quotidiano “Libero” di oggi, 16 novembre, è apparso un articolo di Maria Giovanna Maglie con il titolo “Israele è sotto attacco: fa benissimo a sparare”, nel quale afferma che Israele ha risposto  “dopo che per settimane e settimane i missili di Gaza sono caduti sui suoi cittadini a centinaia”. Continua così: “Immaginatevi di abitare al confine con la Svizzera, a Como, e che da oltre confine vi bombardino ogni giorno. Non reagite, continuate a subire, non proteggete gli abitanti?... Israele è un piccolo Stato e un grande Paese, vive circondato e assediato, è il nostro avamposto occidentale in terra ostile, ha un esercito e una intelligence adeguati alla bisogna e al rischio che corre…”

Strano modo di commentare i fatti, ad essere assediati e costretti a vivere in una prigione a cielo aperto, sono i palestinesi, non gli israeliani! E’ il popolo palestinese che si trova sotto occupazione e che ha il Diritto di difendersi e di ribellarsi all’occupante israeliano.

I Gazawi non possiedono le stesse armi degli israeliani, hanno solo i razzi e le pietre. Non possiedono i bunker per proteggersi, mentre la popolazione israeliana ha un rifugio in ogni casa. Eppure è Israele che si deve proteggere e tutti lo gridano e chiedono la fine delle incursioni da Gaza verso Israele e non il contrario.
Il Ministro italiano degli Esteri Giulio Terzi si dice molto preoccupato per “questo contesto di forte tensione” generato dal lancio di “missili qassam con seri rischi per la popolazione”, quella israeliana,  s’intende! La diplomazia italiana si affida al ruolo moderatore dell’Egitto. La reazione di Terzi è la prima reazione ufficiale del governo italiano, dopotutto la “sicurezza di Israele” è una delle priorità dell’agenda Monti.

Israele non ha risposto solo ora al lancio dei missili da Gaza, ma lo fa di continuo, anche senza scusanti. Non ne ha bisogno perché il mondo occidentale lo assolve sempre.
Se prendiamo le varie notizie, a partire per esempio dal mese di giugno 2012, relative ai movimenti israeliani verso la Striscia di Gaza, possiamo ben comprendere la terribile situazione in cui vive Gaza, un milione e mezzo di persone assoggettate ad un selvaggio terrore continuo. Gli accordi di Oslo nel 1993 hanno decretato Gaza e la Cisgiordania due singole entità territoriali e, da allora, Israele e gli Stati Uniti hanno iniziato il loro programma per separarli completamente.

I Gazawi sono stati oggetto di una punizione crudele. Israele e gli Stati Uniti hanno deciso di punirli, come sostiene Noam Chomsky, in un suo documento redatto dopo aver visitato Gaza dal 25 al 30 ottobre scorso, per aver votato “nel modo sbagliato” per Hamas nel 2006 alle prime elezioni del mondo arabo. Puniti per aver fermato, un anno dopo, il colpo di stato preparato dagli Stati Uniti per instaurare l’ordine e la sicurezza d’Israele. Questo però ha portato all’intensificazione degli attacchi militari israeliani, raggiungendo l’apice a fine dicembre 2008 e gennaio 2009, con l’operazione “Piombo Fuso”. Da allora si continua  con la chiusura dei confini, un estenuante embargo e bloccando tutti i tentativi da parte di molti attivisti internazionali di arrivare a Gaza per tentare di rompere questo lungo ed illegale assedio. (vedi Alkemia alla Gaza Freedom March).

La cronaca di guerra “omessa” a Gaza di questi ultimi mesi:
03- 04 giugno 2012  – l’aviazione israeliana ha colpito diverse aeree nella Striscia: una casa abitata nel campo profughi di Nuseirat (7 persone ferite fra cui 4 bambini), tre aree disabitate, una fattoria a Khan Younis e a Beit Lahia, una fattoria che produce formaggi nell’area di Zaitoun.
Gli  israeliani hanno comunicato di aver colpito obiettivi militari. Molti media internazionali hanno riportato questa dichiarazione. La verità è un’altra. La verità è fatta di case civili ridotte in macerie, di soffitti crollati di notte, di famiglie ridotte in povertà, di bambini spaventati e feriti.

23 giugno 2012  – sesto giorno di attacchi israeliani su Gaza, sale a 16 il numero dei morti, fra cui un bimbo Ali Moutaz Al Shawaf  di 5 anni e mezzo, e più di 60 sono i feriti.

27-28 agosto 2012  – attacco israeliano su Gaza: l’aviazione ha bombardato diversi siti di Hamas e della resistenza palestinese ed inoltre carri armati hanno fatto irruzione nel campo di Al Burej. Israele ha dichiarato di aver colpito questi siti in risposta ad alcuni missili lanciati qualche giorno prima da Gaza verso il sud di Israele. Questi missili non provocano danni e, in questo caso, sono stati lanciati da gruppi di salafiti . Il bollettino degli attacchi: 7 feriti.

19-20 settembre 2012 - l’aviazione israeliana ha attaccato il sud di Gaza, nella zona ad est di Rafah: due cittadini sono morti ed un terzo è clinicamente morto. Le vittime sono l’ufficiale Ashraf Saleh Abu Marana, 33 anni e l’assistente Anis Abu Enein, 36 anni , entrambi lavoravano per il Ministero degli Interni e della Sicurezza al confine di Rafah. Il terzo Nedal Nasrallah è ricoverato all’ospedale. Successivamente all’attacco, i droni hanno continuato a sorvolare durante la notte su tutta la Striscia di Gaza.

30 settembre 2012 – la resistenza palestinese risponde alle aggressioni. Le Brigate del martire Abu Ali Mustafa hanno dichiarato di aver attaccato una torre militare israeliana sul confine a nord-est di Beit Lahia con un ordigno esplosivo. Le brigate rivendicano il diritto alla resistenza contro l’occupazione. La resistenza ha colpito una delle torri da cui gli israeliani hanno fatto irruzione in territorio palestinese due giorni prima, sparando sui pescatori ed uccidendo il giovane pescatore Fahmy Abu Ryash di 23 anni con proiettili “ad espansione” o “dum dum” (proiettile che, in una convenzione internazionale, ritenendolo troppo barbaro, ne era stato limitato il suo uso nelle guerre, ad eccezione dell’impiego verso le bestie e nei movimenti coloniali)
07-08 ottobre 2012 – raid aereo israeliano sul campo profughi “Brazil” a sud di Gaza: 1 morto e 9 persone ferite, di cui 5 bambini, una madre Sabrin Hussein Al Magossi di 23 anni con una figlia di un mese e un figlio di 2 anni e mezzo.
Sono state anche colpite due moschee. Il 07 ottobre,  4 pescatori sono stati arrestati dalla marina militare israeliana mentre si trovavano a circa 2,5 miglia dalle coste di Beit Lahia a nord di Gaza.
I pescatori sono stati rilasciati ma non hanno riavuto la barca.
Israele ha imposto un limite illegale di 3 miglia entro cui i pescatori di Gaza possono pescare. Gli accordi israelo-palestinesi di Jericho del 1994 concedevano loro 20 miglia nautiche dalla costa. La stessa Marina Militare non rispetta questo limite che Israele ha imposto illegalmente, arrivando anche a poche centinaia di metri dalla costa, impedendo del tutto ai pescatori di pescare.

12-13 ottobre 2012 – raids aerei israeliani: sono stati colpiti spazi disabitati nei campi profughi di Al Bureij e Nuseirat e un sito della resistenza a nord di Gaza city. E’ stato danneggiato l’asilo di Um Al-Nasser. Un’esplosione ha ucciso due uomini in motocicletta in Massoud Street in Jabalia, a nord di Gaza. Il primo uomo è morto sul colpo, Ashraf Sabbaa, arrivato senza testa all’ospedale. Il secondo Hesham Ali Su’eidani è morto successivamente all’ospedale.

22 ottobre 2012 – raid aerei a nord della Striscia: 2 morti della resistenza palestinese e 4  feriti.

08-11 novembre 2012 – nuova offensiva militare israeliana: l’esercito ha bombardato con colpi di artiglieria pesante molti punti della Striscia: 7 persone uccise, tra cui 3 bambini, ed almeno 50 feriti, tra cui donne e una decina di ragazzi e bambini. Giovedì 8 novembre, un proiettile ha colpito all’addome, uccidendolo un bambino di 13 anni, Ahmed Younis Abu Daqqa. E’ stato ucciso da colpi sparati da mezzi corazzati israeliani durante un’incursione nel villaggio di Abassan, a sud della Striscia. Ahmed stava giocando con i suoi amici a pallone vicino alla sua abitazione. Ahmed era tifoso del Real Madrid ed ora la maglietta dei Galacticos madrileni sporca di sangue giace sul suo lettino vuoto. Sabato 10 novembre l’esercito ha sparato colpendo alcuni bambini palestinesi che giocavano a pallone in Shijaia, quartiere est di Gaza city. Due ragazzi sono stati uccisi: Mohammed Ussama Hassan Harara di 16 e Ahmed Mustafa Khaled Harara di 17 anni. L’esercito ha poi sparato altri colpi, uccidendo altre due persone: Ahmed Kamel Ad-Dirdissawi  di 18 e Matar Emad Abdul Rahman di 19 anni.

Domenica 11 novembre, aerei israeliani hanno colpito ed ucciso due membri della resistenza palestinese, Mohammed Obaid, 20 anni, il cui corpo è arrivato in pezzi all’ospedale e Mohammed Said Shkoukani, 18 anni.  Lo Shifa hospital ha ricevuto in tutto circa 40 feriti.
E’ stata una giornata di scontri, una delle più cruenti degli ultimi mesi al confine tra Gaza e Israele. Israele afferma di aver centrato obiettivi di Hamas e di aver reagito al lancio di un razzo contro una jeep militare.
L’aumento delle violenze giunge vicino alla preparazione delle elezioni israeliane del 22 gennaio prossimo. Il premier Netanyahu, alla riunione domenicale del Consiglio dei ministri, ha dichiarato: “Il mondo deve capire che Israele non starà senza far nulla mentre cercano di attaccarci. Siamo preparati ad ampliare la nostra risposta”.

14 novembre 2012 – “Operazione Pillar of Clouds” : missili al centro della città, è stato ucciso Ahmed Jaabari, comandante militare di Hamas. Un inferno di esplosioni, di urla, di terrore.
I dati dello Shifa hospital: 50 feriti, la maggior parte donne, bambini e persone anziane, 5 persone morte, tra cui un bambino di 11 mesi, una bambina di 7 anni ed una ragazza di 19.
Gli attacchi aerei continuano minuto dopo minuto. Israele andrà avanti fino a quando Hamas non capirà. Il numero dei morti palestinesi è salito a 46 e siamo al quarto giorno di bombardamenti sulla Striscia di Gaza.

Una parte della società civile europea ed internazionale si sta muovendo con manifestazioni e dichiarazioni per cercare di fermare questo ulteriore atto criminale nei confronti del popolo palestinese, con la speranza di riuscire a togliere quella benda sugli occhi che rende molti occidentali ciechi di fronte alla verità.

(Fonte: blog di Oliva di Rosa Schiano, corrispondente da Gaza)

Sotto le bombe: La voce di Rosa Schiano (da:youmedia.fanpage.it)

 

Intervista a Michele Giorgio a Radio 24



Per approfondimenti:

“Diretta da Gaza” da Nena news

Blog di Oliva

Ennesima aggressione a Gaza di Cinzia Nachira

Dichiarazione di Gilad Sharon

Manifestazione a Modena con foto – VIDEO - volantino

Comunicato Mezzaluna Rossa Palestinese

Documento di Noam Chomscky

Mail della volontaria Adriana presente a Gaza

Cloud Pillar su Gaza? di Pax Christi Italia

Con i Palestinesi, contro l'indifferenza e le complicità di M. Musolino

Bombardamenti su Gaza  di Alessandro Fontanesi

Report e Video dei cooperanti italiani a Gaza

Testimonianza di un parrocco italiano 


Leggi la 1° parte

VIAGGIO TRA I PROFUGHI PALESTINESI
CHATILA 2012

di Mirca Garuti
(2° parte)


Con il sorriso dei bambini nel cuore e la tristezza negli occhi lascio, con molto dispiacere, il campo di Chatila. Chatila è un campo speciale. Le condizioni di vita qui sono molto difficili, qui ci sono le donne che ci aspettano, che sperano in una giustizia, che ricordano mariti, figli, fratelli, che vivono per ritornare a casa, e noi? Cosa possiamo offrire? Quale speranza? Possiamo solo rompere quel muro di silenzio che avvolge ormai un mondo sordo ed indifferente troppo occupato solo di se stesso, raccontando la verità.
Lasciamo Chatila per incontrare il direttore del quotidiano libanese As Safir, Talal Salman ed il direttore aggiunto di “Le Monde Diplomatique”, Alain Gresh.

L’appuntamento con Talal Salman è sempre stato il punto fermo di ogni nostro viaggio. Salman è importante per noi, come noi lo siamo per lui. Le sue parole ci trasmettono l’energia e la forza necessaria per poter continuare la lotta per i diritti del popolo palestinese. Ogni anno, attraverso il suo resoconto, possiamo sia conoscere la situazione attuale del Libano e sia avere una visione globale della realtà della regione medio orientale. Si scusa, e questo purtroppo succede spesso negli ultimi anni, per non avere buone notizie. Salman ricorda i trenta anni della strage di Sabra e Chatila attraverso il lavoro minuzioso svolto dalla professoressa Bayn Nuwayhed raccolto nella pubblicazione di “Sabra e Chatila: settembre 1982”.
Salman continua la sua esposizione parlando della preoccupante situazione in Libano.
 “L’occidente – dice - ha chiamato le rivolte nei paesi del medio oriente “Primavere arabe”. Un termine non troppo preciso, ci sono stati troppi e grandi errori. La rivoluzione nello Yemen e in Siria non è compiuta.” E’ preoccupato per le nuove forze politiche che stanno avanzando, come i Fratelli Musulmani ed i salafiti e dichiara che “ è chiaro che c’è una relazione tra l’islam politico e l’amministrazione americana”. Il Libano sta vivendo un anno d’insicurezza, il clima politico è ritornato sul conflitto degli anni passati perché l’estremismo islamico ha provocato l’estremismo cristiano. Salman non tralascia di parlarci della visita del Papa Benedetto XVI e del dispiacere che, i palestinesi e quella parte di libanesi che lottano al loro fianco hanno provato per l’assoluta mancanza, nei suoi discorsi e messaggi, di un qualsiasi riferimento verso la tragedia del popolo palestinese ed il massacro di Sabra e Chatila. Continua parlandoci delle elezioni del prossimo anno, temendo che si possa aprire una campagna elettorale razzista nei confronti dei “nostri fratelli palestinesi”. Conclude parlando del momento molto tragico che sta vivendo la Siria: “Nessuno sa come finirà. La Siria era il punto forte per la stabilità della regione. Il destino della Siria si ripercuoterà su di noi. Qualcun altro deciderà per noi. Tutti i paesi che vivono sul mediterraneo sono soggetti a dei cambiamenti, ma il non sapere quale sarà il nostro futuro, ci blocca, ci spaventa”. La paura per le sorti della Palestina è maggiore rispetto a quella degli anni passati per la divisione del popolo palestinese e per la situazione del mondo arabo. I palestinesi sono sempre più soli a combattere la loro lotta.
Infine, ci ringrazia ancora una volta per la nostra continua presenza, definendoci come “la sveglia del mattino”.


Alain Gresh, cittadino francese, ma di famiglia copta (la madre d’origini ebraiche russe ed il padre egiziano) si trasferisce con la famiglia a Parigi nel 1962. In Francia ha partecipato alle lotte del ’68 e nel ’72 diventa membro permanente dell’Unione Studenti Comunisti francesi. Il suo interesse si concentra verso la questione palestinese e prepara la sua tesi di laurea sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Lascia gradualmente il partito comunista, la prima fase a causa dell’invasione russa dell’Afghanistan nel ’79, poi nel ’83 e, in modo definitivo nel ’86. Attualmente è il direttore aggiunto di “Le Monde Diplomatique”.
Alain Gresh parlerà, in quest’occasione, d’Israele per capire chi è e quale è la sua posizione nelle questioni internazionali. Gresh rifiuta le etichette che normalmente tendono ad identificare una posizione politica di fronte a varie problematiche, come per esempio se è pro o contro Palestina o Israele. Gresh specifica che lui è per la legalità internazionale. Il massacro di Sabra e Chatila è uno dei tanti massacri compiuti dalle forze sioniste, come Cana, Piombo Fuso e le varie invasioni del Libano, ma l'estrema violenza di quel massacro ha scatenato, subito dopo, grandi manifestazioni all'interno dello stesso stato d'Israele e un dibattito molto forte, ma poi sia l'opinione pubblica israeliana e sia quell’occidentale hanno dimenticato in fretta quanto accaduto. L'intento di Gresh in questa discussione è quello di dimostrare il motivo per il quale gli stati occidentali, via via negli anni, hanno sempre assolto lo stato d'Israele. La sua prima affermazione è che Israele è uno stato democratico. A questo punto si avvertono chiaramente vari mormorii di disapprovazione nella sala ma Gresh continua affermando che, la reazione da parte d'Israele nel lasciare fare le manifestazioni di protesta e di accettare l'inchiesta sulla strage, è una dimostrazione di quella democrazia sostenuta, sempre in ogni occasione, da Israele stesso.
La Francia, per esempio, ha condotto in Algeria una guerra durata sette anni, ma è una democrazia con delle regole, delle legislazioni e con dei dibattiti al suo interno. Il suo stato democratico però non può cancellare i crimini commessi durante quella guerra. E' così questo vale anche per lo Stato d'Israele.
Gresh continua il suo discorso sottolineando un periodo storico molto importante. Dopo la seconda guerra mondiale con la sconfitta del nazismo, c'è stato un cambiamento da parte della legislazione internazionale che ha influito sui paesi occidentali e le loro relazioni rispetto ad Israele e alla questione palestinese. In questo periodo si fecero leggi di guerra, come quelle del 1949 e 1977 che non entravano nel merito se una guerra era giusta oppure no, ma stabilivano criteri con i quali si dovevano fare le guerre, rispettando la popolazione civile. Le parti in conflitto dovevano quindi differenziare gli obiettivi civili da quelli militari ed i civili dai combattenti. Negli anni 2000 è stata istituita la Corte Penale internazionale per crimini di guerra e contro l'umanità, ma la sua creazione ha subito delle limitazioni perchè Stati come la Russia, Cina e USA non hanno aderito. L'altro cambiamento che si può definire “epocale” è quello dovuto all'attentato del 11 settembre 2001 alle torri gemelle del World Trade Center di New York. Da questa data è iniziata la guerra al terrorismo. Questa nuova guerra non poteva più sottostare alle vecchie leggi di guerra, a quelle limitazioni imposte, perché se si fosse continuato a dover distinguere gli obiettivi civili da quelli militari, si sarebbe persa la guerra al terrorismo. A questo punto non esistevano più limiti!
Prima del 2001, la guerra al terrorismo era difesa dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che la definiva la guerra del ventesimo secolo che doveva avere regole speciali d’ingaggio. Dopo il 2001, il governo Bush teorizza questo cambiamento. Gresh illustra poi il nuovo pensiero di alcuni pensatori liberali appartenenti al neoconservatorismo americano, per i quali le leggi belliche e le regole della moralità umana devono adattarsi a questa nuova realtà (guerra al terrorismo senza regole) e si chiedono se il futuro della società civilizzata non sia troppo condizionata da troppa libertà civile. Queste argomentazioni tendono quindi a giustificare il comportamento aggressivo d’Israele e di altri paesi. In questi atteggiamenti c’è un’involuzione dell’essere umano, è stato fatto un passo indietro rispetto alle leggi di guerra degli anni ’40, è il ritorno alla visione coloniale del mondo. Gresh descrive com’è stato possibile questo brutale regressivo comportamento da parte della politica e del potere. Alla fine del 19esimo secolo, il governo inglese ha ideato un proiettile chiamato “Dum Dum” molto invasivo al contatto di un corpo. In una convenzione internazionale “i bianchi” decidono di limitare nelle guerre l’uso di questo proiettile ritenuto troppo barbaro, ad eccezione di due casi particolari: le bestie ed i movimenti coloniali. E’ importante dunque osservare questo cambiamento di valori perché rappresenta una nuova prospettiva accettata dagli stati in particolare da quelli occidentali: il proprio nemico non è più considerato un essere umano. In questa logica ci si può assolvere per qualsiasi azione s’intraprenda, anche illegittima. I valori cambiano secondo i vari punti di vista e di chi sei. Si sta diffondendo nel mondo occidentale la visione che si sta combattendo una guerra contro dei terroristi estremisti islamici che non condividono i nostri valori, quindi il nostro modo di operare è completamente giustificato.  E’ un ritorno all’idea del colonialismo.  Israele sta facendo pressione agli altri stati europei affinché si capisca questa necessità di cambiamento per poter giustificare al mondo occidentale la sua guerra. Gresh cita a questo punto il Rapporto Goldstone. Si tratta di un buon rapporto, anche se gli USA hanno sempre messo il veto. L’intenzione d’Israele era quella di fare pressione su Goldstone stesso, fino ad arrivare al punto di fargli ammettere di aver svolto il lavoro in modo superficiale e non bene. Secondo Gresh, se queste nuove interpretazioni venissero accettate e diffuse dalla comunità internazionale, sarebbe una catastrofe.  Conclude dicendo che occorre dimostrare che non servono leggi forti per arrivare alla soluzione dei problemi, ma bisogna ritornare alle leggi internazionali di guerra, al rispetto dell’essere umano e alla convivenza pacifica. Risponde alle due domande del pubblico che riguardano la responsabilità del governo libanese, quell’internazionale ed individuale diretta ed indiretta, in merito sia al massacro di Sabra e Chatila e sia alle altre guerre israeliane in territorio libanese e palestinese.

 

Conferenza al sindacato dei giornalisti

 




 

Il Presidente della stampa rivolge al Comitato i suoi saluti e ringraziamenti. Dopo aver ricordato il massacro di Sabra e Chatila che non potrà mai essere dimenticato, lancia un appello, in nome della stampa libanese, a tutti palestinesi affinché trovino un’unità. L’unità del popolo palestinese è molto importante per combattere la grave fase di difficoltà in cui si trovano oggi tutti i palestinesi.

 

 

 

 

 

Terminata la presentazione, prende la parola Stefania Limiti del “Comitato Per non Dimenticare Sabra e Chatila”. Per prima cosa Stefania accoglie subito l’appello lanciato dal Presidente della stampa.  Fa presente che, il momento del ricordo del massacro rappresenta uno dei rari momenti d’unità dei palestinesi, mentre l’unità del popolo palestinese dovrebbe essere la forza che li sostiene. Non è solo importante per loro stessi, ma è anche necessaria a chi esprime solidarietà a questo popolo. Stefania spiega i motivi per i quali il Comitato, ogni anno, torna in Libano nei campi profughi. Il Comitato non vuole che il massacro sia dimenticato perché rappresenta il simbolo della sofferenza e non può nemmeno accettare che le persone che hanno voluto ed eseguito questo crimine non siano ancora state giudicate. Persone che ancora oggi usano gli stessi mezzi e che ritengono il popolo palestinese qualcosa da cacciare ai margini del mondo, in nome di un’ideologia sionista. Il Comitato non può e non vuole accettare questa forma di razzismo che è contro la civile convivenza, legalità, giustizia internazionale e democrazia.
Stefania, infine, in nome del Comitato chiede alle forze politiche che considerano amici i palestinesi, un impegno maggiore perché insieme all’inalienabile diritto al ritorno dei profughi palestinesi, reclamino per loro il diritto ad avere condizioni migliori di vita all’interno della società libanese.
La Conferenza al sindacato dei giornalisti termina con i ringraziamenti di Talal Salman che si dice dispiaciuto nell’affermare che i politici libanesi sono più impegnati in altre questioni, come per esempio la divergenza fra le varie confessioni religiose, l’arricchirsi o l’aumentarsi il proprio stipendio, piuttosto che occuparsi della questione palestinese. L’assenza di questi politici alla commemorazione della strage di Sabra e Chatila ha però il beneficio di rendere il clima più “pulito”.



  

 

 

Testimonianza di Ellen Siegel, infermiera ebrea americana, testimone del massacro.

 

 

 

 

 

 Saluto, ancora una volta, i familiari delle vittime di Sabra e Chatila, specialmente Kemal Maruf.  E’ un uomo molto dolce, sempre presente ai nostri incontri con la foto di suo figlio Jamal, scomparso nei giorni del massacro di Sabra e Chatila. Kemal l’ha visto, per l’ultima volta, su un carro dei falangisti, ma poi ha perso le tracce del figlio e non ha mai saputo la sua fine. Da quel giorno, Kemal a Chatila è conosciuto con il nome di Abu Jamal. Lo vorrei abbracciare, rincuorare, ma la sua semplicità e riservatezza, mi bloccano. Riesco solo a sorridere e ad accarezzare il viso di suo figlio Jamal. Scappo via, giù per le scale per raggiungere il gruppo e, il nostro viaggio, continua.


Ora ci troviamo al quartier generale di Hezbollah e, per la prima volta, sono presenti anche tutti i partiti politici palestinesi e libanesi.

 

Un rappresentante del partito di Hezbollah ci dà il benvenuto: “Benvenuti insieme a Hezbollah e alla resistenza. Hezbollah che ha scelto di resistere, di proteggere questo paese, di respingere quello che ha fatto il nemico sionista, di dare un significato sacro a questa resistenza e di come resistere contro le ingiustizie.”

 

 

 

 ll Presidente del Consiglio esecutivo, Sheick Nabil Kaouk prende la parola subito dopo. Ricorda i 30 anni del massacro di Sabra e Chatila, lo definisce il più grande e grave massacro avvenuto con la piena responsabilità americana che ha poi permesso agli israeliani e ad una parte di libanesi di metterlo in atto. Nessuno ha ancora pagato. Lo scandalo maggiore è vedere, ancora oggi, quei criminali che, senza nessuna vergogna, sono liberi e tranquilli. “Non ci sarà giustizia finché la Palestina rimane occupata, non ci sarà giustizia finché continua l’esilio del popolo palestinese”, conclude Nabil.
  

 

 

  Maurizio Musolino, membro del Comitato, ringrazia il partito Hezbollah per l’ospitalità e, non perde l’occasione di rivolgersi ai vari partiti presenti per fare un appello. Un appello per i vivi, per le donne e gli uomini che vivono nei campi. Chiede ai partiti di lavorare di più per dare diritti concreti e immediati a quei palestinesi che vivono in Libano, anche se la responsabilità della loro situazione si chiama “sionismo” ed occupazione israeliana delle terre arabe palestinesi. Una responsabilità però che è anche internazionale ed europea. Musolino ricorda inoltre che in Italia, trenta anni fa, c’era un Presidente della Repubblica diverso da quello attuale, che veniva dalla resistenza italiana e che condannò apertamente il massacro di Sabra e Chatila, era Sandro Pertini.
Il 31 dicembre 1983 Pertini rilasciò questa dichiarazione:
“Io sono stato nel Libano. Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila. E’ una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quell’orrendo massacro. Il responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. E’ un responsabile cui dovrebbe essere dato il bando dalla società.”
Musolino ripete, ancora una volta, le parole del Sindaco di Ghobeiry. Parole di preoccupazione e di denuncia per lo stato indegno ed in vivibile in cui si trovano i campi profughi, che richiedono una risposta immediata da parte delle autorità libanesi.
Il giornalista de “Il Manifesto”, Michele Giorgio chiede a Nabil Kaouk se si aspetta una provocazione da parte d’Israele in Libano per avere così il pretesto per attaccare l’Iran e cosa farà Hezbollah nel caso in cui Israele dovesse attaccare l’Iran.
Nabil risponde che Hezbollah non ha paura delle minacce d’Israele e che la loro resistenza continua ed è forte. Un attacco verso l’Iran è una possibilità ancora molto lontana perché se questo avvenisse ne sarebbe coinvolta tutta le regione medio orientale e, Israele non avrebbe la forza per sostenere tutto questo.

 

Mentre scrivo del viaggio nei campi profughi in Libano, a Gaza, riprendono le incursioni selvagge da parte d’Israele. Occorre ricordare che Gaza dal 2006, anno in cui Hamas vinse le elezioni per il Consiglio legislativo palestinese, è sottoposta ad un assedio brutale ed a ripetuti e frequenti attacchi militari da parte del governo israeliano. Gaza è una prigione a cielo aperto, sottoposta ad embargo, non entra o esce niente e nessuno senza l’autorizzazione israeliana, i pescatori sono spesso oggetto d’incursione anche all’interno del limite illegale imposto da Israele, spesso è loro sequestrata la barca, impedendogli così di pescare e, di conseguenza, di provvedere alla propria famiglia. Ai Gazawi gli viene sottratta l’acqua e la luce. Israele, invece, riesce sempre a trovare un pretesto credibile per intensificare la guerra contro i palestinesi, com’è successo per esempio a dicembre 2008 con l’Operazione “Piombo Fuso”. E oggi è capitato ancora! Ma quando finirà tutto questo? Finirà forse quando tutti i palestinesi con la forza o non saranno buttati, come una scomoda e pesante zavorra, fuori dalla loro terra per sempre? Israele continua a dir, fino alla nausea, che fa tutto questo perché è costretta, costretta per ragioni di sicurezza, per difendere i suoi cittadini dai terroristi palestinesi che desiderano solo cancellarla dalle cartine geografiche del mondo.

Sono più di 60anni che il popolo palestinese vive sotto occupazione!
Vorrei solo ricordare alcune frasi o affermazioni di diversi esponenti del governo israeliano, rilasciate nel corso degli anni:
David Ben Gurion (Primo ministro d’Israele 1949-1954, 1955-1963) “Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle terre e l’eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba” (maggio 1948 agli ufficiali dello Stato Maggiore).
Golda Meir (primo ministro d’Israele 1969-1974) “Non esiste una cosa come il popolo palestinese. Non è come se noi siamo venuti e li abbiamo cacciati e preso il loro paese. Essi non esistono” (15 giugno 1969 dichiarazione al The Sunday Times) - “Come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli.”  (8 marzo 1969) -  “A tutti quelli che parlano in favore di riportare indietro i rifugiati arabi devo anche dirgli come pensa di prendersi questa responsabilità, se è interessato alla stato d’Israele. E’ bene che le cose vengano dette chiaramente e liberamente: noi non lasceremo che questo accada.” (ottobre 1961 in un discorso alla Knesset)
Benjamin Netanyahu (primo ministro d’Israele 1996-1999, dal 2009 ad oggi) “Israele avrebbe dovuto approfittare dell’attenzione del mondo sulla repressione delle dimostrazioni in Cina, quando l’attenzione del mondo era focalizzata su quel paese, per portare a termine una massiccia espulsione degli arabi dei territori.”  (24/11/1989 discorso agli studenti della Bar llan University)
Ariel Sharon (Primo ministro d’Israele 2001-2006) “E’ dovere dei dirigenti d’Israele spiegare all’opinione pubblica, chiaramente e coraggiosamente, un certo numero di fatti che col tempo sono stati dimenticati.  Il primo di questi è che non c’è sionismo, colonizzazione, o Stato Ebraico senza lo sradicamento degli arabi e l’espropriazione delle loro terre.” (15/11/1998 dichiarazione in una riunione di militanti del partito di estrema destra Tsomet) – “Israele può avere il diritto di mettere altri sotto processo, ma certamente nessuno ha il diritto di mettere sotto processo il popolo ebraico e lo Stato d’Israele.” (25/03/2001 BBC news)


Riprendiamo il nostro viaggio, anche se in questo momento molto sofferto, la narrazione si fa difficile.
Ci troviamo al campo di Mar Elias dove incontriamo tutte le organizzazioni della resistenza palestinese (Fronte Democratico, Fatah, Hamas, Fronte Popolare ecc.)
Riceviamo i saluti ed i ringraziamenti per la nostra continua presenza. Se il mondo ha dimenticato la strage di Sabra e Chatila, il Comitato invece prosegue la sua lotta per ricordarla.  La speranza di una giustizia è alimentata fin a quando la questione palestinese sarà nel cuore di tante persone libere. Promettono, inoltre, di fare il possibile per unire tutte le loro forze per prepararsi ad affrontare il nemico comune, Israele, che continua la sua politica d’aggressione non solo contro i palestinesi, ma anche contro la terra e Gerusalemme. Il rappresentante di Hamas ci chiede di essere gli ambasciatori della causa palestinese nelle nostre rispettive città, di riportare quello che abbiamo visto: la sofferenza del popolo palestinese, la vera immagine e non quella deformata dalla forza politica sionista d’Israele. Rileva che non sono terroristi ma combattenti per la loro terra rubata, occupata, per i loro diritti.
I rappresentanti delle varie forze politiche rispondono alle nostre domande: situazione di campi, il rapporto con l’Egitto, il memorandum relativo a come risolvere i problemi dei palestinesi in Libano, il rinnovamento dell’OLP, il movimento BDS, il rapporto Israele-Libano, le elezioni palestinesi, il passaporto palestinese, …
Si parla spesso del diritto di avere il passaporto palestinese, ma per questo bisogna fare una distinzione tra quei palestinesi che vivono nei territori occupati e quelli che sono profughi nel mondo. Il passaporto è un documento che richiede la presenza di uno stato, quindi i palestinesi che vivono in Cisgiordania hanno tutto il diritto di chiederlo. I profughi invece, se chiedono il passaporto palestinese, diventano automaticamente cittadini stranieri del paese in cui vivono, con l’obbligo di sottostare alle sue leggi. Per questi, quindi, è meglio mantenere il “documento di viaggio” in quanto riconosce la condizione di “profugo” e quindi della protezione dell’UNRWA.

 

 

 

 


L’incontro con i partiti politici palestinesi in Libano termina con la loro affermazione che, in caso d’aggressione da parte d’Israele, si schiereranno, senza alcun timore o perplessità, con il popolo e l’esercito libanese. Sono inoltre, da sempre, contrari a qualsiasi intervento esterno e neutrali, ma in modo positivo, nelle questioni interne del Libano.

Continua…

19/11/2012


VIAGGIO TRA I PROFUGHI PALESTINESI
CHATILA 2012


di Mirca Garuti


Beirut, 16 settembre 2012 - Papa Benedetto XVI ha terminato il suo viaggio in Libano. Il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” invece inizia il suo viaggio nei campi profughi palestinesi. Le strade che dall’aeroporto portano al centro di Beirut sono piene di manifesti che danno il benvenuto al Papa.

Lo scopo ufficiale del viaggio del Papa era quello di consegnare e firmare l’Esortazione Apostolica “Ecclesia in Medio Oriente”. Un documento, o meglio un vademecum sulla convivenza fra le varie religioni, che riguarda circa 15 milioni di cristiani, ma che è anche riconosciuto dalle altre religioni. Le comunità cristiane e musulmane, nell’attesa della stampa del documento in lingua araba, hanno stampato l’esortazione dal sito web vaticano. “E’ una lettura fatta con avidità e fortissimo interesse” spiega il laico cattolico Wissam Lahham, membro dell’Ong cristiana “Assembly of Eastern Christians” con sede a Beirut. Lahham continua la sua esposizione: “Comunità musulmane la stanno studiando e l’apprezzano. Cristiani di tutte le confessioni, cattolici, ortodossi, protestanti, ne rimarcano un punto molto importante: l’invito a ‘Non avere paura, a vivere in Medio Oriente costruendo la pace e la convivenza. E’ una frase fondamentale che resta impressa nelle menti dei cristiani nel contesto in cui oggi viviamo. E’ un documento che dà molta speranza ai cristiani in questa regione.”
Mai come in questo momento, il Capo della Chiesa Cattolica deve proteggere la presenza dei cristiani in M.O. dando loro sicurezza e speranza cercando di fermare la continua fuga da queste terre. Presenza importantissima, perché qui, ci sono le radici del cristianesimo. Questo viaggio, infatti, terminava i lavori del Sinodo e la fine di un percorso di sostegno morale e spirituale alla presenza dei cristiani. L’arcivescovo di Cipro dei Maroniti, Monsignor Youssef Soueif, d’origini libanesi, nel concludere il dibattito attorno alla questione mediorientale, aveva affermato che “adesso è il momento giusto per essere presenti, per dialogare, per lavorare attraverso le istituzioni sociali, culturali e l’esercizio della cittadinanza. Occorre fare presto perché i due terzi della comunità cristiana sono sotto minaccia in Iraq, Siria ed altrove. Spesso sono costretti a lasciare le proprie case in cerca di una maggior sicurezza, per cercare lavoro, per sentirsi anche psicologicamente più protetti.”
Sempre secondo l’arcivescovo, uno dei frutti del Sinodo è stato che Benedetto XVI abbia scelto come motto per il suo viaggio in Libano, ” La pace sia con voi”, ad indicare che nella regione “è necessaria la pace politica, ma soprattutto è necessaria la pace dei cuori, interiore.”
L’esortazione post-sinodale Ecclesia in Medio Oriente non usa mai il termine “democrazia”, ma fa riferimento ai valori di libertà, cittadinanza, rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali, anche presenti nelle altre culture e religioni. Ma allora perché nel suo viaggio in Libano, Papa Benedetto XVI non ha mai parlato del popolo palestinese che vive sul territorio libanese come profugo senza avere nessun diritto, al quale è negata semplicemente una dignità umana?

Durante il viaggio aereo da Roma a Beirut, il Papa ha incontrato i giornalisti del Volo Papale. Alla domanda: “Santo Padre, in questi giorni ricorrono anniversari terribili, come quello dell’11 settembre, o quello del massacro di Sabra e Chatila; ai confini del Libano vi è una sanguinosa guerra civile, e vediamo anche che in altri paesi il rischio della violenza è sempre attuale. Santo Padre con quali sentimenti affronta questo viaggio? E’ stato tentato di rinunciarvi a motivo dell’insicurezza o qualcuno Le ha suggerito di rinunciarvi?”. Il Santo Padre ha risposto: “Posso dire che nessuno mi ha mai consigliato di rinunciare a questo viaggio e, da parte mia, non ho mai contemplato questa ipotesi, perché so che se la situazione si fa più complicata, è più necessario offrire questo segno di fraternità, di incoraggiamento e di solidarietà. E’ il significato del mio viaggio: invitare al dialogo, invitare alla pace contro la violenza, procedere insieme per trovare la soluzione dei problemi.”
Non ha volutamente accennato all’anniversario della strage di Sabra e Chatila e del significato che questa ha ancora oggi per i quasi cinquecento mila palestinesi costretti a vivere qui, in un paese straniero perché “qualcuno” (Israele) ha occupato la propria terra. Non ha voluto interferire con il suo pensiero su delle questioni ritenute evidentemente “interne” di un paese sovrano, ha semplicemente ringraziato per essere in Libano, un paese che può essere considerato un modello di convivenza tra musulmani e cristiani per tutto il Medioriente, un punto d’incontro tra le civiltà e le culture. La pluralità del Libano, unico stato multi confessionale della regione per statuto costituzionale, può essere una fonte di ricchezza ma purtroppo anche la causa di divisioni e guerre.
I cristiani rappresentano il 35% della popolazione ed i musulmani, il 65%, divisi tra sunniti e sciiti. Il Vaticano, alla vigilia di questo viaggio, per evitare problemi con le varie comunità e con lo stesso paese ospitante, ha sottolineato che “il pontefice in Libano sarà solo un messaggero di pace e non un capo politico” e, che le parole che pronuncerà vanno intese, ha così riferito il suo portavoce Padre Lombardi, come riflessioni rivolte a tutte le 18 confessioni religiose.
Il Vaticano ha anche evitato prudentemente qualsiasi giudizio sulla questione “Hezbollah”, sollevata dal ministro britannico William Hague e l’olandese Rosenthal, all’interno di un dibattito all’Ue, se inserire o no il braccio armato di Hezbollah nella lista dei gruppi terroristici, per non incrinare il clima di collaborazione riscontrato in Libano.
L’altro difficile argomento “tabù” riguardava invece la questione palestinese. Il patriarca Melkita, Gregorio III di Laham, incaricato di dargli il benvenuto nella sede del patriarcato, aveva espresso la speranza di sentire una parola da parte del Papa sulla questione dello Stato palestinese, ma il Vaticano, anche su questa questione, aveva deciso di mantenere il silenzio.
Padre Lombardi ha poi anticipato che i sei discorsi che pronuncerà il Papa si concentreranno sul ruolo e la missione di pace che spetta ai cristiani e sul bisogno d’armonia da costruire nel rispetto di tutti.
Morale, niente interventi politici, nemmeno sulle vicende siriane che stanno contagiando il Libano. Come capo politico del Vaticano si può capire il silenzio imposto di fronte a tutte queste problematiche, ma come capo spirituale non è possibile accettare l’indifferenza dimostrata dal Papa nei confronti dei profughi palestinesi costretti a vivere in condizioni indegne per qualsiasi essere chiamato “umano”. Non si può rimanere incuranti davanti alle continue stragi subite e che subiscono ancora oggi i palestinesi per l’occupazione delle loro terre.
L’ex capo di governo italiano Silvio Berlusconi, nel suo viaggio in Israele, non ha “visto” il muro di separazione costruito dal governo israeliano per una sua “difesa”, come Papa Benedetto XVI, nel suo viaggio in Libano, non ha “visto” i campi profughi palestinesi.
Il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” è ritornato invece in Libano per trasmettere la sua testimonianza sulle condizioni di vita all’interno dei campi e, attraverso il dialogo tra le varie forze politiche libanesi e palestinesi, di poter svolgere un importante lavoro d’informazione affinché la questione dei profughi palestinesi non sia dimenticata dal mondo.*


Il viaggio inizia nel sud del Libano, punto di partenza di ogni invasione da parte dell’esercito israeliano, con la deposizione di una corona in onore al martire Maarouf Saad, simbolo della Resistenza e del Movimento di Liberazione Nazionale di tutto il mondo arabo. Saad, difensore di tutte le classi sociali più deboli e povere, è stato ucciso nei primi anni ’70 dalle forze fasciste di destra libanesi durante una manifestazione di protesta di pescatori.

  Lasciato Sidone, ci dirigiamo verso la collina di Mlita che domina il Sud del Libano per visitare il Museo della Resistenza inaugurato il 21 maggio 2010. Il museo offre un inedito percorso di combattimento nel cuore di una vecchia base segreta di Hezbollah e rappresenta il luogo del ricordo della resistenza per la liberazione di questa regione avvenuta 10 anni fa.

 

 



Pochi chilometri infine ci separano dal confine che divide la Palestina occupata dal sud del Libano. Ci troviamo, infatti, nel parco, situato sulle colline, della città di Maroon El Ras, dove tutte le famiglie di questi territori, anche se appartenenti a religione diverse, possono usufruire gratuitamente di tutti i servizi. Questa splendida struttura composta da 33 gazebo, uno per ogni giorno della guerra del 2006, è un dono della Repubblica islamica iraniana al popolo del sud del Libano.

Il sindaco di El Debeyye accoglie la nostra delegazione con un sincero benvenuto:

  

          

 

 

 

 

Il ricordo del massacro di Sabra e Chatila

La giornata ha inizio al Centro culturale della municipalità di Ghobeiry,dove dopo l’inno nazionale libanese e palestinese,

 

   

 

 

 

si sono susseguiti numerosi interventi: i famigliari delle vittime del massacro, il saluto di Antonietta Chiarini, l’ambasciatore della Palestina in Libano Mr.Ashraf Dabbour  e il Sindaco di Ghobeiry Mr. Abou Said Al Khansaa:

   

 

 

Familiari delle vittime                                                      

 

        

 

 

 

Antonietta Chiarini                                                    

 

         

 

 

Ambasciatore della Palestina in Libano, Mr.Ashraf Dabbour

            

 

        

 

 

 

  Sindaco di Ghobeiry Mr. Abou Said Al Khansaa       

    


Foto manifestazione per non dimenticare 

Sono passati 30anni da quella terribile invasione del Libano da parte dell’esercito israeliano.
Invasione (la quinta) iniziata a giugno 1982 nel Sud.


Robert Fisk, corrispondente inglese per il quotidiano “The Independent”, si trovava in quei luoghi e, nel suo libro “Il martirio di una nazione” racconta:

“Gli attacchi israeliani erano stati – almeno fino a quel momento – i più feroci che fossero mai stati sferrati contro una città libanese. Nella zona sud di Sidone, sembrava che un tornado avesse sconquassato i palazzi, portando via balconi e tetti, abbattendo muri e facendo crollare interi edifici sulla testa dei loro occupanti. Molti morti erano rimasti incastrati tra le macerie. Nelle strade, da dove i bulldozer israeliani avevano spazzato via detriti con militare efficienza, gli abitanti di Sidone camminavano come storditi. Non rispondevano ai soliti saluti e fissavano stupiti i palazzi rimasti ancora in piedi perché non avevano mai visto la loro città in quelle condizioni . La morte è spaventosa. I morti del Libano – la vista continua di cadaveri gettati come sacchi sulle strade, nei fossati e nelle cantine – ci ricordavano costantemente quanto fosse facile essere uccisi.” 

Mi mancano veramente le parole per poter continuare a descrivere tutto quello che accadde in quel lungo assedio, dal sud fino a Beirut. Fisk si fa una domanda che preannuncia il massacro che sarebbe accaduto di lì a pochi mesi:

 “Se gli israeliani a Sidone e a Tiro si erano comportati a quel modo – se avevano potuto uccidere tanti civili in un periodo di tempo così breve – quanti ne avrebbero uccisi a Beirut, dove almeno mezzo milione di persone vivevano ammassate nel settore occidentale accerchiato della città?”

La Croce Rossa e la polizia libanese, alla fine della prima settimana dell’invasione (14 giugno 1982),  dimostrarono che in Libano erano morte 9.583 persone e ferite 16.608.
Sidone è stata la città più colpita dopo Beirut. Su Beirut Ovest caddero anche le bombe al fosforo e i medici, non conoscendo la composizione chimica di quelle bombe, furono impreparati ad affrontarne le conseguenze.
Il fosforo bianco è stato usato fin dalla Prima guerra mondiale per riempire proiettili di mortaio e granate e nel bombardamento di Amburgo durante la Seconda guerra mondiale. Le bombe sono fabbricate in Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania,  sono considerate “munizioni ordinarie” anche se non rientrano nelle convenzioni internazionali e tuttavia sono ritenute “molto utili per sgomberare gli edifici”. Il loro fumo rimane nell’aria per parecchio tempo e brucia la pelle per ore nonostante l’immersione in acqua nel tentativo di spegnere il fuoco.
Tra il 4 giugno ed il 10 luglio all’ospedale Barbir, che si trovava vicino al Museo Nazionale di Beirut Ovest, arrivarono 200 morti e la Dottoressa Shamaa ricorda:
“Il personale non poteva lasciare l’edificio a causa degli attacchi aerei e del cannoneggiamento. Per quattro o cinque giorni c’è stato odore di morte dovunque. Poi siamo finalmente riusciti a seppellirli in una fossa comune. Ancora non sappiamo chi fossero.”
L’artiglieria israeliana non risparmiò neppure l’ospedale che fu colpito! Gli israeliani cercavano di censurare le notizie sulle sofferenze dei civili a Beirut Ovest trasmesse dalle varie troupe televisive presenti sul territorio libanese. Le registrazioni inviate dai corrispondenti oltre le linee di Beirut Est arrivavano a Tel Aviv per poi essere trasmesse a New York. Qui arrivavano però censurate dagli israeliani, sempre per “ragioni di sicurezza” e “risparmiando al pubblico statunitense gli orrori della guerra”. I produttori televisivi di New York infuriati per l’interferenza israeliana mandarono in onda i vari filmati offuscando lo schermo per la durata dei pezzi tagliati per far capire agli utenti che quella parte era stata volutamente tolta dalle autorità israeliane. Alla fine i filmati non furono più inviati a Tel Aviv ma si preferì usare la strada di Damasco.
Le troupe televisive ed i giornalisti che si trovavano a Beirut avevano quindi  iniziato a  raccontare in modo molto dettagliato questa terribile escalation militare. Gli israeliani non potevano permettere che tutto questo arrivasse al mondo intero, così il 21 giugno in un comunicato affermavano che: “L’Operazione Pace in Galilea” non era diretta né contro la popolazione libanese né contro quella palestinese … Se c’erano delle vittime civili la colpa era dei terroristi, che avevano installato i loro quartieri generali e le loro posizioni militari in zone fittamente popolate da civili e tenuto prigionieri uomini, donne e bambini.”

 L’obiettivo del governo d’Israele era l’Olp ed i suoi guerriglieri.
Il 30 giugno l’Olp aveva annunciato che avrebbe lasciato la città, ma i dettagli della loro evacuazione non erano ancora stati decisi. I negoziati si prolungavano e Israele continuava l’assedio. Ariel Sharon il 2 luglio nella sala dell’hotel Alexandre di Beirut Est annuncia ai giornalisti che: “l’unico motivo per cui siamo qui è annientare i terroristi dell’Olp…”
Terroristi, ma chi sono i veri terroristi? La loro qualificazione dipende dai diversi punti di vista e dalla giustificazione che si vuole dare a delle reazioni violente. In nome della  guerra al “terrorismo” si tende, anche oggi come allora, a legittimare qualsiasi azione. Tutto diventa  ammissibile con la licenza di uccidere indiscriminatamente. 
Sia  Arafat che gli israeliani sapevano che l'Olp avrebbe presto lasciato Beirut, ma si doveva contrattare 'quando' e a quali garanzie. Ognuno quindi cercava di anticipare o ritardare il momento giusto a seconda del proprio interesse. Arafat era disposto a consentire l'allontanamento dei suoi uomini solo sotto la protezione di una forza multinazionale che comprendesse oltre ai marines  americani anche i soldati francesi ed italiani. Arafat inoltre aspettava ancora il riconoscimento dell'organizzazione da parte degli Stati Uniti in cambio del suo ritiro. Intanto i bombardamenti continuavano e, verso la fine di luglio,  le incursioni si intensificarono sfrecciando nel cielo quasi tutti i giorni.
Il 4 agosto 1982 piovevano bombe su tutta Beirut Ovest, le vittime erano tutte civili e Robert Fisk si chiedeva che fine avesse fatto la precisione chirurgica dei piloti israeliani:

“Cadevano al ritmo di una ogni 10 secondi. Alcune bombe al fosforo esplosero su Hamra. Definire quel bombardamento indiscriminato sarebbe stato poco, anzi una bugia. Il bombardamento israeliano fu, come avremmo scoperto in seguito, discriminato: aveva come obiettivo ogni zona di abitazione civile e ogni istituzione di Beirut Ovest – ospedali, scuole, appartamenti, negozi, alberghi... Al culmine del bombardamento, corsi all'ospedale dell'Università americana. C'era sangue dappertutto. Trovai un centinaio di uomini, donne e bambini stesi nel loro sangue sul pavimento o che si lamentavano sulle barelle nei corridoi. Corsi all'obitorio. Braccia e gambe – a decine – erano state accatastate contro la parete. Sul pavimento c'erano diversi neonati morti chiusi in sacchi di plastica”.

Il 26 settembre 1987 Fisk incontra in Inghilterra Philip Habid, rappresentante del presidente Reagan nonchè suo inviato speciale, che presente in quel giorno poteva parlare con gli israeliani. Perchè non aveva fermato quella carneficina?
“Ero a Baabda. Vedevo tutto. Dissi agli israeliani che stavano distruggendo la città, che la stavano bombardando senza tregua. Loro dissero che non era vero, che non lo stavano facendo. Chiamai Sharon al telefono. Mi disse che non era vero. Quel maledetto mi disse al telefono che quello che vedevo non stava succedendo. Così misi la cornetta fuori dalla finestra per fargli sentire le esplosioni. Allora mi disse: Come facciamo a parlare se tieni il telefono fuori dalla finestra?”
I protagonisti di questa guerra hanno sempre mentito al riguardo delle loro vere intenzioni ed azioni: dovevano avanzare solo 40 chilometri all'interno del Libano, invece erano arrivati fino a Beirut. Hanno mentito sulle vittime civili, sul taglio dell'acqua e corrente elettrica a Beirut Ovest; sull'uso delle bombe a grappolo ed al fosforo bianco nelle zone civili.
Il 12 agosto, senza preavviso, decine di cacciabombardieri israeliani erano apparsi nel cielo di Beirut. Il loro obiettivo: i campi profughi. Tonnellate di esplosivo ad alto potenziale caddero per nove ore su Sabra e Chatila. Ma perchè tutto questo dal momento che erano state accettate tutte le richieste per procedere all'evacuazione dell'Olp e stabilito anche i percorsi che doveva seguire? Quella sera il portavoce ufficiale dell'esercito israeliano disse:
“Abbiamo appena completato il rafforzamento delle nostre postazioni intorno a Beirut in vista di una grossa operazione militare.. se e quando attaccheremo.”
C'era quindi la possibilità di un avanzamento  su Beirut Ovest , mentre, in realtà, avrebbero dovuto andarsene non appena l'Olp avesse lasciato la città. La guerra era finita.
A Beirut la guerra aveva fatto 3.983 vittime e in tutto il Libano erano morte 11.492 persone. Il campo profugo palestinese di Burj al-Barajne praticamente non esisteva più, sembrava un paese lunare dove si camminava su tetti sbriciolati.
Il 19 agosto il governo libanese aveva presentato ufficialmente la richiesta scritta di una forza multinazionale di ‘'disimpegno’', senza accennare che fosse stata l'invasione israeliana a renderla necessaria.
     Il 23 agosto ci furono le elezioni presidenziali dove gli israeliani avevano assicurato la vittoria al loro uomo, Bashir Gemayel (figlio di Pierre Gemayel il fondatore delle Falangi),  capo delle milizie al comando del più grande esercito privato del Libano.
L'accordo per l'evacuazione dell'Olp comprendeva la clausola dell'allontanamento di tutti gli eserciti stranieri dal Libano. I libanesi ora si sentivano più tranquilli perchè, come sostenevano in molti, i loro problemi erano dovuti dall'arrivo dei guerriglieri palestinesi dalla Giordania nel 1970 e non dai civili esuli palestinesi del 1948. L'esercito israeliano lasciò la sua postazione nel terminal dell'aeroporto internazionale all'esercito libanese.

Arafat lascia Beirut su una nave greca per andare in esilio in Tunisia, sotto il controllo dei marines americani, degli uomini della legione straniera francese e dei bersaglieri italiani. Più di 10mila guerriglieri palestinesi e soldati siriani lasciarono con le loro armi Beirut Ovest.
La partenza dell'Olp era condizionata dalla garanzia che le decine di migliaia di civili palestinesi rimasti nei campi di Sabra, Shatila e Burj al Barajne non avrebbero corso nessun pericolo, come aveva assicurato Philip Habid. Washington, Parigi e Roma in questa operazione avevano dato la loro parola. Il distacco però delle donne, dei vecchi e dei bambini dai loro mariti, padri, fratelli, figli in partenza per l'esilio non è stato facile, è stato un momento molto doloroso e di paura. Paura per il loro futuro, ora che erano rimasti soli, orfani di tutto. La guerra era finita, tutti se ne stavano andando, anche i giornalisti si preparavano a tornare nei loro paesi o andare in vacanza.

La situazione in Libano però si presentava ancora molto fragile, perché c’erano troppi interessi diversi che dovevano essere bilanciati e nessuno voleva perdere. Da una parte, il nuovo presidente Bashir Gemayel con la sua dichiarazione di non volere la presenza di stranieri sul territorio libanese, che significava anche gli israeliani e dall’altra il Primo Ministro israeliano Begin e il Ministro della difesa Sharon, che durante un incontro a Gerusalemme reclamavano, entro la fine dell’anno, un trattato di pace tra il Libano ed Israele.
La Siria, dopo l’elezione del nuovo presidente libanese, aveva dichiarato che avrebbe ritirato le sue truppe dal Libano solo quando i soldati israeliani se ne fossero andati dal paese. Un alto funzionario dell’esercito siriano aveva inoltre dichiarato che se Gemayel avesse firmato quel trattato, “La Siria si sarebbe considerata in stato di guerra con lui”.
Gemayel dunque si trovava in mezzo tra Israele e la Siria, senza dover dimenticare però anche gli Stati Uniti che lo avevano appoggiato.
Dalla fine della guerra al 16 di settembre ci sono stati alcuni episodi che potevano presagire quello che poi accadde dal 16 al 18, ma nessuno diede importanza a quegli “annunci” anche perché non si poteva immaginare che la malvagità umana potesse arrivare ad un tale livello.
Arafat lasciò il Libano il 30 agosto e l’ultima nave carica di guerriglieri palestinesi, il primo di settembre. Le truppe siriane dovettero anche sfilare davanti al Maggiore Sa’d Haddad, militare libanese fondatore dell’esercito "Armata del Sud del Libano" totalmente sostenuto da Israele, che non mancò di prodigare con gesti osceni e di disprezzo i suoi “saluti” verso i militari che stavano lasciando il paese. Ma perché gli israeliani erano ancora a Beirut?
Le truppe di pace l’11 settembre avevano iniziato ad abbandonare il Libano con quindici giorni di anticipo rispetto agli accordi presi. Il quotidiano “Daily Telegraph” riportava la notizia che Sharon aveva fatto una visita di sorpresa alle sue truppe alla periferia di Beirut ed aveva dichiarato che, dopo l’evacuazione dell’Olp erano ancora rimasti in città “duemila terroristi”. Ma chi erano questi misteriosi terroristi? Intanto le truppe israeliane stavano, molto lentamente, avanzando verso la città.
Il 14 settembre viene assassinato Bashir Gemayel e gli israeliani iniziano ad invadere Beirut Ovest. Inizia la caccia ai terroristi ed il cerchio intorno ai palestinesi si chiude. Un colonnello israeliano aveva detto a Robert Fisk poco prima che partisse da Beirut:
“Il nostro grande problema non sarà liberarci dai palestinesi, sarà impedire ai falangisti di entrare a Beirut Ovest per regolare qualche vecchio conto”.
Il 16 settembre le Falangi entrarono a Beirut Ovest con gli israeliani e per questo, Fisk decide di ritornare a Beirut. Inizia il massacro: ancora nessuno è consapevole di quello che sta accadendo.
Il 17 settembre corre voce che qualcosa di terribile sta succedendo dentro i campi profughi di Sabra e Chatila. Fisk ricorda quella sera che dal suo balcone guardava gli aerei, i cacciabombardieri che volavano basso nell’oscurità:

“Uno dei jet lasciò cadere un tracciante, poi un altro ed il cielo opaco della città si illuminò di una luce dorata che si diffuse sui campi. Era di un giallo argenteo come la luce del giorno. Avrei potuto leggere un libro sul mio balcone con quella luce. I traccianti scendevano lentamente, quasi tutti sulla zona di Sabra e Chatila… L’alba a mezzanotte”.

 


Quello che trovarono i primi giornalisti nel campo palestinese di Chatila alle 10 di mattina del 18 settembre è stato qualcosa di irreale. Una cosa atroce, uno sterminio di massa, un crimine di guerra avvenuto sotto gli occhi vigili e totalmente indifferenti di un esercito regolare.
Chi sono in questo caso i terroristi? Le vittime o i carnefici?
La certezza era che gli israeliani sapevano quello che stava succedendo, avevano illuminato i campi, guardavano da lontano i loro alleati, i falangisti ed i miliziani di Haddad mentre mettevano in atto il loro sterminio di massa. Gli israeliani erano al comando di tutto, dovevano sorvegliare l’area di Chatila da tutti i lati e dai tetti degli edifici più alti, ma non dovevano vedere, sentire e testimoniare.
I soldati israeliani in uniforme e agenti segreti dello Shin Bet in borghese, sorvegliavano anche il lato ovest dello stadio dove erano stati portati centinaia di uomini, per lo più libanesi, per essere “interrogarti”. Gli israeliani lasciavano fare tutto alle milizie senza interferire in nessun modo. Questa era solo una caccia ai “terroristi”. Una parola che suonava oscena in bocca a loro, ma che gli dava carta bianca su tutto.
Quello che è successo a Sabra e Chatila non è stato definito da tutti come “massacro”, ma allora da cosa dipende questa definizione? Dal numero delle vittime? Dal modo in cui sono state uccise? O da chi sono state uccise? La responsabilità israeliana è palese, dimostrabile e uguale a chi materialmente ha commesso il fatto, ma nessuno ha mai pagato per questo.
Gli israeliani alla fine avevano rivelato che i responsabili della strage fossero i falangisti guidati dal comandante Elie Hobeika. Ma come hanno potuto gli eredi dell’Olocausto aver consentito che venisse commessa quell’atrocità?
Il tenente Avi Grabowski vicecomandante della compagnia dei carristi che in seguito testimoniò sul massacro davanti alla Commissione d’inchiesta israeliana, riferì che quel venerdì a mezzogiorno l’equipaggio del suo carro aveva chiesto ai falangisti perché uccidessero i civili. Loro risposero: “Le donne incinte partoriranno dei terroristi, quando cresceranno i bambini diventeranno terroristi”.
Begin, ai giornalisti che gli fecero notare che Israele aveva, in qualità di paese occupante, la responsabilità di quello che succedeva nei campi, rispose: “Nessuno ha il diritto di farci prediche sui valori morali e sul rispetto della vita umana, sono i principi in base ai quali siamo stati educati e continueremo ad educare generazioni di combattenti.”
Le manifestazioni in tutto il mondo contro questo massacro costrinse Israele ad aprire un’inchiesta sui fatti, ma come al solito usò questo sua atto “democratico” a suo favore: “Quale paese arabo aveva mai pubblicato un rapporto come quello che condannava sia il suo esercito e sia i suoi leader politici?”.
Nel rapporto della Commissione Kahan (1983) è stata evitata la parola “palestinese”, si parla di “fatti” e non di “massacro”. I giudici non erano riusciti a portare prove dell’esistenza di quei 2000 terroristi che si dovevano trovare all’interno dei campi e chiamava “soldati” gli unici veri terroristi presenti, i miliziani cristiani mandati dagli israeliani. La Commissione alla fine giudicò Sharonpersonalmente responsabile dei fatti” e suggerì a Begin di rimuoverlo dal suo incarico. Qualche anno dopo però Ariel Sharon, ritorna al governo israeliano come Primo Ministro e nessun processo ha mai punito gli artefici del massacro di Sabra e Chatila.


La professoressa Bayan Nuwayhed al-Hout docente di Scienze politiche all’Università di Beirut nel 2003 ha pubblicato in arabo il libro “Sabra e Shatila: settembre 1982”, tradotto in inglese nel 2004, mentre ad oggi non è stato ancora possibile farlo conoscere in Italia.
Il libro ripercorre la storia del massacro e, attraverso varie interviste ai familiari delle “vittime viventi” e ai sopravvissuti, l’autrice ha impostato il suo progetto come una storia orale per conservare le testimonianze. Questo libro è quindi un coraggioso tentativo di rendere il senso di ciò che è accaduto. Un documento politico molto importante.
La docente di Beirut scrive: “Più tardi, un grande inaspettato evento avvenne diciotto anni dopo il massacro, nel settembre 2000. Senza preavviso, una delegazione italiana giunse all’aeroporto di Beirut per commemorare Sabra e Chatila… Le vittime viventi non avrebbero osato sognare che la visita si sarebbe trasformata in un appuntamento annuale, ogni settembre, e che i loro nuovi amici non li avrebbero mai abbandonati… Il Comitato presieduto da Stefano Chiarini, noto come “Per non dimenticare Sabra e Chatila” si è assunto la responsabilità di commemorare Sabra e Chatila per tutti i sette anni scorsi.”


Questo è il motivo per il quale il “Comitato Per non dimenticare” dal 2000 si reca ogni anno sui luoghi del massacro. Il Comitato vuole rappresentare quella parte dell’Italia che non ha perso la memoria, che anzi si ostina a renderla pubblica e che si schiera al fianco del popolo palestinese per sostenere la sua lotta ed i suoi diritti.
Per il Comitato ritornare a Chatila anno dopo anno è un dovere e un onore. Raccontare, per i familiari delle vittime, rappresenta sempre un dolore ma può diventare anche un modo per dare giustizia a chi non c’è più. A rendergli omaggio, a non dimenticarli.
Sono trascorsi 30 anni da quelle 43 ore terribili e noi siamo ancora una volta a Chatila ad abbracciare quelle persone, a guardarle negli occhi per rassicurarle che noi ricordiamo. Dopo la cerimonia ci inoltriamo nel campo.
Chatila è il campo che ancora continua ad esistere e a crescere, mentre Sabra, per chi l’abitava non è mai stata considerata un vero “campo” ma solo una strada che iniziava nel quartiere Tariq al-Jdideh di Beirut e finiva all’ingresso del campo di Chatila, oggi si presenta come un mercato dove si può trovare di tutto. Camminando tra banchi di frutta e verdura si arriva ad un certo punto in una strada con vari "palazzi". Uno di questi è il Gaza Hospital.
Era un ospedale gestito dalla Mezzaluna Rossa Palestinese, un luogo emblematico testimone di eventi che hanno segnato la vita dei profughi palestinesi, come quello del massacro di Sabra e Chatila. Una struttura oggi occupata da molte famiglie palestinesi, libanesi e di altre nazionalità rimaste senza casa. Un rifugio per i più poveri.

     

Chatila oggi è abitata da circa ventimila persone. 

I suoi vicoli stretti, tortuosi, sembrano tanti infiniti labirinti spesso bui perché le case troppo alte impediscono al sole di illuminare e di scaldare. Le fognature, vecchie ed insufficienti per il numero di abitanti, si lasciano scorrere liberamente lungo le vie, specialmente quando piove.  

 

 

  

I rifiuti abbondano neivicoli, nelle piazzette, ovunque perché chi dovrebbe raccoglierli (UNRWA) non ha più le risorse per continuare a svolgere questo compito.

 

 

 

Sopra le nostre teste un groviglio di cavi elettrici e di tubi corrono tra le case, creando una fitta ragnatela. La prima causa di morte nel campo è la folgorazione. Le famiglie palestinesi continuano a vivere in queste condizioni con la speranza di poter ritornare, un giorno, nella loro terra. Condizioni che, anno dopo anno, diventano sempre più difficili perché, da una parte diminuiscono gli aiuti e dall’altra il governo libanese non vuole apportare miglioramenti, non vuole accordare ai rifugiati palestinesi anche quei minimi diritti per poter avere una vita dignitosa. Nonostante tutta questa sofferenza però riescono a mantenere la dignità di un popolo che è consapevole di essere nel giusto, di aver subito un’ingiustizia storica e aspettano che gli venga riconosciuto il diritto di essere uno Stato e di poter ritornare nelle loro case occupate dai sionisti israeliani. Un diritto che è sancito dalla Quarta convenzione di Ginevra, ma da sempre, disatteso da Israele che non accetta nemmeno di discuterne. Non è facile continuare questo cammino, specialmente per i giovani che non hanno la prospettiva di un futuro migliore, la possibilità di studiare, di avere un lavoro regolare o di una casa. Non è facile neppure per noi continuare a lottare con e per loro perché siamo tutti circondati dal silenzio generale. Il mondo non parla, fa finta di niente, è indifferente. Quando si parla di rifugiati palestinesi, anzi, spesso veniamo definiti come “gli amici dei terroristi”, antisionisti che desiderano solo la fine d’Israele. Per fortuna ci sono i bambini che nella loro innocenza ed inconsapevolezza riescono ancora a sorridere.

Foto campo Chatila

Continua … 

30/10/2012

* L'Osservatore Romano – Blog “Il Magistero di Benedetto XVI

Fonte: Robert Fisk (Il martirio di una nazione) – Libro “Sabra e Shatila: settembre 1982” di Bayan Nuwayhed al-Hout traduzione di Vincenzo Brandi con la collaborazione di Marta Turilli -


PER NON DIMENTICARE VIK
IL PROCESSO

di Mirca Garuti


La notte tra il 14 e 15 aprile 2011 nessuno potrà dimenticarla. Una notte, durante la quale alcuni giovani appartenenti ad una cellula del gruppo qaedista Tawhid wal Jihad, rivale di Hamas, misero fine alla vita di Vittorio Arrigoni (http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/RestiamoUmaniinonorediVittorioArrigoni/tabid/1015/Default.aspx) gettando nel dolore una madre, una sorella e migliaia di palestinesi e italiani. In questi lunghi mesi si è assistito ad un procedimento sostanzialmente regolare, aperto al pubblico e alla stampa, ma non si può tacere sul fatto che la corte è stata troppo accondiscendente nei confronti delle strategie degli avvocati della difesa. Per quasi un anno si sono visti testimoni chiamati di fronte ai giudici solo per confermare le deposizioni fatte durante le indagini. Il dibattimento quasi non c’è stato.

Il percorso delle 16 udienze

08/09/2011  Il processo ha inizio. Gli imputati: Mohammed Salfiti, 23 anni di Karama, Tarek Hasasnah, 25 anni di Shate, Amer Abu Ghoula, 25 anni di Shate e Khader Jiram. Gli altri due elementi del gruppo dei rapitori, il giordano Breizat e il palestinese Bilal Omari, considerati i «capi» della cellula salafita, non possono raccontare la loro versione: sono stati uccisi un paio di giorni dopo il ritrovamento del corpo di Vik, durante il blitz effettuato nel loro rifugio di Nusseirat da un’unità scelta di Hamas. Dopo cinque mesi dall’assassinio di Vittorio, è la prima volta che viene reso noto, anche se solo in parte, il file delle indagini svolte dalla procura militare di Hamas (tutti e quattro gli imputati sono membri con compiti diversi delle forze di sicurezza) e mai consegnato ai legali della famiglia Arrigoni. Il presidente della Corte, nemmeno quarantenne, non ha ammesso fra le parti l'avvocato Eyal al-Alami, il quale aveva ricevuto in extremis un incarico di patrocinio dalla famiglia della vittima dopo che il legale italiano, Gilberto Pagani, non era riuscito ad entrare dall'Egitto nella Striscia. La prima udienza è terminata in uno sbrigativo rinvio al 22 settembre.

22/09/2011 Ore 10: L’aula è piccola, sporca, spoglia. Nessuna scritta, nessun simbolo politico o religioso. Lo scranno del Tribunale è molto sopraelevato, per il pubblico ci sono delle panchette, le persone presenti sono una trentina, molti gli italiani. I banchi dell’accusa e della difesa sono uno di fronte all’altro, la cattedra della Corte è perpendicolare a loro; il banco dei testimoni è di fronte ai giudici, il teste volta le spalle agli avvocati ed al pubblico. Sulla destra, la gabbia nella quale sono fatti entrare i quattro imputati. Un militare in tuta mimetica, barbuto come tutti, ricopre la funzione di usciere, è lui che batte con forza il palmo della mano sul banco dei testimoni e lancia un urlo, “entra la Corte”. Il presidente della Corte avrà circa 30 anni, così come i giudici a latere, il Pm e i suoi assistenti. Tutti vestono camicie militari senza alcun distintivo o grado. L’udienza è brevissima, è interrogato un agente che conferma i filmati con le confessioni degli imputati. Poi a turno gli imputati sono interrogati dalla Corte. Uno è accusato di aver aiutato gli assassini, gli altri tre di sequestro di persona ed omicidio; questi ultimi si riconoscono nelle immagini che sono mostrate solo a loro e non al pubblico, ma affermano che le confessioni sono state estorte con vessazioni e minacce. Viene reintrodotto l’agente, che nega ci siano state pressioni. Di nuovo un colpo sul banco e un urlo da parte dell’usciere: l’udienza è rinviata al 3 ottobre per ascoltare il medico legale che oggi non si è presentato. L’avvocato della famiglia Arrigoni, Gilberto Pagani racconta: “Alla fine di questa prima udienza vado ad incontrare il Procuratore militare, nel suo ufficio. Gli pongo tre domande:
Possiamo accedere agli atti delle indagini?
Risposta «L’inchiesta è militare, il processo è pubblico, venite al processo e saprete quello che c’è da sapere».
Sono state fatte indagini sulla morte dei due sospettati nel conflitto a fuoco con la polizia? Risposta «Un’inchiesta della polizia ha appurato che tutte le regole sono state rispettate, per altre informazioni potete leggere quel che è stato scritto dalla stampa».
La Procura chiederà la pena di morte per i colpevoli?
Risposta «La punizione prevista dalle nostre leggi in questo caso è la pena di morte».
Sono assolutamente stranito. Mi aspettavo una procedura da Corte militare, rapida, forse spietata, comunque finalizzata a cercare una ricostruzione dei fatti, se non la verità, che sia la base per una decisione. Assisto ad un processo in cui i tempi sono dilatati senza ragione, la Procura imprecisa e svogliata, gli avvocati assenti, l’interesse pubblico nullo, la Corte inutilmente autoritaria. Non è plausibile che in una situazione (anche territoriale) come questa, il medico legale non si presenti per quello che è il primo atto di un processo per omicidio, cioè illustrare le cause della morte di una persona".

03/10/2011 L’udienza è durata meno di un’ora. Sono stati ascoltati due testimoni, tra i quali il Dottor Alaa al Astal, il patologo di Gaza che ha esaminato il cadavere di Vittorio ed ha effettuato l’autopsia.  Astal ha confermato la morte avvenuta per strangolamento e che la vittima aveva subito percosse ed un violento colpo alla testa mentre era con le mani e i piedi legati. In apertura d’udienza si apprende che uno degli imputati non è più detenuto. Si tratta di Amer Abu Ghoula, che aveva dato rifugio ai due «capi» in fuga. Viene processato, ma è a piede libero. Inoltre, è emerso un dato errato verbalizzato durante le indagini...

17/10/2011 Udienza lampo, verità lontana. Nessuno ha ancora chiesto agli imputati perché Vittorio fu rapito e poi ucciso. Venti minuti ed un altro rinvio.

03/11/2011 Un’udienza con pochissimo pubblico. Alcuni amici palestinesi e italiani di Vik e qualche parente degli imputati, mentre a nord di Gaza, lungo la «zona cuscinetto» creata da Israele, un missile di un elicottero ha ucciso due palestinesi: un contadino che si trovava nel suo campo ed un militante delle Brigate Ezzedin al Qassam che aveva preso parte poco prima ad uno scontro a fuoco con reparti israeliani. La quinta udienza del processo è finita dopo 50 minuti. La delusione è cocente. A due mesi dalla prima udienza, il dibattimento rimane incagliato su questioni procedurali e su aspetti secondari.

24/11/2011 La sesta udienza è durata pochi minuti. Il processo è stato subito aggiornato. Un altro nulla di fatto.

05/12/2011  “Nella casa di Vittorio c’erano tante donne?”. Con queste parole l’avvocato della difesa si è rivolto all’unico testimone ascoltato oggi durante la settima udienza del processo ai rapitori e agli assassini di Vittorio Arrigoni. Anche questa volta la sessione, durata 45 minuti, si è concentrata su aspetti secondari e forvianti e l’accusa non ha ancora investigato sul reale motivo che ha spinto i quattro imputati a rapire ed uccidere Vittorio.

19/12/2011 È stata un’udienza breve ma di una certa importanza. Finalmente, il processo in corso a Gaza city per l’assassinio di Vittorio Arrigoni ha fatto un passo in avanti dopo tre mesi trascorsi a dibattere spesso solo di questioni procedurali. La Pubblica accusa militare ha portato in aula l’hard disk del computer dove sono state ritrovate le immagini del rapimento di Vittorio. L’udienza si è svolta, mentre era diffusa in rete, la lettera di risposta della madre e della sorella di Vittorio alla «richiesta di perdono» inviata dalle famiglie di tre dei quattro imputati.  Il processo Arrigoni a Gaza è giunto ad una fase di stallo.

05/01/2012  Le indiscrezioni annunciavano un’udienza di particolare importanza. Si sperava perciò di assistere ad un dibattimento concreto. Le cose però sono andate nella direzione opposta a quella desiderata. L’ultima udienza è stata la più breve delle nove che si sono svolte dallo scorso 8 settembre ad oggi ed anche la più inutile e, per certi versi, paradossale. La prima sorpresa è venuta da Amer Abu Ghoula, uno dei quattro imputati, agli arresti domiciliari perché accusato di reati minori.  La corte, registrata la sua assenza, ha subito spiccato un mandato d’arresto, ma fino a ieri sera di Abu Ghoula non si sapeva nulla. La seconda sorpresa è stata la rapidità con la quale la stessa corte, dopo aver appreso che la difesa non aveva ricevuto alcuni documenti relativi alle prove prodotte dalla procura militare, ha aggiornato il processo. La durata dell’udienza, solo quattro-cinque minuti in tutto.  È inaccettabile.

16/01/2012 Per la seconda volta consecutiva, l’udienza è durata pochi minuti. Il processo è stato subito aggiornato. Non si sono presentati in aula i testimoni della difesa, pare per motivi di lavoro, e uno degli avvocati ha prontamente chiesto il rinvio. Intanto resta un mistero l’assenza in aula di Amer Abu Ghoula, uno dei quattro imputati. (Eppure le corti militari di Gaza, quando vogliono, sanno essere rapide e terribilmente spietate. Questo mese hanno emesso una nuova condanna a morte, la prima del 2012, la 36ma da quando Hamas ha preso il potere a Gaza nel 2007. L’11 gennaio scorso un tribunale ha condannato a morte per impiccagione un palestinese di 48 anni, colpevole di collaborazionismo con imprecisate forze ostili e di complicità in un omicidio.)

30/01/2012 Anche quest’udienza è terminata nel giro di pochi minuti, come le altre di gennaio. I testimoni della difesa, per l’ennesima volta, non si sono presentati e la corte ha aggiornato il processo.

13/02/2012 Sarà merito delle sollecitazioni alla corte promesse un paio di settimane fa dal capo della procura militare, o degli echi a Gaza dell’insoddisfazione degli italiani per la lentezza del processo, che dopo le ultime tre udienze «lampo» questa è stata per così dire «normale», almeno nello svolgimento e nella durata (circa un’ora). Sono finalmente apparsi in aula i testimoni convocati dalla difesa, che non si erano presentati alle ultime udienze. Nessuna traccia ancora di Amr Abu Ghoula, agli arresti domiciliari perché accusato di favoreggiamento e non dell’assassinio di Vittorio. Di Abu Ghoula non si sa più nulla. Ha violato l’ordine della corte di partecipare alle udienze e contro di lui è stato spiccato un mandato d’arresto. Al tribunale però nessuno sa o vuole dire dove sia finito. La strategia della difesa è chiara. L’obiettivo è quello di scaricare ogni responsabilità sul capo della presunta cellula salafita che ha rapito e ucciso Vittorio, il 22enne giordano Abdel Rahman Breizat, morto in un conflitto a fuoco con la polizia di Hamas.

27/02/2012 Cinque minuti.  I giudici, dopo aver esaminato la lettera inviata a fine 2011 a Gaza dalla famiglia Arrigoni – come risposta all’appello alla clemenza lanciato dalle famiglie dei quattro imputati, nella quale si esprime netta opposizione ad un’eventuale condanna a morte – hanno aggiornato il processo al prossimo 15 marzo, per la richiesta di uno degli avvocati della difesa che lamentava di non aver ancora potuto esaminare tutti gli atti (è accaduto più volte in questi mesi).

15/03/2012 L’allerta che da una settimana regna nella Striscia di Gaza per i raid aerei israeliani (26 morti palestinesi), è la causa del rinvio dell’udienza. Le autorità di Hamas hanno ordinato l’evacuazione di tutte le strutture militari e di sicurezza. La corte perciò è rimasta chiusa.

02/04/2012 Si annunciava un’udienza affollata questa mattina alla corte militare di Gaza city. Ci si attendeva una ripresa nel segno della concretezza, e invece le cose sono andate come sempre. La solita udienza-lampo. Stavolta in aula non mancavano i testimoni convocati dalla difesa, com’è spesso capitato in passato, ma gli stessi avvocati dei quattro imputati. E’ stato nominato un avvocato d’ufficio che, però, non avendo seguito il “caso”, ha chiesto e ottenuto il rinvio per poter leggere gli atti.

12/04/2012  Si avvicina la data del primo anniversario della morte di Vittorio (15/04/11), ma il suo assassinio resta in gran parte senza risposte. Troppi sono i lati oscuri di questo crimine. Se la procura di Gaza è stata in grado di risalire in poche ore ai responsabili del rapimento e dell’uccisione di Vik, i giudici della corte militare invece non sono stati altrettanto solleciti. Il processo è stato segnato sin dal suo inizio, lo scorso settembre, da udienze lampo, dall’assenza frequente dei testimoni e dalle manovre della difesa volte unicamente a guadagnare tempo. Dopo una quindicina d’udienze, agli imputati è stato chiesto di spiegare i motivi del rapimento di Vik. Ed ecco il colpo di scena: nel giorno della prima vera udienza del 2012, tre dei quattro imputati per l'assassinio di Vittorio hanno lanciato un insidioso tentativo di gettare fango sulla figura dell'attivista e giornalista italiano. Ritrattando in buona parte le confessioni che avevano reso negli interrogatori seguiti all'arresto da parte della polizia di Hamas, i tre hanno recitato, davanti ai giudici della corte militare di Gaza city, la parte dei giovani difensori delle tradizioni sociali «minacciate» da un presunto stile di vita troppo «liberal» di Vittorio. «Volevamo dargli soltanto una lezione, gli altri intendevano ucciderlo ma noi non lo sapevamo», hanno proclamato i tre cavalieri della moralità. Un passo vergognoso, vile, frutto di una strategia precisa degli avvocati della difesa, che mira a macchiare l'immagine di Vik che di Gaza aveva fatto la sua bandiera e che ai diritti dei palestinesi aveva dedicato, negli ultimi anni, il suo impegno politico ed umano. Inoltre gli imputati hanno sostenuto di aver confessato la loro partecipazione al rapimento e all'assassinio dell'italiano «sotto la forte pressione» degli inquirenti. Hanno quindi smentito di aver preso parte al sequestro allo scopo di ottenere la scarcerazione dello sceicco Al Maqdisi e, più di tutto, hanno negato di essere stati a conoscenza di un piano per uccidere l'attivista italiano. A loro dire questo piano era stato concepito dai due «capi» del gruppo di rapitori, il giordano Breizat ed il palestinese Bilal Omari, rimasti uccisi poco dopo l'assassinio di Vittorio in uno scontro a fuoco con la polizia. È evidente il tentativo degli avvocati della difesa di far ricadere tutte le responsabilità su Breizat e Omari che non possono raccontare la loro versione dei fatti. Prossima udienza 14 maggio 2012 e, secondo alcune voci, potrebbe essere l’ultima prima della sentenza.

14/05/2012  Niente di fatto. L’udienza slitta ancora. Il Presidente della Corte militare, per presunti altri impegni, non si è presentato nell’aula del tribunale allestito presso la Prefettura. Questa doveva essere un’udienza importante dove il Pubblico ministero avrebbe dovuto riassumere e precisare i capi d’accusa contro gli imputati e presentare la sua richiesta di condanna e gli avvocati della difesa avrebbero invece dovuto persuadere la corte della loro innocenza o almeno di una loro “parziale” responsabilità. Nessuno era stato avvisato in tempo dell’aggiornamento del processo al 28 maggio.

28/05/2012 La Corte militare di Gaza City oggi è rimasta chiusa. Il Giudice capo è “in vacanza”. Nessuno delle autorità di Hamas ha comunicato il rinvio dell’udienza, neppure al Centro palestinese per i diritti umani che segue, come osservatore, il processo Arrigoni. Prossima udienza: 27 giugno. Ancora un altro mese. E’ uno scandalo! Il governo di Hamas aveva promesso un processo vero, ma, l’unica cosa vera in tutto questo, rimane solo la completa indifferenza di tutti verso una giustizia alla quale non si vuole arrivare.

27/06/2012 Sedicesima udienza. I due avvocati difensori hanno chiesto che i 4 fossero riconosciuti non colpevoli, causa assenza di prove e testimoni ed inoltre, hanno presentato richiesta di scarcerazione per l’avvicinarsi del Ramadan (inizierà il 21 luglio), periodo sacro per i musulmani. La nuova udienza è prevista tra oltre 2 mesi, il 5 settembre, data la chiusura della corte militare per la festività musulmana. In quella data spetterà all'accusa presentare le proprie richieste, per poi arrivare finalmente alla sentenza.

05/09/2012 L'attesa di italiani e palestinesi è risultata vana. La sentenza è slittata al 17 settembre. L’avvocato Gilberto Pagani, giunto a Gaza su incarico della famiglia Arrigoni, ed i suoi colleghi del Centro palestinese per i diritti umani, hanno sperato, per ore, in un possibile cambiamento della decisione del rinvio da parte dei giudici della Corte militare. Speranza vana. Si attendeva la sentenza e tanti si preparavano ad affollare la piccola sala che ospitava i giudici militari di Hamas. Lo slittamento di date non ha però rappresentato una totale sorpresa.  Dalla data della prima udienza, il procedimento ha preso, mese dopo mese, una brutta piega. Diverse udienze sono state aggiornate solo un paio di minuti dopo il loro inizio, per l’assenza dei testimoni convocati dalla difesa o per motivi apparentemente banali. Non c’è mai stato un vero dibattimento. Rare volte sono state ascoltate le voci degli imputati. Non è stato un processo irregolare, ma tanti punti rimangono oscuri. Non sorprende perciò che sulla sentenza regni una forte incertezza. La verità resta lontana.

17/09/2012 La Sentenza: Ergastolo
“La Corte militare chiude con pesanti condanne il processo per l'omicidio di Vittorio Arrigoni. Giustizia è fatta, ma troppi interrogativi restano in sospeso sulla regia del sequestro. Carcere a vita e lavori forzati ai due esecutori, 10 anni all'ex amico del pacifista.”

La sentenza ci raggiunge in Libano durante la settimana di commemorazione del massacro di Sabra e Chatila. Sollievo, gioia, tristezza, dolore, sofferenza, rabbia, sono i sentimenti provati da noi tutti a questa notizia. Michele Giorgio nel suo articolo che chiude il “Dossier Vittorio Arrigoni” su “Il Manifesto” parla anche a nome nostro:

“Giustizia è fatta, commenterà qualcuno. Che amarezza però. Ci sarebbe più di un motivo per essere soddisfatti. Gli imputati sono stati condannati per il delitto che avevano confessato eppure la tristezza è tanta in queste ore. Nessuna condanna potrà ridarci Vik. Neppure quella severa inflitta ieri dalla corte militare di Gaza city ai quattro giovani palestinesi accusati del sequestro e dell'omicidio del giovane attivista e giornalista che, come nessuno nella sinistra italiana di questi ultimi anni, aveva saputo attirare tanta attenzione verso la causa dei palestinesi di Gaza. Il pensiero corre in queste ore alla madre e alla sorella di Vittorio. Come hanno accolto la sentenza, ci chiediamo. Due donne che con fermezza e dignità, nel rispetto degli ideali di Vik, si erano subito espresse contro la condanna a morte degli assassini. «Vogliamo giustizia» non vendetta scrissero in una lettera inviata ai famigliari degli imputati che imploravano clemenza.
I giudici ieri hanno inflitto il carcere a vita e un periodo di lavori forzati a Mahmud Salfiti e Tamer Hasasna, due esecutori materiali del sequestro ideato assieme al giordano Abdel Rahman Breizat e al palestinese Bilal Omari, entrambi rimasti uccisi in un conflitto a fuoco con la polizia di Hamas. Ad un anno di carcere è stato condannato Amr al Ghoula, il fiancheggiatore che aiutò tre membri del gruppo a nascondersi dopo l'assassinio. Al Ghoula è già a piede libero da mesi.
Dieci anni di prigione dovrà scontare Khader Jiram, vigile del fuoco e amico di Vittorio Arrigoni, accusato di aver fornito informazioni decisive ai killer sui movimenti dell'italiano a Gaza. Questa condanna se da un lato può apparire adeguata al reato commesso da Jram - che non ha preso parte diretta al rapimento e all'assassinio - dall'altro provoca tanta rabbia. Jram a ben guardare è il più colpevole di tutti perché conosceva Vik che lo aveva anche citato in uno dei suoi racconti, dopo un attacco aereo alla stazione dei vigili del fuoco sul lungomare di Gaza city. Jram avrebbe dovuto respingere la richiesta di Hasasna di «tenere d'occhio» l'italiano per capirne i movimenti e le abitudini. Si prestò invece all'organizzazione di un crimine contro un attivista impegnato a diffondere le ragioni dei palestinesi sotto occupazione, che quotidianamente andava nei campi coltivati della «zona cuscinetto» per proteggere, con la sua sola presenza, i contadini dagli spari israeliani. Un giovane coraggioso che aveva passato mesi assieme ai pescatori di Gaza tenuti sotto tiro dalla Marina militare israeliana. Durante l'interrogatorio Jram spiegò agli investigatori di aver accettato di seguire i movimenti di Vittorio «perché non poteva respingere l'insistenza di Hasasna». E per quella insistenza ha tradito e fatto uccidere un amico. Certo anche Bilal Omari, che pure conosceva Vittorio, merita disprezzo ma lui ha pagato con la vita il crimine che ha commesso.
Vittorio fu rapito da una cellula del gruppo qaedista Tawhid wal Jihad, rivale di Hamas, la sera del 13 aprile 2011. Abdel Rahman Breizat, il capo della cellula, sperava di convincere il governo di Hamas a rilasciare un leader salafita, Hisham al-Saidni, un teorico del salafismo jihadista arrestato a Gaza qualche settimana prima. Vik fu mostrato il giorno successivo bendato e gravemente ferito alla testa in un video postato in internet dai sequestratori. Nelle ore successive la polizia fu in grado di inviduare la casa dove l'italiano veniva tenuto ostaggio ma prima che le forze speciali di Hamas facessero irruzione nell'appartamento a nord di Gaza, i rapitori uccisero Vittorio, peraltro ben prima dello scadere dell'ultimatum fissato per il rilascio di Saidni. Hasasna e Jmar furono arrestati subito. Breizat, Omari e Salfiti provano a fuggire ma furono individuati in un appartamento di Nusseirat dalla polizia. Dopo un lungo assedio Breizat e Omari morirono in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza dai contorni mai chiariti del tutto. Salfiti, rimasto ferito ad una gamba, fu arrestato e incarcerato. Saidni è stato recentemente liberato senza imputazioni dopo essersi impegnato a non disturbare l'ordine pubblico, ha annunciato Hamas. Il gruppo Tawhid wal Jihad non ha ancora commentato la sentenza.
La severa condanna per due dei quattro imputati ha parzialmente legittimato le autorità giudiziare di Gaza, dopo un processo zoppicante, segnato da udienze brevissime e da rinvii inattesi e dall'assenza di un vero dibattimento. Forse Hamas ha voluto dare un segnale all'Italia e ai tanti amici e compagni di Vik che chiedevano giustizia. Questa sentenza però chiude solo una parte della vicenda. Troppi interrogativi rimangono senza una risposta. I rapitori hanno agito per conto di un regista esterno? Avevano deciso di eliminare in ogni caso Vittorio? Sono gli unici colpevoli? A noi resta una sola certezza: la scomparsa di un giovane che amava Gaza - non Hamas come ha affermato ieri un giornalista italiano -, che credeva nella giustizia, nella legalità, dei diritti di tutti i popoli. Nel rispetto della dignità dell'uomo. «Restiamo Umani» ci diceva sempre. Sì, Vik, resteremo umani, anche grazie a te.”

05/10/2012

Fonte: Il Manifesto- Dossier Vittorio Arrigoni – Agenzia Nena News


SABRA E SHATILA
IL SILENZIO E L’INGIUSTIZIA NON CANCELLERA’ IL RICORDO DI QUEL MASSACRO

di Mirca Garuti


Alkemia si sta preparando a ritornare a Beirut con il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”. Sono trascorsi 30 anni da quei due giorni terribili. Giorni in cui la belva umana ha dato il meglio di sé. Non si tratta di morti in battaglia o durante un conflitto armato, ma si tratta di migliaia di donne, bambini, uomini, vecchi, torturati, violentati, calpestati, trucidati nel più totale silenzio. Nessuno ha ancora pagato per quel crimine. Nessun governo vuole ricordare.

Igor Man, dieci anni dopo la strage, scriveva "L'assedio di Beirut, Sabra e Chatila: di là dalla nebbia del tempo resiste la memoria di quell’insulto alla vita. Un incubo, le fitte che dà una vecchia ferita quando si fa sera e di colpo piove e t’accorgi che è finita l’estate. E allora pensi ai vivi e ami i morti rimasti laggiù. A Beirut”.

Non tutti però restano in silenzio! E’ bello scoprire che ci sono giovani scrittori sensibili alla causa del popolo palestinese che vogliono capire. Spesso ci troviamo a parlare di questo eterno e sofferto conflitto solo tra militanti. Ragionare sulla questione palestinese è molto difficile. La prima reazione è quella di essere sempre accusati d'antisemitismo e di voler cancellare Israele e, quindi di essere considerati  terroristi, come i palestinesi. Così quando si legge sulle pagine di un importante giornale, come il Corriere della Sera, nell’inserto culturale della domenica “La Lettura”, il coinvolgente reportage di Paolo GiordanoUna notte di 40 ore”, si accende una piccola luce di speranza. “Nel settembre del 1982 ero ancora immerso nel tepore del liquido amniotico, dentro il ventre di mia madre”, scrive Paolo nel suo articolo, mentre, i bambini di Sabra e Chatila, sia quelli nati e sia quelli non nati,  non sono stati altrettanto fortunati. Paolo, con le sue parole, riproduce anche una fotografia della società italiana degli anni ’80 –’90, specialmente quella dei giovani liceali e del loro modo di porsi di fronte ad una questione così complessa e lontana dal loro mondo.
Forse non c’era una profonda conoscenza del problema, ma non c’era indifferenza verso la situazione disastrosa dei palestinesi, e questo ha contribuito a far crescere, dentro l’anima di Paolo, questo piccolo seme che l’ha portato poi, in età adulta, a mettere piede a Chatila. Occorre vivere Chatila per comprenderla, è necessario camminare tra i suoi vicoli stretti e bui, guardare dove e come vivono i suoi abitanti, annusare l’aria che si respira, sorridere, stringere le mani, abbracciare ed accarezzare i volti di tutte quelle persone che, giorno dopo giorno, da più di 60anni, sopravvivono nei campi senza mai perdere la speranza di poter ritornare nelle loro case d’origine.

Leggendo il racconto di Paolo si capisce che non conosce Stefano Chiarini ed il suo impegno nella causa palestinese. Paolo parla che “il solo luogo di memoria del massacro si trova in un garage”, ma non è così. Prontamente, Michele Giorgio, giornalista del “ Manifesto”, riprende, sul sito di Nena News, quanto riportato da Paolo e chiarisce l’equivoco. La guida di Paolo, evidentemente, non è stata molto chiara e non ha condotto il suo gruppo al memoriale fatto costruire proprio da Stefano. Le sue parole: “La più grande e nota delle fosse comuni, situata all’ingresso del campo di Chatila, a pochi passi dall’ambasciata del Kuwait, è ridotta ad uno squallido campo polveroso nel quale vengono gettate le immondizie di un vicino mercato e detriti di ogni genere. Non una lapide, un segno che ricordi la presenza delle fosse comuni che inviti al loro rispetto.” (anno 2000) Per questo motivo nasce poi in Italia il “Comitato Per non dimenticare” e Stefano riuscirà nel suo intento, trasformando quell’area in un luogo di ricordo e di dignità per tutte quelle vittime. Un luogo che, a settembre di tutti gli anni, è diventato la meta delle nostre visite. Una grande manifestazione, alla quale partecipano la popolazione di Chatila, le rappresentanze dei vari campi, le varie forze politiche e le delegazioni straniere, dà inizio alla cerimonia di commemorazione della strage.

Ora Stefano non c’è più, ma il lavoro del Comitato continua e la sua presenza nei giorni in cui si ricorda il massacro è molto importante perché si fa portavoce, verso tutte le forze politiche del Libano, dei diritti dei rifugiati palestinesi che continuano a chiedere giustizia, migliori condizioni di vita ed il riconoscimento del diritto al ritorno alla loro terra:

“Se tutti accettano come normale che gli ebrei “tornino” in Palestina dopo 2000 anni – e il diritto al ritorno è il fondamento dello Stato d’Israele  - perché un palestinese , con ancora in mano le chiavi della sua casa e il certificato di proprietà della vigna, è considerato un pericoloso estremista, o un potenziale terrorista, se sogna, chiede e lotta per “tornarvi” dopo qualche decina d’anni?”  (Stefano Chiarini, da Il Manifesto 16/09/2003)

I rifugiati chiedono di non essere dimenticati dalla comunità internazionale. L’impegno del Comitato e di tutti i numerosi partecipanti alle sue iniziative è proprio quello di creare una rete  d’informazione su tutto il territorio che può contribuire a ricordare, a dialogare, a capire e a pensare.

11/09/2012

http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/LastoriadiSabraeChatila/tabid/756/Default.aspx

http://lettura.corriere.it/una-notte-di-40-ore/

http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=33655



INCONTRI CON UNA REALTA’ IGNORATA
IL POPOLO KURDO
(III° Parte)


INCONTRI CON UNA REALTA’ IGNORATA
IL POPOLO KURDO

di Mirca Garuti
(IV parte)

 

Lasciato con il cuore colmo di tristezza e rabbia il villaggio di Roboski, il nostro viaggio prosegue verso Hakkari per partecipare al Newroz (vedi 2°parte “NEWROZ PIROZ BE). 
Dopo il Newroz di Hakkari ripartiamo per Yuksekova. Arriviamo di sera e troviamo una città deserta immersa nel buio. Per le strade transitano solo camionette della polizia. Usciamo più tardi dall’albergo per fare un giro in questa città militarizzata. Fa molto freddo, le strade sono ghiacciate, non incontriamo nessuno a parte una macchina della polizia che punta i fari verso di noi per un controllo.

Il motivo di questo coprifuoco è sempre lo stesso: il rifiuto della Prefettura di concedere l’autorizzazione a celebrare il Newroz il 20 marzo. La giustificazione: la data della festa deve essere sempre solo quella del 21 marzo ed il luogo è stabilito dalle autorità turche. Il popolo curdo di Yuksekova non accetta quest’imposizione e scende ugualmente nella piazza decisa dal suo partito BDP il giorno 20 marzo. Il Newroz di quest’anno è stato dedicato al loro leader Ocalan; chiedono la cessazione del suo isolamento e la ripresa di un dialogo per la risoluzione del conflitto. La polizia ha usato misure molto violente per impedire alla gente di raggiungere il luogo prestabilito: gas lacrimogeni, getti d’acqua e proiettili veri. Gli scontri sono continuati tutto il giorno. Il giorno successivo sono rimasti chiusi tutti i negozi ed ogni attività si è fermata. La serrata è stata una dimostrazione di protesta contro il comportamento della polizia che ha provocato alcuni feriti tra la gente ed i poliziotti stessi, ma anche contro l’attacco al Deputato Vice Presidente del partito BDP, Ahmet Turc, ferito a Batman dai poliziotti. L’opinione pubblica turca non ha protestato, anzi il Ministro degli Interni ha elogiato i poliziotti per il buon lavoro svolto.

Il Sindaco Ercan Bova ci conferma che, negli anni scorsi, il Newroz è sempre stato festeggiato tra il 15 e il 25 marzo. La politica del governo è quella di impedire l’unità del popolo curdo. Il premier Erdogan, prima delle elezioni, aveva riconosciuto ad Akkari l’esistenza del problema curdo ed aveva affermato che doveva essere risolto, che avrebbe costruito infrastrutture e che turchi e curdi erano fratelli. Dopo aver vinto le elezioni, Erdogan ha in realtà negato tutte queste promesse ed affermazioni. La situazione è molto difficile. L’estrema ostilità nei confronti del Newroz si esprime non per negare una semplice festa, ma per paura di quello che rappresenta: un simbolo, una speranza d’unità contro la continua repressione. Il popolo curdo, attraverso il Newroz, manifesta il desiderio di poter esprimere liberamente la propria lingua e cultura. Il governo turco invece dimostra solo di essere un governo reazionario, ha paura di tutti quelli che non sono veri turchi distruggendo, per esempio, ad Istanbul baraccopoli, associazioni e locali di ritrovo. Tutto questo però non fermerà il popolo curdo che continuerà la lotta per ottenere i suoi diritti. Yuksekova, continua il sindaco, come prova della discriminazione che subisce ogni giorno, non essendo un comune appartenente al partito di governo, ha ricevuto la cifra di 55lire turche (circa 25,00 euro) per pulire le strade dalla neve durante i mesi invernali. Bitlis, invece, che è una municipalità amministrata dal partito di governo, ha incassato, sempre per pulire le strade dalla neve, 7milioni di lire turche. Il bilancio del comune di Yuksekova è molto ridotto, possono fare solo piccole cose e non esistono infrastrutture. Le spese complessive necessarie risultano essere pari a 150milioni di lire, ma le casse sono praticamente vuote e non arrivano soldi perché il comune di Yuksekova appartiene al partito BDP, mentre il governo centrale a quello dell’AKP
Il sindaco Bova termina l’illustrazione della situazione del suo comune dandoci gli ultimi dati della composizione della giunta: 5 consiglieri arrestati e 5 ricercati perché sono fuggiti.   Ora sono rimasti in 15. L’accusa è quella di appartenere all’organizzazione del KCK. Sono state fatte intercettazioni telefoniche, attribuendo a parole semplici con un significato innocuo un contenuto del tutto diverso trasformato in attività illegali. 


L’ex sindaca di Yuksekova, Ruken Yetiskin si trova nuovamente in carcere.

 


Dopo l’incontro con il Sindaco, andiamo presso la sede di Meya Der, Associazione dei martiri di Yuksekova, per consegnare le borse di studio ad alcune ragazze. L’Associazione Onlus “Verso il Kurdistan” ha avviato il progetto “Berfin” (Bucaneve) rivolto solo alle ragazze in quanto vivono situazioni più disagiate e difficili rispetto ai loro coetanei maschi. La donna è sempre considerata solo utile alla famiglia per i lavori domestici e per procreare, non ha bisogno quindi di studiare o intraprendere professioni particolari. Le borse di studio per Yuksekova sono dieci, mentre quelle per Van dodici.


Yuksekova è la città con più alto numero di martiri (700), così dice il Presidente del partito BDP, mentre le famiglie che fanno parte dell’associazione sono poco più di 400 e questo perché molte famiglie hanno più martiri. Lo scopo è quello di sostenere, unire ed aiutare le famiglie più bisognose, spiegando perché i loro figli sono diventati martiri e perché questa lotta che dura da 35anni è importante per il futuro. 

  

A quest’incontro sono presenti anche quattro ragazze destinatarie delle borse di studio. Tre ragazze frequentano la seconda classe del liceo ed il loro sogno è diventare architetto ed avvocato. L’ultima invece è la più piccola, frequenta la 6°classe delle elementari e vuole fare l’insegnante. Tutte hanno o il padre, zii, o sorelle morti in montagna. Alle scuole elementari, medie e superiori hanno normalmente insegnanti curdi (non possono, però parlare la lingua curda), i problemi discriminatori iniziano all’università. Nel momento in cui però ci sono insegnanti turchi cominciano a sorgere alcuni problemi e quando il governo decide di erogare un po’ di soldi alle famiglie più povere s’informa prima di tutto se in quei nuclei familiari ci sono martiri.

 


  

  


Siamo quasi arrivati al termine del nostro viaggio. Ci lasciamo alle spalle la città martire di Yuksekova e raggiungiamo la città di Van tra alte montagne innevate a quota 2200metri, sulle sponde dell’omonimo lago. Attraversiamo velocemente la città che porta ancora i segni del violento terremoto del 23 ottobre scorso, per incontrare la Vice Sindaca, sig.ra Bahar Orhan. La nostra visita purtroppo sarà molto breve: verificare la situazione odierna e consegnare le 12 borse di studio alle ragazze.
Il 22 marzo scorso non avevo ancora vissuto sulla mia pelle la “sensazione” del terremoto che avevo invece provato il 29 maggio a casa mia. Il coinvolgimento è diverso. Parlare di cose vissute o viste avvicina di più le persone. Sentire prima il boato che accompagna il terremoto, poi quasi in contemporanea, un forte movimento sussultorio od ondulatorio che non finisce mai, è veramente qualcosa di sconvolgente. La paura ti avvolge, ti senti completamente inerme, impotente, non puoi difenderti da niente e da nessuno e speri solo di avere fortuna e di salvarti. E’ questa sensazione di paura che ti rimane dentro e che non puoi dimenticare.     Il terremoto di Van non è certo paragonabile con quello avvenuto un mese fa in Emilia Romagna, ma avendo provato la stessa situazione, la posso ampliare ad un massimo livello per entrare così nell’animo di quelle persone, tenendo però anche in considerazione la situazione politica e geografica in cui vivono. In Turchia si registrano in media 20mila scosse l’anno. Il 66% del suo territorio si trova in aree sismiche di primo e di secondo grado. Il 70% della popolazione abita in queste zone dove sono anche situati il 75% dei maggiori stabilimenti industriali del paese. L’ultima regolamentazione sulle norme antisismiche è del 1998, ma purtroppo normalmente non rispettata. Il partito AKP da quando è arrivato al potere nel 2002, come del resto anche i suoi predecessori, ha continuato a chiudere un occhio sulla costruzione d’abitazioni abusive sui terreni statali. Erdogan ha affermato, dopo la devastazione causata da questo terremoto, che saranno abbattute “tutte le abitazioni abusive” del paese anche “a costo di perdere voti alle elezioni”. Il Vice Preside della facoltà d’ingegneria edile dell’Università tecnica d’Istanbul, Alper Ilki spiega che esistono diversi livelli d’abusivismo edilizio: quelli che non hanno il rogito, che comprendono il 70% dei palazzi d’Istanbul e che, quindi, non hanno un certificato d’abitabilità; quelli che non hanno il permesso per costruire e sono privi di un progetto, quindi completamente abusivo con un rischio più alto di cedimento.  Per Ilki non c’è dubbio che “in tutta la Turchia ci siano edifici fragili come a Van. E’ sicuro che il verificarsi di un altro sisma di questo tipo, in qualsiasi località, il risultato sarebbe simile”. Il terremoto di Van ha dimostrato che non solo le case fuori regola dei privati sono a rischio di crollo, ma anche le strutture statali. A Van sono rimasti in piedi solo due edifici pubblici: la prefettura ed il centro di gestione di crisi. Tutti gli altri hanno ceduto. Il Presidente del Consiglio d’amministrazione della Camera degli ingegneri edili, Serdar Harp afferma che le strutture statali sono esenti da un controllo esterno e gli ingegneri che approvano l’applicazione del progetto non hanno nemmeno l’obbligo di far parte dell’Ordine degli ingegneri edili che ha una funzione di vigilare sulla categoria. Dopo il sisma di Van, sono stati presentati vari rapporti nei quali la ragione principale dei cedimenti sembra dovuta all’utilizzo del materiale scadente: dalla sabbia non lavata adeguatamente, alla quantità di cemento armato, all’insufficienza delle staffe nei pilastri ed al mancato controllo finale da parte degli ingegneri responsabili del progetto.      

  


L’aspetto di Van è quello di una città in costruzione: tende, lavori in corso e strade completamente distrutte. In questo completo disastro c’è però una nota curiosa: il simbolo nazionale, il “Turco Van”, ossia il gatto di Van. In mezzo ad una piazza, infatti, notiamo un’imponente statua alta 4 metri che lo raffigura. Van è la patria d’origine di una particolare razza di gatti abilissimi nuotatori. Il Turco Van è un gatto di stazza grande: il maschio può arrivare a pesare 8 o 9 kg e la struttura del corpo è lunga e robusta. La pelliccia è priva di sottopelo, setosa e soffice. La caratteristica principale è la colorazione che prevede un mantello bianco calce, con coda colorata e macchie di colore sulla testa. Ha occhi grandi e ovali, molto espressivi ed il loro colore può essere azzurro, ambra chiara o impari (uno azzurro e un’ambra chiara), mentre la palpebra deve sempre essere rosa. Il simbolo nazionale però è a rischio d’estinzione in quanto solo a Van sono rimasti gli unici esemplari ufficialmente riconosciuti al mondo. L’allevamento del Turco Van, che si trova in un edificio a due piani affiancato da due gabbie con tettoia, non ha subito danni per i due terremoti del 23 ottobre e 10 novembre scorsi. Fetih Gulyuz, direttore del Centro di ricerca sul gatto di Van dell'Università del Centenario, ateneo che si trova nella città affacciata sull'omonimo e azzurrissimo lago nell'est della Turchia, quattro ore dopo il primo terremoto ha riferito che: "I gatti si comportavano come il solito, normalmente” ed ha aggiunto che non sono mai stati abbandonati. La Turchia è così orgogliosa di questo gatto che pure Ankara ha scelto i suoi occhi bicolori per un recente logo turistico.

La vice sindaca Bahar Orhan ci riceve in un prefabbricato che funziona come Municipio, dal momento che la sede non esiste più. Il nostro interesse è capire, come la città di Van, vive dopo il terremoto dello scorso anno. Molte famiglie sono state mandate nelle città vicine, a Sirnak, Diyarbakir, Batman, ma dopo la ricostruzione, vogliono che ritornino nelle loro case. Dopo il terremoto, la città di Van è stata divisa in cinque parti dove sono state allestite delle tende di coordinamento per le donne, i bambini, i volontari provenienti da altre città ed un presidio sanitario. La terra però continua a tremare, infatti anche il giorno prima del nostro arrivo c’è stata una scossa di magnitudo 4.2 Richter. Sono arrivati aiuti da tutte le città della Turchia, ed è stato anche avviato un centro di terapia psicologica per traumi subiti dal terremoto. La gente però ha paura di tornare alle proprie abitazioni, anche se sono agibili ed ad un solo piano.  Reazione del tutto normale in situazioni come questa. Un momento simile lo stiamo vivendo anche noi ora qui in Italia nella Regione dell’Emilia Romagna a mesi di distanza dal terremoto, anche perché le scosse, anche se di bassa entità, continuano e la paura spesso non è controllabile. Oltre alle tende sono stati installati anche 35 container, ma il governo ha dato la priorità al loro uso prima di tutto ai poliziotti, ai militari e per ultimo alla gente comune. La vice sindaca ci fa presente che il budget del comune è in estrema difficoltà, ha pochissime risorse e non riesce a far fronte alle necessità della sua gente, come per esempio, costruire un luogo da adibire ad una lavanderia collettiva, nonostante abbia ricevuto i macchinari, ma manca un posto dove collocarli e metterli in funzione. Il governo centrale, infatti, come regola, invia gli aiuti alla Prefettura non al Comune interessato e, quando deve effettuare dei versamenti ai Comuni, si trattiene il 40% come acconto sui debiti che ogni municipalità ha nei confronti del Governo. Van, vista la situazione d’emergenza, ha provato a chiedere la sospensione di questa prassi, ma purtroppo la risposta è stata negativa. Per quanto riguarda, per esempio, l’uso dei container, spetta alla municipalità farsi carico dei vari allacciamenti per i necessari servizi.  La popolazione non è in grado di pagare l’acqua o la luce, e di conseguenza, il Comune non può pagare quest’erogazione ed ha provato a chiedere alla Prefettura un rinvio del pagamento, fino alla fine dell’emergenza. La risposta è stata negativa. I quartieri dove sono stati collocati i container, sono stati militarizzati dalle forze di sicurezza: nessuna organizzazione, o Ong o la stampa può entrare e parlare liberamente con la gente. Per entrare ed uscire serve un’autorizzazione. La Vice sindaca ha inoltre chiesto alla Prefettura di poter ricostruire le strade rese impraticabili dal terremoto e dal gelo, ma anche questa volta la risposta è stata un No. A Van molti palazzi non esistono più: non c’è il Municipio, non c’è la stazione dei vigili del fuoco, non c’è l’azienda dei trasporti e delle 76 scuole esistenti, 35 sono andate distrutte. I corsi scolastici continuano all’interno dei container. La municipalità è in grado d’intervenire solo sulle emergenze. Per quanto riguarda le strutture ospedaliere, ne funziona una sola, è stata negata l’autorizzazione d’impiantare un ospedale da campo proposta da una delegazione iraniana, preferendo il trasferimento dei feriti in strutture in diverse città turche. La gente colpita dal terremoto stanca ed arrabbiata per la mancanza d’aiuti ha organizzato anche una manifestazione di protesta davanti alla prefettura ma la polizia ha reagito con lacrimogeni e violenza. Il governo ha praticato una terribile censura sulla distruzione della regione di Van e riesce a bloccare tutti gli aiuti provenienti dall’estero. La Prefettura sostiene che qui rappresenta il governo e quindi,  ha il diritto di prelevare tutti i soldi inviati per poi decidere cosa farne. L’alternativa resta dunque solo quella di consegnare gli aiuti direttamente nelle mani della popolazione colpita. La nostra associazione è riuscita a portare a Van, oltre ad aiuti materiali, anche una somma in denaro che potrà servire alla costruzione di un forno collettivo, evitando così alle donne di doversi recare nei loro vecchi quartieri per fare il pane ed alla struttura necessaria per la lavanderia. 

 

 


Al termine di questa visita incontriamo anche due bambine dell’associazione dei detenuti politici di Van, Tuyad Der e consegniamo al Presidente dell’associazione il corrispettivo delle 12 borse di studio. La breve visita è finita.    Ritorniamo a Diyarbakir.

 

 


Racconto della delegazione italiana in visita nella città di Van dopo il terremoto: 

http://azadiya.blogspot.it/2011/12/2-report-delegazione-italiana-in.html

 
Racconto di Giacomo Cuscunà da Van:  http://www.canedariporto.it/Cane_da_Riporto/SVE/Voci/2012/5/18_LAquila_turca__Van.html

Siamo ritornati a Diyarbakir per l’ultimo giorno. Una breve visita alla città e gli ultimi due incontri. Il primo, con i componenti di Tuhad Fed, Federazione delle associazioni impegnate nella difesa e nell’assistenza dei detenuti politici e delle loro famiglie. L’associazione Onlus “Verso il Kurdistan” dal 1999 ha attivato il progetto “Oltre le sbarre” che permette il sostegno a trenta famiglie che, dopo l’arresto del capofamiglia o dei figli, si trovano in condizioni economiche particolarmente difficili.


All’appuntamento sono presenti una dirigente di Tuhad Fed, Latice Makas ed un uomo, ex detenuto politico, che ha raccontato la sua storia. Questa persona, per motivi di sicurezza, ha chiesto di rimanere anonimo. Oggi ha 49 anni e ne ha trascorsi 30 in carcere. E’ stato incarcerato, per la prima volta, con l’accusa di appartenere ad un’organizzazione “terroristica” a 17 anni, per un periodo di 15 anni. Dopo solo due anni è stato nuovamente condannato con le stesse motivazioni ad altri 15 anni. Il suo compito oggi è quello di far sapere al mondo la verità sulle carceri turche. Dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980, la tortura divenne prassi quotidiana in tutte le carceri del paese. Nella “prigione 5” di Diyarbakir c’era una tortura molto pesante ed in quel periodo quattro detenuti famosi curdi si diedero fuoco per protestare contro le inumane condizioni carcerarie. Raccontare, parlare delle torture vissute è molto difficile, spesso si preferisce restare in silenzio, è troppo grande il dolore provato, sembra impossibile essere sopravissuti in quell’inferno. (Forum della Mesopotamia)


Lo Stato turco, come membro della Nato e fedele alleato degli Stati Uniti d’America, nella guerra al terrorismo doveva adeguarsi a Stato moderno democratico, anche nell’organizzazione delle carceri, introducendo, per esempio, l’isolamento. L’esempio lo poteva trovare osservando il sistema carcerario americano e spagnolo, non ignorando neppure la vecchia ma sempre moderna e praticata tortura, ottenendo così anche il rispetto del governo americano che regalò ad Ankara armi ed elicotteri di propria fabbricazione. Nel 1996 fu introdotta la prima cella di tipo “F”. Quest’innovazione aveva l’obiettivo d’isolare i prigionieri politici da quelli comuni, cosa impensabile con il vecchio sistema dato, l’altissimo numero di prigionieri nelle celle comuni. I detenuti, contrari a questo nuovo ordine, protestarono con uno sciopero della fame che coinvolse 69 persone. Morirono in 12, ma riuscirono a far chiudere il carcere appena sorto. Le rivolte furono numerose e tutte violentemente represse dai secondini, dalle forze di sicurezza rapida, dalle squadre anti-sommossa, con armi da fuoco e liquidi infiammabili. I casi più eclatanti furono le ribellioni del ’95– ’96 e ’99 che causarono la vita a molti detenuti ed il ferimento di centinaia di altri prigionieri che furono torturati, stuprati, mutilati, resi irriconoscibili. Per le lotte contro un carcere fuori d’ogni regola, lo strumento utilizzato dai detenuti in Turchia è lo sciopero della fame.


Il Signor X continua il racconto molto sofferto della sua vita, sente la necessità di farci partecipe di tutte le brutalità subite con la speranza che tutta questa violenza possa un giorno terminare. In queste carceri – afferma – lo scopo è arrivare all’isolamento totale della persona fino al suo completo annullamento. Oggi in Turchia ci sono 12 carceri speciali (il carcere di Van è stato evacuato a causa del terremoto). I prigionieri vivono in totale isolamento, senza nessuna possibilità di comunicazione neppure tra loro e sono quindi esposti a tutte le più distruttive pratiche esistenti di tortura. I detenuti quando arrivano qua, per prima cosa sono obbligati a spogliarsi completamente, nonostante abbiano già superato capillari controlli. Il mettere a nudo i prigionieri, era la tattica usata dai nazisti nei campi di concentramento. Rappresenta il modo più diretto per far sentire il detenuto che, da quel momento in poi, non sarà più considerato un essere umano, ma solo una “cosa” senza nessun diritto e nessuna dignità.  I detenuti spesso oppongono resistenza, rifiutano di spogliarsi, incuranti della reazione violenta dei poliziotti che, per prima cosa, li picchiano furiosamente con i bastoni, poi li mettono in totale isolamento in una cella singola per tre settimane. In queste carceri non possono esserci né minorenni né donne, ma in realtà i minorenni ci sono perché l’età è stabilita dai giudici e non risulta dalla carta d’identità. In Turchia esiste un ergastolo normale, che significa una pena fino a 36anni, e quello grave che va fino alla morte. Le donne sono maltrattate e violentate spesso durante i trasferimenti nelle carceri o negli ospedali e sono più di mille.
La politica di tipo F è una politica di totale spersonalizzazione. Il detenuto è obbligato a presentare per qualsiasi richiesta una domanda scritta che sarà soddisfatta solo se ha rispettato scrupolosamente tutti gli ordini della direzione carceraria. In carcere sono previste attività sociali, ma i detenuti politici hanno paura perché è sufficiente cantare una canzone ritenuta popolare per ricevere una punizione che può essere il divieto di comunicare con i propri familiari anche per tre mesi. I detenuti politici sono spesso costretti a chiedere ai loro familiari di interrompere le loro visite per non dover sempre subire molteplici ed umilianti perquisizioni da parte delle guardie. La vita d’inverno nelle carceri speciali è molto dura, non c’è riscaldamento e manca l’acqua calda. I medici sono scelti tra i militari che hanno prestato servizio in Kurdistan, sono molto giovani con poca esperienza e, per qualsiasi problema dispensano ai detenuti psicofarmaci. Il signor X, per esempio, in carcere ha avuto problemi di cuore, ma è stato mandato in cura dallo psicologo. La cosa positiva è quella che, in una situazione simile, si è creata una rete importante di solidarietà tra i detenuti politici e quelli comuni. X continua a ripetere che è molto difficile raccontare in modo capillare la vita d’ogni giorno vissuta in carcere perché troppe sono le cose che succedono. Le autorità turche, attraverso questi sistemi, vogliono principalmente separare i detenuti dalla famiglia e, per questo, prima di tutto sono inviati in un carcere che risiede in un’altra zona rispetto alla propria residenza. In questo modo per la famiglia diventa molto difficile e costoso poter continuare le visite ai propri detenuti.
Secondo i dati del Ministero di Giustizia nel 2011 sono morti in carcere per mancanza di cure 364 prigionieri e negli ultimi 10anni sono morti 1752 persone. Oggi ci sono più di 100 detenuti malati di cancro ed altre malattie gravi. Nel 1992 il totale dei detenuti tra politici e comuni era di 52.000, oggi di 126.000, di cui 12.000 politici e tra questi 6.400 appartenenti all’organizzazione del KCK. Gli aderenti al KCK non sono guerriglieri, ma sono sindaci, consiglieri, insegnanti, deputati, professionisti, semplici cittadini, tutti della società civile. Alcuni studenti per aver fatto uno striscione con la richiesta d’istruzione gratuita sono stati condannati a due anni di carcere con l’accusa di terrorismo e di separatismo. (IHD)

  

La nostra conversazione continua esaminando anche l’aspetto legato alla situazione dei 95 giornalisti che si trovano in carcere. La Turchia, in fatto d’arresti della carta stampata, riesce a superare anche la Cina. Le autorità turche, secondo una recente dichiarazione del Ministro degli Interni, in 60anni hanno vietato più di 22.600 libri. Secondo il rapporto dell’IHD, 11.994 persone, nel 2010, hanno subito un processo per “propaganda d’organizzazioni terroristiche” e 6.504 siti Internet, nel 2011, sono stati bloccati peggiorando notevolmente la situazione della libertà d’espressione. Secondo l’agenzia Bianet, sono stati confiscati sette quotidiani per 11 volte, vietati o confiscati tre libri, nove manifesti e due banner, ed un libro è stato oggetto d’indagine. Inoltre, le Autorità hanno ammonito 33 canali televisivi 41 volte e 3 volte una radio. La polizia, sempre secondo l’IHD, nel corso del 2011, ha fatto irruzione in ben sedici sedi dei mass media in Turchia. La Piattaforma per la Libertà dei Giornalisti ha rilasciato il 26 giugno scorso una dichiarazione scritta per annunciare una marcia per chiedere la libertà per più dei 100 esponenti dei media incarcerati in Turchia. La marcia ha avuto luogo il 29 giugno ultimo scorso. La Turchia si è quindi trasformata nella più grande prigione per giornalisti, così come per esponenti dei sindacati, avvocati, rappresentanti eletti, studenti, donne e bambini. Il silenzio dei governi occidentali ha certamente aiutato quest’operazione.

Lettera di un giornalista arrestato: http://kurdistanturco.wordpress.com/2012/06/17/lettera-da-un-giornalista-arrestato/

Parlare d’ingiustizia in Turchia si è rivelato un lavoro immenso, poche pagine scritte sono certamente insufficienti, ma sono abbastanza da far capire, a chi ritiene la Turchia un paese democratico, a chi la vorrebbe in Europa ed a chi la crede difensore dei Diritti del popolo palestinese o meglio, come dice Erdogan, di tutti i popoli oppressi, il vero volto di questo paese, osservando cosa sta facendo al popolo curdo ed ai difensori dei Diritti Umani curdi. La Turchia è un paese pericoloso anche per i lavoratori, nonostante la situazione economica vantata dal governo ed osannata dall’Occidente, perché si continua a morire per lavorare: 238 morti dall’inizio del 2012, e in nove anni, quasi 10.300. Secondo l’Ufficio Internazionale del Lavoro, ogni anno muoiono 2,2milioni di lavoratori in tutto il mondo, per infortuni sul lavoro o per malattie professionali, quasi 5000 persone il giorno. La Turchia si trova al primo posto nella lista tra i paesi europei ed è classificata terza al mondo.  Il 9 marzo, undici lavoratori sono morti in un incendio che ha distrutto la tenda che utilizzavano per trascorrere la notte, presso la sede di un importante centro commerciale di Esenyurt, ad Istanbul. Il 27 aprile, il deputato del BDP Ertugrul Kurkcu, ha chiesto la creazione di una commissione parlamentare d'inchiesta per determinare le cause della recrudescenza di tali incidenti: "Bassi salari, tempi di lavoro estenuanti che si spingono fino a 14 ore, la mancanza di sicurezza sociale, l’assenza di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si abbattono su più di 10 milioni di persone", ha detto l’Onorevole....I settori più colpiti sono l'edilizia, l’energia, l’industria metallurgica e il settore dei servizi……Il dipartimento non sta facendo il suo dovere, evitando di proteggere la vita dei lavoratori, al contrario, sta cercando di indebolire e sciogliere i sindacati. La vita di un uomo non può ridursi a numeri o statistiche, nulla è più importante della vita umana”.  Attualmente, quaranta sindacalisti sono “ospiti” nelle prigioni turche. Il Ministro della Giustizia, Ergin ha pubblicato questi dati: al 31 dicembre 2000 sono stati registrati 49.512 detenuti nelle carceri turche, nell’aprile 2012 il numero è salito a 132.060 (95.652 detenuti e 36.408 detenute). A questo punto, la famosa frase di Voltaire “ Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione” è la risposta più semplice alla domanda: la Turchia è un paese democratico e libero?

  

L’ultimo argomento che affrontiamo con il signor X è lo sciopero della fame in corso, all’interno e all’esterno delle carceri in Turchia e, come solidarietà, a Strasburgo. Lo sciopero della fame in carcere in Turchia è uno strumento ricorrente e molto utilizzato per avanzare legittime richieste, anche se non ottiene quasi mai dei risultati positivi. X conferma che ormai siamo arrivati al 123esimo giorno. Questa è la risposta alla totale indifferenza del governo turco nei confronti degli scioperi della fame a tempo determinato, avvenuti tra il 1° dicembre 2011 ed il 15 febbraio 2012 da circa 8.000 prigionieri politici curdi.  Il movimento di protesta si è poi rafforzato, trasformandosi in uno sciopero della fame ad oltranza.  Dal 15 febbraio, anniversario della cospirazione internazionale che ha portato alla cattura di Abdullah Ocalan, più di 400 prigionieri politici – continua X – hanno aderito allo sciopero.  Fuori delle mura delle prigioni, dal 20 febbraio in poi circa 20 parlamentari del BDP si sono uniti ai prigionieri, così come anche numerosi sindacalisti, sindaci, membri della società civile e familiari dei detenuti. Centinaia di persone in tutto il paese,  in particolare ad Hakkari, Diyarbakir,  Batman,  Istanbul,  Van e Sirnak,  hanno deciso di aderire allo sciopero. Decine di curdi provenienti da tutta Europa sono in sciopero della fame ad oltranza dal 1° marzo a Strasburgo per chiedere il rilascio di Abdullah Öcalan e la fine delle strategie d’annientamento che il governo dell'AKP sta attuando ai danni della popolazione curda. Gli 8000 militanti del PKK hanno annunciato che non abbandoneranno lo sciopero se il Governo non risponderà positivamente alle loro richieste. Il Governo turco ed Abdullah Ocalan sono gli attori principali e gli elementi chiave per una soluzione politica della questione curda in Turchia. Nel corso degli ultimi anni, ci sono state delle fasi di negoziazione, ma dal luglio 2011 lo stato turco ha ripreso una politica di totale isolamento nell'isola prigione d’Imrali, in cui è rinchiuso dal 1999 Ocalan ed altri 5 detenuti.  A seguito di tali provvedimenti, tutte le visite ad Ocalan, incluse quelle dei suoi avvocati, sono state negate. Le possibilità di comunicazione verso l’esterno sono estremamente limitate. I suoi avvocati difensori sono sistematicamente sottoposti a processi penali. Fino a questo momento, le Autorità Turche hanno scelto di affrontare la questione Curda, tramite l’uso della violenza e dell’annientamento, rifiutando il dialogo e la negoziazione. Negli ultimi mesi  le operazioni militari transfrontaliere hanno provocato la morte di ben 41 civili e l’Esercito Turco ha utilizzato armi chimiche (in violazione della Convenzione di Parigi), contro le forze della guerriglia Curda.  Le potenze occidentali, che non esitano ad intervenire in Medio Oriente in nome dei diritti umani e della democrazia, improvvisamente diventano cieche, sorde e mute quando si tratta curdi. E lo stesso vale per le Organizzazioni Internazionali. La diversità con la quale i governi europei hanno reagito di fronte alla notizia dell’inizio dello sciopero della fame il 20 aprile dell’ex primo ministro ucraino Yulia Tymoshenko, è un esempio concreto del detto “due pesi e due misure”.
Il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle ha minacciato di bloccare la ratifica dell'accordo d’associazione UE / Ucraina, il governo austriaco, in un'intervista del 3 maggio, ha deciso di boicottare le partite del campionato europeo di calcio 2012 che si terrà in Ucraina. Per la Tymoshenko si sono tutti mobilitati, dai governi alla stampa e mass media, per i 15 curdi a Strasburbo, che hanno portato avanti lo sciopero per 52 giorni, per i 2000 prigionieri politici curdi che hanno partecipato allo sciopero lanciato dai 400 detenuti dentro le carceri turche e per i 1200 prigionieri palestinesi che hanno iniziato uno sciopero della fame illimitato il 17 aprile per ottenere diritti fondamentali, niente, nessuna reazione, silenzio totale.
L’Onorevole Selma Irma, deputata del BDP, che ha iniziato uno sciopero della fame ad oltranza in carcere, ha spiegato la sua tragica e coraggiosa decisione con queste parole: "per coloro che hanno menti e cuori aperti le sbarre della prigione o la limitazione nello spazio non significano niente. D’altra parte, coloro che si pongono al servizio della libertà e della democrazia, prima o poi finiscono sempre in prigione. La questione curda è giunta ad un punto in cui solo un processo democratico basato sul dialogo e sulla negoziazione può portare alla pace. Siamo consapevoli che questo sarà un processo lungo e delicato. Da trent’anni a questa parte il nostro popolo sta chiedendo una soluzione democratica. Rispondere a tale domanda è insieme facile e difficile. Ogni processo di pace ha bisogno dei suoi attori e la persona che ha assunto il ruolo di leader del nostro popolo è l’onorevole signor Öcalan. In quanto rappresentanti eletti dal nostro popolo, siamo pronti a svolgere il nostro ruolo in questo processo, mettendo le nostre vite a servizio della causa. Sono preoccupata quanto voi per l’interruzione del processo di pace e dei negoziati con il signor Öcalan. Sono allarmata al pensiero che il genocidio politico contro i curdi messo in atto tramite gli arresti di massa, le esecuzioni, i massacri e le pressioni psicologiche, causerà attriti che porteranno a nuovi scontri fra i nostri due popoli”.
L’Europa ha inoltre dichiarato che le carceri di tipo F sono compatibili con il sistema carcerario europeo.
La presidente di Tuhad ha poi ricordato che gli avvocati dell’associazione sono in carcere e che tre loro dirigenti sono stati messi in libertà da tre giorni, ma il loro processo è ancora in corso. Ci presenta anche una donna che ha 7 familiari in carcere, di cui 5 hanno subito una condanna a 36 anni ciascuno.
Al termine dell’incontro, la delegazione italiana consegna al Presidente di Tuhad–Der, (associazione dei familiari dei detenuti politici) Latice Makas il denaro corrispondente a 30 affidi a distanza, mentre ad un responsabile di Sthay Der di Siirt (associazione dei detenuti politici e dei martiri) il corrispondente di 14 affidi. Adottare a distanza significa dare un aiuto concreto alle vittime della repressione.

 

  


L’ultimo incontro è con le “Madri per la Pace”, associazione di donne curde che organizzano conferenze stampa, sit-in, manifestazioni per diffondere il loro ideale: mettere fine a questa guerra. Un fazzoletto bianco posto sulla testa rappresenta il simbolo del loro lutto per un morto avuto in famiglia a causa del conflitto in essere. Nel 1996 nasceva l’associazione “Madri di Piazza Galatasaray” le parenti dei "kayiplar" (desaparecidos): ogni sabato mattina si raccoglievano in questa piazza ad Istanbul per chiedere chiarezza sulla sorte delle migliaia di detenuti politici e di militari uccisi negli scontri. Dopo l’arresto di Ocalan nel 1999, decidono d’impegnarsi in prima persona. Nasce così nel 1999, da un gruppo di donne curde e turche che avevano perso i loro figli d’ambo le parti in guerra, l’associazione legalmente costituita in Turchia, chiamata “Iniziativa delle Madri della Pace”, erede dell’esperienza di Piazza Galatasaray.  Un movimento in linea, inserito anche nell’ambito della proposta di pace avanzata e praticata, unilateralmente dal movimento kurdo negli ultimi due anni. Le "Madri della Pace" hanno una sede centrale ad Istanbul e sedi locali nelle città turche di Adana e Izmir e nelle città kurde di Diyarbakir e Van e stampano una rivista con una notevole attività pubblicistica. La base del loro movimento è il rifiuto della violenza e della rassegnazione, impegnandosi quotidianamente per la pace, la democrazia e i diritti umani. In ogni città le “madri” hanno acquisito un vasto protagonismo anche con forme autonome d’organizzazione in seno al partito democratico filokurdo DEHAP ed il loro punto di riferimento è l’associazione per i diritti umani IHD. Sostenere quindi queste donne tramite l’associazione IHD, mediante l’affidamento a distanza, significa dare un aiuto concreto alle vittime di questa repressione. La delegazione al termine di quest’incontro consegna il denaro corrispondente a 12 affidi con la speranza che per il prossimo anno questo numero sia aumentato.
 

Parliamo con due donne, la prima Raife Ozbey ci riferisce che sua figlia si trova in montagna tra i guerriglieri, ha 35 anni ed è laureata. Per nove anni ha lavorato in una fabbrica di tabacco ed è stata in carcere due anni. Quando è arrivata la sentenza della sua condanna a molti anni, ha scelto la montagna. La sua famiglia viveva a Mus, avevano casa e giardini ma l’esercito turco bruciò tutto e per questo furono costretti a scappare a Silvan. I tormenti non erano finiti: i figli erano umiliati a scuola, spesso l’esercito faceva incursioni e portavano in caserma o i figli o il marito e sparavano contro la casa. Altro trasferimento quindi a Adana, dove sono rimasti per due anni, ma anche qui la situazione non cambiava. Un’altra figlia che frequentava un corso da infermiera, subì un’aggressione con il tentativo d’impedirle di continuare gli studi e fu medicata con 25 punti di sutura in testa.  Altro trasferimento a Antalya dove rimasero per 4 anni, ma sempre nella stessa situazione d’oppressione. Il marito ed il figlio spesso erano arrestati e, per questo motivo si stabilirono infine a Diyarbakir. In questa guerra Raife ha perso 7 familiari.

  
 
La seconda donna, Adalet Yasayul è un ospite dell’associazione, è stata in carcere molti anni fa ed ha subito torture per 45 giorni. Ora suo figlio e sua figlia si trovano in montagna. La sua famiglia è stata esiliata prima ad Istanbul e poi a Mersin. Si trova ora qui a Diyarbakir, scappata con il marito dal villaggio in cui viveva per i soprusi da parte dei “guardiani”, ma anche perché si deve sottoporre ad una terapia fisica riabilitativa e psicologica per i postumi lasciati dalle torture subite. Le torture, infatti, le hanno causato lo strappo dei muscoli delle spalle e delle ginocchia e le hanno lasciato traumi psichici per l’atroce esperienza vissuta. Continua il racconto la figlia. Dopo il colpo di stato del ‘80, la famiglia di Adalet è stata minacciata e ha dovuto lasciare la sua casa. “Nel 1992 e 1993 – racconta la figlia – i poliziotti hanno assaltato la nostra casa, i miei fratelli erano piccoli, 4/5 anni, hanno arrestato mia madre e l’hanno torturata per 45 giorni continuativi.  All’inizio è stata sottoposta ad una tortura psicologia facendole credere di aver ucciso un suo bambino, ma poi sono passati alle torture fisiche: è stata ripetutamente e selvaggiamente picchiata ed infine stuprata con un bastone. Era una maschera di sangue. Si è salvata per le cure delle sue compagne di cella”.

In quel periodo la famiglia era dispersa. Alla sua liberazione si trasferirono ad Istanbul dove, oltre ad affrontare i traumi della violenza subita, dovevano anche far fronte alla miseria e alienazione della vita in una grande città, alla quale non erano abituati essendo solo dei contadini. Sono rimasti ad Istanbul 10 anni. Anche qui le arrestarono due figli perché curdi. Non sentendosi sicuri sono tornati al loro villaggio, ma la loro casa non c’era più, era distrutta. Erano rimasti soli e per questo soffrivano molto. La figlia lavora qui con le “Madri della Pace” e, per questo, Adalet ed il marito si trovano a Diyarbakir.

Qui finisce il nostro viaggio. E’ stata un’esperienza molto forte, toccante che certamente non potrà esaurirsi perché anche noi, al fianco del popolo Curdo, continueremo a denunciare, a lottare, a sperare per una soluzione pacifica di quest’eterno conflitto.

Per dovere di cronaca, il 9 marzo scorso le Madri della Pace, provenienti dalle province d’Istanbul, Diyarbakır, Smirne, Batman, Siirt e Yüksekova / Hakkari, si sono recate nel villaggio di Roboski, dove il 28 dicembre 2011, l’aviazione Turca ha ucciso 34 innocenti. La prima tappa della delegazione è stata dedicata ad una visita presso le tombe delle 34 vittime, su cui hanno deposto simbolicamente dei garofani. La portavoce della delegazione d’IzmirBehiye Yalcin, ha duramente criticato la recente visita della moglie del Primo Ministro al villaggio. Yalcin a tal proposito ha fatto la seguente dichiarazione: “La Signora Emine Erdogan, in occasione della visita alle madri delle 34 vittime, avrebbe dovuto fornire l’elenco dei colpevoli di tale massacro. Oggi ci troviamo nel villaggio dove lo Stato ha ucciso 34 innocenti tramite l’uso d’armi chimiche. Noi, condanniamo questa strage e crediamo che tutte le madri curde dovrebbero unire le forze allo scopo di porre fine a questo spargimento di sangue. Non ci daremo pace finché non cesseranno queste esecuzioni”. La portavoce delle Madri della Pace di Diyarbakır, Havva Kiran, ha dato sfogo alla sua frustrazione in merito al silenzio omertoso adottato dall’opinione pubblica internazionale sui fatti accaduti a Roboski: "Chiediamo la democrazia per il mondo intero, non solo per i curdi. Tuttavia, a tali richieste, lo Stato ha risposto con il massacro dei nostri figli. Mi chiedo come avrebbe reagito il Primo Ministro se i corpi dei suoi figli fossero stati ridotti a brandelli dalle armi chimiche, senza la possibilità di distinguere le parti dei corpi dei figli da quelle degli asini. Non abbiamo cresciuto i nostri figli per vederli uccisi. Se le autorità intendono collocare i loro militari e le stazioni di polizia nei nostri villaggi,  dovrebbero almeno contribuire ad un processo di pace ma se questo non avverrà, dovranno lasciare il nostro territorio ". La Signora Kiran ha sottolineato che è arrivato il momento di dire basta: "Se non sarà garantita una soluzione pacifica entro la primavera, il fuoco annienterà tutto”.

I soldati turchi hanno attaccato il 28 giugno scorso la “Veglia di Giustizia per Roboski”. Il motto del raduno e della veglia affermava: “Non abbiamo dimenticato Roboski e non lasceremo che avvenga”. I soldati, come risposta, hanno usato getti d´acqua a pressione per disperdere la folla che stava raggiungendo la marcia. Alla marcia, guidata dal Congresso della Società Democratica (DTK), hanno aderito i rappresentanti di numerosi partiti politici e organizzazioni non-governative.

I dimostranti, che chiedono giustizia a fronte dell´assenza di qualsiasi processo giudiziario contro gli autori della strage, sono stati sottoposti a pressioni da parte delle forze di sicurezza del regime AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo). La marcia, partita dal villaggio, si è conclusa nell’area della tragedia dove 34 civili, inclusi 19 minorenni, sono morti a causa del bombardamento d’aerei da guerra turchi il 28 dicembre 2011.

30/06/2012
Fonti: ANF News Agence, IHD, Firat news, Secondo Protocollo, Nuce Tv, ActuKurde, Sguardo sul Medioriente,Azadiya.blog                               


Tunisia 14 gennaio 2012
UN ANNO DOPO LA RIVOLUZIONE
Viaggio in un paese libero

di Mirca Garuti e Flavio Novara


Il 17 dicembre 2010 inizia la rivolta del popolo tunisino contro il suo dittatore, una sommossa popolare conclusasi il 14 gennaio 2011 con la cacciata del vecchio presidente Zine el-Abidine Ben Ali dal palazzo del potere.
L'effetto scatenante di una situazione già da tempo insostenibile, la morte di Mohamed Bouaziz. Un giovane laureato che per vivere faceva l'ambulante abusivo a Sidi Bouzid e che per protestare contro la polizia comunale che gli aveva sequestrato la merce, moriva dandosi fuoco nella piazza principale del suo paese.
Una serie di manifestazioni di piazza del tutto spontanee scuotono molte città  del centro sud della Tunisia. La paura che, fino a questo momento,  aveva immobilizzato il popolo, ha trovato la forza e l'energia di trasformarsi, dissolvendosi in un onda  travolgente contro la frustrazione per la disoccupazione, la corruzione dei poteri, l'indifferenza delle autorità  e per la mancanza di libertà d'espressione e di stampa. La reazione della polizia è molto dura. L'8 ed il 9 gennaio rappresentano la fase più nera: 25 morti, ma la forte repressione non ferma i dimostranti, anzi la protesta si amplifica e si diffonde nelle altre città  arrivando fino a Tunisi.
“Dégage!” (vattene!) urla la gente dal sud al nord della Tunisia.

La maggior parte sono giovani che chiedono democrazia e libertà. Gli stessi, per lo più laureati senza uno sbocco per il futuro e condannati già  ad una sicura immigrazione, che hanno deciso, attraverso Facebook e la rete dei blogger, di dare nuova speranza a tutti i popoli arabi oppressi.
Dégage  la parola d'ordine della rivolta: dall'Egitto, ancora non conclusa e dai continui scontri e martiri, all'Algeria, al Marocco, alla Libia ed alla Siria.
Tutte diverse tra loro e tutte non spurie dall'ingerenza straniera, sia essa islamica, come Arabia Saudita e Qatar o laico-judaico-cristiana come Francia, Regno Unito, Usa e Israele.

Dalla conclusione dei movimenti di quei giorni, poco si è saputo e il silenzio mediatico ha impedito di comprendere senza strumentalizzazioni cos'è stata la rivolta tunisina di quei giorni e cos'è oggi la nuova Tunisia liberata. A metà luglio 2011 a Tunisi c'è stata infatti una nuova ondata di manifestazioni, fermata in modo violento dalla polizia. Qualcuno ancora chiede perché continuano a scendere in piazza dal momento che la dittatura è  finita. La libertà senza una vera giustizia sociale non può essere considerata una vera libertà .

A che punto è quindi ora, il processo di democratizzazione e come si sta evolvendo la questione della laicità dello stato? E la questione immigrazione, come è stata risolta dal governo italiano? Quanta responsabilità ricade sulle spalle dell’Italia?
Per questo ancora una volta, la redazione di Alkemia ha deciso di provare a dare una testimonianza diretta di ciò che sta avvenendo in quel paese del dopo elezioni, per la prima volta democratiche, e che ha visto uscire trionfante il partito En-Nahdha di ispirazione islamica.
Un viaggio non solo tra i partiti, movimenti politici e di opinione per sentire i loro progetti e programmi, ma sopratutto con il popolo della capitale Tunisi, o di Regueb, nel cuore contadino del paese. Unica voce mancante il Sindacato, impegnato in un importante congresso, che con la tattica e sciopero generale come sviluppo e continuità  del movimento, ha consentito e contribuito a dare corpo e azione ad una mobilitazione spontanea e senza un vero progetto politico.
 

 

 

 TUNISIA UN PAESE IN MOVIMENTO di Mirca Garuti

TUNISIA: I GIOVANI ASPETTANO ANCORA di Maurizio Musolino

LA TUNISIA UN ANNO DOPO LA RIVOLTA di Gustavo Pasquali

A CHE PUNTO SONO LE RIVOLUZIONI  di Gilbert Achcar 

IL RACCONTO DI QUEI GIORNI

di Fabio Merone

(http://www.facebook.com/itinerari?sk=wall&filter=2)

 

 


IL PARTITO DI MAGGIORANZA ISLAMICO EN-NAHDHA


La differenza che subito si percepisce nell'incontro con i rappresentanti del partito di maggioranza islamico  En-Nahdha rispetto a quelli della sinistra, delle donne democratiche e del popolo tunisino è nel luogo dell'incontro stesso. Non è una cosa irrilevante avere a disposizione un intero edificio di otto piani, nuovo e moderno, con  uno staff di persone adibite all'organizzazione  ed al controllo. E' una dimostrazione di forza e di potere.


Le altre forze, divise e frammentate, hanno accolto la nostra visita in appartamenti in edifici o addirittura presso uno studio professionale messo a nostra disposizione per questo speciale evento.

L'incontro è stato molto interessante e pieno di promesse verso un'evoluzione del potere islamico, attraverso la costruzione di uno “stato di diritto”. Il partito En-Nahdha esite da 40 anni ma è sempre stato  in clandestinità, fortemente represso sotto la dittatura di Ben Ali.

Il grosso punto interrogativo per noi occidentali  è sempre quello legato alla laicità  dello stato. Riuscirà il nuovo governo tunisino ad andare verso una democrazia senza obblighi di religione? Riuscirà la nuova Tunisia a non subire le pressioni di altri stati arabi come il Qatar o l’Arabia Saudita?

A questa domanda risponde, Rached Ajmi Lavorimi Resp. Dipartimento Cultura del partito En-Nadhdha alla presenza anche del loro leader spirituale Rached Ghannouchi.




Rached Ghannouchi - Guida Spirituale del Partito di ispirazione islamica

Rached Ajmi Lavorimi - Resp. Dipartimento Cultura  

 

 


LA VOCE DELLA RIVOLTA: I BLOGGER TUNISINI



Il primo impatto con la società tunisina avviene con l'incontro alla “Casa Sicilia” dei vari blogger che hanno avuto la capacità  di far arrivare la voce della rivolta tunisina fuori dai suoi confini.

Per la prima volta sentiamo anche parlare di problemi legati alla droga. Un fenomeno che ha avuto un'impennata improvvisa poco prima dell'inizio della rivoluzione. Solo un caso?  Si tratta di droghe molto economiche e quindi diffuse nei quartieri poveri: 15 dinari per una dose sufficiente per 4 persone.

Una testimonianza diretta degli avvenimenti di quei primi giorni di rivolta e, nello stesso tempo, una accesa discussione su come deve essere portato avanti questo processo di democrazia.

   1° Parte   

2° Parte 

 

 

LA VOCE DELLA RIVOLTA: I CITTADINI DI REGUEB

Il movimento di rivolta ha avuto il suo epicentro iniziale, in una regione (circoscritta tra Sidi Bouzid, Kesserine e Tahla) dove la crisi si è mostrata dai profili netti: alta disoccupazione e sfruttamento. Un sottosviluppo del comprensorio agrario da anni abbandonato dai grandi finanziamenti destinati alla costa turistica. Una società contadina che pur sviluppando un alto livello di formazione delle giovani generazioni, ha subito solo politiche di gestione repressiva della povertà. Quale sviluppo agrario per queste zone? Quali nuove proposte dal popolo per il rilancio dell’occupazione?

 


LA RIVOLTA CONTADINA di Fabio Merone

 


IL CONVEGNO DI REGUEB

 

 

TAVOLA ROTONDA: QUALE PROGETTO PER UNA NUOVA TUNISIA



LA VOCE DELLE DONNE: ATFD

 In un appartamento addobbato di manifesti di lotta e di diritto delle donne, incontriamo Monia Benjemia, rappresentante de l'Association Tunisienne des Femmes Démocrates che esiste da più di 20anni e lotta per il miglioramento della donna all'interno di un codice di famiglia. In Tunisia non esiste la poligamia ed il ripudio, ma la situazione femminile è molto difficile. Non le troviamo contente, si sentono molto preoccupate per un governo ancora molto conservatore, forse più di prima. Da anni reclamano una legge specifica sulla violenza della donna. Si interrogano sul perchè molte donne hanno iniziato a mettere il velo, anche a bambine piccole. Sotto il regime di Ben Alì il velo era vietato, lo stato dittatore era fortemente laico, oggi,  con il partito En-Nahdha al potere la società maschilista  tunisina si sente autorizzata ad esprimere il proprio sentimento religioso.

Il diritto al divorzio e all'aborto ottenuto nel 1956 e 1967 (prima quindi che in Italia!) non mette le donne tunisine al riparo di una forte discriminazione nella loro vita sociale.

Sono un'associazione di sinistra e finora hanno sempre rifiutato di entrare a far parte di un qualsiasi partito politico.

Ovunque si vada,  la strada per una vera parità di diritti per la donna è sempre molto lunga e tortuosa. All'apparenza sembra sempre che non ci siano problemi, ma la realtà è ben diversa e, queste donne ne sono una precisa testimonianza.


Monia Benjemia - portavoce Ass. delle donne democratiche tunisine

 

 

 

 

INCONTRO CON I PARTITI DELLA SINISTRA TUNISINA

La sinistra tunisina è formata da diversi partiti che alle ultime elezioni del 23 ottobre 2011 si sono presentati divisi e con una campagna elettorale che è servita, oltre a condurli verso la sconfitta, a mettere in evidenza solo le differenze tra le varie correnti politiche lasciando cadere nel vuoto il vero obiettivo che era quello di dare ad un paese per anni sotto dittatura, una base costituzionale e legale.

Oggi dopo quella sconfitta, forse qualcosa sta cambiando. Incontriamo il Pcot (partito comunista dei lavoratori tunisini), El-Ettajdid (partito democratico dei lavoratori), il Watad (movimento patriottico nazionale) e la rete Destourna.



Il Pcot non ha i connotati storici di un partito, nasce infatti solo nel 1986 in clandestinità ed è stato riconosciuto solo dopo la rivoluzione.

Affermano che gli islamisti furono presenti solo nell'ultima fase della rivoluzione.

Quello che è successo è stata una vera rivoluzione perchè ha colpito il potere politico, ma il vecchio sistema è ancora ben presente anche perché non esiste ancora un progetto politico chiaro per questo paese.

Questo partito ha proposto la costruzione dell’Assemblea Costituente ed il suo segretario, analizzando le ultime elezioni, afferma che il Pcot non è in effetti un partito elettorale ma rivoluzionario. Questa è stata un'esperienza unica ed importante, ora il partito si deve preparare per la seconda fase.

 

Hamama Hanmami - segr. generale del PCOT (Partito comunista dei lavoratori in Tunisia)

 

 


 

 


Il Partito democratico dei lavoratori El-Ettajdid è il partito più importante in Tunisia dopo quello islamico En-Nahdha. Dopo la caduta di Ben Ali sono sorti in Tunisia 111 partiti, 81 dei quali hanno partecipato alle elezioni. Si trovano dunque all'opposizione dentro l'assemblea costituente ed il loro obiettivo ora è quello di costruire un largo coordinamento democratico del centrosinistra per potersi  presentare uniti alle nuove elezioni, per parlare di costituzione e per recuperare quel 1.300.000 di elettori rimasti senza rappresentanza. Così inizia il suo discorso il segretario generale del partito storico della sinistra tunisina, Ahmed Ibrahim evidenziando che il partito vincitore, in realtà , rappresenta solo il 25% della popolazione. Il segretario continua la sua esposizione facendo un'analisi sul fallimento delle elezioni per poter creare una  presa di coscienza da sviluppare in questo periodo di transizione, in attesa di nuovi probabili elezioni, dopo una nuova legge elettorale. Elemento fondamentale per questa costruzione è il sindacato, istituzione molto legata ai lavoratori, artigiani e contadini. Altra parte importante è la massa giovanile che si trova coinvolta nelle piazze, nelle manifestazioni, nei presidi ma è assente nelle forme strutturali della vita dei partiti. In fondo i destinatari di questa rivoluzione sono proprio loro, i giovani!

Termina questa chiacchierata il Sig. Tarek Chaaboune che conosce molto bene la situazione della comunità  tunisina in Italia, la seconda per grandezza all'estero. Comunità  più vittima di tutte le altre, abbandonata dalla  stessa ambasciata, lasciata a se stessa in balia degli eventi nel silenzio più totale. Tra l'Italia e la Tunisia ci sono solo forti interessi economici, occorre recuperare quelli culturali e politici.


Ahmed Ibrahim - segr. generale del El - Ettajdid (Partito Democratico dei lavoratori) e Tarek Chaaboune - resp. esteri del partito

 

 

Il Watad, movimento patriottico nazionale di sinistra democratica, ha come riferimento politico Antonio Gramsci. Sono in Parlamento con un parlamentare.

Parliamo con il Sig. Chokri Belaid.

La crisi attuale mette in evidenza la necessità  di una mobilitazione generale con vari partiti di sinistra nel mondo per creare un fronte unico democratico nel Mediterraneo. Bisogna creare un'alleanza per contrastare l'avanzata della destra religiosa in questo paese. Elenca i tre punti fondamentali che questo partito intende portare avanti, sperando anche con l'aiuto dei sindacati per ottenere così una forza maggiore all'interno dell'assemblea costituente: diritti economici e sociali - civili e donne - sviluppo. Vuole sottolineare che la rivoluzione all'inizio è stata spontanea, ma dopo il 14 gennaio, con l'apporto dei sindacati, tutto è diventato di sinistra, mentre è passato solo il messaggio  che  tutto “era spontaneo” e questo ha indebolito le forze di sinistra a livello elettorale.

Oggi tutto è in trasformazione.


Chokri Belaid -  EL-WATAD (Movimento dei nazionalisti democratici)

 

 

 

 

Incontriamo il leader della Rete Destourna, Jaouhar Ben Mbarek nello studio della sorella avvocato. La situazione odierna si presenta meno gloriosa di un anno fa, è un momento molto difficile da un punto di vista economico e il dibattito che oggi c’è all’interno dell’assemblea costituente non è rivolto alla costruzione di un patto sociale ma alla spartizione del potere politico all’interno del nuovo partito costituito. Continua il suo discorso spiegandoci come è stato ottenuto il risultato elettorale e non nasconde la sua preoccupazione per la legittimità della rivoluzione e per un  suo futuro democratico. Per tutto questo è importante mettere insieme tutte le forze progressiste, avere un vero programma politico condiviso e partire dai comitati locali. La grande frustrazione che avvolge i tunisini non è solo legata al risultato elettorale ma anche al fatto che il partito En-Nahdha è riuscito ad imporre la propria agenda. Il movimento Destourna non vuole far parte delle future alleanze, ma vuole essere una massa critica per evitare gli errori del passato. Occorre una presa di coscienza più profonda e non si può pensare solo di unirsi sotto alcune sigle senza il coinvolgimento delle masse con progetti propositivi. La coalizione strategica dei 3 partiti che presiedono l’assemblea costituente, chiamata del leader della rete Destourna, la troika,  è dominata dal partito islamico En-Nahdha con 89 seggi con il  primo ministro Hamadi Jebali, dal Congresso per la Repubblica (CPR) con 29 seggi e Presidente della Repubblica Moncef Marzouki e dal partito socialdemocratico Attakattol  con 21 seggi ed il capo della costituente Mustafa Ben Jafar.  La troika non ha rispettato i termini del contratto per il quale il popolo della Tunisia è andato a votare: la costituente doveva durare un anno. Questo patto è stato cancellato, ora non c’è più un limite di tempo. Il Destourna non è un partito ma una rete laterale, un movimento volontario, una rete di lavoro ed aggiunge che tutta la sinistra è andata verso il popolo mentre invece doveva andare con il popolo. Qui sta la differenza con il partito islamico.

 

 

Jaouhar Ben Mbarek - portavoce del RETE DESTOURNA (Nuovo Movimento di Sinistra)

 

 

 


SIRIA: LA MILITARIZZAZIONE, L'INTERVENTO MILITARE

E L'ASSENZA DI STRATEGIA 
di Gilbert Achcar

 


   Ho potuto assistere alla riunione dell’opposizione siriana che si è svolta l’8 e il 9 ottobre scorsi in Svezia, nei pressi della capitale Stoccolma. Un certo numero di oppositori, uomini e donne, attivi in Siria o all’estero, si sono riuniti con degli importanti membri del Comitato di coordinamento (CC) venuti appositamente dalla Siria per l’occasione, con la partecipazione dell’esponente più significativo del Consiglio Nazionale siriano [CNS, l’altra fazione della opposizione siriana, quella maggiormente riconosciuta all’estero], Burhan Ghalioun, il suo presidente.
   Gli organizzatori della conferenza mi avevano invitato a parlare del tema dell’intervento militare straniero nell’attuale situazione in Siria. Il mio intervento è stato accolto con interesse e mi era stato chiesto di scriverlo (avevo pronunciato il mio discorso basandomi su brevi note). Mi sono impegnato a farlo, ma diverse incombenze mi hanno impedito fino ad oggi di mantenere l’impegno.
   Gli eventi in Siria in questi ultimi giorni sono precipitati, dando vita a un dibattito sempre più vivace intorno alle questioni dell’intervento militare e della militarizzazione della crisi, i due argomenti del mio intervento in Svezia. Questi sviluppi mi hanno spinto a ottemperare al mio impegno prima che fosse troppo tardi. Svilupperò, quindi, le tesi che ho sostenuto in Svezia, con un commento sugli sviluppi più recenti relativi a queste questioni.
   Il mio intervento alla conferenza di ottobre era stato preceduto da una domanda rivolta da un partecipante a Burhan Ghalioun relativamente alla sua posizione, o quella del CNS, riguardo agli appelli per un intervento militare in Siria. Ghalioun aveva risposto che questa questione non era attualmente in discussione, poiché nessun Paese esprimeva una qualsiasi volontà di intervenire militarmente e che «quando saremo di fronte a una simile volontà d’intervento, adotteremo la posizione appropriata».
   Ho iniziato il mio intervento sottolineando che l’opposizione siriana doveva definire una posizione chiara sulla questione dell’intervento militare straniero, perché è evidente che questa ha un’influenza importante sulla prospettiva di un intervento del genere. La reticenza che oggi possiamo osservare da parte degli Stati occidentali e regionali rispetto a un intervento diretto potrebbe cambiare domani se le richieste d’intervento fatte dall’opposizione dovessero moltiplicarsi.
   È stata la richiesta del Consiglio Nazionale Transitorio libico per un intervento militare internazionale, formulata agli inizi di marzo, che ha spianato la strada alla Lega araba per fare un’eguale richiesta, seguita dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Se l’opposizione libica avesse rifiutato ogni genere di intervento militare diretto (invece, come ha fatto, di opporsi solo a un intervento terrestre e di chiedere un sostegno aereo), la Lega araba non avrebbe potuto chiedere l’intervento e l’ONU non avrebbe potuto avallarlo.


La Libia e i costi dell’intervento militare straniero

   Avendo partecipato alle discussioni relative a quest’argomento, ho preso spunto per il mio intervento dalle lezioni dell’esperienza libica. Come la grande maggioranza dell’opinione pubblica araba, avevo espresso la mia comprensione per il fatto che i ribelli libici fossero stati costretti a chiedere un sostegno straniero per evitare il massacro di massa che avrebbe potuto essere commesso se le forze di Gheddafi avessero assaltato i bastioni della rivolta a Bengasi, a Misurata e altrove, non essendo in quel momento i ribelli in grado di respingere un simile attacco con le proprie forze.
   Abbiamo addossato a Gheddafi tutta la responsabilità d’aver creato le condizioni che hanno portato all’intervento straniero, mettendo in guardia i ribelli verso ogni illusione relativamente alle intenzioni delle potenze occidentali che evidentemente intervenivano in loro favore. Infatti, l’intervento militare straniero in Libia si è realizzato ad un costo elevato, che può essere riassunto in questo modo:

-  Il prezzo politico immediato dell’intervento straniero è stato quello che ha permesso a Gheddafi di rivendicare che in qualche modo egli rappresentasse la sovranità nazionale e di poter accusare i ribelli di «essere agenti dell’imperialismo occidentale». Ciò ha influenzato una parte della società libica, seppure limitata.
-  Il prezzo politico più importante è stato che le potenze che sono intervenute si sono sforzate di togliere ai ribelli libici il loro potere decisionale. Esse non si sono limitate a fermare l’attacco contro i bastioni della sollevazione e a impedire a Gheddafi di usare la sua forza aerea. Sono andate ben oltre, distruggendo le forze aeree libiche (gli Stati occidentali, in particolare la Francia e la Gran Bretagna, aspettano con impazienza di poter vendere armi alla Libia del dopo-Gheddafi) così come parti importanti delle infrastrutture e degli edifici pubblici del Paese (gli Stati occidentali e la Turchia hanno iniziato a farsi concorrenza per [accaparrarsi] il mercato libico della ricostruzione anche prima della caduta del regime di Gheddafi). Le potenze occidentali hanno rifiutato di fornire ai ribelli libici le armi che chiedevano urgentemente e insistentemente per poter proseguire la liberazione del loro Paese senza intervento straniero diretto. Delle armi sono state fornite (dal Qatar e dalla Francia) solo nella fase finale della battaglia. Questi invii limitati hanno accelerato la caduta del regime di Gheddafi, dopo un lungo periodo di impasse sui fronti.
-   L’obiettivo delle potenze occidentali era quello di imporsi come attori principali nella guerra contro Gheddafi in modo da poterla dirigere. Hanno voluto stabilire una mappa per la Libia del dopo-Gheddafi; a questo scopo hanno creato anche un comitato internazionale. Esse hanno anche cercato, ad un certo momento, di concludere un accordo con la famiglia Gheddafi, alle spalle del Consiglio Nazionale libico. In conseguenza, il destino della Libia stessa veniva elaborato a Washington, Londra, Parigi e Doha più che in Libia, prima della liberazione di Tripoli. Certo, il desiderio degli Stati occidentali di controllare la situazione in Libia dopo Gheddafi era del tutto illusorio, come avevamo previsto. Ma ciò avviene oggi mentre in Libia regna il caos, aggravato dall’ingerenza occidentale e regionale.


La Siria: tra la Libia e l’Egitto
 

 

 


  Tuttavia, l’impressione che oggi prevale è che l’intervento straniero ha evitato che la sollevazione libica venisse schiacciata, cosa che, se fosse avvenuta, avrebbe posto fine al processo rivoluzionario in tutta la regione araba. L’intervento ha permesso ai ribelli libici di liberare il loro paese dalle grinfie del brutale dittatore ad un costo che è stato comunque ben inferiore a quello che gli iracheni hanno dovuto pagare per essere liberati dal regime tirannico di Saddam Hussein da un’invasione straniera. L’occupazione dell’Iraq giunge al termine dopo otto anni terribili, durante i quali il Paese ha toccato il fondo ed ha pagato un prezzo umano e materiale esorbitante, tutto questo per trovarsi oggi di fronte un futuro oscuro e minaccioso.
   La conseguenza di questa differenza tra la Libia e l’Iraq è che, mentre il secondo è un esempio piuttosto repellente per i siriani, l’esempio libico ha instillato in molti il desidero di imitarlo. Ciò si riflette nei crescenti appelli a un intervento militare dopo la liberazione di Tripoli, al punto che la giornata di mobilitazione di venerdì 28 ottobre è stata contrassegnata dalla richiesta di una no-fly zone.


   Tuttavia, chiunque immagini che uno scenario simile a quello libico possa ripetersi in Siria, si sbaglia crudelmente. L’opposizione siriana deve essere cosciente che un eventuale intervento militare diretto in Siria (a causa dell’opposizione a un intervento indiretto, come la fornitura di armi) sarà più costoso del caso libico e questo per diverse ragioni che si possono così riassumere:

-  La situazione militare in Siria è molto diversa da quella che c’era in Libia. Quest’ultimo paese è caratterizzato dall’esistenza di concentrazioni urbane separate da spazi territoriali quasi desertici, spesso vasti. In queste condizioni la forza aerea diventava essenziale, tanto più che le zone controllate dai ribelli libici erano pressoché prive di sostenitori del regime. Per questo il regime ha fatto ricorso alla forza aerea nella sua offensiva controrivoluzionaria. E questo ha anche reso il sostegno aereo straniero molto efficace per la protezione delle zone ribelli e la limitazione del movimento delle forze del regime al di fuori delle zone abitate, tutto ciò ad un costo in perdite di civili relativamente contenuto.

   Invece, la densità di popolazione in Siria è molto più elevata che in Libia e oppositori e sostenitori del regime molto più mescolati fra di loro, cosa che ha impedito al regime siriano di usare la sua forza aerea in modo massiccio. Di conseguenza, una zona di esclusione aerea sulla Siria avrebbe solo degli effetti molto limitati se dovesse riferirsi solo al suo significato effettivo. Oppure avrebbe conseguenze devastanti in termini di vite umane e di distruzione, se dovesse assumere l’aspetto di una guerra aerea generalizzata contro il regime, come è stato nel caso della Libia. Dato che le capacità difensive dell’esercito siriano sono ben più significative di quelle di Gheddafi, il livello e l’intensità dei combattimenti sarebbero molto più elevati in Siria – senza dimenticare che il regime siriano non è isolato come lo era quello di Gheddafi e che un intervento militare straniero in Siria infiammerebbe l’intera regione, che è altamente esplosiva.
   D’altronde, attualmente nessuna città siriana corre il rischio di un massacro su vasta scala come lo correva Bengasi, e nessuna si trova di fronte a un destino paragonabile a quello della città siriana di Hama nel 1982, quando il regime di Assad* riuscì a isolarla dal resto del Paese. La forza dell’insurrezione siriana risiede nell’essere largamente estesa e che i ribelli non hanno commesso l’errore di prendere le armi, cosa che, se fosse avvenuta, avrebbe considerevolmente indebolito lo slancio della sollevazione e avrebbe permesso al regime di sopprimerlo molto più facilmente.
   I ribelli siriani fino ad ora hanno fatto ricorso a delle forme di lotta come le proteste notturne e le manifestazioni del venerdì (e ciò non per ragioni religiose, ma perché il venerdì è il giorno ufficiale di vacanza ed è difficile per il regime impedire alle persone di riunirsi nelle moschee), in modo da preservare l’anonimato della maggioranza dei manifestanti. Questo metodo di manifestare che si coniuga alla guerriglia è il più appropriato quando una sollevazione popolare deve far fronte a una repressione brutale messa in atto da una forza militare di una superiorità schiacciante.
* Qui si riferisce a Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente siriano Bashar al-Assad. [NdT]


-  Al contrario del caricaturale regime di Gheddafi – che si era da anni rivolto a diversi Stati occidentali con i quali aveva stabilito una stretta cooperazione in ambito economico, in quello della sicurezza e dei servizi segreti – il regime siriano resta un ostacolo per gli Stati Uniti nella realizzazione dei loro progetti nella regione, a causa della sua alleanza con l’Iran e con gli Hezbollah libanesi e a causa del suo sostegno a diverse forze palestinesi che si oppongono alla loro capitolazione sotto l’egida degli Stati Uniti.
 
    Riconoscere questa realtà non deve in nessun modo suggerire l’astensione dal sostegno delle rivendicazioni popolari per la democrazia e i diritti umani, sia che ciò avvenga in Siria o in Iran. Tuttavia, occorre prenderla in considerazione nel modo in cui lo fa l’opposizione iraniana che si è categoricamente opposta ad un intervento militare straniero negli affari interni del Paese e difende il proprio diritto a sviluppare l’energia nucleare di fronte alle minacce israelo-americane che tentano di impedirlo sostenendo che l’Iran costruisce delle armi nucleari.
   L’opposizione siriana giustamente critica il regime per il suo opportunismo, ricordando tanto l’intervento in Libano contro la resistenza palestinese e il movimento nazionale libanese nel 1976 quanto la sua adesione alla coalizione sotto la direzione degli Stati Uniti nella guerra del 1991 contro l’Iraq. Coloro che criticano la doppiezza del regime siriano rispetto alla causa nazionale non devono consentire a quest’ultimo di apparire credibile quando pretende di combattere «agenti» di potenze occidentali, chiedendo l’intervento di queste stesse potenze occidentali. L’opposizione nazionale non deve consentire al regime di scavalcarla nella difesa della causa nazionale. Essa deve comprendere che, poiché il territorio siriano è parzialmente occupato da Israele con il sostegno degli Stati occidentali, non deve chiedere aiuto rivolgendosi ai nemici e agli oppressori della Siria. Se queste potenze intervenissero, sicuramente cercherebbero di indebolire la Siria, così come hanno indebolito l’Iraq.
-  Rovesciare un regime, qualunque esso sia, è un obiettivo strategico per raggiungere il quale i mezzi cambiano secondo i casi e i Paesi. La strategia dipende dalla composizione del regime che i rivoluzionari decidono di abbattere.
   Prendiamo in considerazione, per esempio, le differenze tra il caso dell’Egitto e quello della Libia.

  

   In Egitto, l’esercito regolare in quanto istituzione era e continua ad essere la spina dorsale del regime. Il potere di Mubarak ne era il prodotto e si basava sull’esercito, ma non lo «possedeva». Per questo motivo la sollevazione popolare si è sforzata di preservare la neutralità dell’esercito per rovesciare il despota. Questa strategia si è rivelata vincente, anche se ha creato nelle masse l’illusione che l’esercito in quanto istituzione e i suoi comandanti potessero mettersi a disposizione del popolo in maniera disinteressata. Invece di stimolare lo spirito critico del popolo e dei soldati e di avvertire che le alte sfere dell’esercito avrebbero fatto in modo da preservare i loro privilegi e il loro controllo sullo Stato, le principali forze del movimento di opposizione hanno in realtà contribuito a diffondere delle illusioni fra le masse. Il risultato è stato che la rivoluzione egiziana è rimasta incompiuta; vi sono infatti tanti elementi di continuità quanti sono gli elementi di cambiamento, se non di più.
   In Libia, invece, Gheddafi aveva dissolto l’istituzione militare e l’aveva ricostruita sotto forma di brigate collegate alla sua persona attraverso legami tribali, famigliari e finanziari. Era dunque impossibile contare sulla neutralità dell’esercito ed era ancora meno possibile far si che si unisse alla rivoluzione. Il regime libico poteva essere rovesciato solo attraverso la sconfitta delle sue forze armate; in altri termini, per mezzo della guerra. Dato che l’equilibrio militare tra le forze di Gheddafi e i ribelli, che erano quasi disarmati, era in maniera schiacciante sfavorevole a questi ultimi, l’intervento di un fattore esterno era inevitabile: armando l’insurrezione (lo scenario migliore) o sotto forma di un intervento diretto nella guerra tra i ribelli e il regime attraverso l’occupazione del Paese (lo scenario peggiore) o ancora attraverso dei bombardamenti aerei senza invasione, come è stato il caso della Libia. Il risultato è stato che in Libia il cambiamento è stato molto più profondo rispetto all’Egitto visto l’affossamento generalizzato delle istituzioni del regime di Gheddafi. Oggi, la Libia è un Paese senza Stato, ossia senza un apparato che monopolizza le forze armate e nessuno sa quando uno Stato sarà ricostruito, o a cosa assomiglierà.

  

Dove si situa, quindi, la Siria in questa equazione strategica? Essa si situa in un certo modo tra il caso egiziano e quello libico. In Siria, come nel caso della Libia, il regime si è circondato da forze speciali che sono tenute insieme da legami famigliari e confessionali e da privilegi. È necessario battersi contro questa guardia pretoriana per far cadere il regime. In questo senso, il comandante dell’Esercito libero siriano, il colonnello Riyad al-Assaad, ha fatto bene lo scorso 5 novembre a dichiarare al giornale Al-Sharq Al-Awsat [un quotidiano arabo con sede a Londra] che «chiunque pensi che il regime cadrà pacificamente sogna semplicemente».
   Tuttavia, dato che Israele occupa una parte del suo territorio, la Siria, contrariamente alla Libia, dispone anche di un esercito regolare basato sulla coscrizione generale di giovani e i cui soldati e sotto-ufficiali riflettono la composizione del popolo siriano da cui provengono. Di conseguenza, uno degli assi principali della strategia rivoluzionaria siriana deve essere quello di associare i ranghi dell’esercito alla causa della rivoluzione.

Il ruolo dell’esercito nella strategia dell’opposizione


    Se l’insurrezione siriana avesse avuto una direzione dotata di una visione strategica (qui possiamo osservare chiaramente i limiti delle «rivoluzioni Facebook»), avrebbe cercato di estendere le reti dell’opposizione all’interno dell’esercito insistendo allo stesso tempo perché i soldati non disertassero individualmente o in piccoli gruppi, ma invece lo facessero nel più gran numero possibile. In assenza di direzione e di strategia, soldati e ufficiali hanno iniziato ad abbandonare i loro ranghi in maniera disorganizzata. In questi ultimi due mesi la portata delle defezioni si è estesa. Queste defezioni hanno messo in imbarazzo l’opposizione politica, alcuni membri della quale  rimproverano ai militari dissidenti di rappresentare una minaccia e di far deviare la sollevazione dalla via pacifica, mentre altri li salutano chiedendo loro contemporaneamente di non impugnare le loro armi contro il regime. Quest’ultimo appello è una proposta suicida della quale i dissidenti hanno buoni motivi per infischiarsene.
Il compito strategico di convincere i soldati siriani a unirsi alla rivoluzione non deve contrapporsi alle manifestazioni popolari e alla loro natura non violenta. Qui, ancora una volta, il caso siriano combina fra loro elementi dell’esperienza egiziana e dell’esperienza libica, ossia folle di manifestanti pacifici e scontri armati. La non-violenza delle manifestazioni popolari era, e resta, una condizione fondamentale dello slancio di questo movimento e del suo carattere di massa, con la partecipazione femminile. Questo slancio è esso stesso un fattore decisivo nell’incitare i soldati a ribellarsi contro il regime.
   Così, la questione strategica più complicata in Siria è quella di poter combinare le mobilitazioni pacifiche di massa con l’estensione del dissenso militare e degli scontri armati senza i quali le forze del regime non saranno mai sconfitte e questo mai accadrà. A meno che, ovviamente, non si aspetti che degli ufficiali di alto rango del vertice della gerarchia del regime escano allo scoperto e forzino la famiglia regnante a fuggire dal Paese e a rifugiarsi in Iran. Se ciò dovesse accadere, la Siria si troverebbe in una situazione simile a quella dell’Egitto, dove una parte del vertice della piramide è caduta senza che questa crollasse completamente.
   Quanto a un intervento diretto in Siria, sia che questo assuma la forma di un’invasione o si limiti a dei bombardamenti a distanza, esso metterebbe fine alla tendenza verso la dissidenza all’interno dell’esercito e compatterebbe i suoi ranghi causando uno scontro che convincerebbe i soldati che è stato sempre vero ciò che il regime non smette di ripetere dall’inizio della sollevazione, ossia che esso è di fronte a un «complotto straniero» che cerca di asservire la Siria. Le richieste avanzate da Riyad al-Assaad, il dirigente dell’Esercito siriano libero (nell’intervista citata precedentemente), per un intervento internazionale che miri a «imporre una no-fly zone o una zona interdetta alla navigazione» e a creare una «zona di sicurezza al nord della Siria che verrebbe amministrata dall’Esercito libero siriano» sono, nei migliori dei casi, prove ulteriori della mancanza di una visione strategica nella direzione della sollevazione siriana.  Queste sono anche un effetto della miscela fra miopia e reazione emotiva di fronte alla brutalità del regime, un effetto che porta alcuni suoi oppositori a sperare che ciò arrivi a determinare una catastrofe ancora maggiore in Siria e in tutta la regione.
   Coloro che auspicano la vittoria della sollevazione per la libertà e per la democrazia del popolo siriano in modo da rafforzare la propria patria invece che indebolirla, devono elaborare una posizione più chiara su queste questioni cruciali. Non è possibile limitarsi ad ignorarle in nome dell’unità contro il regime, perché da queste dipendono sia il destino della lotta che quello del paese stesso.

Questo articolo è stato pubblicato in arabo nella sezione «opinione» dal giornale libanese Al-Akhbar il 16 novembre 2011. È stato tradotto in italiano a partire dalla versione francese pubblicata da A l’Encontre (http://alencontre.org/moyenorient/syrie/syrie-la-militarisation-l%E2%80%99intervention-militaire-et-l%E2%80%99absence-de-strategie.html).

Traduzione di Cinzia Nachira

28/11/2011


LA CATTURA E L'UCCISIONE DI MUAMMAR GHEDDAFI
di Cinzia Nachira

La cattura e l'uccisione di Muammar Gheddafi hanno sollevato uno strano ed inquietante coro di scandalo nella sinistra italiana.
   È bene fare luce su alcune note cruciali del coro per evitare equivoci e perché la discussione non si concentri sulle parole, anziché sulla sostanza degli eventi. È evidente che se Muammar Gheddafi fosse stato processato sarebbe stato meglio per tutti. Le immagini della cattura e del linciaggio di Muammar Gheddafi sono tremende e le zone d'ombra sulle sue ultime ore di vita sono molte e inquietanti. Lo sono, visto che vi è stato l'intervento determinante della NATO (grazie ai suoi «corpi d'élite») per individuarlo e consentire ai ribelli la sua cattura.
   È necessario, però, cercare di capire come è possibile che la sinistra italiana si sia dimostrata ancora una volta per un verso priva di memoria storica e per un altro verso cinica, pur mascherando il suo cinismo con riflessioni umanitarie. Forse è il caso di ricordare che quando Benito Mussolini fu giustiziato, uno degli argomenti principali dei giustizieri fu che in caso contrario sarebbe stato probabile che, invece di essere processato per i crimini commessi, Mussolini venisse riciclato in un modo o nell'altro nel nuovo sistema politico-istituzionale italiano. Questo per riflettere sulla percezione che in Italia, soprattutto negli ambienti politico-culturali della sinistra, si è avuto di ciò che sta avvenendo nel mondo arabo.
   Le reazioni scomposte di molta parte della sinistra italiana hanno dimostrato in modo evidente quanto poco fosse conosciuta la storia dei popoli dell'Africa del Nord e del Medioriente. Tranne rari e lodevoli casi, le analisi partono dal nostro punto di vista e non dal loro. Possono esserci dittatori di serie A e dittatori di serie B? Evidentemente no, se ci si pone dalla parte dei popoli che quelle dittature subiscono. Assolutamente sì, se invece si cercano facili e rassicuranti scorciatoie per evitare di ammettere che la Primavera araba ha sorpreso la sinistra europea per il buon motivo che il Maghreb e il Mashrek sono stati lo specchio delle nostre sconfitte politiche e culturali.

   Nelle ore convulse che hanno seguito l'uccisione di Gheddafi e la diffusione dei video amatoriali del suo assassinio, si sono sovrapposte moltissime versioni della traduzione in italiano di ciò che Gheddafi gridava contro i ribelli. Per rendersene conto è sufficiente ripercorrere le immagini sottotitolate dalle varie emittenti e poi riportate dai giornali. Una di queste versioni era quella secondo cui Gheddafi avrebbe detto ad uno dei ribelli: "Perché mi fai questo? Che ti ho fatto?". Se fosse vera (il condizionale è d'obbligo) sarebbe per un verso molto sconcertante, ma per altri versi anche quella più congeniale ad un dittatore che dopo quarantadue anni di potere assoluto sul suo popolo considerava ancora indiscutibile il suo potere. Quale despota oppressore ha mai ammesso che chi era oppresso potesse pensare che l'oppressione non fosse a fin di bene invece che il detonatore dell'odio contro la sua persona? Nessuno.
   Gheddafi non ha fatto eccezione. Ma, quanto al mondo arabo, vi erano dittature riconosciute come tali dalla sinistra italiana ed altre no. Nella seconda categoria sono state inserite la Libia e la Siria. Ma se la caduta di Ben Ali e di Hosni Mubarak è stata esaltata e si sono definiti questi eventi come l'esito di un processo rivoluzionario, quanto alla Libia e alla Siria si è parlato di manipolazioni esterne. Questo perché a loro giudizio sia Muammar Gheddafi che Bashar el-Assad non potevano non essere diversi da Mubarak e da Ben Ali. Per poter dimostrare questa tesi si sono portati ad esempio molti episodi. Nel caso libico si è sostenuto che la rivolta armata anti-gheddafiana provava che la Libia non faceva parte del processo complessivo delle rivolte arabe, ma che i ribelli erano al soldo dell'Occidente per dar vita ad un colpo di Stato cruento. Strana affermazione questa, visto che viene da una sinistra che giustamente negli anni passati si è schierata a favore di molte lotte armate di liberazione: dal Nicaragua alla Palestina. Sostenere la legittimità della lotta armata significa forse non riconoscere il valore delle masse che, smettendo di avere paura, scendono in piazza? Evidentemente no. Significa invece cercare di capire come e perché ci siano rivolte armate e rivolte pacifiche. E significa soprattutto non dimenticare che anche in Tunisia e in Egitto il costo umano della rivolta è stato altissimo e che se non c'è stata la guerra civile lo si deve al fatto che gli eserciti di quei paesi hanno scelto di non difendere i dittatori.
   Chi ha seguito la vicenda egiziana ha capito fino in fondo la logica della rivolta. Il tentativo di assalto da parte di una folla di sostenitori di Mubarak (mentre l'esercito rimaneva passivo) contro Piazza Tahrir occupata da decine di migliaia di persone accampate da giorni, disarmate e senza possibilità di difendersi è stato il momento in cui la deriva della guerra civile era dietro l'angolo. Soprattutto c'era la consapevolezza dell'equivoco in cui erano caduti gli egiziani, in particolare a causa di quelle forze politiche che, pur essendo all'opposizione, speravano di accordarsi con Mubarak: l'equivoco di pensare che l'esercito fosse parte integrante, se non il motore, della rivolta.
   In realtà, e questo era chiarissimo, il ruolo «super partes» dell'esercito derivava dalla spaccatura verticale dell'apparato del regime che aveva compreso una cosa molto semplice: per potersi salvare dall'ondata imprevista e possente delle proteste doveva abbandonare al suo destino il presidente Mubarak e tutti coloro che erano compromessi con gli aspetti peggiori del regime. Ma tra il 28 e il 30 gennaio niente e nessuno poteva essere certo che questo atteggiamento non cambiasse. Tutto era appeso ad un filo fragilissimo. Ciò che ha evitato una strage di proporzioni superiori è stata la capacità degli occupanti di Piazza Tahrir di difendersi malgrado tutto dall'attacco, non certo la sua «bontà».
   Il fatto che da questo episodio sia scaturito uno scontro non armato ma comunque molto forte - i morti furono decine e migliaia i feriti - e ne sia derivata la caduta di Mubarak, ha portato la sinistra italiana a considerare autentica la rivolta egiziana. C'è da chiedersi quale sarebbe stata la reazione se invece gli eventi avessero preso un'altra strada, più dolorosa se non tragica. Se si fosse aperto uno scenario diverso, non sarebbe stato possibile mettere in dubbio l'autenticità delle proteste del popolo egiziano e la sua volontà di sbarazzarsi della dittatura. Lo slogan che da Tunisi si era esteso all'intera regione: "Il
popolo vuole la caduta del regime" non avrebbe perso di significato e di efficacia.
   Sicuramente il caso libico è stato diverso dagli altri soprattutto perché l'Occidente ha deciso di intervenire direttamente, nell'unico modo che conosce: militarmente. Nei casi degli altri paesi arabi (sia in Nord Africa che in Medioriente) l'Occidente era riuscito, in primis gli Stati Uniti, a fare pressione perché i dittatori fossero abbandonati. Non è un caso se, sempre in Egitto - uno dei paesi più importanti per gli interessi statunitensi in Medio Oriente - Barak Obama ripetesse come una cantilena che era necessaria la «transizione nell'ordine», dove evidentemente l'ordine era il mantenimento e la salvaguardia degli interessi degli USA.
          

Che l'intervento in Libia, anche prima della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del marzo scorso, fosse dettato principalmente dalla volontà di difendere i propri interessi era chiaro a tutti. Ma nel caso della Libia non esisteva un apparato statale o militare che si potesse conservare pur eliminando il dittatore. Per altri versi, inoltre, se l'Occidente avesse lasciato a Gheddafi la possibilità di schiacciare la rivolta nel sangue, si sarebbe trovato nell'impossibilità di gestire un processo di cambiamento radicale. Per questo motivo, inizialmente Francia e Gran Bretagna e poi la NATO hanno approfittato della richiesta di aiuto da parte del Cnt (Consiglio nazionale transitorio) e dei rivoltosi. E questo è stato uno degli elementi principali per screditare da sinistra l'opposizione libica, assumendo questa richiesta come la «prova» che in Libia la rivolta era eterodiretta dall'Occidente. Questo è stato l'alibi anche per nascondere ciò che realmente Gheddafi era da molti decenni. In modo sorprendente una buona parte della sinistra italiana ha rispolverato il Gheddafi del pan-arabismo e del pan-africanismo degli anni '70 e del Libro Verde (bizzarramente ribattezzato come una interpretazione originale di un tentativo di uscita dal sottosviluppo) per sostenere che chi sosteneva che la rivolta libica era parte della Primavera araba si era venduto alla NATO o in procinto di vendersi.
   Tutto questo però significava non soltanto voler ignorare ciò che il regime aveva significato per il popolo libico, ma soprattutto dimenticare, o meglio occultare, i discorsi insolenti di Gheddafi e di suo figlio Saif al-Islam: per loro il popolo libico era una massa di topi, ovvero cani drogati e pagati da al-Qaeda. Infine la sinistra italiana che giustamente si era mobilitata da favore del popolo palestinese durante l'aggressione israeliana tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, non è stata colpita dal fatto che Gheddafi, in un'intervista trasmessa da una rete satellitare francese, per giustificare gli assedi di Misrata e Bengasi aveva sostenuto di "averlo dovuto fare così come Israele aveva dovuto bombardare Gaza per sradicare Hamas".

   In definitiva, se anche solo per puro esercizio intellettuale si rileggessero e si riascoltassero i discorsi che Gheddafi ha pronunciato dal 17 febbraio 2011 fino alla lettera che ha cercato di far pervenire a Silvio Berlusconi il 5 agosto scorso, una cosa sarebbe chiara: il dittatore libico ha cercato in tutti modi di ricordare all'Occidente e ai suoi governanti, da Barak Obama al governo italiano, i servizi resi durante gli anni in cui si era nuovamente allineato. Non è certamente un caso che due argomenti prevalessero in modo ossessivo: in caso di attacco alla Libia di Gheddafi nessuno più avrebbe controllato i flussi di migranti e avrebbe vinto l'opposizione anche perché pagata e infiltrata da Al-Qaeda.
   Al di là di ogni possibile giudizio sul Cnt, queste dichiarazioni avrebbero dovuto quantomeno indurre a domandarsi a quali miti era legata la sinistra italiana. Spesso l'attaccamento a questi miti è sfociato in un aperto, pericoloso eurocentrismo.
   Inoltre, nessuna delle accuse contro i libici in rivolta era fondata su analisi serie e non a caso non una di queste accuse ha poi trovato una qualche conferma sul terreno.
   Ovviamente, sottolineare questi aspetti non significa nel modo più assoluto voler credere che improvvisamente il diavolo sia diventato un angelo, nel senso che non è possibile in nessun caso adombrare un ruolo «progressivo» dell'Occidente e tanto meno della NATO. Anzi, proprio l'annuncio della fine degli attacchi NATO subito dopo la cattura e l'uccisione di Gheddafi dimostra che per l'ennesima volta il mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è stato utilizzato solo per una copertura «legale» di un intervento militare altrimenti difficile da gestire.
   Ma in questa sede ciò che più interessa capire è perché proprio negli ambiti politici e culturali di rilievo è mancato un approccio approfondito e complessivo su ciò che accadeva nel mondo arabo. È prevalso invece un senso comune sparso a piene mani proprio da coloro che attaccavano Gheddafi in armi in nome della «loro democrazia». Giustamente Danilo Zolo in un articolo pubblicato dal Manifesto il 14 ottobre scorso ha scritto:
    /*Un minimo realismo ci suggerisce che è notevole il rischio che prevalgano gli interessi di  quella che Luciano Gallino ha chiamato la «nuova classe capitalistica transnazionale». Dall'alto delle torri di cristallo delle più ricche metropoli del mondo questa «nuova classe» cercherà di dominare i processi dell'economia globale, quella occidentale inclusa. In sostanza, «democrazia» finirà per essere definita la somma degli interessi delle grandi imprese produttive e degli enti finanziari, come le banche d'affari, gli investitori istituzionali, le compagnie di assicurazione e così via. Attendersi che in questo contesto la democrazia possa rapidamente fiorire nei paesi arabi come una istituzione politica aperta ai giovani, agli operai, ai disoccupati, ai poveri, ai migranti rischia di essere generosa retorica./

    Ma anche queste parole, che fanno da controcanto al facile ottimismo, non negano che ciò che è avvenuto nel Maghreb e nel Mashrek dal gennaio scorso ad oggi sia una svolta da cui sarà impossibile tornare indietro. In Tunisia e in Egitto la strada del cambiamento dopo la caduta dei dittatori è già percorsa da mesi e tuttavia le strutture dei vecchi regimi sono ancora in piedi. Ciò che è profondamente cambiato, però, è il popolo egiziano e quello tunisino. Ed è con questo cambiamento che tutti noi dobbiamo fare i conti. Questo cambiamento viene tuttavia negato dalla sinistra italiana al popolo libico. Per cui la fine cruenta di Gheddafi viene assunta come il momento in cui la Primavera araba è morta. Ancora una volta si chiudono gli occhi su ciò che avviene nel contesto generale: la Siria, lo Yemen continuano la loro lotta contro despoti sanguinari; la Tunisia conta i voti delle prime elezioni libere dopo ventitre anni di dittatura, con un esito elettorale carico di incognite; l'Egitto prosegue il suo cammino irto di difficoltà e di pericoli. Perché identificare la fine di Gheddafi con la fine di tutto questo?

  

   È tuttavia difficile poter credere che la fine del dittatore libico porti a un'inversione della rivolta araba. Non è certamente un caso se dopo la morte di Gheddafi in Siria decine di migliaia di persone affrontavano a mani nude la repressione sanguinosa del regime di Bashar el-Assad e ritmavano lo slogan: "Bashar ora tocca a te". È bene chiarire che non si auspica la morte per linciaggio di Bashar el-Assad. Ma è necessario constatare che genere di eco ha avuto la fine di Gheddafi in Siria, in cui la repressione, secondo le stime più credibili, ha già mietuto 3.000 vittime, delle quali 200 bambini. Inoltre, non è da trascurare che sulla reazione dei siriani alla morte di Gheddafi ha probabilmente influito anche il fatto che a partire dalla caduta di Tripoli, nell'agosto scorso, Gheddafi ha avuto come unica cassa di risonanza la radio e la TV siriane, dalle quali ha potuto lanciare i suoi ultimi proclami.
   Certo, non si dimentica facilmente il monito che scaturisce dalle parole di Zolo, ma ciò non significa poter accettare il ragionamento secondo il quale, caduto un mito al quale la sinistra italiana si era appesa, tutto sia ormai finito. Il fatto che le rivolte negli altri paesi stiano continuando, a dispetto delle aspettative deluse della sinistra italiana, invece, è la prova della ininfluenza di quest'ultima rispetto a questi popoli, che per fortuna non la ascoltano, impegnati come sono in uno dei momenti più difficili della loro storia. Se noi italiani, dal nostro comodo punto di osservazione, invece di giudicarli saccentemente riuscissimo ad avere quel tanto di capacità empatica necessaria, potremmo condividere questo cambiamento radicale del volto del Mediterraneo. Invece, ci stiamo negando questa possibilità.
   Nell'immensa manifestazione del 15 ottobre per le strade di Roma, tra le tante bandiere di altri popoli c'erano anche quelle della nuova Libia e della Siria che inneggiavano alle due rivolte. Ci dovremmo chiedere che tipo di rapporto intendiamo stabilire con quelle persone che in piazza a Roma, e non a Bengasi o a Damasco, hanno tentato di mettere in assonanza eventi diversi. È doveroso anche osservare, a questo proposito, che sulle pagine dei giornali che fanno riferimento alla sinistra (anche in quelli in formato elettronico) nel gran numero di articoli dedicati alla morte di Gheddafi non vi è stata nessuna voce dei diretti interessati, i libici. In alcuni casi vi è un silenzio molto significativo ma preoccupante sulla morte stessa di Gheddafi, come se non fosse mai avvenuta.

  

   In questa prospettiva non possiamo chiudere gli occhi sul futuro incerto che si è aperto in Libia all'indomani della scomparsa del dittatore e sul fatto che ora, probabilmente, si potrà avere un quadro ben più chiaro di ciò che è avvenuto. L'incertezza del futuro della Libia è determinata in gran parte dal ruolo della NATO e dagli interessi occidentali che in quel paese sono enormi. Nessuno può credere ad un ruolo «positivo» della NATO ed è per questo ancora più grave che dall'inizio dell'intervento in Libia non vi sia stata la capacità di dar vita ad una minima opposizione a quell'intervento. Ma questa incapacità è largamente dovuta a tutte le contraddizioni che abbiamo fin qui illustrato e che hanno portato fatalmente ad allontanare la sinistra italiana dagli eventi libici.
   È evidente che ora gli esponenti del Cnt si trovano con più problemi interni da affrontare di quanti probabilmente immaginavano di avere. Questi problemi, peraltro, sono già emersi nei mesi scorsi con delle rese dei conti tutt'altro che rassicuranti. Uno dei problemi più gravi sarà senz'altro quello di giustificare agli occhi dello stesso popolo libico non tanto la morte di Gheddafi, quanto ciò che sta emergendo dall'ingresso nella città di Sirte delle agenzie internazionali, come Human Right Watch e il rientro di coloro che erano fuggiti durante i combattimenti. Sembra chiaro che in quella città la popolazione sia stata presa in ostaggio non solo dalle milizie gheddafiane, ma anche dal Cnt e dalla NATO, pagando un tributo umano altissimo. Nei giorni successivi alla fine del dittatore e alla «liberazione» di Sirte, Mohammed, un vecchio conducente di taxi, intervistato da una agenzia di stampa francese, dichiarava:
    « Sono desolato di vedere la mia città ridotta in queste condizioni. I thowar (rivoluzionari) avrebbero potuto prenderla distruggendola molto meno. Ma c'era una forte resistenza da parte degli uomini di Gheddafi e penso che i thowar volessero punire Sirte». Lo stesso intervistato ammetteva che in città c'era un consenso maggioritario verso il regime e che, da una parte e dall'altra, si praticavano le punizioni sommarie e collettive. E ammetteva anche che questa spaccatura attraversava la sua stessa famiglia e che lui era stato l'unico a rifiutare questa logica e per questo motivo aveva abbandonato la sua città. Non può, però, essere messo in dubbio che questo meccanismo purtroppo è tipico di ogni guerra civile, non una «caratteristica» libica.
  Ora, ovviamente, la posta in gioco è aumentata, è diventata enorme. In gioco c'è la necessità di non assecondare il meccanismo delle rappresaglie. Le incognite che si addensano sul futuro della Libia sono moltissime e tutte pericolose. In questo senso, la richiesta da parte del governo transitorio della prosecuzione della missione della NATO è molto preoccupante, perché è chiaro che le forze fedeli al vecchio regime non sono in grado di ricominciare a combattere.

Questa richiesta sembra dunque legata alle contraddizioni interne al Cnt che nessuno nega o nasconde. Inoltre, non è un dettaglio il fatto che questa richiesta dia la possibilità alla NATO e all'Occidente di presentarsi come un paladino in «soccorso della democrazia». Non è un caso se Anders Rasmussen, il segretario generale della NATO, si è precipitato a Tripoli con un triplice obiettivo: 1) confermare la fine delle operazioni alla mezzanotte del 31 ottobre; 2) confermare, comunque, la disponibilità della NATO per una nuova missione se lo chiedono le nuove autorità libiche. Questa disponibilità è stata annunciata con la seguente dichiarazione: «Se le nuove autorità lo richiedono, la NATO è pronta a fornire aiuti per la trasformazione del paese verso la democrazia»; 3) dichiarare che la NATO non ha alcuna intenzione di stabilire delle basi in Libia. Molto probabilmente quest'ultima dichiarazione è stata suggerita dalla volontà di non finire in un pantano simile a quello iracheno o a quello afghano. Inoltre, non è un caso se, tramite il suo segretario, la NATO non ha confermato la dichiarazione del primo ministro libico dimissionario, Mahmoud Jibril, circa il ritrovamento di un arsenale di armi nucleari in possesso della Libia. La scarsa verosimiglianza di questa affermazione emerge dal fatto che queste armi prima sarebbero state nucleari e poi chimiche. Quello che è certo è il riecheggiare di un vecchio argomento, quello delle armi di distruzione di massa, che poi non vengono mai trovate.
   Ma, sia la richiesta per la prosecuzione della missione della NATO fino a fine anno fatta dal primo ministro uscente del Cnt, sia l'annuncio del «ritrovamento» di un arsenale di armi non convenzionali che Gheddafi avrebbe accumulato fin dal 2004 - venendo meno agli impegni presi con i governi occidentali - sono un regalo tanto inaspettato quanto immeritato per quei paesi occidentali che invece hanno portato, soprattutto negli ultimi vent'anni, alla devastazione di tanti Stati e non solo in Medioriente. In altri termini, se il futuro della Libia sarà determinato dalle «vocazioni democratiche» della NATO si può essere certi che sarà un futuro tutto in salita. Insomma, tutto ha senso tranne che fidarsi della NATO o delle «buone intenzioni» di paesi come gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna e, naturalmente, l'Italia.
   Ma in questo contesto tanto denso di incognite e pericoli, vi è un attore che non può essere ignorato e tantomeno cancellato dagli eventi: il popolo libico. Tornando all'inizio di queste riflessioni, è il caso di sottolineare che in Libia la rivolta è stata innescata dagli stessi motivi che hanno dato vita alle altre rivolte arabe: la volontà di liberarsi dalle dittature. Questa è stata la priorità. Il popolo libico ha dovuto confrontarsi con un regime che per difendersi ha preferito la guerra civile all'abbandono del potere. L'intervento armato occidentale che inizialmente ha impedito che la rivolta finisse schiacciata nel sangue, non era né «umanitario», né «democratico», ma puntava a non perdere il controllo del petrolio libico. In questa fase in cui sembra che il governo transitorio libico stia cadendo nella trappola di puntare sull'aiuto della NATO per costruire il futuro della Libia, vi è la negazione della tesi di chi riteneva che il «caso libico» fosse estraneo alle rivolte che stanno ridisegnando il volto del Mediterraneo. Si può star certi, al contrario, che un popolo che ha tanto sofferto in quarantadue anni di dittatura e che ha pagato un prezzo così alto per liberarsene, si impegnerà perché il suo avvenire non venga confiscato da chi fino al 17 febbraio 2011 ha sostenuto la dittatura che lo ha oppresso.
   In questo senso, dare oggi per scontato il futuro della Libia sarebbe un errore gravissimo. E sarebbe anche una notevole responsabilità etica, prima ancora che politica, di cui tutti noi porteremo il peso. E porteremo ancora una volta il peso di non aver saputo ascoltare l'altro e di non aver capito. E a pagare il prezzo più alto saranno di nuovo i giovani, le donne e gli uomini che si sono fidati nel nostro esempio.

14/11/2011


I Profughi Palestinesi in Libano
di Mirca Garuti


Alkemia è tornata, anche quest'anno, in Libano, nei campi profughi palestinesi con il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, nella settimana del ricordo del massacro del 1982.

Alkemia, anno dopo anno, insieme ai compagni attivisti di tutto il territorio nazionale, continua a raccontare ed a ricordare le sofferenze e le speranze di questo popolo.  Lo dobbiamo a loro ed a Stefano Chiarini che ha creato il Comitato, proprio per essere con i profughi palestinesi, per non dimenticare e per lottare affinché sia fatta giustizia e sia riconosciuto il loro diritto al ritorno, di avere una terra su cui vivere ed un proprio Stato libero ed indipendente.

Speriamo sempre di trovare, come ogni anno, anche solo un piccolo miglioramento, ma la realtà è ben diversa! Tante promesse, ma tutte ancora volteggiano nell’aria del Paese dei Cedri.

Le visite si susseguono incalzanti tra i campi dei profughi palestinesi ed i vari rappresentati della società civile, giornalisti, esponenti di governo e di partiti.
L’anno scorso l’argomento centrale di ogni incontro o discussione era la trattativa di pace in corso tra Abu Mazen e Netanyhau, quest’anno invece è stata la richiesta, da parte del Presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) all’Assemblea Generale dell’ONU, del riconoscimento dello Stato Palestinese.

Il primo incontro è con il ricercatore indipendente, Jaber Suleiman, specializzato nella causa dei profughi palestinesi, docente universitario, attivista della società civile con il movimento “Il Ritorno”, membro fondatore in Libano del gruppo “Ritorneremo”, coordinatore del centro “Aidoun” e del comitato che ha cercato di portare Ariel Sharon davanti ad un tribunale internazionale. Senza indugio evidenzia, contrariamente a quello che sostiene Israele, che i palestinesi non hanno lasciato le loro terre per libera scelta ma unicamente a causa dei massacri, delle minacce e dell’occupazione del 1948, che ha dato inizio alla pulizia etnica della Palestina. I palestinesi che vivono in Libano sono poco più di 400.000 ed il 52% vive distribuito nei 12 campi esistenti sul territorio libanese. Affronta e confronta la situazione dei palestinesi in Libano rispetto agli altri paesi arabi. Parla direttamente, senza indugi, sul loro stato d’emarginazione totale, considerati, dalla legislazione libanese, come una categoria a parte, meno dei normali stranieri.


Suleiman continua a parlarci dei diritti negati ai palestinesi qui in Libano, argomento, purtroppo già conosciuto da molti di noi, ma, resta comunque molto drammatico dover sentire, sempre, Tutto quello che non possono fare e, non essere in grado di contribuire a cambiare la situazione. Prosegue il suo intervento con “il diritto al ritorno” sancito dalla Risoluzione Onu n. 194, spiegandoci il perché della sua importanza ed il rischio che si corre, oggi, con l’approvazione del Riconoscimento dello Stato Palestinese (N. d’ordine  194) alle condizioni d’Israele.
Suleiman, infine, chiude il nostro incontro rispondendo ad alcune domande che riguardano la scolarizzazione, il sistema sanitario e l’economia palestinese in Libano. 

 

 

 

 

 

 

 


- 2° GIORNO

 


UNO STATO PALESTINESE
di Wasim Dahmash

      

    A proposito del riconoscimento preventivo dello Stato palestinese, mi limito ad osservare che almeno dalla morte di Arafat in poi, le azioni dell'ANP (Autorità Nazionale Palestinese, alias OLP o Fatah) non sono più solo indotte da Israele, ma piuttosto coordinate con gli organi dello Stato israeliano, vedi ad esempio l'organizzazione e il ruolo della polizia palestinese, e in politica internazionale basti ricordare il caso del rapporto Goldstone. Non vedo perché un'azione politica piuttosto rilevante come quella annunciata non debba essere come altre preventivamente concordata. I funzionari che guidano l'ANP (OLP-Fatah) non sono affatto persone stupide e sanno benissimo che non potranno disporre, come vorrebbero, di uno Stato palestinese autonomo in accordo con Israele. Allora a che cosa mirano? Si accontentano di uno Stato "temporaneo", come è nei programmi israeliani, o più modestamente di continuare a gestire l'ANP, così com'è, o più realisticamente di “tirare a campare” per qualche anno ancora.
Tutto l'establishment israeliano ha più volte ripetuto che uno Stato palestinese entro la cosiddetta "linea verde" vale a dire le linee di armistizio del 1949 (leggi Cisgiordania e Gaza) non è possibile, ma uno Stato palestinese sarebbe accettabile, anzi auspicabile, entro confini da stabilire, perché nei territori occupati nel 1967 delimitati dalla "linea verde" vivono oggi oltre 500.000 ebrei israeliani che non accetterebbero di essere cacciati via o di diventare cittadini palestinesi. La soluzione? Consisterebbe in uno scambio di territori. I territori cisgiordani abitati da israeliani andrebbero annessi ad Israele e i territori abitati da "arabi israeliani" sarebbero attribuibili al costruendo Stato palestinese. Ovviamente questo dovrà essere un processo da concordare tra le parti attraverso un negoziato che sarà, difficile, complesso e soprattutto molto lungo.
Tappa obbligatoria di questo negoziato è definire chi sono i soggetti della cittadinanza palestinese e della cittadinanza israeliana. Il passaggio dei coloni israeliani in Cisgiordania alla cittadinanza palestinese sarebbe escluso perché non lo vogliono e perché quei territori sono destinanti, nell'ambito dello scambio, a Israele. Il passaggio degli "arabi israeliani" alla "cittadinanza palestinese" sarebbe necessario perché loro sono palestinesi, così si realizzerebbe l'unità del popolo palestinese, e perché quei territori sarebbero destinati al virtuale "futuro Stato palestinese". In caso di mancato raggiungimento di un accordo globale di pace e sul futuro assetto dello Stato palestinese, come è nei programmi israeliani, i palestinesi, oggi cittadini israeliani, che nel frattempo avranno perso la cittadinanza israeliana, avranno bisogno di un permesso di soggiorno per continuare a soggiornare in "Israele". In altre parole Israele acquisisce una carta legale per espellere i palestinesi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1947-49.


La nascita virtuale e il riconoscimento di uno Stato palestinese, sotto il profilo legale, è necessario ad Israele perché abbassa il tetto delle rivendicazioni palestinesi. A tutt'oggi, secondo il diritto internazionale, i profughi palestinesi hanno diritto a ritornare alle loro terre (risoluzione 194). Il riconoscimento di un "futuro" Stato palestinese limiterebbe questo diritto ai confini (virtuali) del costruendo Stato (virtuale). La proclamazione di uno Stato palestinese su una parte del territorio della Palestina mandataria renderebbe automaticamente legale l'esistenza sul rimanente territorio dello Stato coloniale tuttora illegale secondo la carta delle Nazioni Unite, anche se riconosciuto da molti Stati membri dell'ONU ed è ammesso alla stessa organizzazione alla condizione di applicare la 194 (Il ritorno dei profughi). Israele è l'unico Stato ammesso all'ONU in modo condizionato. Infatti la 181, presa a pretesto per "legalizzare" lo Stato d'Israele, non è una "risoluzione", ma è una "raccomandazione" di un "comitato ad hoc" indirizzata all'Assemblea Generale ed è in aperto contrasto con la carta delle Nazioni Unite. Si tratta semplicemente di un escamotage  legale.

La "legalizzazione" dell'assetto politico del territorio palestinese legalizzerebbe l'assetto geopolitico vicino orientale scaturito dagli accordi Sykes-Picot. Ad esempio, lo Stato che potrebbe vantare maggiore legittimità nella regione siriana sarebbe quello sorto per esclusiva volontà dei suoi abitanti in un momento di lotta popolare ed è quello che oggi non c'è, cioè il Regno di Siria proclamato dal Congresso popolare pansiriano di Damasco nel 1918 in cui deputati eletti in rappresentanza di tutte le regioni siriane (oggi Siria, Libano, Palestina/Israele, Transgiordania, parte della Turchia) e di tutte le comunità confessionali, linguistiche, rurali e urbane, avevano proclamato l'indipendenza della Siria dall'Impero Ottomano.

L'assetto odierno garantisce un'instabilità permanente, una frammentazione progressiva, una dipendenza economica crescente e una sudditanza politica delle comunità della regione (non più una nazione, non più un popolo, non più popoli) nei confronti dell'Impero e delle sue manifestazioni corporative e statuali. La frammentazione politica agisce da acceleratore della frammentazione sociale e si nutre di essa, vedi lo scontro giordano-palestinese del 1970 e quello latente che ogni tanto riesplode, oppure gli infiniti conflitti libanesi, e così via. Il laboratorio siriano è stato poi esteso all'Iraq, ecc.

La trattativa per uno Stato palestinese dovrebbe inoltre includere un ventaglio di forze palestinesi, perché si è visto che trattare con una sola parte non ha portato alla pace desiderata. In altre parole bisognerà coinvolgere, oltre a Fatah anche Hamas, la quale organizzazione, per essere ammessa, dovrà però preventivamente soddisfare alcune condizioni che OLP-Fatah aveva a suo tempo fatto sue prima di essere ammessa al tavolo dei negoziati. Tra queste condizioni primeggiano il riconoscimento dello Stato d'Israele e la rinuncia al terrorismo. Vale a dire la rinuncia al 78% del territorio palestinese e la rinuncia al diritto alla resistenza sancito dalle Nazioni Unite. Tuttavia il coinvolgimento di Hamas sarà possibile solo in un quadro di accordo con ANP-Fatah, un accordo dal quale resteranno esclusi quelli che non accetteranno le condizioni imposte (ci sarà sempre qualcuno) e che diventeranno il nemico da combattere con beneficio di Israele e della sempre più accelerata frammentazione palestinese.
L'establishment israeliano sa benissimo che l'idea dello Stato è corrosiva del concetto di "liberazione". A questo è servita negli anni e a questo serve oggi. La stragrande maggioranza dei palestinesi oggi vorrebbe uno Stato. Pochi i palestinesi che non lo vogliono. E' mia opinione che i maggiori rappresentanti dei palestinesi dei territori occupati nel 1967, vale a dire, Fatah e Hamas, pur con tutti i distinguo del caso e con tutte le dovute differenziazioni, sono due organizzazioni di indirizzo populista. Questa situazione è decisamente favorevole a Israele che cerca di trarne tutti i possibili vantaggi. Tuttavia, questi non sono gli aspetti della questione per cui dubito dell'opportunità di chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese virtuale. Un aspetto più importante, a mio avviso, è questo: uno Stato che si fonda in base a un accordo tra governi (se non è frutto della lotta popolare) non per azione dei suoi cittadini, non può realizzare il diritto all'autodeterminazione, né quella nazionale, né comunitaria e tantomeno individuale. Altro elemento non meno importante del precedente è questo: il diritto all'autodeterminazione è un diritto inalienabile, cioè, come ci insegnano i giuristi, non frazionabile, e questo significa che non è negoziabile, non può essere oggetto di negoziato, va solo e semplicemente realizzato.
 

   Appare sempre più evidente che le azioni della politica internazionale, come i grandi cambiamenti a livello economico-finanziario, si realizzano lungo direttive dove non esiste nessun controllo pubblico di nessun tipo, né popolare (stampa, partiti, associazioni, ecc.), né rappresentativo parlamentare, e a volte nemmeno statuale. Cioè si agisce al di là delle sedi istituzionali palesi. Esiste un divario sempre più profondo tra la realtà e la rappresentazione che ne viene data. Gli esempi sono ormai innumerevoli. Un esempio immediato può essere quello della guerra in Libia. L'opinione pubblica delle nazioni coinvolte nella guerra non ha la percezione di vivere uno stato di guerra, non solo per l'enorme divario nelle armi impiegate  - il controllo dei cieli rende scontato l'esito - ma anche per il totale controllo delle informazioni per cui viene celato il ruolo degli eserciti delle nazioni coinvolte, come sono celati le cause e gli obbiettivi della guerra. In altre parole: una realtà virtuale si sovrappone a una realtà tangibile fino a coprirla del tutto.

Una cosa simile si presenta nella situazione palestinese. Il cosiddetto processo di pace (realtà virtuale), ha coperto la strisciante colonizzazione del territorio palestinese e la progressiva sostituzione della popolazione autoctona (realtà tangibile). Allo stesso modo, le manovre politiche dell'ANP-OLP-Fatah si svolgono su un piano di realtà non tangibile. Esempio: la lotta popolare contro il muro, contro il sequestro delle terre, contro le demolizioni delle case, ecc. si svolge sullo stesso piano reale sul quale si svolgono le azioni repressive, cioè nella realtà tangibile, anche se viene coperta sempre più dalla realtà virtuale. E' altamente probabile che la richiesta di riconoscimento di uno Stato palestinese non sarà presentata alla prossima sessione dell'Assemblea Generale dell'ONU. In caso contrario è probabile che la richiesta stessa non venga immessa  nell'ordine del giorno. In ogni caso entra a far parte della realtà virtuale.
    

   L'occupazione e la spartizione dei territori dell'Impero Ottomano è avvenuta con la guerra. La spartizione, avversata dalle popolazioni, ha acquisito veste legale per imposizione. I territori del Regno di Siria sono stati divisi tra la Francia e l'Inghilterra. Le due potenze hanno frammentato ulteriormente il territorio, creando nella Siria meridionale due entità statuali: Palestina e Transgiordania. Nel 1922 L'Inghilterra legalizzò il nuovo assetto presso la “bottega legale” della Società delle Nazioni. Nel territorio tra il Mediterraneo e il fiume Giordano è nato lo Stato di Palestina. Il territorio di questo Stato continua ad essere occupato da una potenza occupante che è espressione e continuazione della potenza occupante madre, nata per sua dichiarata volontà. I palestinesi, cioè la comunità umana che ha modellato la storia e il paesaggio culturale di quel territorio, hanno diritto a reclamare tutto il loro territorio. La legalizzazione di una spartizione della Palestina è ovviamente a spese del popolo palestinese, nega i suoi diritti fondamentali, riconosciuti a tutti i popoli. La raccomandazione 181 dell'Onu non legalizza la spartizione della Palestina ed è contraria allo spirito e alla lettera della Carta delle Nazioni Unite (Ogni popolo ha diritto all'autodeterminazione).

    

L'Autorità Nazionale Palestinese (leggi OLP-Fatah) è nata in base agli accordi tra il governo israeliano e l'OLP-Fatah, detti Accordi di Oslo. Questi accordi sono stati dichiarati “decaduti” da una delle due parti contraenti, il governo israeliano. Sono quindi legalmente nulli. L'ANP non ha nessuna veste legale, ma cosa ben più importante, non è un'autorità legittima, nemmeno sul piano rappresentativo degli abitanti delle regioni occupate nel 1967 che sono circa il 30% dei palestinesi. Infatti, i deputati eletti nelle liste di Hamas al Consiglio Legislativo Palestinese, sono quasi tutti nelle carceri israeliane! Per non dire che le elezioni furono vinte da Hamas e non da Fatah e che il mandato del capo dell'ANP-Fatah, Mahmud Abbas Abu Mazen, è scaduto da anni. A maggior ragione l'ANP non rappresenta i sei o sette milioni di palestinesi in esilio (di cui 4,820,229 profughi registrati, secondo le statistiche ONU), nemmeno i palestinesi che vivono nei territori dichiarati Stato d'Israele, i cosiddetti “arabi israeliani” (oltre 1.300.000 persone). In poche parole l'ANP non ha nessuna veste, nessun diritto a negoziare a nome del popolo palestinese. E tuttavia nessun governo legittimo e legalmente riconosciuto è autorizzato a ledere i diritti inalienabili della popolazione che governa o quelli di altre, così come nessun organismo internazionale può disporre del territorio o della vita di una popolazione. 

    

Gli Stati hanno ragione di essere in quanto istituzioni, volute e accettate dai cittadini, atte a realizzare e garantire i diritti degli stessi cittadini. Uno Stato che “imbroglia” sui diritti fondamentali, perde una parte della sua legittimità. Lo Stato che lede in parte o in toto i diritti dei cittadini, li nega o peggio li cede, perde ogni legittimazione. Uno Stato che compie una “pulizia etnica” e la perpetua nel tempo, compie un crimine contro l'umanità e come tale va trattato fino a quando non riconoscerà i propri crimini e cercherà sinceramente di porvi rimedio. Il diritto dei profughi palestinesi al ritorno in tutta sicurezza alle loro case e nelle loro città e il diritto all'indennizzo dei danni subiti nei sessanta tre anni trascorsi al loro esilio, è il primo passo da compiere per cominciare un percorso che porti a una convivenza pacifica, paritaria e civile tra i cittadini autoctoni, i palestinesi, e i cittadini acquisiti, gli israeliani. Le formule possono essere di diversi tipi, e tutte possono rivendicare una uguale legittimità, ma il nocciolo della questione resta sempre uno e uno solo: il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese.  

17/07/2011


VIETATO L’INGRESSO
AGLI AMICI DEI PALESTINESI

di Mirca Garuti



Israele, con la chiusura di ogni accesso possibile a chiunque si dichiari “amico dei Palestinesi”, continua a mantenere la sua ferrea linea difensiva. Un tempo, neppure troppo lontano, si leggevano i cartelli “Vietato agli ebrei” oppure “Vietato ai meridionali”, ora invece il divieto è rivolto ai Palestinesi ed ai loro sostenitori, in nome della “sicurezza” israeliana.
Lo dimostrano i fatti delle ultime due settimane relativi alla missione della Freedom flotilla 2 e all’evento “Welcome to Palestine”. La Flotilla  non è riuscita a partire. Il governo greco ha fatto l’impossibile, tra ispezioni e sabotaggi, per bloccare la partenza in direzione di Gaza di tutte le navi, compreso anche la piccola “Dignité”, l’unica che era riuscita a salpare. Mercoledì 6 luglio, la Dignité aveva ormeggiato, nel tardo pomeriggio, ad Ormos Kouremenos, un piccolo porto nella parte più orientale di Creta, per fare l’ultimo rifornimento, prima di ripartire per Gaza. Dopo aver caricato i primi mille litri di combustibile, è stata avvicinata da una vedetta e cannoniera della guardia costiera greca. Inizia così una trattativa tra i passeggeri e gli uomini in uniforme (una dozzina): i documenti sono sottoposti a più controlli, le telefonate si moltiplicano e la discussione continua per due ore. Non viene trovato nulla!

Quentin Girard giornalista del quotidiano “Libération” così racconta : “Il capitano non ha tenuto  un diario di bordo ed i costi d’entrata nel porto turistico, 30 euro, non sono stati pagati.  Solo che in questo piccolo porto di pescatori, non c’era la capitaneria per dichiarare il loro arrivo –Dobbiamo aspettare”.  Girard continua – “Sono le 22, quando la guardia costiera ci dice che dobbiamo seguirli per andare in un altro porto per firmare le autorizzazioni e che la Dignitè potrà ripartire il mattino seguente”.
La piccola imbarcazione francese è dunque costretta a ripartire nella notte, scortata dalla guardia costiera. E’ andata un po’ oltre rispetto alle altre navi, ma non è sufficiente!
La Grecia, come il resto dell’Europa, esegue gli ordini del governo d’Israele e non esiste nessuna scusa, nemmeno la sua crisi economica.
Si è persa, dunque, la Dignità di agire e di pensare in piena autonomia.


La prepotenza israeliana non si è espressa solo con la Freedom flotilla 2 ma anche con l’evento “Welcome to Palestine”, bloccando tutti i voli in partenza dall’Europa verso Tel-Aviv, dimostrando così la sua pericolosità non solo verso tutti i Palestinesi ma anche per la democrazia europea.
L’intenzione delle centinaia di attivisti internazionali era quella di partecipare alla settimana “Welcome to Palestine”, organizzata da oltre 40 associazioni palestinesi, in molti villaggi e città della Cisgiordania, dal 9 al 16 luglio, portando la loro solidarietà e condivisione per le difficoltà dei palestinesi di vivere sotto occupazione. La novità, rispetto a tutte le altre precedenti iniziative, è quella del “non nascondere le intenzioni dei partecipanti” una volta arrivati all’aeroporto Ben Gurion. La trasparenza di questi obiettivi si è trasformata in una “minaccia alla sicurezza”, tanto che, il premier Benyamin Netanyahu ha ordinato alle varie forze di sicurezza di “agire in modo deciso contro i tentativi di creare una provocazione all'aeroporto”, evitando però “attriti non necessari con gli attivisti internazionali”. Il governo d’Israele teme, di fronte a tutte queste ultime azioni, di perdere per lo più l’immagine che sta cercando di modificare nei confronti dell’opinione pubblica internazionale.


Israele, come risposta al programma degli attivisti, ha aperto una stanza speciale per i controlli all’aeroporto di Tel Aviv, dove autorità dell’aviazione, rappresentanti del ministero della sicurezza, degli esteri, della polizia ed altri opereranno senza sosta fino all’ultimo arrivo degli attivisti. Tutti i passeggeri prima del decollo ed a bordo degli aerei saranno controllati, perché tutti potranno essere potenziali partecipanti a quest’evento.

Israele ha presentato una lista nera con 347 nomi. Il Ministero degli interni israeliano ha inviato una lettera a tutte le compagnie aeree che chiede di ”non imbarcare i radicali pro-palestinesi” definiti “hooligans”, sui voli diretti a Tel Aviv.  Il comunicato continua: “A seguito delle dichiarazioni degli attivisti pro-palestinesi in arrivo in Israele per sconvolgere l’ordine e per confrontarsi con le autorità israeliane” è stato deciso di rifiutare loro l’ingresso nel paese, “secondo la Legge d’Ingresso in Israele del 1952″.

La richiesta di collaborazione delle varie compagnie aeree ha funzionato! Centinaia di attivisti, infatti, sono stati bloccati nell’aeroporto francese Charles de Gaulle ed anche l’Alitalia ha sospeso i voli. L’appello degli attivisti, invece, non ha avuto riscontro. Chiedevano, in un comunicato stampa diffuso giovedì scorso, alle compagnie aeree di “non accettare le azioni provocatorie ed illegali e i ricatti del governo israeliano”.

 

Olivia Zemor, una dei responsabili dell’organizzazione della missione Welcome to PalestineBienvenus en Palesatine, ha affermato “Noi siamo persone pacifiche e non vogliamo sconvolgere l’ordine in Israele. L’aeroporto è sotto occupazione israeliana”.
Le proteste negli aeroporti di Londra, Parigi e Ginevra continuano, mentre a Tel Aviv, circa 130 attivisti, che erano riusciti ad arrivare all’aeroporto Ben Gurion, sono stati arrestati e sono in attesa dell’espulsione dal territorio d’Israele. Si apprende che qualcuno dei francesi arrestati, prima dell’interruzione telefonica, sia riuscito ad inviare messaggi che segnalavano aggressioni fisiche contro di loro e la separazione tra quelli con sembianze “arabe” da quelle “occidentali”.
Nello stesso momento, all’aeroporto di Parigi, i passeggeri in attesa di partire per Tel Aviv sono stati caricati dalla polizia. Hanno organizzato, senza indugio, un sit-in di protesta anche perché le compagnie non hanno nessun’intenzione di procedere ai rimborsi.
Alcune fonti palestinesi riportano che circa 50 attivisti, eludendo i vari controlli, sono riusciti a raggiungere la West Bank.
Sophia Deeg, coordinatrice tedesca degli attivisti ha aggiunto: “Molti dei partecipanti sono famiglie o persone anziane che non sono mai state in Palestina. Il loro intento è solo quello di mettere in luce la forte restrizione della libertà di movimento che è in vigore in Palestina”.

Ugo Volli ha affermato, invece, in un articolo apparso sul sito di “Informazione Corretta” che queste due iniziative sono da considerarsi due vittorie ottenute con la collaborazione di Grecia, Cipro, Turchia e di alcune compagnie di linee aeree internazionali, contro chi continua a non voler riconoscere la sovranità statuale israeliana.  E’ Israele ad essere “assediato”, Volli continua nel suo articolo a dichiarare: “Ha scritto qualcuno che stati e società non spariscono mai, a meno che si suicidino. Questo è particolarmente vero per Israele, che è assediato da prima della sua nascita da stati e movimenti che provano sistematicamente a distruggerlo trovando il suo punto debole: prima con le guerre convenzionali, poi col terrorismo aereo e con quello suicida portato nel cuore delle città: tutti fortemente ridimensionati, se non abbandonati, quando hanno trovato una difesa adeguata. Ora da qualche anno il gioco è la delegittimazione, la guerra giuridica e dell'opinione pubblica, per cui il sistema politico occidentale è il terreno privilegiato e i mezzi di comunicazione e gli opinion leader i principali strumenti di combattimento.  E' possibile e naturalmente sperabile che il fallimento delle flottiglie marittima e aerea e dei tentativi di invasione dei confini convinca prima o poi i palestinesi ad abbandonare anche questa forma di lotta e magari anche a riprendere seriamente una strategia di pace con Israele abbandonata del tutto, dopo il breve momento di Oslo, una decina d'anni fa”.

 

Israele considera fondamentale solo il suo diritto di autodifendersi in nome della sicurezza e del riconoscimento di Stato Ebraico, respingendo invece tutte le sue responsabilità per le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale. L’arroganza di questo governo non ha limiti e lo dimostra l’ultima legge approvata dalla Knesset, lunedì 11 luglio, con 47 voti favorevoli e 38 contrari. Si tratta della "Boycott Bill". Dopo tre votazioni, da oggi Israele può chiedere un risarcimento di circa 10mila euro per danni finanziari provocati dal boicottaggio economico, culturale ed accademico e, può revocare le esenzioni dalle tasse e benefici legali ed economici a tutte quelle persone, istituzioni o gruppi israeliani che sostengono il boicottaggio del proprio Stato. Saranno penalizzate anche tutte quelle società e compagnie israeliane che vorranno lavorare con compagnie palestinesi.
Per mettere in pratica la Boycott Bill, non serviranno prove tangibili, ma, sarà sufficiente, il solo invito al boicottaggio con l’obiettivo di causare danni economici e d’immagine. Si condanna dunque il pensiero, il gesto, l’intenzione!
La Boycott Bill ha solo un giorno, ma già si vedono i risultati: la compagnia israeliana per l’elettricità e lo sviluppo tecnologico “Arca”, ha cancellato, oggi 13 luglio, il contratto che aveva per la costruzione della nuova città palestinese di Rawabi a nord di Ramallah (prima città pianificata dall’Autorità Palestinese).


Questa legge è stata presentata dal parlamentare avvocato del partito Likud, Ze’ev Elkin ed è stata approvata da tutta la coalizione di maggioranza e dalle opposizioni, con il voto contrario solo del partito di Kadima e quello d’astensione di “Indipendenza”. I parlamentari di Kadima non si sono risparmiati nei confronti del Premier: “Netanyahu ha passato la linea rossa della stupidità e dell’irresponsabilità nazionale. Il suo governo crea problemi ad Israele e dovrebbe essere il primo a pagarne il prezzo”.
I dissidenti della società civile israeliana hanno definito la legge antidemocratica contro la libertà d’espressione e manifestazione. Il governo si è difeso, come il solito, affermando che questa legge è solo un mezzo per tutelare lo Stato di Israele contro una delegittimazione globale. Alcune organizzazioni per i diritti umani hanno già annunciato che presenteranno ricorso all’Alta Corte, definendo la legge “completamente anticostituzionale perché limita la libertà d’espressione politica ed è contraria al diritto internazionale”. “La Knesset tenta non solo di chiudere la bocca della protesta contro l’occupazione, ma anche di impedire alle vittime e a chi si oppone di lottare contro”, ha detto Hassan Jabarin, direttore generale di Adalah, organizzazione per i diritti umani, certo che il “Boycott Bill” non riceverà mai l’assenso dell’Alta Corte.
Se però Israele è stato costretto a promulgare una legge ad hoc significa che la campagna BDS (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) messa in atto fino a questo momento, ha dato i suoi risultati.


Israele non si limita a bloccare la Freedom Flotilla2, la Welcome to Palestine, ad emanare una nuova legge contro il BDS, ma organizza anche viaggi turistici al fine di far conoscere la “facciata buona” d’Israele. L’ambasciata israeliana a Roma, infatti, ha pianificato un tour nello Stato ebraico, senza mettere piede nei Territori Occupati, per un gruppo di giovani politici italiani, da domenica 10 luglio a venerdì 15. Nel giorno in cui era approvata la “Boycott Bill” i giovani italiani erano in visita al Parlamento israeliano. Che tempismo perfetto!
Il giro turistico in Israele, da Gerusalemme, Nazareth, Tel Aviv prevede incontri con il Sindaco di Sderot, un meeting con i rappresentanti dei Jerusalem Venture Partners(fondi di capitali a rischio), con la società di smaltimento rifiuti Hetz Ecologia, una cena dibattito con Claudio Pagliara (corrispondente Rai da Israele), la visita ad un kibbutz, ai valichi d’osservazione al confine del Libano e della Siria e, per finire, la scoperta di una “Tel Aviv by night”.
L’invito ufficiale dell’ambasciata ai giovani delegati italiani così declamava: “Riteniamo che conoscere direttamente Israele e sperimentare la sua realtà attraverso un viaggio possa essere utile per meglio comprendere la complessità del paese e della regione”.
Giovanni Donzelli, consigliere regionale toscano del PDL, invitato in qualità di rappresentante della Giovane Italia, ha dichiarato: “Sarà un’occasione preziosa per conoscere meglio la complessa realtà politico-istituzionale e non solo, di un paese verso il quale siamo legati da profonda amicizia”.
Sul suolo israeliano, in questi giorni, è presente anche il Segretario del PD, Pierluigi Bersani.  Durante un suo incontro con la cooperazione italiana a Ramallah, ha così commentato la visita dei giovani politici: “Se i ragazzi che fanno parte della delegazione mi avessero chiesto un consiglio – anche se non lo hanno fatto – avrei detto loro di andare, ma di tenere gli occhi aperti, di pensare con la propria testa”
Naturalmente, il viaggio dei giovani politici, ha suscitato una pronta reazione da parte di cittadini italiani, cooperanti e non, che risiedono in Israele e nei Territori Occupati. Hanno diffuso una lettera, un appello ai giovani politici italiani per “aprire gli occhi” perché la realtà israeliana non comprende solo Israele, ma anche un altro mondo, quello palestinese, che deve essere conosciuto.
Esiste un altro tipo di turismo: il turismo responsabile che permette di capire quello che invece si tenta di nascondere.

13/07/2011
(fonti:peacereporter.net - nenanews.com)


 

FREEDOM FLOTILLA II: ROTTA VERSO GAZA
di Mirca Garuti


Sabato 25 giugno è partita dalla Corsica, diretta a Gaza, la prima imbarcazione della seconda Flotilla, dedicata all'attivista italiano Vittorio Arrigoni ucciso il 14 aprile scorso. (La lettera della famiglia di Vittorio Arrigoni)
Si tratta della nave francese “Dignité – Al Karama” (Dignità).  Omeya Seddik, cittadino francese d’origine tunisina, ha dichiarato, in un comunicato stampa, “Noi speriamo di fare una breccia nel blocco. Questa flottiglia s’inserisce nella scia naturale delle rivoluzioni per la libertà e la democrazia; ha poi aggiunto imbarcandosi “Ora sta alla comunità internazionale garantire la sicurezza dei passeggeri e il loro arrivo col carico di aiuti umanitari da consegnare alla popolazione di Gaza”.
Il popolo che sostiene la causa palestinese non si è arreso. Dopo la reazione violenta del 31 maggio dello scorso anno, da parte della marina militare israeliana, alla Prima Flotilla che ha causato la morte di nove attivisti turchi, è sorta spontanea la decisione di dare una risposta forte alla continua repressione israeliana nei confronti del popolo palestinese della Striscia di Gaza, sotto assedio da più di 4 anni. Nonostante tutti gli avvertimenti lanciati da Israele, centinaia di volontari (500/600) di 22 paesi s'imbarcheranno a bordo di una decina di navi.

A questa missione parteciperà  anche una nave  italiana, la “Stefano Chiarini” con una delegazioni di 12 o 15 italiani, tra cui il vignettista Vauro Senesi e il fotografo veterano Tano D’Amico. Vauro, prima di partire, ha scritto una lettera all’ammiraglio israeliano comandante delle forze navali d’Israele, nella quale esprime l’orgoglio di “chi ancora crede che valga la pena spendersi per gli altri” senza nascondere la paura d’incontrare le navi da guerra israeliane con i suoi commandos armati.
Il numero ridotto degli italiani è dovuto alla volontà di offrire ospitalità a militanti di diverse nazionalità tra cui un gruppo d’ebrei americani contrari al blocco di Gaza ed alcuni attivisti della Mavi Marmara che, a causa delle forti pressioni internazionali ricevute da Ankara, non potrà partecipare all'iniziativa.
Per garantire la massima trasparenza, nei prossimi giorni al Pireo, con una cerimonia pubblica dovrebbero essere caricate, sulle navi in partenza per Gaza, gli aiuti umanitari, giocattoli, materiale scolastico e medicine.

 
Ricevo, mentre sto scrivendo queste righe, una mail da Alberto Mari  un caro amico pronto a partire sulla nave italiana.

Non posso fare altro che dire “Grazie. Alberto… stai attento… in bocca al lupo… porta il mio, il nostro abbraccio agli amici di Gaza… ai gazawi…

LA REAZIONE D’ISRAELE

“L’iniziativa della Freedom Flotilla – spiega in un comunicato il Coordinamento Nazionale della Freedom Flotilla Italia – è assolutamente legale e non violenta. Respingiamo con forza le ridicole insinuazioni della propaganda sionista in merito alle armi od altri strumenti offensivi a bordo delle nostre navi”.  La tensione è alta. Israele continua a ripetere che non ha nessuna intenzione di far passare questa nuova missione, definita, dall'ambasciatore israeliano all'Onu, Ron Prosor, in una lettera inviata direttamente al Segretario generale Ban Ki-Moon, “un'agenda politica estremista”, accusando, addirittura, le tre principali organizzazioni dietro la Flotilla – Campagna europea contro l’assedio di Gaza, Free Gaza Movement e l’International solidarity movement – di mantenere contatti stabili con formazioni «terroristiche». Prosor ha avvertito che la realizzazione della spedizione navale provocherà «conseguenze gravissime».
Fonti militari israeliane hanno inoltre rivelato che respingeranno gli attivisti  con cannoni ad acqua. "Ci aspettiamo anche di essere fermati e accerchiati", ha dichiarato la coordinatrice italiana della missione, Maria Elena Delia, "ma noi non retrocederemo e, in nessuna maniera reagiremo alle forze israeliane".

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu, lunedì 27 giugno ha riaffermato la necessità di impedire alla Flotilla, organizzata da militanti filo-palestinesi, di raggiungere le coste della Striscia di Gaza. L’unica concessione possibile è quella di raggiungere il porto egiziano di El-Arish, dove gli aiuti umanitari potranno arrivare a Gaza attraverso il valico di Rafah. Netanyahu non si limita a voler fermare gli attivisti, ma vuole chiudere la bocca ai giornalisti presenti sulle varie imbarcazioni. Vietato raccontare.  Chi tenterà di arrivare a Gaza, sarà punito con il divieto, per i prossimi 10 anni, di entrare nello Stato ebraico.  Alla giornalista ebrea israeliana Amira Hass , inviata speciale del quotidiano “Ha’aretz”, che dovrebbe imbarcarsi su una nave canadese, sono state fatte minacce di ritiro dell’accredito stampa.
Le minacce israeliane non hanno trovato riscontro, solo pochi giornalisti hanno scelto di andarsene, la maggior parte di loro, invece, è rimasta.
L’associazione israeliana della stampa estera ha rilasciato una dichiarazione che definisce questa minaccia “un messaggio raggelante per i media internazionali” e che ''solleva seri interrogativi circa l'impegno d’Israele sulla libertà di stampa".

La difesa israeliana non si limita solo alle minacce rivolte ai governi dei paesi coinvolti in quest’iniziativa, agli attivisti e  giornalisti con il tentativo di bloccare tutta l’organizzazione, ma va ben oltre, arrivando quasi a raggiungere l’ inverosimile.
Secondo fonti israeliane, sulle navi sarebbero presenti “agenti chimici incendiari”, tra cui lo zolfo, da utilizzare contro i soldati della marina israeliana.
Il Capo di Stato Maggiore sionista Benny Gantz ha definito, durante una cerimonia ufficiale dell’IDF (esercito israeliano) la flotilla “una provocazione” e che “rafforza la bugia secondo cui la popolazione di Gaza sarebbe affamata, mentre ciò non corrisponde a verità”  e che, secondo il quotidiano Ha’aretz, avrebbe nominato “parchi acquatici e spiagge” riferendosi alla Striscia che Israele tiene sotto assedio da anni.
Il Jerusalemen Post afferma che Israele avrebbe speso ingenti “risorse di intelligence” per sapere chi parteciperà e cosa ci sarà a bordo delle navi della Flotilla 2.
Avigdor Lieberman, Ministro degli Affari Esteri, avrebbe definito alla Israel Radio i partecipanti come “terroristi in cerca di provocazioni e di sangue” , mentre avrebbe espresso “estrema soddisfazione” per i ritardi.
Sempre per il Jpost, è stato creato un sito “flotillafacts.com”, un contenitore di immagini, notizie e video per screditare la Flotilla 2 e presentare i suoi partecipanti come “terroristi”.
Questo sito è stato creato da  “StandwithUs”, un’organizzazione finanziata dalla lobby ebraica americana con un budget da 4 milioni di dollari con base a Los Angeles.
Le accuse di possedere armi e di avere stretti legami con Hamas sono state smentite, si tratta di “una flottiglia pacifica, diretta a rompere l’assedio illegale su Gaza, non ad attaccare o aggredire alcuno”.
Melissa Lane del convoglio Usa “Hope of Audacity” ha ricordato che “Ogni passeggero del convoglio ha firmato una dichiarazione di adesione ai principi della nonviolenza. Non cerchiamo alcun tipo di confronto fisico con l’esercito israeliano. Vogliamo solo arrivare a Gaza.”

La Germania, la Grecia e gli Stati Uniti, dietro la forte pressione diplomatica israeliana, hanno cercato di ammonire con forza i propri cittadini dal prendere parte alla Flotilla 2. Due deputati tedeschi, Annette Groth e Inge Hoeger che, l’anno scorso si trovavano sulla Mavi Marmara, si sono ritirati. Il Dipartimento di stato Usa ha avvertito i 36 cittadini americani della “Audacity of Hope” che le acque di Gaza sono «pericolose e instabili». I coloni israeliani, attraverso il loro sito d’informazione “Arutz 7”, per contrastare la partecipazione alla Flotilla 2 d’ebrei statunitensi, si sono invece concentrati sulla figura dell’avvocato ebreo di New York, Richard Levy che, nei giorni precedenti, aveva dichiarato: “È importante che ci siano ebrei nella nave, la lobby filo-israeliana nel nostro Paese è molto potente. Non possiamo sostenere l’assedio israeliano, moralmente e giuridicamente inaccettabile”.

 Nonostante tutte le minacce da parte del governo d’Israele, il convoglio è deciso a partire!
Oltre alle imbarcazioni che trasportano passeggeri, ci sono anche due cargo con oltre tremila tonnellate d’aiuti diretti al popolo di Gaza sotto assedio.
I rappresentanti delle 10 navi della Freedom Flotilla 2 "Stay Human" il 27 giugno hanno tenuto ad Atene una conferenza stampa: «Partiremo giovedì o venerdì nonostante le pressioni israeliane. E gli ostacoli amministrativi creati dalla Grecia non ci fermeranno», così promette Vanguelis Pissias, uno degli organizzatori greci della Freedom Flotilla 2.
«Siamo qui per sfidare la politica degli Stati Uniti e di Israele verso Gaza e per resistere alle pressioni diplomatiche (avviati dagli israeliani) per fermare la Flotilla», ha affermato Ann Wright, un colonnello Usa in pensione ed ex diplomatico che, nel 2003 ha rassegnato le sue dimissioni come protesta contro la guerra in Iraq voluta dal governo di Washington, che ora fa parte della delegazione che salirà sulla nave americana “Audacity of Hope”. La stessa nave che, nei giorni scorsi, è stata oggetto di un fermo, da parte delle autorità greche, per un’altra ispezione, perché non ritenuta “atta a navigare”, per un esposto contro la nave da parte di un privato. Secondo il Jerusalem Post, dietro a questa denuncia anonima, ci sarebbe l’Israel Law Center, un gruppo legale israeliano. I passeggeri della “Audacity of Hope” si sono appellati al governo greco affinché accelerasse i tempi di controllo e si sono dichiarati pronti a "sfidare la politica USA e d’Israele verso Gaza". Ann Wright il 27 giugno aveva dichiarato che "La nave che abbiamo noleggiato (battente bandiera a stelle e strisce e registrata in Usa, dr) è stata esaminata ed ha subito ispezioni per mesi da tecnici qualificati. Non crediamo ci sia la necessità di una nuova ispezione ma accettiamo che le autorità greche procedano con rapidità in modo che non ci siano altri ritardi nella partenza”.

Com’era del tutto prevedibile, il premier George Papandreou, avendo rapporti molto stretti con Israele (un progetto congiunto per un gasdotto nel Mediterraneo orientale) cerca di boicottare la flotilla, per prendere tempo, rallentando la partenza, con la complicità indiretta degli scioperi di questi giorni, contro le misure pesanti d’austerità decise dal governo, da parte dei lavoratori greci.
Medea Benjamin, uno dei passeggeri della nave e fondatrice del movimento CodePink ha affermato che "Israele ha dichiarato apertamente che sta facendo pressioni sui governi per fermare la Flotilla, e chiaramente la Grecia è un attore chiave dal momento che molte navi partono dalla Grecia".
Sulla nave americana si trova anche Alice Walker, attivista dei diritti civili, scrittrice e vincitrice di un Premio Pulitzer con "Il colore viola". (Lettera di Alice Walzer alla CNN)


Le ultime notizie che ci arrivano attraverso solo i siti di “Nena-news.com” e “Peacereporter.net”  riportano ancora una situazione difficile,  creata  per stancare i militanti in attesa di partire. La pressione israeliana è continua e si materializza sotto forma di continue ispezioni, cavilli burocratici e richieste sempre più gravi alle compagnie di assicurazioni. Quello che è successo alla “Hope of Audacity” è accaduto al cargo greco-svedese-norvegese – spiega Maria Elena Delia – che avrebbe dovuto essere caricato il 28 giugno, davanti ai giornalisti per rispettare il principio di trasparenza. Questo però non è accaduto, il carico è stato bloccato, causa  la denuncia di essere “troppo inquinante”. E’ chiaro, quindi, che ogni più piccolo pretesto è buono per prendere tempo e portare sconforto tra i partecipanti.
Le autorità greche hanno ufficialmente comunicato che nessuna nave può lasciare il porto con l’obiettivo di raggiungere la Striscia di Gaza.

Un video sul sito “Ship to Gaza-Sweden” mostra il danno subito dalla nave greco-svedese, la “Juliano”(in onore di Juliano Mer-Khamis direttore del Freedom Theatre di Jenin, assassinato il 4 aprile scorso). L’elica è stata manomessa ed ancora non si sa quando potrà essere riparata.
Gli organizzatori, per tutelarsi di fronte a questi impedimenti burocratici e sabotaggi, hanno inoltrato una richiesta alle autorità e polizia greche di avvio d’indagini e di procedure per garantire la sicurezza delle navi.
Una volta superato questo muro, si potrà constatare quale linea politica vorrà prendere il governo di Atene.
Due navi sono comunque già in viaggio verso Gaza, quella francese “Dignity”, autorizzata dal Governo francese e quella irlandese “Freedom”.

Notizia dell’ultima ora: “un gruppo di cittadini giordani ha acquistato in Grecia una barca per 560mila euro per aggiungersi alla missione e portare medicinali. Per una nave che viene messa fuori uso dai sabotatori,  un’altra è pronta a sostituirla, a conferma che le motivazioni dietro la Flotilla «Stay Human» sono profonde e generano nuovi consensi e iniziative”. (Nena-News.com)

Aspettando la partenza di tutto il convoglio, possiamo leggere ogni giorno su “Il Manifesto” il diario di bordo di Vauro, imbarcato sulla “Stefano Chiarini”


Gaza… stiamo arrivando
30/06/2011


 

 

NICHI VENDOLA GUARDA LO STATO D’ISRAELE
di Mirca Garuti


Il Presidente della regione Puglia Nichi Vendola e l’assessore al Mediterraneo Silvia Godelli hanno incontrato il 28 aprile scorso, in occasione della  presentazione dello spettacolo “Lo stesso mare” al Teatro Petruzzelli di Bari,  l’Ambasciatore dello Stato d’Israele in Italia, Gideon Meir.
 
 “Con il Festival della Cultura ebraica – dichiara il Presidente della regione Puglia – abbiamo prodotto una semina, perché quell’evento conteneva in sé l’idea che i rapporti economici, commerciali, istituzionali devono essere inseriti in un contesto di conoscenza delle culture, dei costumi e di amicizia tra i popoli”. "Ancora oggi, sempre secondo Vendola, in un’Europa che conosce i veleni dell’antisemitismo, conoscere la cultura ebraica è un antidoto fondamentale a una delle più odiose forme di intolleranza”
“Poi –continua – c’è una gamma assai variegata e ricca di possibilità di relazioni. Israele è un Paese che ha fatto investimenti straordinari sin dalla sua nascita, sull’innovazione. Un Paese che ha trasformato aree desertiche in luoghi produttivi e in giardini, un Paese che si confronta col tema mondiale del governo del ciclo dell’acqua, dell’energia, dei rifiuti con pratiche di avanguardia. Penso che la possibilità di sviluppare reciprocamente le attività turistiche e la tutela e valorizzazione del patrimonio culturale siano altri elementi importanti di una relazione che con la mia visita in Israele può raggiungere un punto di svolta”.

Nichi Vendola, come il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, non vede la realtà palestinese, non vede il muro, la situazione umana, politica, economica di un popolo sotto occupazione da oltre 60 anni. Non ha speso nessuna parola sul colonialismo israeliano, sulle migliaia di  prigionieri palestinesi rinchiusi nelle prigioni israeliane senza processo ma solo in detenzione amministrativa, sull’assedio inumano della Striscia Di Gaza e sui profughi costretti, il più delle volte,  a vivere in situazioni drammatiche senza diritti.   Nessuna condanna ad un governo che non ha mai rispettato una  risoluzione dell’Onu.
E se Vendola quindi si dimostra cieco di fronte a questa dura realtà a poche settimane dall’uccisione di Vittorio Arrigoni a Gaza, per noi, popolo che combatte il colonialismo israeliano in terra Palestina, Vendola non esiste o meglio è da boicottare, come l’economia di guerra israeliana, compresi quegli accordi e relazioni che invece il Presidente della Puglia vuole promuovere.

Rispondono a Nichi Vendola:

Miryam Marino 

Cinzia Nachia


GOLDSTONE HA APERTO LA STRADA AD UNA SECONDA GUERRA

CONTRO GAZA
Gideon Levy*


Chiunque abbia reso onore al primo Goldstone dovrebbe chiedergli: Che cosa esattamente sa oggi che non sapeva prima? Sa che criticare Israele significa subire una campagna di pressione e calunnia a cui non può resistere, lei “ebreo che odia sé stesso”?

Gli ultimi dubbi sono scomparsi tutti in una volta e i punti interrogativi sono diventati punti esclamativi. Ezzeldeen Abu Al-Aish ha scritto un breve libro in cui ha inventato la morte delle sue tre figlie. I 29 morti della famiglia Al-Simoni sono ora in vacanza ai Caraibi. Il fosforo bianco era solo l’effetto pirotecnico di un film di guerra. Coloro che sono stati uccisi mentre sventolavano la bandiera bianca erano solo un miraggio nel deserto, come lo erano le voci sulle centinaia di civili uccisi, inclusi donne e bambini. “Piombo fuso” è diventata una frase di una canzone di Hanukkah per bambini.

Un articolo sorprendente e inatteso di Richard Goldstone apparso su The Washington Post qui è stato accolto con esultanza, un Goldstone party, qualcosa che non si vedeva da molto tempo. In effetti, le pubbliche relazioni israeliane hanno raccolto una vittoria e per questo le congratulazioni sono d’obbligo. Ma le domande restano pressanti come sempre, e l’articolo di Goldstone non ha dato loro risposta – se solo avesse cancellato tutte le paure e i sospetti.

Chiunque abbia reso onore al primo Goldstone deve onorarlo anche adesso, ma comunque deve chiedergli: Cosa è successo? Cosa esattamente sa oggi che non sapeva prima? Sa che criticare Israele significa subire una campagna di pressione e calunnia a cui non può resistere, lei “ebreo che odia sé stesso”? Questo avrebbe dovuto saperlo prima.

Sono stati i due rapporti del Giudice Mary McGowan Davis a farle cambiare idea? Se è così, dovrebbe leggerli più attentamente. Nel suo secondo rapporto, che è stato pubblicato circa un mese fa e che per qualche ragione non è stato menzionato in Israele, il giudice di New York ha scritto che niente suggerisce che Israele abbia avviato un’indagine su coloro che hanno progettato, preparato, comandato e diretto l’Operazione Piombo Fuso. Quindi come sa quale politica sta dietro ai casi che ha investigato? E cos’è questo entusiasmo che  l’ha presa alla luce delle indagini fatte dalle Forze di Difesa israeliane dopo il suo rapporto?

Deve amare particolarmente Israele, come dice, per credere che le Forze di Difesa israeliane, così come altre organizzazioni, possano indagare su sé stesse. Deve essere un cieco amante di Sion per essere soddisfatto dalle indagini che non hanno prodotto ammissione di responsabilità e praticamente nessun processo. Solo un soldato è sotto processo per  assassinio.

Ma mettiamo da parte i tormenti e le indecisioni del non più giovane Goldstone. Mettiamo da parte anche i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani. Prendiamo in considerazione le conclusioni delle Forze di Difesa Israeliane. Secondo l’intelligence militare, nell’operazione sono stati uccisi 1166 palestinesi, di cui 709 terroristi, 162 che potevano essere o non essere armati, 295 testimoni, 80 minori di 16 anni e 46 donne.

Tutte le altre conclusioni descrivono un quadro molto più serio, ma diamo credito alle Forze di Difesa Israeliane. L’uccisione di circa 300 civili, incluse dozzine di donne e bambini, non è una ragione per fare un esame di coscienza nazionale? Sono stati tutti uccisi per errore? Se è così, 300 diversi errori non meritano un giudizio? È questo il comportamento dell’esercito più virtuoso del mondo? Se non è questo, chi si assume la responsabilità?

L’Operazione Piombo Fuso non è stata una guerra. La differenza di forze delle due parti, l’esercito fantascientifico contro i lanciatori di missili Qassam a piedi nudi, non giustifica le cose quando il colpo è stato così sproporzionato. È stato un duro attacco contro una popolazione civile stipata e inerme, in mezzo alla quale si nascondevano i terroristi. Possiamo credere che le Forze di Difesa Israeliane non abbiano deliberatamente ucciso i civili, non ci sono soldati assassini come in altri eserciti, ma non hanno nemmeno fatto nulla per impedire che venissero uccisi. Il fatto è che sono stati uccisi, molti di loro. La nostra dottrina di nessuna perdita ha un prezzo.

Goldstone ha vinto di nuovo. Prima ha obbligato le Forze di Difesa Israeliane a avviare indagini interne e a mettere insieme un nuovo codice etico; ora ha inconsapevolmente dato il via libera all’Operazione Piombo Fuso 2. Lasciamolo in pace. Stiamo parlando della nostra immagine, non della sua. Siamo contenti di ciò che è successo? Siamo davvero orgogliosi dell’Operazione Piombo Fuso? 

* Haaretz – 7 aprile 2011
Traduzione di Letizia Menziani


 

JULIANO MER-KHAMIS: L’ARTE COME RE-ESISTENZA  - Nena News

THE FREEDOM THEATER
In questo breve documentario Giuliano Mer-Khamis descrive il suo progetto
innovativo a Jenin di Teatro e Cinema  chiamato "The Freedom Theater".


COALIZIONE ITALIANA:  STOP THAT TRAIN
 

Appello  perché la Società Pizzarotti si ritiri dalla costruzione  illegale della ferrovia ad alta velocità Gerusalemme - Tel Aviv che attraversa i territori Palestinesi occupati.
 

Il progetto per la realizzazione del treno ad alta velocità Gerusalemme – Tel Aviv, detto anche A1, è  stato messo in cantiere fin dal  1995, ma ha subito interruzioni e cambiamenti in seguito alla opposizione della società israeliana a causa dei danni, che tale linea avrebbe comportato all’abitato e all’ambiente, tanto che varie società costruttrici si sono ritirate. Per questo il  tragitto è stato cambiato ed ora, nonostante l’allungamento che la tratta subirà, correrà   attraverso le aree vicine alla linea dell’armistizio del 1949 (la “Linea Verde”) e nell’Enclave di Latrun, e passerà attraverso una vasta area situata all’interno dei territori palestinesi occupati nel 1967, dove vivono   comunità palestinesi, tra cui molti rifugiati del ’48 e del ’67.
Ciò comporterà, non solo  un danno per l’ambiente (che non  tollerato dalla popolazione israeliana viene  imposto alla popolazione palestinese) ma rappresenta una palese violazione della Legalità Internazionale, in quanto, percorre 6,5 chilometri attraverso la Cisgiordania occupata, contravvenendo alla normativa internazionale sui Diritti Umani, tra cui la IV Convenzione di Ginevra, che vietano lo sfruttamento delle terre da parte della potenza occupante. Israele invece, ha espropriato le terre palestinesi, con lo scopo di costruire infrastrutture permanenti, e per soddisfare i bisogni esclusivamente della sua popolazione civile. Una volta completata infatti, la ferrovia ad alta velocità A1 fornirà servizi solo ai pendolari israeliani tra Gerusalemme e Tel Aviv.
Il progetto dell’A1 si inscrive inoltre nella politica israeliana di lungo periodo, che mira  ad attuare il trasferimento forzato della popolazione palestinese, che dovrà, ancora una volta, come è evidente dal  tracciato,  andarsene, dal momento che la sottrazione di altra terra, porterà all’annientamento delle  fonti di sussistenza, già ridotte, a seguito degli espropri eseguiti dalle autorità israeliane per la costruzione di infrastrutture a favore dei cittadini israeliani e per la costruzione del muro di separazione.
I villaggi maggiormente coinvolti sono Beit Surik e Beit Iksa.

            

A Beit Surik, i contadini palestinesi pur avendo subito la confisca di molta terra per la costruzione del Muro illegale israeliano erano  riusciti a preservarne una parte essenziale per la   sussistenza della popolazione del villaggio, grazie al parere del 2004 della Suprema Corte Israeliana che la aveva ritenuta  “risorsa fondamentale per la sussistenza della comunità” (1).  Ma  ora rischiano di perderla definitivamente e completamente poiché, nonostante il tracciato pianificato per la ferrovia A1 passi attraverso la loro terra, la Suprema Corte Israeliana (2), in questo caso, non si è attenuta al parere del 2004 della Corte Internazionale di Giustizia.
Beit Iksa è un villaggio che ha accolto molti rifugiati palestinesi, vittime della pulizia etnica israeliana nell’area di Ramle-Lydda nel 1948. Poi, con la guerra del ’67 larga parte della popolazione di Beit Iksa è stata indotta nuovamente alla fuga. Oggi, l’80% dei 2.000 abitanti rimasti sono registrati come rifugiati del ’48 dall’UNRWA. Israele ha già confiscato il 40% della terra agricola del villaggio per la costruzione della colonia ebraica di Ramot, mentre il 60% rimasto è situato dietro il Muro illegale israeliano. Il 10 novembre 2010 le Autorità israeliane hanno consegnato al Consiglio del villaggio di Beit Iksa un ulteriore "ordine di acquisizione delle terre”, che saranno utilizzate per il progetto ferroviario A1, per costruire una strada di accesso al tunnel e  per la realizzazione di opere collaterali. Cinquecento alberi di ulivo sono a rischio di sradicamento, e questo significa la rovina delle famiglie già economicamente deboli, che soffrono gli effetti della disoccupazione e basano la propria sussistenza sull’olio di oliva che producono.
In questo modo il progetto per la ferrovia A1 diventa parte di un  sistema infrastrutturale coloniale e di apartheid, che mentre provvede alle necessità della popolazione israeliana, nega quelle della popolazione palestinese che,  su queste terre vive da secoli.
Allo stesso tempo costituisce un altro passo nell’implementazione della politica israeliana di trasferimento forzato dei palestinesi che, dopo essere stati privati dei propri beni e cacciati dalle proprie terre, vedono completamente negato il proprio  diritto al ritorno.
Il coinvolgimento della Pizzarotti S.p.A. in questo progetto, nonostante la sua evidente illegalità, costituisce pertanto complicità nei crimini di guerra e contro l’umanità commessi da Israele. Infatti,  il conseguente  trasferimento forzato della popolazione, (che  è definito come il “sistematico, coercitivo e deliberato movimento di popolazione da un’area all’altra, con l’effetto o il proposito di alterare la composizione demografica di un territorio, in modo particolare quando (la motivazione) ideologica o politica asserisce la dominazione di un certo gruppo su un altro”) (3),  costituisce un crimine di guerra ed un crimine contro l’umanità in base al Diritto Internazionale. 
 
CHIEDIAMO PERTANTO ALLA AZIENDA PIZZAROTTI S.P.A DI  RITIRARSI IMMEDIATAMENTE DAL PROGETTO 

Al governo nazionale, ai  governi locali e ai consigli cittadini di porre  fine ai contratti con la Pizzarotti S.p.A., e a non stipularne di nuovi se non risolverà  il contratto per la costruzione della A1.
Alle persone di coscienza, di avviare effettive campagne di disinvestimento rispetto a titoli ed istituti finanziari collegati alla Pizarotti S.p.A

Per adesioni: fermarequeltreno@gmail.com Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
Note:
1.     http://www.whoprofits.org/articlefiles/WP-A1-Train.pdf
2     http://www.whoprofits.org/articlefiles/WP-A1-Train.pdf. La Corte Suprema israeliana non ha riconosciuto la sentenza del 2004 della Corte Internazionale di Giustizia ed ha di conseguenza agito in complicità con i progetti statali di utilizzo del Muro come strumento per il furto di terra e per il trasferimento forzato della popolazione palestinese indigena.   
3.   La dimensione dei Diritti Umani nel trasferimento di popolazione, tra cui lo stabilimento delle colonie, report preliminare preparato da A.S.  Al Khawasneh e R.Hatano. Commissione sui Diritti Umani e  Sottocommissione sulla prevenzione delle discriminazioni e per la protezione delle minoranze, IV-V   Sessione, 2-27 agosto 1993, E/CN.4/Sub.2/1993/17 of 6 July 1993, para 15 and 17.
 
17/02/2011


AT-TUWANI: L’INTEGRALISMO COLONIALE ISRAELIANO
IN UN VILLAGGIO LONTANO DA OGNI RISORSA E CONFINE


di Alessandro Verona

 


Hafez parla piano.
Sulla collina un ulivo maestoso protegge dal sole d'Agosto, appena sotto lo sguardo c'è At-Tuwani, e alle nostre spalle, nascosta oltre al bosco di pini, l'occupazione israeliana.
Ha mani grandi e affusolate, che si muovono lentamente mentre parla.
Lo sguardo è fiero, per niente rassegnato, ma senza rabbia.
Quasi a dire che il costruire la pace passa anche per i nostri gesti, facendo tornare alla mente quel Gandhi che esortava ad essere il cambiamento che si vuole vedere nel mondo.

At-Tuwani è un piccolo villaggio di circa 200 persone, nelle colline semidesertiche a Sud di Hebron.
E' abitata soprattutto da pastori, fra cui Hafez, portavoce del movimento non violento locale.

Vent'anni fa è stata costruita la prima colonia, fatta di case a schiere e giardinetti, a poche centinaia di metri dal villaggio di pietra, dove le case più antiche hanno 500 anni.


 

Con il passare del tempo e il proliferare delle colonie, At-Twani si ritrova circondata: a Nord-Est Ma’on, ad Est gli avamposti di Havat Ma’on insediati nel 1982,  e a Sud-Ovest Avi Gai.
Secondo le ferme condanne della giustizia internazionale ognuno di questi è illegale, come ogni altra colonia o avamposto nei territori occupati, mentre la giustizia israeliana giudica illegali i soli avamposti.
Dal 1982 ad oggi l’espansione delle colonie ha confiscato agli abitanti di At-Tuwani 1500 dunums  di terre (1 dunum corrisponde a circa 1000 metri quadrati) e mediamente ogni anno vengono sottratti al villaggio circa 100 dunums.
La forte presenza coloniale in questo minuscolo villaggio di pastori dimostra quanto sia assoluta e capillare la volontà di sradicare l'identià palestinese, investendo ingenti somme di denaro e forze militari anche dove il numero di abitanti e le risorse del territorio sono così limitati.

Ma l'intimidazione dei coloni non si limita affatto alla presenza fisica in  luoghi così aridi, dove pochi vorrebbero vivere senza esserci nati.
Dopo l'insediamento delle colonie, le incursioni si sono susseguite con frequenza.

I pozzi e il bestiame avvelenati, i campi sottratti poco a poco, gli spari dalle colonie verso i campi d'ulivi durante la raccolta, gli arresti arbitrari, l'abbattimento della moschea avvenuto a sorpresa nella notte: una politica della violenza e del terrore che tenta di rosicchiare lentamente l'appartenenza alla terra e la tranquillità del quotidiano, che Hafez e gli abitanti del suo villaggio continuano ad stringere con determinazione.


Così racconta delle pietre lanciate alle finestre e ai passanti (a volte con la spudorata connivenza dell'esercito), seguite dalle irruzioni dei coloni che a volto coperto entrano nelle case per picchiare gli abitanti, nella logica barbara che continua a susseguirsi in tutti i territori occupati.
E Hafez queste cose le conosce meglio di chiunque altro, perché la sua casa, la più vicina all'avamposto, è la più frequente meta dei coloni.

Ad At-Tuwani due gruppi si impegnano a sostenere la popolazione, operazione Colomba e CPT (Christian peacemaker team).
Operazione Colomba è il corpo non violento della associazione Comunità Papa Giovanni XXIII,  un esempio di corpo civile di pace.
Ragazzi e soprattutto ragazze, un gruppo molto giovane che si presta per lunghi periodi per proteggere il villaggio in condizioni non agevoli, tanto nei progetti quanto nel vivere la quotidianità.

Un'attività  importante di queste associazioni è lo school patroling: i bambini del  vicino villaggio di Tuba, che non possiede strutture dedicate all'istruzione, devono recarsi a scuola ad At-Tuwani.
Per farlo utilizzano la strada più breve, che permette un percorso di mezz'ora ma divide l'insediamento di Ma'on dall'avamposto di Havat Ma'on.
Dal villaggio la strada di ghiaia abbraccia la collina, per poi passare vicinissima a colonia ed avamposti. Questo punto dista circa 500 metri dalle abitazioni di At-Twani, e un centinaio di metri prima le volontarie e i volontari consegnano i bambini all'esercito israeliano, come è loro imposto.
Molto spesso la scorta militare arriva in ritardo, a volte tanto da far perdere le lezioni agli studenti.
Volontarie e volontari controllano la situazione fino al punto in cui è loro concesso arrivare, nel caso la scorta non si presenti ne sollecitano l'arrivo, e se alla terza chiamata non hanno successo si rivolgono all'associazione di avvocati israeliani a cui fanno riferimento.
Inoltre, come noto, l'esercito israeliano obbliga a tre anni di leva tutti i suoi cittadini, così fra quei soldati che prendono in consegna i piccoli è possibile che ci siano anche abitanti della colonia stessa, manifestando tutta la perversione di questo sistema.
Così a volte i coloni hanno mani libere per divertirsi, ad esempio facendo correre i bambini fino a scuola, inseguendoli con i loro enormi pick-up.
Abbastanza lenti per non investirli, abbastanza veloci per terrorizzarli.

Durante il resto della giornata i volontari restano soprattutto insieme ai pastori palestinesi, facilmente esposti al pericolo di attacchi da parte dei coloni - a volte diretti anche verso i volontari stessi - e arresti arbitrari da parte dei soldati.
La presenza internazionale, e il suo potenziale  nel riprodurre sui media quanto vissuto in parte diminuisce questi rischi, perché tanto le dinamiche mediatiche quanto quelle politiche, purtroppo, hanno ormai portato i diritti umani ad essere rispettati in base al peso del passaporto.


At-Tuwani tiene il mento in alto, e i piedi ben piantati nella terra dei loro padri.
L'arroganza, la violenza e la tortura psicologica viene contrastata con l'informazione e la non-violenza, promossa in tutte le sue forme.
Fra queste c'è anche la Marcia della Pace, che nel 2010 si è fatta anche qui, nello stesso giorno della nota Perugia - Assisi.
Quella nelle mani di Hafez e dei suoi concittadini è una marcia lunga e difficile, ma percorsa sulla solidità della giustizia e protesa ai diritti umani più elementari, la libertà e l'uguaglianza.
E proprio per questo merita di avere voce.

Fotografie: Anna Gigante ( Gigante_Anna@libero.it )

Alessandro Verona ( bellerofonte1983@hotmail.com )

 22/02/2011


GAZA RACCONTATA DA VITTORIO ARRIGONI

di Nicola Lofoco

 


Vittorio Arrigoni arriva a Gaza nell’Agosto del 2008, come inviato de “Il Manifesto”,  ed arriva per raccontare il dramma che vivono i palestinesi della striscia di Gaza. Alla fine del 2008, durante l’operazione israeliana Piombo Fuso”, una orrenda operazione militare che causerà la morte di migliaia di persone,Vittorio Arrigoni riesce a documentare a tutto il mondo il dramma di quei giorni. Riesce a farlo con dei memorabili reportage inviati dai pochi internet point in funzione durante quelle giornate tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Un capodanno che Vittorio Arrigoni non dimenticherà mai.
L’operazione militare “Piombo Fuso” è stata successivamente condannata dalle Nazioni Unite  (rapporto Goldstone) come crimine contro l’umanità.
Non è facile riuscire a parlare con Vittorio. I continui attacchi israeliani e le continue difficoltà di spostamento rendono difficile un contatto.

Ma siamo riusciti a metterci in contatto con lui, e con estrema lucidità ci ha raccontato le ultime notizie provenienti da Gaza:

Gli attacchi israeliani ci sono quotidianamente, sempre contro i civili della striscia di Gaza. Ci sono ogni giorno alcuni adolescenti che raccolgono al confine materiale riciclabile, e sono stati anche oggi “cecchinati”. Ormai sono 4 anni che Israele impedisce l’ingresso di materiali edili per la ricostruzione. Manca il cemento, manca il ferro, manca il vetro. Per cui questi ragazzi si recano spesso al confine , a Nord, dove ci sono molti edifici distrutti dopo “Piombo Fuso”e cercano di riciclare quello che possono. E questi ragazzi sono sempre le vittime rituali dei cecchini israeliani. Vi è stata un escalation nelle ultime settimane. Vi è stato un rapporto di ben 21 organizzazioni  che operano qui a Gaza per il rispetto dei diritti umani, tra cui Amnesty International e Save The Children, che hanno messo in luce una cosa importante. Lo scorso 20 Giugno Israele aveva dichiarato che l’assedio era stato “allentato”, ma secondo quanto denunciano le organizzazioni, si è trattato solo di un operazione ipotetica e di facciata.
Nei negozi di Gaza possiamo trovare 5 tipi di bibite israeliane, 3 tipi di patatine , mentre negli ospedali mancano le attrezzature mediche. Una lista stilata da alcune organizzazioni documenta come  mancano 130 tipi di farmaci e di attrezzature mediche.  A Gaza non si può fare la dialisi, non si può fare la chemioterapia, mancano le valvole cardiache. Il tanto ventilato “allentamento” dell’assedio a Gaza non è avvenuto. Per i progetti delle Nazioni Unite per la ricostruzione degli oltre 50.000 edifici danneggiati durante l’operazione militare “Piombo Fuso” erano necessario l’invio di 670.000 camion per iniziare il progetto della ricostruzione. Di questi 670.000 ne sono entrati solo 700. Parliamo quindi solo dell’ 1% . Si tratta di progetti di ricostruzione certificati dalle “ Nazioni Unite”. A Gaza anche se hai i documenti in regola con passaporti  e visti è molto difficile lasciare la regione. Per 500 malati curabili, l’assedio alla striscia di Gaza ha rappresentato una vera e propria condanna a morte. Pur avendo avuto la disponibilità ad essere ospitati al altre strutture ospedaliere, come quella di Ramallah, non hanno avuto il permesso Israeliano per uscire e sono deceduti. Anche io ho conosciuto personalmente un ragazzo che aveva sua madre ricoverata in gravi condizioni. Non avendo potuto lasciare Gaza, sua madre è deceduta, pur sapendo che sua madre poteva essere curata anche sole poche decine di chilometri di distanza.  Senza dare la possibilità di far entrare ed uscire merci e persone, è chiaro che questo significa l’intero collasso dell’economia interna. Il 93% dell’Industria ha dovuto chiudere, ed ora il 70% della popolazione di Gaza è disoccupata. I dati Unicef dicono che  98% della popolazione vive solo di aiuti umanitari. Vi  è un economia di sussistenza, legata prevalentemente alla pesca Anche su questo, vi è da dire che i pescherecci di Gaza non possono andare oltre le 3 miglia dalla costa. Quando ci provano, perché devono farlo, perché le acque vicino alla costa sono povere di pesce, finiscono sotto tiro della marina israeliana.  Recentemente anche la Croce Rossa Internazionale ha definito illegale l’assedio a Gaza. L’art. 33 della 4 convenzione di Ginevra condanna le punzioni collettive. Ed i pescatori subiscono ogni giorno punizioni collettive da parte degli israeliani. I pescatori non possono andare a pescare nel loro mare, ed i contadini non possono andare a coltivare le loro terre. Sempre secondo le Nazioni Unite, dopo Piombo Fuso, il 35 % dei terreni coltivabili di Gaza non sono più accessibili ai contadini perché sotto il tiro dei cecchini israeliani. Dal 20 Giugno sono stati documentati ben 59 casi di agguati di militari israeliani a civili palestinesi. Questa è la realtà che a Gaza si vive ogni giorno".

 Dopo la tragedia della “Freedom Flotilla” è cresciuto l’isolamento internazionale di Israele. Quanto potrà durare ancora secondo te , in queste condizioni, l’assedio a Gaza?

 “Il massacro della Freedom Flotilla  ha scosso l’opinione pubblica di più di Piombo Fuso.  La morte di 9 attivisti è riuscito a fare molto di più del massacro di 1.300 bambini. Questo ci fa capire che ci sono morti di serie A e morti di serie Z.
I caduti della Mavi marmara hanno cambiato molte cose. L’Egitto, per esempio, ha ceduto su alcune cose, come riaprire subito il valico di Rafah ed un tantino più permeabile. Da allora alcune centinaia di palestinesi sono riusciti a passare dal valico, altri invece non ci riescono, perché il tutto è gestito dal Mukabarak, il servizio segreto egiziano, che fa il gioco di Israele. Per molti palestinesi questo ha rappresentato una speranza. Qualcuno di loro è riuscito ad uscire ed a ricongiungersi con i propi famigliari sparsi per il mondo. Per la fine dell’assedio, bisognerebbe avere fiducia nella campagna di boicottaggio verso Israele. Non dimentichiamo che negli anni ’80 Nelson Mandela veniva definito come un terrorista da capi di stato importanti, come Margaret Thatcher. Eppure Nelson Mandela ha continuato a combattere contro l’Aparthaid, anche con il boicottaggio. E qui a Gaza la campagna di boicottaggio ha avuto effetti migliori in 5 anni di quanti non ne abbia avuti in 20 anni l’African Congress. L’illegalità dell’assedio a Gaza è stato percepito anche dal principale sindacato inglese, che rappresenta 6.000.000 di lavoratori, che ha iniziato una sensibile campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani. Dopo “Piombo Fuso “ i governi di Svezia e Danimarca hanno iniziato a convincere le propie industrie a non investire in Israele, riconosciuto come stato responsabile di crimini di guerra e violatore dei diritti umani. Anche molte rockstar si sono rifiutate di tenere concerti in Israele, come hanno fatto Santana  e gli U2 di Bono Vox".

  Durante “Piombo Fuso” sono state usate armi al fosforo. Che notizie hai in merito?

“ Durante Piombo Fuso  sono stato personalmente testimone oculare di fosforo bianco usato contro i civili e contro gli ospedali, alcuni dei quali date alle fiamme usando proprio il fosforo bianco. Anche a Jabalia sono stato testimone dell’uso del fosforo bianco. Durante i bombardamenti non sapevo ne io ne chi era con me cosa ci stavano tirando addosso. E’ chiaro che nel vedere le assurde ferite che provocava ai civili, era chiaro che gli israeliani stavano usando armi non convenzionali. Vi è anche un problema che riguarda i terreni. Essendo Gaza sotto assedio, Israele proibisce l’ingresso di esperti per analizzare la contaminazione dei terreni e delle falde acquifere. Per questo motivo anche i controlli che si devono fare sono molto approssimativi, dato anche che i laboratori scientifici sono inutilizzabili da 4 anni. Questo è un fatto gravissimo che va denunciato. Pochi giorni fa ho incontrato una delegazione di medici turchi che vorrebbero fare chiarezza sui molteplici casi di cancro e di nascite di bambini deformi che si stanno verificando nelle zone bombardate. E’ la stessa identica cosa che è successa a Falluja in Iraq".

Tu sei stato uno dei pochi che è riuscito a raccontare con coraggio l’operazione “Piombo Fuso”, vivendo in prima persona quei drammatici giorni. Che ricordo ne hai oggi?

"Le ferite sono ancora aperte. Ogni giorno puoi vedere sempre tutte le 50.000 abitazioni ancora distrutte. Le sofferenze e le cicatrici le vedi ogni giorno negli occhi della gente, soprattutto quelle dei bambini. Ricordo che a Gaza city su 1.500.000 di abitanti  ci sono 800.000 bambini. I drammi psicologici , soprattutto per loro, sono stati grandissimi. Molti di loro soffrono di patologie psichiatriche. Non è facile per loro vedere tutto quello che hanno visto. Non è stato facile per loro vedere tutti quei corpi letteralmente macellati e a pezzi. I miei ricordi,  insieme a quelli dell’International Solidarity Movement, sono sempre drammatici. Eravamo gli unici attivisti presenti a Gaza in quei giorni. Si dice che la verità è la prima vittima di una guerra. Se pensiamo che Israele ha impedito a tutti i giornalisti internazionali di entrare nella striscia di Gaza, per “Piombo Fuso” è stato proprio cosi. L’obiettivo delle operazioni militari israeliane erano le ipotetiche basi di Hamas. In realtà, hanno bombardato scuole, ospedali, case, mercati e persino la sede delle Nazioni Unite. Non hanno avuto neanche scrupolo di colpire le ambulanze, violando tutte le convenzioni internazionali. Io e quelli dell’I.S.M. avevamo chiesto cosa potevamo fare ai nostri coordinatori. E ci avevano detto di scendere dalle ambulanze dove eravamo saliti per aiutare i feriti, perché non volevano altre Rachel Corrie. Ma ci fu risposto “ con voi sulle ambulanze continuano a sparare. Ma sparano un po’ meno…” E cosi decidemmo tutti di restare sulle ambulanze. Ho perso un amico che lavorava all’ospedale di Jabalia. E’ morto al centro di Gaza, mentre cercava di soccorrere un ferito. Mentre lo soccorreva, un carro armato israeliano ha fatto fuoco con l’ambulanza, uccidendo il mio amico. Sono immagini che resteranno sempre impresse in modo indelebile nella mia memoria. Le ferite peggiori sono quelle interne, che non si chiuderanno più. Il ricordo più brutto è stato quando ho visto tanti bambini dilaniati dalle bombe. In ogni caso, dopo tutta questa carneficina, l’opinione pubblica mondiale ha capito chi è la vittima e chi è il carnefice. Israele continua ad espandersi, la Palestina continua a morire".


11/02/2011


DA QUANDO E' ILLEGALE  ESSERE DI  SINISTRA IN  ISRAELE?

di Gideon Levy

 

La polizia, il sistema giuridico, la Knesset, lo Shin Bet e l'esercito si sono uniti ai propagandisti della destra per fare la parte dei giudici. Senza processi.

È giunta l'ora di rendere illegale a tutti gli effetti la sinistra israeliana. Che senso ha continuare a tergiversare? Che bisogno c'è di mettere in atto un processo legislativo oneroso ed estenuante, emanando leggi su leggi? A che servono tante proposte ed emendamenti? Invece di affannarsi a questo modo, ci sarebbe un cosa molto semplice da fare: proclamare la sinistra entità illegale all'interno dello Stato di Israele. Da quel momento in poi, chiunque pensi “di sinistra”, agisca “di sinistra”, manifesti “di sinistra” o tolleri ciò che è “di sinistra” sarà messo in prigione.
Ancora un'altra arma per scoraggiare gli stranieri, dunque (anche se questa volta gli stranieri sono “interni”, sono quelli di sinistra). Un modo, insomma, per ripulire il nostro campo. Un simile passo sarebbe in perfetta sintonia con lo “zeitgeist” che si è impossessato della maggioranza degli israeliani e rappresenterebbe il ritratto fedele della democrazia israeliana.
In Israele nel 2011 non è più permesso appartenere alla sinistra. Non è permesso manifestare per i diritti umani, opporsi all'occupazione o aprire indagini sui crimini di guerra. Azioni simili imprimono sugli israeliani il marchio della vergogna. Un colono che ruba l'altrui terra è un Sionista; un guerrafondaio di destra è un patriota; un rabbino istigatore è un leader spirituale; un razzista che espelle gli stranieri è un cittadino leale. È traditore solo chi è di sinistra.
Il nazionalista ama Israele, mentre l'uomo di sinistra lo disprezza. Il primo non ha bisogno di chiedere scusa per le sue colpe, mentre il secondo deve darsi da fare per smentire dicerie e false notizie. In Israele nel 2011 non è più possibile parlare delle opinioni espresse dai commercianti di mercati e bazaar. Attualmente, una maggioranza di agenzie governative ed enti giuridici sta prendendo parte a questa pericolosa catena di delegittimazione.
La Knesset ha deciso di creare una commissione parlamentare d'inchiesta per controllare le attività dei gruppi di sinistra “e il loro contributo alla campagna di delegittimazione d'Israele”. Un programma del genere farebbe impallidire persino il senatore Joseph McCarthy.

Nuri el-Okbi, cittadino beduino e attivista per i diritti umani, è stato messo in prigione per aver svolto, secondo il giudice Zecharia Yeminy, un'attività illecita. Il suddetto giudice non ha provato nessun imbarazzo nell'ammettere di aver assegnato al cittadino el-Okbi tale pena solo perché egli aveva manifestato in difesa del popolo beduino, diviso e disperso.
Jonathan Pollak, membro degli “Anarchici contro il Muro” e attivista contro l'occupazione, persona di cui ogni società sana sarebbe orgogliosa, è stato mandato in prigione solo per essere andato in bicicletta per strada.
Mossi Raz, ex membro della Knesset, era fermo sul marciapiede durante una protesta contro l'uccisione di un'attivista palestinese a Bil'in, quando è stato picchiato da un agente di polizia, messo in manette e arrestato.
I pacifisti vengono abitualmente interrogati dal servizio di sicurezza dello Shin Bet e ammoniti prima del tempo dal compiere qualsiasi tipo di violazione. Un gruppo di fisici è “di estrema sinistra”, una fondazione sociale “disprezza Israele”; delle donne che s'impegnano a monitorare i check-points sono “traditrici” e un centro d'informazione è accusato di essere “complice dei terroristi”.
Coloni che scagliano la spazzatura contro i soldati israeliani, o i loro amici che danno fuoco ai campi dei palestinesi, non vengono messi a processo; Pollak, invece, viene sbattuto in galera. Soldati che hanno ammazzato palestinesi che sventolavano bandiere bianche aspettano ancora una punizione; coloro che hanno rivelato circostanze come queste, sono stati denunciati. A tutto ciò si aggiunge un fiume di proposte di legge – dal Giuramento di Fedeltà alla Legge sulla Nakba. Tutti tasselli che, uniti insieme, formano un unico sconcertante quadro in cui la Sinistra è un nemico per il popolo e un nemico per lo stato.
Mentre accadono cose come queste, il danno reale all'immagine d'Israele e alla sua posizione nel contesto internazionale è causato dalla sua politica ostruzionista e dagli sforzi del governo per consolidare ulteriormente l'occupazione; deriva dalle azioni violente delle Forze di Difesa e dei coloni, accanto ai provvedimenti razzisti dei legislatori e dei rabbini.
Una sola giornata di Operazione Piombo Fuso ha reso insopportabile l'aria di Israele molto più di tutti i rapporti critici messi insieme. Una moschea data alle fiamme ha contribuito a gettare nel fango il nome di Israele molto più di quanto non abbiano fatto tutti gli articoli e gli editoriali critici verso lo Stato.
Eppure nessuno sollecita un'indagine su questi episodi. Poche persone, forse nessuno, è stato processato per azioni simili. Cosa rimane della sinistra, l'unica categoria che continua a difendere la moralità di Israele? I pochi che tengono accesa la traballante fiamma dell'umanità vengono accusati, condannati e puniti mentre le parti veramente colpevoli vengono scagionate da tutte le accuse. La polizia, il sistema giuridico, la Knesset, lo Shin Bet e l'esercito si sono uniti ai propagandisti della destra per fare la parte dei giudici (senza processi), mentre alla sinistra non è nemmeno consentito avere un avvocato difensore.
Un'unica legge semplificherebbe la questione: ogni israeliano deve sapere che è vietato. È vietato credere in un Israele giusto, vietato combattere contro le sue ingiustizie, vietato lottare per la sua anima. Ma un piccolo dubbio cerca ancora di insinuarsi nel cuore: tutti quelli che hanno intrapreso la lotta alla sinistra – dai capi dello Shin Bet e della polizia, ai giudici e ai legislatori di destra – vogliono davvero una “democrazia” senza sinistra?

18/01/2011
(Trad. Teresa Patarnello)

Versione originale in inglese: http://www.haaretz.com/print-edition/opinion/when-did-it-become-illegal-to-be-a-leftist-in-israel-1.335503

 


BIL'IN - PALESTINA: IL DIZIONARIO DELLA RESISTENZA NON VIOLENTA

di Alessandro Verona

   Nei territori occupati palestinesi vige un vocabolario estraneo alle democrazie compiute.
Check points, occupazione, colonie, coloni, zone A, B e C, muri di sicurezza, strade dell'apartheid, campi profughi, terre rubate. E si articolano con una sintassi ben precisa.
Una sintassi lugubre, che si addentra da Israele con l'incitazione all'odio etnico, l'utilizzo strumentale e  miope della storia, le religioni segnalate sulle carte d'identità, bollini di contrassegno sui passaporti degli arabi israeliani, l'esercito a selezione etnica,  fin dentro alle viscere dei territori palestinesi occupati, con repressione armata, negazione dei diritti fondamentali, umiliazione delle tradizioni culturali e religiose, ostacolo al diritto al lavoro, sottrazione delle terre, disprezzo della diversità e del dissenso.
Questo malgrado le voci del nostro governo, dalla senatrice Bianconi al ministero degli esteri, utilizzino proprio il termine "democrazia compiuta" per definire Israele, umiliando un'altra volta la verità per lisciare il pelo viscido delle logiche di potere.

Eppure sotto l'ombra lunga dell'occupazione i palestinesi hanno saputo coniare i neologismi della resistenza, radicati nella dignità, nella promozione della cultura, nella lotta non violenta e nella giustizia internazionale.

    Il paradigma di questa lotta pacifica è Bil'in, un piccolo villaggio nella Palestina centrale, a Ovest di Ramallah, dove lo stato d'Israele ha si è appropriato del 60% delle sue terre per costruirvi il muro di separazione (http://bilin-village.org/francais/xmedia/cartes/bilin-saffa.jpg – Fonte ARIJ, www.arij.org ).
   Oltre a quella morale, questa lotta ha una base giuridica ben precisa: la risoluzione 242 delle Nazioni Unite e della Corte Internazionale di Giustizia condannano l'occupazione israeliana, e insieme alla risoluzione 338 si condanna anche la sua colonizzazione (legale o illegale secondo israele), oltre alle sentenze dei due organi internazionali che definiscono illegale il muro e dell'annessione delle terre per costruirlo.
Inoltre la presenza armata in territorio straniero è ritenuta illecita dall’Onu, e punibile con un intervento armato internazionale (come è successo in Kuwait 1991), oltre a violare la quarta Convenzione di Ginevra.
Fondamentale ricordare anche che le repressioni armate durante le manifestazioni sono vietate da tutte le Corti e  da tutte le procedure internazionali in quanto violano i diritti umani.

   La storia di Bil'in è tanto amara quando fiera.
Erano gli anni '80 quando le prime colonie israeliane si insediarono su una parte delle terre di Bil'in.
Dopo dieci anni vengono sottratti al villaggio palestinese 200 acri di terreni agricoli e destinati alla costruzione della colonia chiamata Kiryat Sefer.
Con il passare degli anni Kiryat Sefer si è espensa fino a diventare parte del blocco colonico di Modi’in Illit.
   Nel 2001 quando iniziano le costruzioni di Matiyahu Est, estensione della già presente colonia di Matityahul, e mentre nel 2004 continuano le confische di terre ai palestinesi viene dichiarato  l'inizio di costruzione del muro, che passerà passerà proprio di fronte villaggio di Bil'in tagliandone le terre in due.

   La reazione della popolazione non tarda, nel Gennaio dell'anno seguente viene creato il comitato popolare di resistenza contro il muro e le colonie.
Subito iniziano le manifestazioni non violente, addirittura quotidiane per il primo mese, successivamente bisettimanali, fino ad arrivare all'attuale ricorrenza settimanale, ogni Venerdì, giornata sacra per i credenti musulmani.
   La lotta della popolazione di Bil'in si sviluppa anche a livello legale, il comitato deposita infatti diverse denunce alla Corte Suprema israeliana richiedendo l'annullamento della definizione di "terra di Stato" sorta sugli acri confiscati al villaggio fra il 1990 e 1991, ma anche il blocco della costruzione del muro e delle costruzioni a Matityahu Est, sottolineando che il muro sarebbe sorto ben oltre alle abitazioni arabe da cui si vuol dividere Israele.
Inoltre, come ben visibile nella mappa dell'ARIJ, il muro si addentrerebbe ben oltre la Green Line, il confine stabilito nel 1967 che divide Israele dalla Palestina, per l'evidente volontà di annettere col suo percorso le colonie e le risorse naturali, in particolare le falde acquifere.

   La Corte Suprema israeliana  riconosce l'illegalità, ordinando l'interruzione delle costruzioni, poi richiedendo allo stato di Israele di giustificare il rifiuto di spostare il percorso del muro.
Nel 2006 si dirà contraria a nuovi insediamenti, ma legalizzando allo stesso tempo quelli già esistenti, a dispetto delle sentenze internazionali.
   Ancora, nel Settembre 2007 giudica all’unanimità che il tracciato del muro danneggi Bil’in e ne ordina la modifica, nel frattempo però si decreta il mantenimento dei fabbricati di Matityahu-Est, costruiti sulle terre del villaggio.

   Intanto i palestinesi costruiscono capanne sulle terre confiscate, in quella che sarà chiamata "Bil'in Ovest", la prima "colonia palestinese" sulle terre rubate. In tutta risposta i coloni incendiano la sua prima costruzione, distruggendola, per poi tentare di installare carovane sui terreni di Bil'in.
Nel villaggio si susseguono le incursioni violente, spesso notturne, riproducendo una costante privazione di libertà.
Si ambisce a dare ai palestinesi la percezione di avere polsi e dignità sotto i piedi del sionismo più crudele.
  

La resistenza non violenta di Bil’in non viene però scalfitta, e continua a lottare per far valere i propri diritti.
Dopo la creazione del Comitato popolare di resistenza inizia un percorso di lotta ben organizzata e non violenta che diventa simbolo del rifiuto dell'occupazione ed per gli altri villaggi, anche attraverso le conferenze sulla resistenza non violenta promosse dal comitato.
Le iniziative, sostenute dalla dall'attivismo internazionale civile e giuridico, attirano sempre più i media, in un'opposizione settimanale così stoica da essere, senza retorica, commovente.

   Le manifestazioni coinvolgono bambini, anziani, donne di tutte le età, attivisti e giornalisti da tutto il mondo, e si dirigono verso il percorso che dovrebbe seguire il muro, ora costituito da una recinzione, ma non per questo meno tetro.
Haitham al Khateb, ragazzo di 34 anni nato e cresciuto qui, coinvolto dall'inizio nell'organizzazione delle proteste, mi guida all'arrivo a Bil'in in Agosto.
Da anni, grazie alla sua telecamera e alle fotografie del Comitato, documenta le gratuite violenze subite dalla popolazione durante le manifestazioni e nella vita quotidiana, dove le incursioni tolgono ogni tranquillità.
   La sua telecamera è stata irreparabilmente danneggiata questo Venerdì,14 Gennaio, e i comitati internazionali hannno già attivato raccolta di fondi per permettergli di averne un'altra alla manifestazione della prossima settimana.



   Quel Venerdì d'Agosto si ricordava lo scandalo delle fotografie della ragazza israeliana che condivideva su facebook i suoi "giorni più belli nell'esercito israeliano", con le istantanee delle umiliazioni inflitte ai prigionieri palestinesi in manette. 
Due ragazzi palestinesi, uno dei Paesi Baschi e una ragazza norvegese guidavano il corteo con le mani legate e gli occhi bendati, e vicino a loro i fotografi della Reuters e di altre agenzie, già muniti di maschere antigas.
Questo perchè l'iter è purtroppo noto: all'arrivo alla linea dell'esercito d'occupazione, distante un centinaio di metri dallla recinzione incriminata, il corteo pacifico rivendica civilmente i suoi diritti sul territorio, il soldato più alto in grado afferma che si tratta di zona militare israeliano e deve essere sgombrata, e dai manifestanti partono i cori di libertà.
Quindi, senza preavviso nè ragione, inizia una sconsiderata pioggia di lacrimogeni.
Purtroppo a questi a volte si aggiunge la violenza fisica, fino ai proiettili "rivestiti di gomma", ma potenzialmente fatali.
   Anche quel Venerdì succede lo stesso, Haitham subisce piccole abrasioni dall'aggressione dei soldati, qualcuno resta intossicato, ma al disperdersi dei gas nella conca che porta alla linea militare il corteo ritorna.
Dopo pochi minuti, il secondo attacco è più forte, i lacrimogeni non si riescono a contare.
I soldati strattonano la ragazza norvegese, che fingendosi una dei prigionieri palestinesi non aveva fatto altro che restare seduta e bendata ai piedi dei soldati.
Un manifestante tenta di portarla via tirandola per un braccio, i soldati la strattonano dall'altra parte, come fosse un oggetto.
Dopo aver vinto la resistenza, torcendole lo stesso braccio dietro la schiena, la trascinano di peso al di là della recinzione dove sorgerà il muro, senza che più torni al villaggio.
    Intanto esili bambini di non più di 8 anni lanciano sassi, poco più che solletico per soldati armati non meno di come lo sarebbero in guerra e li bersagliano di rimando coi lacrimogeni, ma in quei sassi c'è la rabbia e l'urlo del dirsi ancora vivi, ancora lì, decisi a non cedere e restare nelle case loro e dei loro padri.

   Al ritorno, malgrado la preoccupazione per l'attivista arrestata, il clima è di un'altra piccola vittoria.
La presenza dei giornalisti e il successo nel far parlare ancora di Bil'in è sufficiente.
   Alla sede del comitato, Haitam mi mostra i tipi di lacrimogeni e i proiettili usati dall'esercito di occupazione,  raccolti su quello che è un vero e proprio campo di battaglia.
Racconta con sguardo fiero le angherie che subisce la popolazione di Bili'n, le ritorsioni nei suoi confronti e in quelle del comitato, i momenti felici, come quello glorioso in cui sono riusciti a sradicare un pezzo di muro.

Su un manifesto rosso, sorridente, c'è il volto Bassem Abu Rahme, che nel  2009, durante un Venerdì come questo, è stato ucciso con un colpo in testa.
Stava esortando l'esercito a smettere di sparare, o avrebbero rischiato di uccidere le capre che erano al pascolo nelle vicinanze.
Bil'in ha i suoi martiri, Bassem è uno di loro.

E purtroppo il 31 Dicembre è stato raggiunto da un'altra ragazza: si chiamava Jawaer.
Jawaer Abu Rahme, la sorella di Bassem.

In un altro Venerdì di resistenza all'occupazione, il lancio dei lacrimogeni isralieni è stato tale da intossicare a morte Jawaer, che ha chiuso gli occhi all'ospedale di Ramallah.
Il Venerdì successivo il numero di manifestanti è stato altissimo e hanno urlato tutta la loro rabbia e il loro dolore ancora in modo pacifico, e ancora la risposta israeliana è stata violenta.

Bil'in versa il suo sangue, ma continua a vivere.
E con lei, la speranza di bruciare quel vocabolario d'odio.
Riscrivendone uno nuovo che inizi con le parole "libertà e pace".

17/01/2011                     


RICORDARE L’OPERAZIONE  “PIOMBO FUSO”
di Mirca Garuti


Il 18 gennaio 2009 terminava l’operazione “Piombo Fuso” iniziata dal governo colonialista d’Israele il 27 dicembre 2008.
22 giorni di feroci bombardamenti su un piccolo lembo di terra, la Striscia di Gaza, abitata da oltre un milione e mezzo di persone. (v.Bombardamento Gaza dic.08 speciale)
A due anni di distanza voglio ricordare questa aggressione citando alcuni passaggi del libro “Un Parroco all’inferno”,  un’intervista di Don Nandino Capovilla ad Abuna Manuel Musallam, parroco della chiesa della Sacra Famiglia a Gaza per quattordici anni fino al 2009.

Come essere umano, come palestinese e come arabo, prima che come cristiano e prete, finchè avrò respiro testimonierò quello che ho visto e vissuto per anni nella prigione di Gaza. Chi non ha visto e vissuto non può immaginare che livello di degradazione umana si può raggiungere attraverso un’oppressione morale e materiale che non è stata compiuta in un singolo tragico atto criminale, come i bombardamenti dei giorni dell’assedio”.

Che cosa ha portato nella Striscia il “piano di disimpegno” di Sharon nel 2005?
Gaza era una prigione anche prima del 2006, controllata a nord e a sud da confini spesso invalicabili per i palestinesi. Fino al 2005, al suo interno vivevano quattromila coloni. Non avevano niente a che fare con noi, non cercavano né contatti né incontri. Erano considerati come “esterni” agli abitanti ed erano ovviamente protetti con misure eccezionali dall’esercito. Avevano le loro strade e tutta l’acqua a disposizione. Generalmente, prima di installare una colonia, cercavano la fonte e poi la costruivano esattamente lì. In molti casi nella Striscia hanno scavato pozzi e preso tantissima acqua portandola fino in Israele, che quindi era al centro del trasporto dell’acqua”.

E… poi l’inferno è scoppiato!
L’attacco del 27 dicembre non è stato diverso da altri attacchi di Israele in altri posti e in altri momenti. Intendo dire che l’invasione è stata uguale ad altre, si è scagliata con la stessa violenza, con la stessa crudeltà, ha avuto la stessa tipologia di attacco che altrove, con cannoni, armi, missili, e anche con le stesse armi fuorilegge, quelle per esempio che spezzano in due sia gli oggetti  sia le persone, sia qualsiasi obiettivo raggiunto, senza che si veda niente altro. La differenza rispetto ad altri attacchi israeliani è stata che questo attacco ha coinvolto il territorio della Striscia nella sua globalità, andando da Rafah a Beit Hanoun, e soprattutto la vera differenza è stata la lunghezza e l’intensità della guerra. Il 27 dicembre, all’improvviso, nell’arco di due minuti tutte le postazioni di polizia sono state colpite contemporaneamente, e sessantaquattro ufficiali della polizia sono stati uccisi. Ma i poliziotti e i vigili non sono soldati, non fanno la guerra, non sono militari e tutti questi morti, questi poliziotti sono civili innocenti”.

Chi e che cosa è stato colpito?
In questa guerra hanno ucciso 1396 persone: 64 erano miliziani di Hamas, 320 erano bambini, 111 donne, 9 israeliani (3civili). I feriti sono stati 5300. Circa 4000 case sono state distrutte, 5 scuole dell’Unrwa. I raid aerei e l’artiglieria israeliani hanno distrutto anche decine di edifici pubblici, una ventina di moschee, 18 scuole, 215 cliniche mobili, 28 ambulanze”.

Il 6 gennaio viene bombardata la prima scuola dell’Onu. In Italia si comincia a percepire che non si tratta di una guerra, ma di un massacro di civili.
Oltre il cinquanta per cento delle moschee è stato colpito e persino quando hanno dovuto ammettere che avevano attaccato una scuola dell’Onu hanno affermato che si trattava di un gesto di autodifesa. Mai avevo assistito a un livello tale di ipocrisia: i TG occidentali stavano completamente stravolgendo la verità sui crimini compiuti, mettendo in campo tutte le possibili falsità, senza attirare su di loro l’indignazione generale e la protesta della comunità internazionale. I soldati israeliani si sono comportati come se fossero superman e agivano completamente al di fuori della legge. Dopo qualche settimana, finalmente alcune voci si sono levate nel mondo, e anche nello stesso Israele, per ammettere la verità: è stato un crimine, un crimine contro l’umanità”.

Durante l’attacco l’esercito israeliano ha usato armi illegali e terribili.
In questa guerra l’esercito israeliano ha usato armi proibite, bombe che tagliavano qualunque cose o persone trovassero. Immagina come migliaia di lame possano sezionare e tagliare in due un armadio, un frigorifero, un letto o una persona. Così accadeva:  all’improvviso qualsiasi obiettivo venisse colpito si divideva in due, fossero corpi oppure oggetti. Scene inenarrabili.
Hanno lanciato anche bombe al fosforo bianco: la materia al loro interno è liquida e questo liquido fa fumo. E quando i medici si illudono di averlo estromesso dal corpo colpito, questo, a contatto con l’ossigeno, si riaccende. La ferita diventa un fuoco e una brace che non si consuma. Mi chiedo perché dobbiamo accettare di essere umiliati fino a questo punto. Io sono convinto e ripeto che nessuna nazione, nessun popolo e nessun uomo accetta di essere sottomesso a tal punto da un altro popolo.”.

In quei giorni hai cominciato a scrivere appelli, a far presente al mondo che lì si stavano massacrando persone…
Sì, il 13 gennaio ho scritto un appello per scuotere le persone: Non abbiamo cibo, l’acqua potabile scarseggia, i bambini sono terrorizzati. In questa grave situazione musulmani e cristiani si sono ancora più uniti e insieme cercano di sopravvivere. Siamo tutti palestinesi e siamo tutti vittime… abbiamo messo a disposizione la nostra scuola come rifugio. All’interno hanno trovato ospitalità molte famiglie e bambini. Il loro pianto è continuo, sono terrorizzati. In tanti anni non ho mai visto una cosa del genere… la popolazione è allo stremo. Il popolo palestinese non merita questo trattamento di sangue. Imploro tutti di fermare questa guerra e di riaprire il processo di pace. I palestinesi vogliono vivere in pace”.

Richard Falk, relatore speciale dell’Onu, il 4 gennaio ha dichiarato che “bombardare quotidianamente una popolazione indifesa in un’area sovraffollata come quella della Striscia rappresenta un crimine”…
Concordo assolutamente con queste coraggiose affermazioni… perché a Gaza non ci sono solo terroristi, come d’altra parte pensano anche qui in cisgiordania. Che siano di Hamas o di Fatah, sono persone, con tutta la loro dignità di figli di Dio. O forse, sotto sotto, pensate anche voi che tanto sono di serie Z e che quindi..”se la sono voluta”. Certamente è duro dirlo, ma la strage degli innocenti si ripete ancora, proprio qui, come duemila anni fa, e i nuovi Erode sono più vivi che mai. Sentiamo che in Italia la gente giustifica e trova perfino legittimazione a questa guerra. Ma voi, informatevi bene e poi ragionate con la vostra mente e soprattutto con il vostro cuore. Non è tutto spiegato dal lancio dei qassam: i fatti di oggi hanno un retroscena che non giustifica per niente l’operazione “Piombo Fuso”. Andate a leggere la storia di questo Paese. Informatevi per capire bene come in realtà stanno le cose. Perché si comprende un’ingiustizia solo conoscendo la storia di questa terra.
Ma soprattutto, basta! Ci si deve muovere! E’ moralmente obbligatorio muoversi!”.

Ma quando mai allora si arriverà alla pace?
Gli israeliani dovrebbero smettere di pensare di essere in pericolo, di sentirsi perseguitati. Devono smettere di vedere in ogni palestinese un terrorista. Israele grida sempre alla necessità di mantenere la sicurezza: solo stando insieme, palestinesi e israeliani, potranno capire che in realtà non sono gli uni contro gli altri, ma contro i fondamentalismi di entrambe le parti. Israele però ci sta continuamente impedendo di realizzare questa strada: il muro, i checkpoint, l’occupazione vanno nella direzione opposta. Non vogliono nemmeno che ci guardiamo l’un l’altro. E siccome hanno soldi e armi, pensano di essere invincibili. L’equilibrio tra Israele e Palestina non c’è”.

Come prete, come uomo e come palestinese, quale pace sogni?
La pace deve essere basata sull’amicizia, sul perdono, sullo sviluppo, sulla giustizia, sul rispetto. Solo così potremo riunirci, israeliani e palestinesi, in modo da creare qualcosa di duraturo. Gli Israeliani dicono che Dio ha dato loro questa terra:ma l’ha data anche a noi! Questa terra è terra di Dio. Il cristianesimo è carità e speranza. L’Islam è pietà. L’ebraismo è una religione, non una nazione, così come il cristianesimo è una religione, non una nazione. Gli ebrei possono essere arabi, americani e francesi. Costituire una nazione che sia uno Stato ebraico non può funzionare”.

Nel maggio 2009 il Papa ha visitato la Terra Santa. I cristiani della Striscia di Gaza l’hanno invitato ma egli non è arrivato.
Come comunità cristiana, avremmo desiderato che il papa arrivasse a Gerusalemme passando attraverso la ferita di Gaza. In vista del viaggio di papa Benedetto XVI in Terra Santa, per me è stata una gioia grande che la mia lettera aperta al papa venisse diffusa e tradotta in tante lingue. Ci saremmo però aspettati che il papa rimandasse la visita in Israele perché lui era il nostro Padre. Desideravamo che il papa prendesse una posizione chiara, che protestasse, che dicesse che questi palestinesi erano ingiustamente oppressi. Però, quando questo non è accaduto, i palestinesi, che in quanto cristiani dovevano essere l’obiettivo principale della visita pastorale del papa, si sono rattristati molto, perché egli arrivava senza prendere una posizione forte nei confronti di questa guerra. E quando ha deciso di venire comunque in Terra Santa, abbiamo davvero sperato che venisse a farci visita. I rappresentanti di Hamas erano pronti a offrirgli sicurezza a livello ottimale e una straordinaria accoglienza. Eravamo comunque consapevoli che non sarebbe venuto da noi in questa situazione, perché avrebbe ricevuto pressioni da Israele, dalla comunità internazionale (europea e americana in primis) e da Mahmoud Abbas. Ma i palestinesi, e i cristiani di Gaza in particolare, non condividevano questa decisione. La prima volta che qualcuno chiese al papa di venire a Gaza, sappiamo che accettò. Poi però ha cambiato idea. Ma noi, come cristiani e musulmani palestinesi, avremmo voluto un papa più coraggioso, che dicesse:”Voglio andare a Gaza perché non ho paura di niente e di nessuno, neanche delle guerre e delle persecuzioni”. E dicesse che per questo sarebbe andato lì dove le persone stavano più soffrendo. Io speravo che il papa volesse condividere con noi fino in fondo la sofferenza, contro qualsiasi volontà, contro qualsiasi disegno politico: a costo di andare contro Israele, contro la Palestina, contro tutti. Avremmo voluto che in quel momento ci avesse messo al centro delle preoccupazioni della comunità internazionale e di quella cristiana in particolare. E la Chiesa sarebbe stata segno grande della carità di Cristo per gli ultimi, i poveri, gli oppressi. La Chiesa è già presente e viva a Gaza. Essa invece non ha trovato e mandato nessuna personalità ufficiale a investigare su quello che è accaduto. Tutte le istituzioni hanno poi mandato qualcuno: abbiamo visto ambasciatori tedeschi, inglesi, americani. Ma la Chiesa non ha mandato nessuno, nessun gruppo di cardinali o di vescovi, per difendere i cristiani e soprattutto per vedere  la situazione reale. Perché sono stati assenti? Quando la Chiesa era quella di Gesù, dei primi anni del cristianesimo, cercava davvero i più poveri per offrire loro il suo amore e la sua vicinanza. Ecco perché siamo stati così rammaricati per la mancata visita del papa. E’ la Chiesa che mi ha mandato a Gaza ed io ci sono andato, io, un semplice prete. Perché il rappresentante della Chiesa dovrebbe avere paura? Perché il papa stesso o qualsiasi altra persona di alto livello non mi ha chiamato per sapere come stavamo? Per dirci :”siete una piccola comunità, ma non preoccupatevi, siamo con voi”, affinché io potessi dirlo anche agli altri? Bisogna fare anche dei gesti, non solo parlare dal sicuro della propria dimora”.

L’operazione “Piombo Fuso” è stata anche ricordata, dopo un anno, dall’iniziativa “Gaza Freedom March” ( v.diario Gaza Freedom March 09) che doveva condurre 1500 attivisti di tutto il mondo dentro la Striscia di Gaza per cercare di interrompere lo stretto assedio imposta da Israele da più di tre anni. Purtroppo la marcia è stata bloccata al Cairo, ma non la lotta che, nonostante tutte le imposizioni da parte di Israele, continua.

La Freedom Flotilla (nove navi con 10.000 tonnellate di aiuti umanitari) in rotta verso Gaza assediata, il 31 maggio 2010 è assalita dalle marina militare israeliana: il bilancio delle vittime è di 9 morti e 45 feriti. (v.freddom flotilla)
Fra pochi mesi, una seconda e più grande flotta, la Freedom Flotilla 2, cercherà nuovamente di arrivare alla Striscia di Gaza e, questa volta ci sarà anche la nave italiana “Stefano Chiarini”  con decine di attivisti e tonnellate di aiuti per le scuole ed ospedali palestinesi.


Ricordare, quindi, per non dimenticare e continuare a portare avanti con fiducia una lotta giusta per la dignità dell’uomo.

18/01/2011


ULTIMA LETTERA DALL'AFGHANISTAN
di Mirca Garuti


Perché la guerra in Afghanistan? A chi interessa continuare questo massacro? Terrorismo? Interesse economico? Potere militare?  Quante domande per cercare di capire questo enorme conflitto……
Afghanistan un paese povero con la sola colpa di trovarsi in una posizione altamente strategica nell’Asia centro meridionale confinante con Cina, Iran, Pakistan, India, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. La Rivoluzione d’aprile (27/04/1978) diede vita alla Repubblica Democratica Afgana guidata dal leader del partito democratico, Nur Mohammad Taraki che portò una serie di riforme di carattere socialista nel paese, come la riforma agraria, la laicizzazione della società con l’obbligo per gli uomini di radersi la barba e per le donne con il riconoscimento del diritto di voto, dell’istruzione obbligatoria ed il divieto di indossare il burqa e di essere oggetto di scambio nei matrimoni combinati. Queste riforme però si scontrarono presto con le autorità religiose del paese e, nel mese di settembre 1979 Taraki fu ucciso su ordine di H. Amin, suo vice primo ministro che immediatamente lo sostituì. L’Armata Rossa il 27 dicembre 1979 invase così il paese. La guerra contro i mujaheddin, finanziati dagli Stati Uniti, fu lunga e violenta e cessò con la ritirata dei sovietici nel febbraio 1989.  La guerra continua dal 1989 al 1996 tra le varie fazioni di mujahedin (tagiki, uzbeki, hazari, pashtun) e dal 1996 al 2002 tra talebani al governo (sostenuti da Pakistan ed Arabia Saudita) ed Alleanza del Nord o Fronte Islamico Unito per la Salvezza dell'Afghanistan  (sostenuta da Russia, India, Iran, Tajikistan ed Uzbekistan). Tutto questo ha causato la morte di un milione e mezzo di afgani, due terzi dei quali civili.

Il 7 ottobre 2001 inizia l'invasione dell'Aghanistan da parte delle forze della Coalizione a guida Usa con la motivazione di una rappresaglia collettiva per l'attacco del 11 settembre, in base al fatto che il regime talebano di Kabul ospitava Osama Bin Laden ed i campi di addestramento di Al Qaeda.

In realtà l'intervento militare americano era stato pianificato mesi prima dell'attacco alle Torri Gemelle, ma sempre, secondo  fonti ufficiali,  con l’obiettivo di distruggere solo le basi di Al Qaeda. In base invece a varie interpretazioni geopolitiche, le motivazioni vere si possono riscontrare sia nella necessità, da parte del governo americano, di dover  stabilire una sua presenza militare duratura in un’area molto strategica  legata ai gasdotti, ai corridoi commerciali ed alla recente scoperta di immensi giacimenti di uranio e sia nel dover riavviare la produzione di oppio, vietata nel 2000 dal Mullah Omar per accattivarsi un riconoscimento internazionale. All’inizio degli anni ottanta, nei territori controllati dai mujaheddin antisovietici, armati dalla CIA, ci fu il grande sviluppo della coltivazione dei papaveri da oppio, unica vera ricchezza di questo paese. Il culmine si raggiunse invece  negli anni novanta sotto il dominio dei talebani sostenuto da Usa e Pakistan. Dopo l’invasione americana del 2001, la produzione ed il traffico di oppio afgano tornò a crescere ad alti livelli superando addirittura quelli del periodo talebano. Non bisogna dimenticare che il governo Usa e la Nato non si sono mai impegnati veramente nella lotta al narcotraffico, sostenendo spesso i “signori della droga” come il fratello del Presidente afgano Hamid Karzai, Ahmed Wali, risultato poi essere sul libro paga della CIA.

Dal 2001 ad oggi le truppe Nato (missione Isaf a comando Usa) insieme a quelle governative del governo di Hamid Karzai e milizie paramilitari locali contro i guerriglieri della resistenza afgana (talebani, miliziani, combattenti del ‘Hezb-i Islami e bande armate locali) hanno causato oltre 50.000 morti (quasi 2 mila soldati Nato, almeno 27 mila guerriglieri, 14 mila civili e 7 mila militari afgani).

Il numero dei militari italiani morti sul suolo afgano è ad oggi 35. La maggior parte di essi è rimasta vittima di attentati e scontri a fuoco, altri invece di incidenti e malori ed uno di un suicidio. Facciamo dunque parte di una guerra e non di una missione di pace!
La guerra in Afghanistan non solo ha un alto costo di vite umane ma anche economico. L’Italia nel 2010 per la sua partecipazione all’occupazione ha speso almeno 600 milioni di euro.
La corsa all’aumento progressivo di questo conflitto è sempre in crescita e lo dimostrano le cifre relative alle vittime ed alla spesa sostenuta.
Il costo della guerra: :  nel 2002, 70 milioni di euro; nel 2003, 68 milioni; nel 2004, 109 milioni;  nel 2005, 204 milioni;  nel 2006, 279 milioni;  nel 2007,  336 milioni, nel 2008, 349 milioni e nel  2009,  540 milioni .
Sorge dunque spontanea la domanda: ma quanti altri miliardi dovranno essere buttati via, sottratti  a risorse ben più utili alla collettività,  prima di dire Basta?  Dov’è il movimento contro la guerra?
Purtroppo il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha dichiarato, durante un incontro con la stampa a Milano la settimana scorsa, di essere pronto ad aumentare la presenza militare italiana in Afghanistan: "A inizio del 2011 ci saranno 4.200 militari in Afghanistan". L'incremento del contingente che a fine dello scorso anno contava circa quattromila uomini sarà possibile "perchè è aumentato il numero degli addestratori".

 


Quindi tutto continua….. anche se, da una attenta lettura dei fatti e situazioni che accadono all’interno dell’amministrazione americana intorno alla guerra afgana, si può facilmente comprendere tutta la sua falsità nelle varie motivazioni che l’hanno spinta a dichiarare guerra all’Afghanistan. Senza dover andare troppo indietro nel tempo, è sufficiente leggere l’articolo pubblicato online il 22 giugno 2010 su rollingstone.com (la versione integrale in italiano: http://www.rollingstonemagazine.it/magazine/articoli/stanley-mccrystal-generale-in-fuga/23286         (dal n. 853/2010 settimanale “Internazionale”)
Il reportage realizzato da Michael Hastings, giornalista freelance, ha sollevato tali polemiche negli Stati Uniti da dover indurre il presidente Obama ad accogliere le dimissioni del generale McChrystal, nominando al suo posto il generale David  Petraeus, capo del comando centrale statunitense responsabile delle missioni militari in Medio Oriente. “Per quanto sia difficile perdere il generale McChrystal, credo che sia la giusta decisione per la nostra sicurezza nazionale - ha detto il presidente, la condotta raffigurata in un articolo di recente pubblicazione non soddisfa gli standard che dovrebbero essere rispettati da un generale al comando". Il 29 giugno McChrystal ha annunciato di voler lasciare l’esercito.
Lo staff del generale – racconta così il reportage di Hastings – è una banda di assassini, spie, geni, patrioti, manovratori politici e pazzi scatenati. Ci sono un ex capo delle forze speciali britanniche, due ex componenti delle forze d’elite dei marines, un soldato delle forze speciali afgane, un avvocato, due piloti di caccia ed almeno una ventina di veterani ed esperti di controinsurrezione. Si sono battezzati scherzosamente Team America, ispirandosi ad un film dissacrante degli autori di South park. Sono orgogliosi del loro atteggiamento positivo e del loro disprezzo per l’autorità. Da quando è arrivato a Kabul nell’estate del 2009, il Team America ha cercato di cambiare la cultura della International security assistance force (Isaf), la missione che opera in Afghanistan sulla base di una risoluzione delle Nazioni Unite”.L’esempio più lampante – continua ancora Hastings – del peso politico raggiunto da McChrystal è il suo modo di gestire il rapporto con Karzai. E’ McChrystal , e non i diplomatici come Eikenberry o Holbrooke, ad avere il rapporto più stretto con l’uomo su cui gli Stati Uniti contano per guidare l’Afghanistan. La dottrina della controinsurrezione richiede un governo credibile, e dal momento che Karzai non è ritenuto credibile dal suo stesso popolo, McChrystal si è dato molto da fare per rimediare”.
A questo punto sorge spontanea una domanda: ma….  distruggere un popolo, morire per queste persone, Perché?? Non è arrivato forse il momento di dire veramente “BASTA”!?

15/01/2011


Il Coordinamento modenese contro l’occupazione
della Palestina e Ass. Alkemia

presenta la conferenza:

ISRAELE:
DAL COLONIALISMO AL FASCISMO?

coordina: Mirca Garuti – resp. Medio Oriente - Alkemia

Interventi di:
Fausto  Gianelli: Giuristi Democratici

 

 

 

 

 

 

 

 

Michele Giorgio: corrispondente dal Medio Oriente del quotidiano “Il Manifesto”

 

 

 

 

 

 

 

 

Cinzia Nachira: Docente di Storia Univ. Di Lecce

 





 

 

 

 

Le domande del Pubblico:

 

 

 

 

 

 

 

 

 




14 dicembre 2010


 
 Leggi la 2° parte

Leggi la 1° parte 

I DIRITTI DEI RIFUGIATI PALESTINESI
RICORDO DI UN MASSACRO

di Mirca Garuti

(terza parte)

 


Gli appuntamenti politici della delegazione proseguono con l’incontro del leader della comunità drusa, Walid Jumblatt. E’ presentato da Kassem Aina, referente del comitato in Libano, come amico da sempre dei palestinesi e prosecutore del messaggio politico di suo padre, Kamal.
Il discorso iniziale di Jumblatt è breve; riconosce che la vita, nei campi profughi palestinesi, deve essere migliorata ed è necessario fare pressione affinché l’Unrwa (agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza dei profughi palestinesi) riprenda a svolgere il suo compito perchè, negli ultimi anni, il suo aiuto verso i profughi è molto diminuito. Il leader druso preferisce dare subito la parola ai componenti della delegazione. Le domande che si susseguono toccano tutti gli argomenti che riguardono la situazione attuale e futura dei palestinesi e libanesi.

Jumblatt parla della legge sul diritto al lavoro e dell’assistenza sociale che, grazie anche all’appoggio del suo partito, ha avuto l’approvazione del Parlamento Libanese.
“Ogni palestinese può accedere a qualsiasi lavoro tramite la richiesta di un permesso – risponde - ma, non bisogna dimenticare che restano ancora escluse ai palestinesi 63 professioni. In Libano esiste un sentimento di razzismo nei confronti dei palestinesi. Non siamo stati capaci di promuovere una legge sul diritto alla proprietà perché su questo problema esiste una divisione netta. Il Parlamento è questo e queste sono le sue decisioni. Ci sono arabi che hanno case e terreni, senza vivere qui, mentre i palestinesi che sono qui, non possono avere niente, è triste, ma è così”.
Sulle trattative di pace non ha molte speranze: ”Come si fa a credere alla creazione di uno stato palestinese, quando c’è un governo di destra israeliano, guidato da Netanyahu, che non è disposto nemmeno a congelare i nuovi insediamenti?”
La discussione ritorna sulle condizioni di vita dei palestinesi in Libano che, nell’attesa di un possibile ritorno alle loro terre d’origine, devono migliorare e diventare dignitose, nonostante ci sia un sistema confessionale molto difficile, dove i partiti della destra hanno sempre osteggiato i palestinesi.
Si parla, inoltre, della difficile ricostruzione del campo di Nahr El-Bared per i problemi sempre legati alla mancanza del diritto alla proprietà e del lavoro: “Situazione difficile e pericolosa per il Libano, dipende da una decisione politica ed economica, ma, la comunità internazionale deve anche cominciare a pagare quello che gli compete, conclude Jumblatt”.
Il dialogo si sposta sulla situazione riguardante la democratica interna libanese ed il suo sistema elettorale.
La concessione di voto sotto i 21 anni è una prospettiva molto remota, in quanto esiste un blocco totale dalla parte cristiana. Questa modifica porterebbe ad un gran cambiamento in ambito elettorale all’interno delle forze politiche perché i giovani, essendo principalmente figli di musulmani, andrebbero ad aumentare la divisione esistente, mettendo in minoranza la parte cristiana, considerando che, dall’ultimo censimento libanese, i cristiani rappresentano solo il 30%.
“Noi siamo solo un piccolo gruppo, ma il Libano rimarrà sempre diviso tra queste differenze”, così ripete Jumblatt, chiudendo il discorso.
Ritorna anche il caso “Hariri”.
“Le accuse – continua Jumblatt – prima sono state tutte rivolte alla Siria, mentre ora sono verso il movimento di Hezbollah. Noi abbiamo chiesto un tribunale internazionale per fare chiarezza, per avere una giustizia, ma, sembra quasi che ci sia, dietro a tutto questo, un gioco manovrato dall’esterno per far cadere le responsabilità sul territorio libanese. Bisogna cercare i responsabili, guardare ovunque, perché non potrebbe essere stato anche lo stesso Israele? “
Il tema della resistenza non poteva non essere trattato: “Non si può smobilitare la resistenza – sostiene Jumblatt – la resistenza deve continuare”.
Infine, alla richiesta di una probabile disponibilità ad offrire i propri porti a navi dirette a Gaza, Jumblatt, risponde, con molta fermezza, che tutte le forze politiche libanesi hanno preso insieme la decisione di non inviare nessuna nave, perché la spedizione potrebbe essere intesa come una dichiarazione di guerra, in quanto il Libano, dal 1948, è in guerra con Israele.
A questo punto, Stefania Limiti, come responsabile del Comitato, ringrazia il leader druso per aver ospitato la delegazione italiana a casa sua, sottolineando che i membri del comitato chiedono solo la garanzia della sua volontà politica di stare vicino al popolo palestinese.
      


Giovedì 16 settembre, anniversario dell’inizio del massacro di Sabra e Chatila (16-18 settembre 1982), il Comitato incontra Sheick Nabil Kaouk, responsabile Hezbollah del Libano meridionale.

“In nome di Hezbollah e della resistenza vittoriosa nel sud del Libano, porgo a voi e all’amico Stefano Chiarini, i nostri saluti – inizia così il discorso Sheick Nabil - oggi è una giornata triste per tutta l’umanità, è l’anniversario del massacro di Sabra e Chatila. Sabra e Chatila è una ferita aperta che continua a sanguinare. Nessuno ha pagato per quel massacro. Mi trovavo a Beirut nel 1982, ho visto l’attacco, ho visto, anche, alcuni libanesi partecipare a quel massacro. I misfatti di Sharon e Begin sono ben conosciuti, quei libanesi complici sono ben conosciuti, sappiamo chi sono, ma non sono mai stati accusati o processati. Se non riusciamo a portare Sharon e Begin davanti ad un tribunale, dobbiamo trovare quei libanesi complici e condannarli. Tutti quelli che hanno partecipato al massacro sono complici e vanno processati. Sono più di sessant’anni che i Palestinesi sono massacrati e la comunità internazionale sta a guardare senza aiutare nemmeno un profugo”.
I negoziati, per il responsabile Hezbollah, sono illusioni, non portano a niente, servono solo ad anestetizzare il popolo. Al popolo palestinese rimane una sola strada da percorrere: “Quella della strategia della resistenza, che ha dato la sua prova di vittoria sia nel sud del Libano e sia a Beirut”.
Conclude la prima parte del discorso affermando che Hezbollah sta subendo una grande campagna di minacce proprio per il suo appoggio alla causa palestinese, ma, non per questo, abbandoneranno i loro fratelli palestinesi.
L’impegno e la presenza costante del comitato sono molto apprezzati da Sheick Nabil che lo definisce “Una candela che illumina tutto il mondo”.

Le domande si concentrano sul disarmo di Hezbollah e sui diritti civili dei palestinesi.
“Il partito Hezbollah è armato perché si deve difendere - risponde Sheick Nabil – ogni volta che succede qualcosa, si ripresenta il problema del possesso delle armi. Abbiamo sempre avuto armi, occorre però chiedersi perché si devono usare, non da chi provengono. E’ dal 1982 che subiamo queste campagne pianificate da forze internazionali, ma, la nostra resistenza continuerà. Il nostro obiettivo è quello di prepararci contro qualsiasi aggressione”.
Sui diritti civili palestinesi, afferma che prima di tutto il problema dei profughi è una questione umana, morale e poi politica e confessionale.  In Libano, però, qualsiasi cosa assume un aspetto religioso.
“Hezbollah – sostiene ancora Sheick Nabil – è al servizio dei palestinesi. E’ stato il primo partito che ha cercato di dare diritti al popolo palestinese. Tutto questo è una vergogna per tutta l’umanità. Noi siamo portatori di una strategia che porterà i palestinesi alla loro terra. Vogliamo anche noi l’unità palestinese, mi spiace dover affermare che la causa palestinese è assediata a livello arabo, internazionale ed israeliano. Non stiamo sognando, ma ci stiamo preparando al giorno della vittoria”.


     

 Stefania Limiti, nel suo discorso, sottolinea due importanti momenti provati dal comitato in questa settimana trascorsa in Libano. Un tempo di dolore per l’impossibilità di dare, ai familiari delle vittime, la giustizia che chiedono da sempre, mentre, invece, può solo offrire la solidarietà e l’impegno di essere sempre al loro fianco nella lotta per i mancati diritti.
Un tempo di speranza, invece, è rappresentato dall’incontro, molto atteso ed importante, di tutte le forze che rappresentano la resistenza del popolo palestinese. “Il primo momento – prosegue Stefania - ci spiega cosa significa la preoccupazione e la prepotenza del sionismo, il secondo, invece, c’insegna come contrastare quel pericolo. In occidente si parla della Palestina disumanizzando i palestinesi e, la resistenza diventa così il primo pericolo per le democrazie di tutto il mondo”. Stefania dichiara, inoltre, che il comitato rappresenta quella parte che non è d’accordo con “quell’occidente”, ma crede invece sia proprio il sionismo il pericolo più grande della nostra democrazia.
“Siamo quella parte – spiega Stefania - che crede che le uniche possibili trattative per la Palestina sono quelle del ritiro delle truppe militari d’occupazione dai territori occupati. Crediamo nel diritto alla resistenza dei popoli. Veniamo qui ogni anno per ricordare che senza il diritto al ritorno non c’è una speranza di pace e veniamo qui perché qui c’è un pezzo di Palestina e vogliamo così essere al fianco del popolo palestinese”. 


    


La delegazione riparte in direzione del carcere di Khiam verso il confine con Israele.

Khiam era il centro di detenzione e di interrogatori che Israele aveva costruito ed utilizzato durante la sua occupazione nel sud del Libano, dal 1982 al 2000. Venivano qui rinchiusi i militanti della resistenza libanese e palestinese. Arrivavano incatenati, incappucciati e narcotizzati per essere poi interrogati.
Torturati più che interrogati. Venivano denudati, legati, messi a testa in giù, picchiati ed applicati elettrodi alle dita, ai genitali ed ai capezzoli. I miliziani cristiani dell’ELS (Esercito del Libano del Sud), alleato degli occupanti, avevano appreso queste tecniche da Israele. Il 23 maggio 2000, quando l’esercito israeliano si ritirò, le guardie dell’ELS, fuggirono e la popolazione locale fece irruzione nel carcere, liberando i centoquaranta prigionieri rimasti.
La prigione da luogo di detenzione divenne in seguito un museo, un monumento alla memoria. Un luogo dedicato al ricordo di quelle atrocità per rendere conto di come questa “segreta” prigione fosse sempre stata fuori dai controlli e dalle norme internazionali.
Questa struttura era amministrata dal partito degli Hezbollah, il partito di Dio.

Stefano Chiarini in un articolo pubblicato da “Il Manifesto” il 24 giugno 2000, scrive: “Passati due cortili nei quali i prigionieri appena arrivati venivano picchiati sotto il sole o al freddo della notte per giorni e giorni, si entra in un dedalo di corridoi sui quali si affacciano decine di celle. Tutto è piccolo, angusto e sporco con un insopportabile puzzo di urina. Ibrahim, quarantacinque anni di cui cinque passati nel carcere di Khiam, in questo terribile luogo di detenzione, è tornato a visitare la cella di 4 metri quadrati che ha diviso per cinque anni con altri quattro suoi compagni e, come molti altri ex prigionieri, si è trasformato in una sorta di guida agli orrori del carcere e alle gesta della resistenza "nazionale" libanese. "In una cella così - ci dice Ibrahim indicando una stanzetta oscura, attraversata dai fili con la biancheria dei prigionieri rimasta lì appesa come ogni altra cosa, dove si trovava la mattina della liberazione - eravamo in cinque. Avevamo circa 10 minuti d’aria ogni 48 ore in quel cortiletto lì accanto con il tetto di sbarre di ferro coperte da filo-spinato e la possibilità di fare una doccia una volta al mese. Come cibo, cinque olive a testa e tre uova sode al giorno da dividere tra noi". "Ma tutto ciò era sopportabile rispetto ai pestaggi dell'arrivo, alle torture con la corrente elettrica fatte sotto la supervisione degli "esperti" israeliani e a mesi e mesi nelle celle di punizione di un metro e mezzo per due, sempre al buio, dove non ci si poteva neppure stendere. Un vero inferno" La stanza per le torture, piena di tavoli polverosi e sedie rovesciate con alle pareti delle griglie di ferro e sul soffitto dei ganci per appendere i prigionieri, si trova in uno dei torrioni d'angolo. In queste stanze non sono passati soltanto i militanti della resistenza islamica ma anche decine e decine di combattenti del PC libanese, molto attivo nella resistenza fino ai primi anni novanta e tanti giovani della zona colpevoli solamente di non aver voluto arruolarsi nelle milizie dell'Esercito del Libano Meridionale”.

Oggi tutto questo non esiste più. Dopo la guerra del 2006 è rimasto solo un cumulo enorme di macerie.

    

  


Nel settembre 2006 il comitato per non dimenticare Sabra e Chatila incontra, su queste macerie, il responsabile Hezbollah del Sud del Libano, Sheick Nabil Kaouk.
Queste sono le sue parole: “Questo carcere rappresenta la violenza d’Israele. Qui venivano torturati i nostri combattenti ed i prigionieri libanesi. Colpire questo carcere significa quindi voler cancellare le tracce di tutta quella violenza. I nostri giovani hanno condotto una grande resistenza contro Israele che ha attaccato il Libano usando armi proibite dalle convenzioni internazionali. Israele ha distrutto case, ponti, ucciso persone, ma, non la nostra determinazione di vivere. Grazie alla resistenza, il piano degli Stati Uniti e d’Israele è stato bloccato, volevano eliminarci, ma noi oggi siamo ancora più forti, volevano disarmarci, ma noi conserviamo ancora le nostre armi, infine volevano respingerci oltre il fiume Litani, ma noi siamo sempre presenti a ridosso del confine con Israele”.

Oggi, come negli scorsi anni, il comitato è ancora presente e non dimentica questi luoghi di memoria, come il partito Hezbollah non dimentica Stefano Chiarini, giornalista de “Il Manifesto” e fondatore del comitato.

    


Lasciato il carcere di Khiam, la delegazione si dirige verso Fatima Gate, il confine con Israele.
Non è possibile scendere dal pulman e neppure scattare fotografie.



La giornata termina con la visita al museo della resistenza di Mlita, inaugurato da Hezbollah il 21 maggio scorso.
Mlita rappresenta il luogo dove è nata e si sono svolte le più grandi operazioni di resistenza contro l’occupazione israeliana dal 1982 al 2000. La storia della resistenza è così diventata arte. Hanno collaborato a questo progetto circa 500 persone con circa 150mila ore di lavoro. Il museo occupa circa 60mila metri quadrati di superficie. Inizia da un fossato di circa 3000 metri quadri, chiamato “Abisso”, che rappresenta la sconfitta d’Israele, formato da armi, veicoli e carri armati. Vicino c’è la sala “L’esibizione” dove si trovano i vari equipaggiamenti militari israeliani. La seconda zona è chiamata “Il sentiero”, un percorso dentro una foresta con le varie postazioni dei combattenti. Al termine del “sentiero” si trova la “grotta”, una caverna costruita dagli stessi combattenti per rifugiarsi durante i bombardamenti, dove si trovano cucine, stanze da letto e varie armi.
Mlita è il museo realizzato per invitare a comprendere, di generazione in generazione, il valore della resistenza contro ogni occupazione.


  

     

Dopo la consueta riunione nella sala stampa libanese di tutte le delegazioni presenti per ricordare la strage di Sabra e Chatila, quella italiana incontra il responsabile internazionale del partito politico Hezbollah, Ammar Musawi.
L’argomento principale è Israele e la sua continua arroganza nel continuare a commettere qualsiasi azione senza mai renderne conto. Nessun tribunale internazionale ha mai condannato l’occupazione israeliana ed i suoi collaboratori.
Musawi non ha nessuna fiducia verso le trattative in corso tra Israele e Palestina: “Non siamo di fronte ad un risveglio delle coscienze – dice - in realtà manca la determinazione di trovare una soluzione e, purtroppo, non sono i primi negoziati e non saranno nemmeno gli ultimi”.
“Dove sono le buone intenzioni? – prosegue Musawi – Israele continua la costruzione di nuovi insediamenti, l’obiettivo non è raggiungere una pace, Obama ha bisogno, in questo momento difficile, di avere una buona immagine mediatica, quindi, le trattative continuano, come la speranza, da 40anni. La resistenza è considerata un ostacolo per la pace, ma la resistenza si è resa necessaria per la delusione delle masse arabe, di fronte alle continue promesse mai realizzate. Noi chiediamo alle grandi potenze di cessare la colonizzazione di altre parti del mondo, noi possiamo essere amici, ma non seguaci”.
Musawi richiama poi l’attenzione della delegazione verso il problema, sempre molto discusso, dell’olocausto. Rimarca la condanna, da parte del suo partito, per l’uccisione d’innocenti a prescindere dal numero delle vittime e domanda: “L’olocausto è successo in Europa, perché ne dobbiamo pagare noi le conseguenze? Perché non si può discutere su quello che fa Israele senza essere accusati di antisemitismo? Questa è un’usurpazione mentale! Non può essere una scusa per poter uccidere altre persone, non c’è giustificazione, Israele parla sempre di autodifesa, ma da chi si deve difendere?”. “Hezbollah è un avversario di Israele – continua – siamo sulla lista del terrorismo americano da 20anni, non abbiamo paura”.
La discussione, a questo punto, prosegue sull’assassinio di cinque anni fa del primo ministro Rafiq Hariri. Omicidio, come già sentito dire in altri incontri politici, avvenuto in un momento molto critico per il Libano. In un primo momento la responsabilità è caduta sulla Siria, senza nessuna prova, ed ora la sua imputabilità è verso il partito Hezbollah.
“Abbiamo capito – dice ancora Musawi – che questo assassinio sarà utilizzato per altri motivi politici. Ma perché l’assassinio di una sola persona merita il tribunale internazionale? Decine di migliaia di palestinesi e libanesi hanno il diritto di avere un tribunale internazionale, come per esempio, le vittime di Sabra e Chatila, Gaza, Kana… siamo di fronte ad una giustizia internazionale molto sproporzionata! L’accusa contro Hezbollah è motivata dalla nostra resistenza contro Israele e, quindi, siamo un avversario degli Stati Uniti e di quella parte di Occidente che appoggia Israele. Molti sono stati i tentativi di farci passare come un partito d’assassini e non di resistenza, siamo determinati a riaffermarci come un partito di resistenza e lanciamo una sfida a chiunque pensi di poter trovare anche una sola prova contro di noi. Abbiamo combattuto un esercito che stava occupando la nostra terra, ci siamo autodifesi. Se questo è il concetto di giustizia internazionale, è miserabile come risposta e, le accuse contro Hezbollah, servono solo a creare un solco tra i palestinesi. E’ un tentativo per dire ai sunniti libanesi che gli sciiti hanno assassinato il loro leader, è un invito quindi alla lotta tra le due confessioni. Noi vogliamo sapere chi ha ucciso Hariri, ma questo non deve essere strumentalizzato dalla politica. Rafik Hariri è stato ucciso cinque anni fa, la commissione d’inchiesta ha ascoltato tantissime persone, ma non Israele. Israele ha invaso tante volte il Libano, ha creato collaborazionisti, ci sono state uccisioni di uomini politici, ma nonostante tutto questo è sempre stato sollevato da ogni sospetto”.


    


I componenti della delegazione chiudono l’incontro porgendo a Musawi alcune domande che riguardano l’unità palestinese, una nuova probabile guerra, il diritto al ritorno, lo stato unico palestinese ed il movimento “terroristico” Hezbollah.
 
Musawi risponde invitando i suoi fratelli palestinesi ad essere più uniti perché la divisione rappresenta solo un punto di debolezza.
Una nuova guerra? Non esclude niente Musawi perché Israele può fare qualsiasi cosa, ma, considerando il periodo difficile che sta attraversando l’America, forse, il pericolo di un nuovo conflitto non è imminente.
Il diritto al ritorno è un diritto sacrosanto e qualsiasi passo che si fa per neutralizzarlo è un tradimento verso la causa palestinese.
Musawi ammette che l’idea di uno stato unico è buona, ma richiede la fine dello stesso progetto sionista. “Si deve distinguere il popolo ebreo dal progetto coloniale d’Israele. Gli ebrei hanno sempre vissuto bene con gli arabi, non sono mai stati perseguitati dall’Islam, ma non possiamo dire che questo può essere lo stato di tutti gli ebrei del mondo, può esserlo solo per quelli che ci abitano. Israele è l’unico stato al mondo in cui si parla di diritti ai cittadini secondo solo la religione e la lingua di appartenenza”.
Per l’ultima domanda Musawi ribatte che il movimento Hezbollah è considerato terrorista solo perché si trova sulla lista nera americana. Molti stati seguono le indicazioni statunitensi, infatti, anche l’ambasciata italiana in Libano non ha contatti con Hezbollah. Una parte del popolo italiano è schierata per la pace e per la causa Palestinese, mentre il suo governo sta con Israele. C’è un’enorme contraddizione in questi governi perché da una parte si dichiarano a favore della difesa dei diritti umani, mentre dall’altra offrono amicizia ad uno stato che non li applica minimamente.

L’ultimo incontro politico del comitato è con il Partito Comunista Libanese.
Il segretario generale Dr. Khaled Hadada inizia il discorso puntualizzando che il suo partito non essendo confessionale è penalizzato perché non può far parte del parlamento libanese. Il Pcl ha avuto un ruolo molto importante nella difesa del paese con Hezbollah durante l’ultimo conflitto del 2006.
“Il Partito Comunista Libanese è stato una delle forze politiche che si è sempre opposto all’arroganza e all’aggressione israeliana – afferma il Dr. Hadada - siamo stati i primi a prendere le armi contro l’invasione sionista del 1982. Ora stanno portando avanti le trattative con il principio dell’ebraicità dello stato. Tutti spingono perché queste trattative vadano avanti. Noi crediamo che l’America ed Israele stiano preparando una nuova guerra al Libano, un attacco al popolo libanese e palestinese. Il nostro partito ha avuto tanti martiri e migliaia di feriti e prigionieri. A causa del sistema confessionale non c’è unità nel popolo libanese, rendendo quindi il paese debole e soggetto ad incursioni. Quello che indebolisce la resistenza, indebolisce il sistema stesso. Il nostro piano è la solidarietà di tutti gli amici del mondo”.

Alla domanda: quando sarà la prossima guerra?
Hadada risponde: “Ci sono le condizioni per una nuova guerra, ma prima di attaccare l’Iran direttamente, lo faranno con gli altri paesi amici (Hamas, Hezbollah, Siria) che non potranno restare a guardare, quindi potranno colpire il Libano o la Palestina per tagliare loro le ali e gli aiuti. Non succederà tra due, tre mesi ma più avanti nel tempo. Dobbiamo essere pronti. Sarà una mina che non scoppierà solo nel Libano, ma avrà un effetto devastante tra sunniti e sciiti in tutto il mondo”.

All’ultima domanda: non vi sembra strano che Hezbollah faccia parte del governo?
“Qualsiasi legge elettorale – risponde Hadada – è il frutto dell’accordo tra le varie confessioni. Non c’è posto per il Pcl perché è trasversale e non vuole diventare alleato di qualcuno. Non possiamo dare il voto e non possiamo stringere alleanze, non c’è posto per noi in questo tipo di confessione, neppure all’opposizione, non ci vogliono né qui né lì”.


       


Il comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” non incontra solo partiti politici e giornalisti ma anche uomini, donne e bambini palestinesi e libanesi. Questi sono gli incontri dolorosi, come diceva Stefania in un suo intervento, in quanto non possiamo offrire loro una speranza di giustizia, ma solo la nostra più totale solidarietà ed impegno nel portare la verità di questa situazione a conoscenza di tutti, fuori da questi confini.  Le condizioni di vita all’interno dei campi profughi palestinesi in Libano non migliorano con il passare degli anni, in quanto subiscono l’influenza delle difficili situazioni politiche sia interne e sia esterne. Non manca solo la così detta Giustizia per la loro condizione di popolazione aggredita ed espulsa, ma anche la semplice considerazione che si sta parlando di “esseri umani” con i loro diritti. Visitare i campi, addentrarsi nelle piccole sporche viuzze, senza nessun sistema fognario, idrico o elettrico, diventa, anno dopo anno, sempre più frustrante. Si notano anche alcune diversità, purtroppo negative, come un maggior numero di donne velate e bambini che possiedono un’arma giocattolo. La guerra è ormai dentro i loro giochi. Le loro aspettative per un futuro migliore sono praticamente uguale a zero. Le bambine invece sono più gioiose, pronte a regalarci un sorriso.


  

    

Il programma della delegazione prevede uno spettacolo di musica e ballo con i ragazzi del campo Burji al Shamali. Questo è il momento più sereno di tutta la settimana. I volti sorridenti di queste ragazze e ragazzi, attraverso la musica ed i canti popolari delle terre che non hanno mai conosciuto, rappresentano l’umanità di tutto il popolo palestinese, la memoria della storia ed il futuro della Palestina.


   


Da un momento di gioia in un campo si passa ad un altro invece carico di tristezza, ricordi, rabbia e dolore: è il campo di Chatila. L’incontro con i familiari delle vittime del massacro è sempre atteso. Si ritrovano conoscenze, amicizie fatte solo di sguardi, abbracci, strette di mano e sorrisi. Il tempo a disposizione è sempre troppo poco e, spesso si ritorna in piccoli gruppi, per far conoscere, a chi non è mai stato qui, le persone ed i vicoli di Chatila. E’ diventata una città dentro un’altra città cresciuta in altezza con più di ventimila persone. L’aria malsana, l’umidità, la mancanza di luce e la cattiva alimentazione sono i fattori che determinano le molte malattie tra la popolazione, dal diabete, al cancro ed alla mortalità infantile.
Ci sono altre occasioni per rincontrare le donne di Chatila e, questa non è solo una settimana di ricordi dolorosi, ma vuole anche essere la settimana dedicata alla causa palestinese visibile a tutte le forze politiche del mondo arabo ed occidentale.


      

    


La manifestazione per l’anniversario del massacro di Sabra e Chatila ( v.Storia di Sabra e Chatila ) compiuto nel 1982 nei due campi palestinesi alle porte di Beirut dalle falangi libanesi con la complicità attiva d’Israele è al centro delle iniziative del comitato in Libano.

Le foto della manifestazione


Alcuni componenti della delegazione sono riusciti a tornare, dopo molti anni, anche al Gaza Hospital a Sabra. Un tempo era stato l’ospedale, gestito dalla Mezzaluna Rossa Palestinese, dove le palestinesi e libanesi del campo andavano a partorire i loro bambini, dove i sanitari cercavano di soddisfare le esigenze sanitarie dei rifugiati e dove sventolava un’enorme bandiera della Croce Rossa. Era il secondo ospedale più importante del Libano e, per la sua posizione urbanistica, dominava il campo di Chatila, diventando così il testimone del massacro del 1982. Ora è diventato un luogo inabitabile dove vivono i palestinesi e libanesi rimasti senza casa e senza risorse economiche. Un campo profughi sviluppato solo in verticale. L’entrata è buia, maleodorante, per arrivare alle scale e per salire ai piani superiori è necessario avere una torcia o dei fiammiferi. Le condizioni nelle quali sono costretti a vivere sono indegne per qualsiasi essere umano.


   
     


La storia di questo campo è raccontata dal documentario di Marco Pasquini “Gaza Hospital” presentato al comitato l’ultima sera di permanenza in Libano. Il racconto è condotto da Youssef, barbiere palestinese che dal 1987 abita nel cortile dell’edificio insieme alle testimonianze di chi ha lavorato come personale medico o amministrativo al Gaza Hospital, come Swee Chai (chirurgo ortopedico di nazionalità malese), Ellen Siegel (infermiera ebrea americana) e Aziza Khalidi (amministratrice palestinese).
Swee Chai di religione cristiana era arrivata, attraverso un’opera di carità britannica, a Beirut per lavorare in un ospedale durante la guerra e, fino al giorno del massacro, considerava “terroristi” i palestinesi e la sua solidarietà era rivolta ad Israele. Nel 1982 lavorava al Gaza Hospital e fu una dei testimoni contro Ariel Sharon. Dopo quest’esperienza, ha fondato il M.A.P. (Madical Aid for Palesatine).
Ellen Siegel, all’epoca dell’invasione israeliana, si trovava come volontaria al Gaza Hospital. Nel 1983 ha testimoniato contro Ariel Sharon presso la Commissione d’inchiesta Israeliana sul massacro di Sabra e Chatila.
Ellen è tornata dopo 21 anni nei campi profughi palestinesi in Libano ed ha scritto una lettera che è un atto sia di amore e sia di accusa.

“Miei cari amici, per la prima volta dopo vent’anni, sono recentemente tornata a Beirut, a Chatila e al Gaza Hospital a Sabra, dove avevo lavorato come infermiera volontaria quell’estate del 1982. Sono tornata per ripercorrere quella tragica esperienza… La Commissione d’inchiesta israeliana decise che Sharon aveva una responsabilità indiretta – una conclusione contestata da molti al di fuori dell’establishment israeliano. I falangisti portarono avanti materialmente il massacro di uomini, donne e bambini e anche di loro si dovrà tenere conto nella nostra ricerca di giustizia. Di sicuro i Palestinesi sopravissuti non potranno mai avere un processo equo in Israele. Basta pensare che il governo israeliano ha respinto ogni responsabilità anche in un caso come quello della morte di Rachel Corrie. Sembra che il guidatore del bulldozer non avesse visto la ragazza che stava davanti al mezzo agitando le mani. Se Rachel Corrie, cittadina americana non ha potuto avere giustizia in Israele figuriamoci gli abitanti palestinesi di Sabra e Chatila. In ogni caso, i vostri amici d’ogni parte del mondo cercheranno ora di aiutarvi il più possibile e in questo ventunesimo anniversario saranno ancora al vostro fianco. Scriveremo lettere, faremo telefonate, scriveremo articoli, manderemo e-mail, organizzeremo dibattiti, invieremo interventi. Mentre voi ancora aspettate giustizia sappiate che la vostra causa non è stata abbandonata e non lo sarà mai… (da “Il Manifesto” 16/09/2003)


     

La Verità è Sempre Rivoluzionaria
(A.Gramsci)

13/12/2010


 

LE VERITA’ NASCOSTE

 

 

Oggi 29 novembre 2010, l’Onu celebra la Giornata Internazionale di Solidarietà con il popolo palestinese.

La Tavola della Pace ha elencato, in questa occasione, dieci notizie sui palestinesi che i media tendono a nascondere. Una buona occasione  per farci riflettere sulla condizione dei palestinesi profughi nel mondo e di coloro che vivono sotto occupazione israeliana.

1. Privati da oltre sessant’anni della libertà, 4 milioni di palestinesi sono costretti a vivere sotto il peso dell’occupazione militare israeliana. 2.2 milioni hanno meno di 18 anni. Più di 1.800.000 palestinesi vivono da rifugiati nella propria terra. Quasi 3 milioni vivono in Giordania, Libano e Siria. Più di 20.000 palestinesi vivono rinchiusi in un campo profughi nel Città Santa di Gerusalemme.
2. Dall’inizio del 2010, l’esercito israeliano ha ferito 1074 palestinesi (in prevalenza giovani e bambini) che protestavano contro l’occupazione, contro l’espansione degli insediamenti e contro la costruzione del muro. Nel 2009 ne sono stati feriti 764.
3. Da quando il 26 settembre è finita la moratoria sulla costruzione di insediamenti nei territori occupati, i coloni israeliani hanno costruito 1650 case nuove, poco meno del totale di quelle costruite nel 2009.
4. Ai palestinesi invece non è permesso di costruire o ingrandire la propria casa in tanta parte della propria terra. Dal 24 novembre le autorità israeliane hanno abbattuto 18 case palestinesi e una moschea. 54 persone sono state gettate per la strada.
5. Il 23 novembre un gruppo di coloni israeliani accompagnati dalla polizia israeliana si sono impossessati di un palazzo palestinese di tre appartamenti di Gerusalemme. Tre famiglie palestinesi con 5 bambini sono finiti per strada. In luglio i coloni israeliani hanno fatto lo stesso con le case di altre 29 persone e otto famiglie. Osservatori internazionali parlano di “pulizia etnica”.
6. Nella settimana tra il 10 e il 23 novembre, l’esercito israeliano ha condotto 57 incursioni e arresti di palestinesi nelle città e nei villaggi della West Bank e a Gerusalemme. Un po’ meno della media settimanale che nel 2010 è di 93 incursioni e arresti.
7. Dall’inizio dell’anno i coloni hanno aggredito i contadini palestinesi o distrutto le loro proprietà agricole, sradicando e bruciando migliaia di ulivi secolari, in media 6 volte alla settimana. Questa settimana (10 e il 23 novembre) le aggressioni sono state 7, una al giorno.
8. Nonostante il ritiro del 2005, Israele continua a controllare tutti gli aspetti fondamentali della vita di 1,5 milioni di palestinesi che abitano nella Striscia di Gaza. Dall’inizio del 2010, 58 palestinesi sono stati uccisi e 233 feriti. La maggioranza erano civili. Prima dell’inizio dell’assedio, dalla Striscia di Gaza entravano e uscivano in media 650 persone al giorno. Oggi ne passano 340. I palestinesi di Gaza hanno la corrente elettrica solo per 12 ore al giorno. L’acqua arriva nelle case ogni due giorni, per poche ore. E in alcune zone arriva solo ogni 5 giorni.
9. Ai palestinesi non è concesso di circolare liberamente nella propria terra. Il muro di 700 km costruito dagli israeliani nella West Bank separa molti palestinesi dai loro terreni, dai posti di lavoro e dai familiari. Il resto lo fanno una serie di coprifuoco, circa 600 posti di blocco e altri ostacoli. Per spostarsi spesso i palestinesi devono chiedere un permesso che spesso non arriva. A molti palestinesi viene così negata la possibilità di accedere alla terra, al lavoro, alle strutture scolastiche e ai servizi di base.
10. Israele continua a negare ai palestinesi l’accesso all’acqua, intralciando lo sviluppo socioeconomico e ponendo a repentaglio la loro salute. Un palestinese può utilizzare al massimo 70 litri di acqua al giorno, meno del minimo necessario. Un israeliano ne consuma 4 volte di più. L’esercito israeliano ha ripetutamente distrutto le cisterne di raccolta di acqua piovana usate dai palestinesi con la motivazione che erano state costruite senza permesso.


TERRA SANTA: UNA TERRA IN ATTESA DI PACE E GIUSTIZIA
Mirca Garuti

intervista:

Don Nandino Capovilla - coord. Naz. di Pax Christi e referente per la Palestina e Israele


 

conferenza:
PIAZZA PULITA: LA NAKBA (TRAGEDIA) PALESTINESE
con: Don Nandino Capovilla

“Non ci vogliono parole per descrivere 700 Km di muro, … come non dobbiamo dimenticare, quando parliamo del 48' come anno della nascita dello stato d'Israele, che è stato anche l'anno della cacciata del popolo palestinese.”
 



Il dibattito con il pubblico:

“Cosa possiamo fare noi quando andiamo in pellegrinaggio a Gerusalemme?”
“E' vero che cacciano i palestinesi dalle loro case per consegnarle ai coloni? Che gli tolgono l'acqua?”  09/11/2010

  


Negazione della Shoah…e negazione della Nakba (1°)

Intervista a Gilbert Achcar di Eldad Beck (2°)

 


Questa intervista  è stata pubblicata dal quotidiano israeliano "Yedioth Ahronoth", il principale quotidiano israeliano il 27 aprile 2010.

«Il fenomeno della negazione della Shoah nel mondo arabo è sbagliato, inquietante e danneggia la causa palestinese».
Nel suo nuovo libro, l’accademico franco-libanese Gilbert Achcar affronta per la prima volta gli atteggiamenti arabi nei riguardi della Shoah.
Gilbert Achcar ha lasciato il Libano nel 1983, durante la prima guerra di grande portata fatta da Israele nel suo Paese. Circa trenta anni più tardi, Achcar, professore di relazioni internazionali presso la School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra, militante di sinistra e per la pace, afferma che la guerra brutale tra Israele e i palestinesi in Libano ha segnato una svolta nello sguardo che il mondo arabo aveva verso la Shoah. Sostiene che i paragoni che il primo ministro israeliano Menahem Begin fece all’epoca tra Yasser Arafat e Hitler e tra i nemici di Israele e i nazisti hanno svalorizzato la Shoah e spinto molti in campo arabo a paragonare a loro  volta Israele ai nazisti e anche a pretendere che Israele abbia inventato la Shoah per giustificare la propria politica in Medio Oriente.
Il ricercatore francese di 59 anni ha pubblicato un nuovo libro in Francia, il cui titolo rivela il suo contenuto inconsueto: "Les Arabes et la Shoah". In quest’opera, Achcar – che ha già pubblicato dei libri con il militante di sinistra statunitense Noam Chomsky e con l’israeliano Michel Warschawski – affronta per la prima volta un soggetto molto intenso: l’atteggiamento degli arabi nei riguardi della Shoah dall’arrivo dei nazisti al potere fino ad oggi. Il libro, che non evita gli aspetti più problematici della questione, è appena uscito in due edizioni arabe, a Il Cairo e a Beirut.
Achcar è nato in Senegal da una famiglia di emigrati libanesi, ma è cresciuto e ha studiato in Libano. «Ho frequentato un liceo francese in Libano e ho sentito parlare della Shoah molto presto. Sono un umanista. La Shoah è stata sempre molto importante per me». Qualche anno fa, gli hanno chiesto di scrivere un articolo per una pubblicazione accademica [Storia della Shoah, UTET] sul rapporto tra gli arabi e la Shoah. La ricerca che ha intrapreso per l’articolo l’ha portato a scrivere questa voluminosa opera sulla questione.
G. Achcar, che ha insegnato a Parigi e Berlino, inizia il suo libro con una citazione del vangelo di Matteo: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?». In questa intervista con Yedioth Ahronoth, la prima che egli abbia mai rilasciato a un giornale israeliano, Achcar spiega: «La lezione di questa parabola è che prima di criticare gli altri, ci si dovrebbe chiedere cosa non va in se stessi». Egli prosegue chiedendo cosa non va in noi: «In campo israeliano, una serie di accuse sono state mosse contro il mondo arabo riguardo alla Shoah senza alcuna autocritica. Vi sono alcuni scrittori  israeliani talmente egocentrici che non riescono a capire che le loro accuse contro  il mondo arabo potrebbero essere ugualmente rivolte a Israele – talvolta a più forte ragione. Nondimeno la parabola si applica anche agli arabi, ben inteso. Nel mio libro, ho cercato di affrontare alcune vicende attuali che ritengo inaccettabili. Non difendo alcuno in modo acritico. Penso sia auspicabile avere uno sguardo critico verso il gruppo cui si appartiene prima di criticare gli altri».



Può essere più specifico?

G.ACHCAR: Riguardo al campo arabo, non ho alcuna simpatia per ciò che il Mufti di GerusalemmeHajj Amin al-Husseini, ha fatto durante la Seconda Guerra mondiale. Penso anche che la negazione della Shoah nel mondo arabo sia sbagliato, inquietante, e che danneggia la causa palestinese. Ma dal lato israeliano, come potete criticare la negazione della Shoah nel mondo arabo mentre anche Israele nega la Nakba palestinese?
Non sto paragonando l’espulsione del 1948 con la Shoah. La Shoah è stata un genocidio e una tragedia ben più grande della sofferenza palestinese dal 1948. Ma non sono gli arabi e i palestinesi che hanno commesso la Shoah, mentre Israele è responsabile della Nakba. Degli storici israeliani lo hanno dimostrato. Tuttavia, Israele continua a negare la sua responsabilità storica in questo dramma. L’ex ministro degli Esteri Tzpi Livni ha protestato presso il segretario generale delle Nazioni Unite per l’uso del termine Nakba, che in arabo significa «catastrofe». Come se si protestasse contro l’uso fatto da Israele del termine Shoah.
Nel mio libro, denuncio vigorosamente i negazionisti palestinesi e arabi, che oggi sono più numerosi che trenta o quaranta anni fa. Si tratta principalmente di una reazione provocata dalla rabbia piuttosto che negazionismo deliberato. Il palestinese o l’arabo che pretende che la Shoah sia stata inventata dai sionisti per giustificare le loro azioni reagisce all’uso della Shoah da parte di Israele per le proprie necessità
È una reazione stupida. Credo che la negazione della Shoah sia l’antisionismo degli imbecilli. Ma queste sono persone che negano un evento storico nel quale il loro popolo non ha svolto alcun ruolo. Invece, la negazione della Nakba da parte di Israele è molto più importante, perché è Israele che ne è stato responsabile. Quello è stato un momento decisivo nella fondazione di Israele. Anche altri Paesi si sono costituiti in circostanze simili, ma bisogna riconoscere la realtà e la responsabilità storica. L’oppressione attuale dei palestinesi aggrava la situazione.

Anche chi non è d’accordo con tutto ciò che scrive Achcar dovrà riconoscere che ha coraggiosamente affrontato una questione divenuta tabù nel mondo arabo in questi ultimi anni.

Suppongo che se l’argomento non mi fosse interessato non mi avrebbero chiesto di affrontarlo. Le persone che me lo hanno chiesto sapevano che capivo l’importanza storica della Shoah e che avevo la sensibilità necessaria per affrontare questa vicenda. Sapevo dall’inizio che era un argomento delicato e che tutte le parti in conflitto avevano un racconto diverso, soprattutto riguardo l’atteggiamento del mondo arabo verso la Shoah. C’è molta propaganda su questa questione. Avevo la sensazione che ci fossero descrizioni molto caricaturali delle posizioni storiche. Nel corso della ricerca, ho scoperto che è ancora peggio di ciò che pensavo, e che c’erano deformazioni sostanziali.

Lei afferma al di là di ogni equivoco nel suo libro che non vi è paragone tra la Shoah e la Nakba, contemporaneamente esiste un rapporto tra questi due eventi.

Il rapporto è evidente. Senza la Shoah e senza l’ascesa del Nazismo, non penso che il progetto sionista si sarebbe realizzato. Se osservate l’immigrazione in Palestina prima del 1933 e la flessione del numero di immigranti dopo lo scoppio degli moti del 1929, appare chiaro che senza il terribile fenomeno chiamato Nazismo e l’imperversare dell’antisemitismo in Europa, non vi sarebbe stata quella massiccia migrazione ebraica verso la Palestina che ha permesso la costituzione di Israele. L’ascesa di Hitler al potere e tutto ciò che è avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale hanno dato legittimità all’idea sionista. Dopotutto, il Sionismo era un’ideologia minoritaria tra le comunità ebraiche prima dell’ascesa del Nazismo. La gran parte degli ebrei europei non erano sionisti. Per di più, vi è stata l’ipocrisia del mondo occidentale che ha chiuso le porte ai rifugiati ebrei.
Vi sono degli accademici israeliani che sostengono che i palestinesi  abbiano una responsabilità  nella Shoah perché si sono rivoltati e hanno preteso che i britannici limitassero l’immigrazione ebraica in Palestina. Avrebbero così impedito a centinaia di migliaia di ebrei di immigrare in Palestina e causato il loro sterminio nella Shoah. Si tratta di un argomento molto tendenzioso. Perché rimproverare ai palestinesi di essersi rivoltati contro un progetto il cui scopo esplicito era di impiantare uno Stato straniero nel loro territorio e dimenticare che mentre i britannici restringevano l’immigrazione ebraica in Palestina, essi stessi avrebbero potuto permettere agli ebrei di immigrare nel loro Paese e in tante parti del vasto impero che controllavano?
Si potrebbe dire altrettanto degli Stati Uniti e di altri Paesi del mondo intero che presero parte alla Conferenza di Evian nel 1938 convocati dal presidente Roosevelt e che rifiutarono di accogliere dei rifugiati ebrei sul loro territorio. Sono questi che sono responsabili della Shoah e non i palestinesi. La Shoah ha creato le condizioni che hanno permesso la realizzazione del progetto sionista, progetto che non era possibile realizzare con metodi non violenti. È la realizzazione violenta del progetto sionista che ha creato la Nakba: questi sono i risultati di questi sviluppi.

La cooperazione di alcuni partiti arabi con i nazisti derivava da un’ideologia comune, o si trattava di una tattica politica nello spirito del detto secondo il quale: «il nemico del mio nemico è mio amico»?

Mi sembra evidente che per quel che riguarda il Mufti al-Husseini c’era una combinazione di opportunismo politico e affinità ideologica antisemita. Il Mufti non condivideva la visione del mondo a livello politico, sociale ed economico dei nazisti. Questi aspetti dell’ideologia nazista non lo interessavano. Invece, l’odio per gli ebrei e i britannici costituiva una base comune tra questi e i nazisti. Non era organicamente nazista, ma piuttosto collaboratore dei nazisti. Egli ha sviluppato un odio per gli ebrei che convergeva con l’antisemitismo nazista. Egli, d’altronde, non lo ha nascosto. Nelle sue Memorie, recentemente pubblicate, esprime una visione del mondo chiaramente antisemita.

Come spiega l’accoglienza calorosa che ha ricevuto nel mondo arabo dopo la Seconda Guerra mondiale?

L’idea che il Mufti avrebbe ricevuto un’accoglienza trionfale nel mondo arabo è un mito. Il fatto che i palestinesi l’abbiano trattato come un dirigente nazionale perseguitato dai loro nemici – i britannici e il movimento sionista – è una cosa. Ma se lei considera la sua influenza reale nel mondo arabo, anche durante la guerra, vedrà che questa era molto limitata. Il Mufti ha trascorso il suo tempo a Berlino e a Roma esortando i palestinesi e gli arabi a unirsi all’Asse italo-tedesco contro gli Alleati e sicuramente contro il movimento sionista. Si stima che solo 6.000 arabi si sono uniti alle diverse organizzazioni armate della Germania nazista.
Nello stesso periodo, 9.000 palestinesi arabi hanno combattuto al fianco dei britannici. Un numero ancora più elevato di arabi hanno prestato servizio nelle Forze alleate, compreso un quarto di milione di nordafricani che hanno combattuto nei ranghi gollisti. L’influenza reale del Mufti è stata quindi trascurabile. Oggi il Mufti è poco considerato nel mondo arabo. È stato associato alla sconfitta anche prima che lo lasciasse per l’Europa: la sconfitta della rivolta in Palestina, quella della rivoluzione mancata contro i britannici in Iraq.
Il fatto che egli abbia scelto il campo dei tedeschi ha contribuito al rifiuto nei suoi riguardi, anche tra i nazionalisti arabi.

Allora perché, si chiede Achcar, il Mufti riceve una simile attenzione in Israele?

Israele e il movimento sionista non avevano una risposta all’affermazione dei palestinesi che se la Shoah era stata qualcosa di terribile, essi non ne erano responsabili e non vi era, quindi, alcuna ragione perché pagassero per gli atti commessi dagli europei. Allora i sionisti hanno presentato il Mufti come fosse la prova che i palestinesi erano complici della Shoah. Così si è costruito il racconto che presenta gli arabi come complici dei nazisti, che permette di dire che la guerra del 1948 era l’ultima battaglia della Seconda Guerra mondiale contro i nazisti. Ma questa narrazione non regge alla prova dei fatti storici. È propaganda.

Ma la collaborazione non è limitata al Mufti. Molti criminali nazisti hanno trovato rifugio nei Paesi arabi e diversi partiti arabi, come il Baas, si sono ispirati all’ideologia nazista.

Non esistono prove che il Baas sia stato influenzato ai sui inizi dall’ideologia nazista. Anche il tentativo di presentare il Baas e il suo fondatore, Michel Aflak, come nazisti è propaganda. Aflak è stato influenzato dalla sinistra ed era in contatto con comunisti e marxisti che si opponevano al Nazismo. L’unico elemento probatorio contro di lui è che nella sua biblioteca aveva una copia della traduzione francese di un’opera di Alfred Rosenberg [il principale ideologo del movimento nazista e autore del suo programma razzista – E. B.]. Ciò equivale a dire che chiunque avesse una copia del Mein Kampf a casa era un nazista. Coloro che leggono dei libri non sono per forza d’accordo con il loro contenuto. Se lei parla del Baas degli anni ’60 e ’70, il Nazismo non esisteva più. Se il partito Baas iracheno di Saddam Hussein ha potuto usare degli argomenti antisemitici, ciò non aveva rapporto con il Nazismo.
Vi è effettivamente un certo numero di ex nazisti che hanno trovato rifugio nel mondo arabo, in Egitto e in Siria. Contemporaneamente, con l’eccezione di Alois Brunner [braccio destro di Eichmann], che si è rifugiato in Siria, tra questi non vi era alcun dirigente nazista che fosse stato parte della macchina di sterminio. Ma perché questo argomento è usato contro gli arabi, mentre degli amici di Israele, iniziando dagli Stati Uniti, hanno dato rifugio a dei nazisti e sostenuto l’emigrazione di criminali molto più importanti di coloro che hanno trovato rifugio nel mondo arabo?

L’assenza di dibattito sul collaborazionismo con i nazisti nel mondo arabo ha un impatto sulla negazione della Shoah nei diversi settori della società araba e musulmana?

L’accresciuta tensione fra Israele, gli arabi e i palestinesi nel corso degli ultimi  anni ha radicalizzato le posizioni di entrambi i campi. Ma neanche Hamas ha mai creato delle brigate in nome del Mufti al-Husseini. Non vi sono neanche missili o strade che portano il suo nome. Non interessa alcuno. L’eroe di Hamas è Izz el-Din al-Qassam. Bisogna capire questo per non lasciarsi ingannare dalla propaganda.
D’altronde, se la gente si interessasse veramente al Mufti, non vi sarebbe negazione della Shoah.
Al-Husseini non era un negazionista. Nelle sue Memorie racconta che Himmler gli disse, nel 1943, che la Germania stava sterminando gli ebrei  e ne aveva già ucciso tre milioni. Il Mufti scrive con soddisfazione che gli ebrei hanno pagato un prezzo più alto di quello che dovettero pagare i tedeschi e che un terzo del giudaismo mondiale aveva trovato la morte. Egli, così, conferma il numero conosciuto delle vittime della Shoah.
Il negazionismo odierno nel mondo arabo deriva prima di tutto dall’ignoranza. Bisogna contemporaneamente distinguerlo dal negazionismo in Occidente, dove costituisce un fenomeno patologico. In Occidente, queste persone sono dei malati mentali, sostanzialmente antisemiti. Nel mondo arabo, il negazionismo che esiste fra alcune correnti dell’opinione pubblica, ancora minoritarie, deriva dalla rabbia e dalla frustrazione provocate dall’aumento della violenza israeliana, che si accompagna ad un accresciuto uso della Shoah. Ciò è iniziato con l’invasione del Libano del 1982.
Menahem Begin ha abusato della memoria della Shoah, compreso in politica interna. È questo che ha spinto delle persone nel mondo arabo a reagire nella maniera più stupida che esistesse, dicendo: se Israele cerca di giustificare le sue azioni riferendosi alla Shoah, allora questa deve essere una esagerazione o un’invenzione della propaganda. Più c’è violenza, più troverà questo genere di reazione, perché si tratta di una sfida simbolica e non di qualcosa di più profondo.

Lei afferma anche che gli arabi che paragonano Israele ai nazisti reagiscono al paragone fatto da Israele tra i dirigenti arabi e Hitler.

La tendenza a vedere nazisti dappertutto porta alla banalizzazione di questi ultimi. Hitler è una figura storica talmente negativa che è assurdo paragonargli il Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Si può pensare ciò che si vuole del Presidente dell’Iran, ma il suo Paese non ha campi di concentramento, come non è in procinto di perpetrare un genocidio. L’Iran è una società in conflitto politico; non è una società totalitaria come la Germania nazista. Il paragone con i nazisti e Hitler è molto frequente anche in Israele. Ben Gurion ha paragonato Begin a Hitler. L’estrema destra ha distribuito delle immagini di Rabin nell’uniforme da SS. Gli israeliani vedono Hitler dappertutto: Nasser, Saddam Hussein, Arafat, Nasrallah. Allora perché sorprendersi che gli arabi facciano lo stesso? Si tratta evidentemente di oltranzismi politici inutili.

Come si potranno superare i numerosi ostacoli se in campo arabo non si riconosce la sensibilità di Israele verso la Shoah?

Questa sensibilità è compresa in campo arabo. Non bisogna vedere gli arabi come un blocco monolitico. Sicuramente, esistono delle correnti che non lo comprendono, ma questa non è la posizione della maggioranza. Prenda per esempio Arafat, che è stato demonizzato completamente. Dopotutto, negli anni ’70, l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) ha iniziato un serio sforzo per comprendere questa vicenda. Quando il negazionista francese Roger Garaudy è stato accolto con tutti gli onori nel mondo arabo, Arafat comprese il danno che ciò avrebbe recato alla causa palestinese. Allora chiese di visitare il Museo dell’Olocausto a Washington. Dato che l’amministrazione del museo rifiutò di accoglierlo con i riguardi dovuti al suo rango, lui si sentì insultato e annullò la visita. Egli ha visitato nello stesso periodo la casa di Anna Frank a Amsterdam. Ora, salvo che in Israele, la stampa non ne ha quasi parlato.
Persone come Edward Said e Mahmud Darwish comprendevano in pieno la sensibilità israeliana verso la Shoah. Bisogna smetterla di fare la caricatura dell’immagine del nemico, ciò avvelena l’atmosfera. Le garantisco che se Israele avesse un altro atteggiamento verso il mondo arabo e i palestinesi, un atteggiamento di pace, questi fenomeni, che si sono rafforzati negli ultimi anni, sparirebbero molto rapidamente.

09/11/10

 1° La versione dell’intervista è in inglese e si può leggere sul sito: http://www.truth-out.org/the-league-against-denial59474. Questa traduzione è fatta sulla base della traduzione in francese realizzata a cura del sito http://www.alencontre.org.
  2° Quest’intervista è stata realizzata in occasione della pubblicazione dell’ultima opera di Gilbert Achcar, Les Arabes et la Shoah-La guerre israélo-arabe des récits, Actes Sud Sindbad, Parigi, 2009.

 


 

Leggi la 1° parte

I DIRITTI DEI RIFUGIATI PALESTINESI
RICORDO DI UN MASSACRO

di Mirca Garuti
 (seconda parte)

 



La settimana nel Paese dei Cedri della delegazione “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” inizia a Sidone, città del sud del Libano, definita, nel settembre 2006, subito dopo la guerra d’aggressione israeliana, dal sindaco Abdul Rahman Bizri, (v.Diario dal Libano) “della fermezza e della resistenza”, a dimostrazione di quanto la sua città non fosse soltanto una capitale amministrativa, ma anche, un simbolo dei diritti legittimi del popolo libanese. Si calcola, infatti, che tra luglio ed agosto 2006, circa un milione di libanesi fu costretto ad abbandonare la propria abitazione e, la città di Sidone, sensibile a queste situazioni, reagì prontamente, dimostrando la sua piena solidarietà. Tutti quelli che ne avevano la possibilità misero a disposizione le proprie case agli sfollati. Un esempio di compartecipazione e d’aiuto, arrivò anche dai profughi palestinesi che aprirono, per la prima volta, il campo di “Ain el Helweh”, ospitando centotrenta famiglie libanesi, pari circa a diecimila persone.

Gli appuntamenti prevedono la visita alla tomba del martire Maarouf Saad, sindacalista libanese, ucciso, agli inizi della guerra civile (1975-1989), per il suo impegno sociale e quello a sostegno della causa palestinese. Nei primi anni settanta, infatti, il movimento dei pescatori libanesi era riuscito ad unire le proprie lotte sindacali a quelle dei progressisti palestinesi, che chiedevano diritti e democrazia.

Prima di partire verso Qana, facciamo una breve sosta per rendere omaggio al Monumento dei Martiri della Resistenza Nazionale Libanese.

A Qana, invece, la delegazione si reca al cimitero dei martiri caduti durante la guerra del luglio 2006. Questa città del sud del Libano fu, all’epoca, la protagonista assoluta di tutti i reportage sul conflitto: una pioggia di bombe ad alta precisione, lanciata da un aereo israeliano, caduta su un edificio di tre piani, lo aveva subito dissolto nel nulla, trasformandolo in un cumulo di macerie, sotto le quali erano rimaste una sessantina di vittime, di cui trentasette bambini (15 erano disabili). Qana, secondo un alto ufficiale israeliano, era considerata un “covo degli Hezbollah” e, a suo dire, nei giorni precedenti al massacro, proprio da quel palazzo, erano stati sparati diversi razzi katyuscia verso città della Galilea. In realtà, nel palazzo vi avevano trovato rifugio solo molte famiglie spaventate dalla guerra. Il premier israeliano Ehud Olmert, alla fine, fu costretto ad esprimere un "profondo rammarico" per la strage che era stata perpetrata a Qana, facendo però ricadere la piena responsabilità di quanto avvenuto sui miliziani sciiti, accusandoli di aver usato i civili come "scudi umani".

 

   


Qui abbiamo conosciuto Anna, una superstite di quel massacro! E’ stata meravigliosa, ha raccontato la sua storia, il suo terrore sotto le bombe, sola, mentre la sua famiglia era scappata nel tentativo di mettersi in salvo. Ci ha regalato il suo sorriso per una confidenza molto personale. Era ancora arrabbiata nei confronti di un fratello per averla obbligata a non sposarsi per occuparsi della famiglia! La libertà della donna, purtroppo, in questi piccoli villaggi del sud del mondo, è ancora lontana!

 

       


La città martire di Qana non va solo ricordata per questa strage, ma anche per quella del 18 aprile 1996. Il luogo della tragedia e del ricordo si trova dall’altra parte della vallata. E’ stata, spesso, una meta del “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” negli anni scorsi. Questo ennesimo massacro si colloca all’interno “dell’Operazione Furore” o “Operazione Grappoli d’ira” scatenata dal primo ministro israeliano Shimon Peres l’undici aprile per fermare la resistenza di Hezbollah. Peres, che nel 1994 aveva ottenuto con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat il premio nobel per la pace, era convinto che solo l’uso di un massiccio bombardamento dal cielo, da terra e dal mare, avrebbe potuto dissuadere la popolazione locale dall’appoggiare le milizie di Hezbollah per la liberazione dei territori occupati del Libano.

il 18 aprile 1996, alle 14:10, i cannoni israeliani aprono il fuoco sulla postazione del reparto fijiano delle forze di peace-keeping a Favjiya-Qana dove hanno cercato riparo i circa 800 abitanti del villaggio che non sono riusciti a fuggire. Si tratta in prevalenza di bambini, donne e vecchi. Gli israeliani lanciano sui tre rifugi circa 12 scariche di proiettili da 155mm, donati loro dagli USA. Tali proiettili sono progettati per esplodere a 7 metri d’altezza per poter uccidere il maggior numero di persone o produrre amputazioni letali.  7 bombe colpiscono, con voluta precisione, i ripari del battaglione fijiano. La carneficina è spaventosa. In ciò che resta dei ripari, distrutti e incendiati, giacciono i cadaveri di 102 civili arabi, in un ammasso di corpi irriconoscibili, alcuni dei quali stanno ancora bruciando. I feriti, molti dei quali in condizioni gravissime, sono 116.
Nel massacro muoiono anche 4 militari del battaglioneONU delle Fiji.”(dalla “Diaspora Palestinese in Libano ed i tempi della guerra civile” di Mariano Mingarelli)

 

     

Gli incontri politici iniziano con la visita ai rappresentanti delle diverse fazioni dell’OLP. La delegazione è accolta dal Dr. Abudallah Abudallah, ambasciatore dell’Olp in Libano. Una rappresentanza riconosciuta solo il 15 maggio 2006, dopo ben ventiquattro anni di sospensione, da quando in pratica Arafat e l’Olp furono costretti ad abbandonare il paese che fino allora li aveva ospitati.

Due anni fa, il precedente delegato, Abbas Zaki, rivolgendosi alla stessa delegazione aveva detto: “Nell’ultimo anno abbiamo dovuto affrontare, a Gaza, il golpe dei nostri fratelli di Hamas, ma siamo riusciti a non scivolare in una guerra civile, programmata, invece, dai nostri nemici. Il nostro popolo non vuole un sistema confessionale, non vuole una nazione con un’unica religione, dobbiamo invece convincere l’opinione pubblica mondiale che la nostra è la causa più sacra di tutte le cause in assoluto. Siamo decisi, ora, a riprendere il cammino verso l’unità nazionale, dopo tutte le sofferenze dovute alle nostre divisioni interne, perché l’unità è vita, la divisione è morte e, noi abbiamo scelto la vita”.

Dopo due anni, però, la situazione non è mutata, anzi il persistere delle divisioni interne tra le diverse fazioni, separa sempre di più il dibattito politico dai sentimenti e dai bisogni del popolo palestinese.
Abudallah Abudallah presenta alla delegazione i rappresentanti delle diverse fazioni: il Partito del popolo, il Fronte Democratico per la liberazione della Palestina, Al-Fatah in Libano, Il Fronte Arabo per la liberazione della Palestina, l’Olp in Libano, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina ed il Fronte per la lotta palestinese. Nel suo discorso ripete quasi le parole di Abbas Zaki: “Vorrei che qui ci fossero tutte le rappresentanze della Palestina. Voi venite qua a portare la vostra solidarietà a tutto il popolo palestinese senza fare alcuna differenza tra le varie organizzazioni, speriamo che ciò sia possibile il prossimo anno. La lotta è di tutti e per tutti. Ogni paese arabo ha una visione di una sua Palestina, manca l’appoggio, quindi, dei paesi arabi, ma anche la solidarietà a livello internazionale. Continueremo la nostra lotta giusta per far cadere il sionismo. Le risoluzioni delle Nazioni Unite riconfermano i diritti del popolo palestinese, diritti inalienabili, come il diritto al ritorno. Ci sono punti nelle trattative di pace che non possono essere separati. Non possiamo accettare una soluzione parziale. I punti essenziali sono: i territori del ’67, Gerusalemme, la colonizzazione dei territori occupati, l’Acqua e la liberazione di tutti i prigionieri”.

Gli interventi delle altre fazioni politiche presenti toccano anche il problema delle pessime condizioni di vita dei palestinesi in Libano. E’ ribadita la deduzione che la mancata concessione di aiuti al popolo palestinese rientra nel progetto di voler eliminare tutti i Palestinesi sul suolo libanese.  Questo è stato, infatti, uno dei motivi che hanno scatenato il massacro di Sabra e Chatila.
I componenti della delegazione sono quindi sollecitati da Abudallah Abudallahi a proseguire nella loro azione di denuncia, di protesta e di pressione sul governo libanese.
Esistono tanti altri profughi nel mondo, ma i palestinesi sono un caso particolare, sono profughi sulla loro stessa terra.

 

        

A rendere evidente la divisione delle forze politiche palestinesi, creatasi con il passare degli anni, sono gli incontri separati realizzati con i loro leader.
La delegazione incontra subito dopo le fazioni dell’Olp, le organizzazioni dell’Alleanza Palestinese (otto organizzazioni in Libano che hanno scelto la resistenza contro il nemico israeliano).
Il 95% dei palestinesi, secondo l’Alleanza, non si sente rappresentato da nessuna forza politica specifica. Le condizioni di vita nei campi non sono cambiate, ancora nessun diritto. L’ultima legge sul lavoro non riconosce ancora le professioni più qualificate ed, inoltre, per poter svolgere qualsiasi altro lavoro occorre l’approvazione di una commissione.
Le valutazioni sulle nuove trattative di pace, in corso tra Abu Mazen e Netanyhau, sono al centro di ogni incontro con tutte le varie forze politiche presenti nei campi. Nessuno ci crede. Abu Mazen non rappresenta il popolo palestinese perchè non ha chiesto niente a nessuno, non ha nessun mandato. Sono trattative che partono con la sola richiesta ad Israele di sospendere la costruzione di nuove colonie. E’ veramente troppo poco.

Il rappresentante di Hamas concentra maggiormente il suo discorso sul problema dell’unità palestinese e del mondo arabo: “Noi come Palestinesi abbiamo sempre guardato all’unità del mondo arabo, ma, siamo consapevoli che è molto difficile. I moderati vogliono spingere i palestinesi, a causa delle loro difficili condizioni, a firmare accordi con Israele. C piacerebbe l’unità del mondo arabo, ma non abbiamo il potere di metterla in atto, diciamo però ai nostri fratelli di Al Fatah che, quando si accorgeranno che i trattati di pace non hanno mai portato a nulla, saremo lieti di accettarli di nuovo con noi. Al-Fatah non ha nessun diritto di trattare con gli americani e israeliani, se prima non parla con noi per poter definire su cosa andare a discutere”.
Il loro rapporto con Hezbollah è di collaborazione, in quanto concordano sul piano della lotta per il prosieguo della resistenza e sono, quindi, contrari ad una trattativa di concertazione. Il primo vero problema da risolvere è la riconciliazione di tutti i palestinesi.

 

            

 

Lo stesso Talal Salman, direttore del quotidiano Assafir, punta il dito su Abu Mazen, affermando che esso risulta essere il primo presidente che, accettando tutte le richieste del governo d’Israele, condurrà il popolo palestinese verso il totale disastro. Descrive molto bene la situazione negativa in cui si trova tutto il mondo arabo, Libano compreso, sotto la minaccia di una nuova probabile guerra.
Si scusa, infatti, con la delegazione perché non ha buone notizie da offrire. La lotta è in arretramento, mentre l’estremismo aumenta. E’ triste, continua Talal Salman, prendere atto che, il ricordo dell’inizio del massacro di Sabra e Chatila, non è rispettato dallo stesso Presidente palestinese Mahmud Abbas che preferisce, invece, abbracciare Netanyhau, in occasione degli incontri delle nuove trattative di pace.  La delegazione italiana rappresenta per Salman una speranza e paragona il suo arrivo nel Paese dei Cedri come “la terra che aspetta la pioggia”.
La prima domanda è sul diritto al lavoro dei palestinesi in Libano. Talal Salman risponde parlando della paura, diventata quasi tangibile, generata dalla presenza sul suolo libanese di 450.000 palestinesi. E’ rimarcata sempre più la questione dell’appartenenza alla religione musulmana, mentre è quasi rimossa la questione principale che si configura unicamente nell’attivismo del colonialismo israeliano. Tutto questo porta solo alla divisione della società libanese e ad una speculazione prima confessionale e poi politica.  È’ stata rimossa la responsabilità israeliana nell’espulsione di migliaia di palestinesi. Non è più una questione di profughi, ma tutto diventa una questione interna libanese. È’ da ribadire il concetto che i palestinesi non sono turisti venuti a visitare il Libano, ma, sono stati costretti, dall’esercito israeliano, a cercare in questo paese un rifugio. Si delinea quindi una responsabilità internazionale, mentre il problema è stato invece riversato solo sul governo libanese.

 


L’assassinio del primo ministro Rafik Hariri, 14 febbraio 2005, è l’argomento con il quale Salman risponde alla domanda riguardante la situazione odierna della politica libanese. “Questo tragico avvenimento – continua Salman - è avvenuto in un momento in cui la situazione politica era molto agitata e divisa. La risoluzione Onu n. 1559 aveva provocato una guerra contro la presenza siriana ed aveva quindi contribuito all’aumento delle divisioni interne.  Dopo il crimine, è iniziata una guerra contro la presenza siriana, la resistenza in Libano e lo scontro contro la corrente “14 Marzo”. Momento di crisi diventato un momento giusto per le forze americane, d’Israele ed anche per le falangi libanesi, creando un grande pericolo per la resistenza.   Le tantissime proteste ed accuse nei confronti della Siria, hanno, alla fine, costretto la Siria, dopo 29 anni, a ritirare il suo esercito dal Libano, lasciando così scoperte le forze di difesa”.  La Siria è sempre stata accusata di voler destabilizzare il Libano, quando invece, chi ha interesse ad avere un Libano debole, sono, sempre, le stesse forze internazionali alleate con Israele e lo stesso governo d’Israele che, per la sua sopravvivenza, necessita del perpetuarsi della debolezza dei paesi arabi.


Salman prosegue: “Sono state fatte le elezioni (2009) in un momento in cui tutte le confessioni erano divise tra loro. La formazione del governo, dopo alcuni mesi, è stata possibile solo grazie all’intervento sia del mondo arabo sia non arabo. E’ un accordo molto fragile che può cadere in qualsiasi momento. Saad Hariri è andato almeno cinque volte a Damasco ed ha cambiato le sue posizioni riguardanti la Siria. Dopo l’ultimo incontro ha chiesto scusa al governo siriano per tutto quello che aveva fatto, in pratica, sembra diventato uno di loro, un lacché della Siria stessa.
Ora, infatti, le accuse contro la Siria sono cadute, i testimoni ritenuti inattendibili e le prove false. Il probabile responsabile dell’attentato è stato individuato nel movimento di Hezbollah. Quello che si prospetta, dunque, è solo uno scontro, significa un’ulteriore divisione tra sunniti e sciiti”.

Talal Salman, infine, dice di non credere ad una nuova probabile guerra.
All’ultima domanda relativa alla possibile creazione di uno stato palestinese, Salman risponde che, data la continua costruzione di nuove colonie, difficilmente si potrà reperire un terreno disponibile per la Palestina.


Il giorno successivo, la delegazione incontra il Presidente del Forum Internazionale per le cause arabe, Mr.Maen Bashour ed il comandante della nave della fratellanza che ha partecipato alla Freedom Flotilla, Mr.Hani Sleiman.
Mr. Bashour è anche presidente dell’iniziativa per rompere l’assedio a Gaza e parla subito dell’importanza che la Freedom Flotilla ha avuto sulla causa palestinese. “Netanyhau consapevole che la forza delle idee sioniste è dovuta al sostegno internazionale, è stato spinto a dover dire che è in atto una campagna internazionale con il compito di togliere la legittimità allo stato d’Israele. Il governo d’Israele da vittima si è trasformato in massacratore e, questo comporta un cambiamento dell’opinione pubblica nei suoi confronti. I sionisti sanno benissimo cosa può significare tutto questo”.

L’obiettivo del centro, continua Mr.Bashour, è quello di organizzare delle iniziative tra diversi popoli, religioni e culture per mantenere in vita i rapporti orientati verso un discorso di pace.
Il Forum è stato organizzato da un'iniziativa, lanciata dal Centro Arabo per la Comunicazione e Solidarietà, fondato nel 2000, a seguito di una serie di forum simili che hanno avuto inizio ad Istanbul nel 2007, con il Forum di Gerusalemme, capitale della Palestina e luogo di culto per tutti, seguito, poi, dal Forum sul diritto al ritorno a Damasco nel 2008, dal Forum per il Sudan a Khartoum nella primavera del 2009 e dal Forum sul Golan nella città liberata di Qunaitira nell'autunno del 2009. Ora, è in preparazione un forum sul problema dei detenuti in carcere, che si terrà nei primi mesi dell’anno prossimo ad Algeri. 
Nessuno parla del numero di donne, uomini, bambini e vecchi che si trovano rinchiusi nelle diverse carceri nel mondo. Nessuno si accorge di loro: i palestinesi che hanno subito il carcere sono più di un milione, gli iracheni 250.000 ed inoltre, molte donne partoriscono in carcere. Altri importanti argomenti sono pronti da mettere in cantiere, come per esempio, i crimini di guerra ed i poveri nel mondo.

Mr.Sleiman, invece, parla della sua personale esperienza su una delle navi della Flotilla, nel momento dell’incursione israeliana. Israele, senza volere, dopo la sua brutale aggressione, ha reso più semplice il compito di spiegare al mondo la sofferenza del popolo palestinese. “Sulle navi c’erano solo civili, non armati, diretti a Gaza per cercare di porre fine all’embargo - continua Sleiman - Monsignor Cappucci ed altri fedeli pregavano insieme, c’erano ebrei con il cartello ”siamo ebrei ma non sionisti” e sparare a loro non è certo come sparare ai musulmani. Io sono stato colpito dai militari, mentre stavano scendendo dagli elicotteri. Cercavo di salvare alcuni feriti accanto a me, gli attivisti erano pazienti, attenti, ma loro continuavano a sparare. I rapporti medici confermano che le ferite riportate sono state causate da proiettili sparati da vicino. Ero confuso, avevo perso sangue fino la sera, ma, chiedevo notizie sulla reazione del mondo esterno per assicurarmi che, in fondo, la missione era salva. E così è stato”.
Ms.Sleiman ha scritto un libro su questa vicenda e spera che possa essere tradotto, presto, anche in italiano.

 

  


Nel campo di Mar Elias la delegazione incontra Mr.Marwan Abed El-Aal, responsabile per la ricostruzione del campo Nahr El-Bared, nel Libano settentrionale, distrutto completamente nel 2007 dopo gli scontri tra l’esercito libanese e le milizie di Fatah al -Islam. (v.foto del campo 2008)
Facendo anche uso di un power point esplicativo, sono state illustrate le modalità della ricostruzione del campo che procede molto lentamente. Il terreno è stato diviso in otto lotti, i soldi però che sono a disposizione per la costruzione sono sufficienti solo per tre di questi. Alla fine dell’anno, sarà pronto il primo con 512 unità abitative, poi sarà iniziato il secondo. I criteri di ricostruzione devono anche tenere in considerazione la vecchia struttura legata ai villaggi di provenienza dei profughi, al fine di conservare, il più possibile, le abitudini e l’entità palestinese. Un altro grande problema, legato alla costruzione, risulta essere determinato dalla legge libanese che vieta il diritto di proprietà ai palestinesi: “Non possono quindi rivendicare nulla, non possono dimostrare che la casa era loro, nonostante fosse stata acquistata davanti ad un notaio, non possiedono nessun documento, certificato, che attesti la loro proprietà. Il governo libanese sostiene dunque che i palestinesi si sono impossessati delle case con la forza”.
Durante gli scontri 90 edifici sono stati distrutti completamente. Al momento, tutto il campo si trova sotto il controllo militare libanese, rendendo, così, il tentativo di riprendere una vita economica normale, se così si può definire, molto difficile e complicata. La sicurezza del campo, infatti, è legata alla ripresa del lavoro e dell’economia.
E’ ribadita la necessità di continuare fare pressione sui paesi che possono permettersi di inviare fondi. Presto, infatti, inizieranno i lavori progettati da due enti italiani oltre alla costruzione di 101 appartamenti finanziati dalla Norvegia.
E’ necessario, infine, togliere l’obbligo di un permesso per poter entrare a Nahr El-Bared, sia per i palestinesi sia per i visitatori e riuscire a processare e condannare i responsabili di questa catastrofe.

  


Il viaggio di quest’anno riserva alla delegazione una novità: la coalizione politica ”Movimento Futuro” del primo ministro Saad Hariri, figlio di Rafiq al-Hariri, assassinato nel 2005, ha chiesto un incontro con il Comitato. E’ un fatto insolito ma, positivo. Significa che il “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” comincia ad essere politicamente riconosciuto in tutto il paese.  Le continue visite in Libano hanno dimostrato tutta la serietà e caparbietà dei componenti la delegazione nel sostenere l’amicizia e la solidarietà nei confronti della resistenza libanese e dei compagni palestinesi. Tutto ciò con la speranza di poter rendere, al mondo, sempre più evidente ed efficace, la comune battaglia per la conquista di quei diritti che, oggi, non sono riconosciuti. L’incontro è anche il riconoscimento implicito del fatto che, l’attività della delegazione in Libano, sempre documentata dal quotidiano “Assafir” e non solo, ha ottenuto una visibilità ed importanza che è riconosciuta da tutte le forze politiche in Libano e nei paesi arabi.  
E’ ovvio che, essendo la maggioranza dei palestinesi di fede sunnita, come la base del partito di Hariri, il Movimento Futuro ha ritenuto opportuno ed utile avere un approccio al problema dei profughi tramite un contatto con il Comitato.
Il portavoce del governo di Hariri conferma il peggioramento della situazione in Libano e dei campi profughi. Sostiene che non c’è molta differenza tra loro e l’Europa, non c’è differenza di religione, c’è solo il mare che divide e non bisogna, inoltre, mai dimenticare Sabra e Chatila. “Siamo - continua il portavoce – di fronte ad una terza fase di una trattativa sempre più debole dovuta all’intransigenza israeliana che continua ad avere sulla terra palestinese. Non crediamo che ci sia un terrorismo palestinese, ma, c’è una rivoluzione tra tutti i palestinesi sparsi nel mondo che non può essere contenuta o risolta senza uno sviluppo e senza neppure un minimo di vita normale. Per questo abbiamo preso l’iniziativa di emanare alcune leggi per legalizzare il lavoro dei profughi palestinesi”.


Stefania Limiti, come responsabile del Comitato, ringrazia per l’invito ricevuto dalla forza politica maggiore del Paese dei Cedri, perchè ha così l’opportunità di poter esprimere l’impegno e la posizione socio-politica dei componenti della delegazione. “Voi – prosegue Stefania – ricevete la voce forte del nostro governo, ma non la nostra. Per questo veniamo qui per far arrivare la voce italiana al popolo libanese.  Una parte del popolo italiano ama il popolo palestinese e ritiene che la soluzione della questione palestinese sia anche la soluzione dei problemi in Medio Oriente. Noi rappresentiamo quella partePer questo siamo vicini a questo popolo e consideriamo nostra la loro sofferenza. Chiediamo giustizia per loro che non hanno una patria. Non hanno una dignità nel paese che li ospita, hanno una vita senza diritti. Questo ci riempie di rabbia e sofferenza, come tutte le volte, quando nel nostro paese, non è rispettata la dignità degli stranieri. Abbiamo incontrato i responsabili per la ricostruzione del campo di Nahr El-Bared, volevamo andare là, volevamo incontrare quelle persone, ma non è stato possibile per la difficile situazione. Molti di noi negli anni scorsi sono stati in quel campo. Faremo pressione al nostro governo affinché non abbandoni quelle persone, come chiediamo a voi stessi di non abbandonarle”. Stefania, inoltre, punta il dito sul “Diritto al ritorno”, senza il quale non ci può essere una soluzione. Termina il suo discorso con la speranza che qualcosa possa cambiare veramente, molte sono state le parole favorevoli e le promesse per un miglioramento! Il Comitato sarà sempre pronto a raccogliere le buone notizie, così come sarà sempre in prima linea a denunciare le disattenzioni che continueranno ad esserci.
Il portavoce della forza politica di Hariri termina l’incontro citando quelli che sono i tre punti ritenuti di maggior rilevanza. Il primo concerne questo movimento che ha portato alla nascita della corrente “Almustaqbal” iniziata proprio dalla società civile. Espone quindi, a grandi linee, il progetto politico del padre per la ricostruzione del paese. Il secondo punto riguarda invece i diritti civili dei Palestinesi. “Non basta quello che finora abbiamo fatto – prosegue il portavoce, ma la cosa importante è che siamo riusciti ad inserire la questione palestinese per i diritti nel posto giusto, ossia il Parlamento. Oggi si trova in un piano di lavoro da sviluppare in futuro, secondo le condizioni politiche del paese. Esiste, quindi, una parte del Libano sensibile a questo problema. Importante è iniziare, porre la questione e riuscire a superare gli ostacoli. Stiamo lavorando per dare a tutti i giusti diritti”.  Infine, il terzo punto riguarda il Diritto al Ritorno. Richiama, nelle sue ultime parole, l’importanza di mantenere vivo Il tema del Diritto al ritorno per continuare a parlare della causa palestinese, per riuscire, infine, a liberare tutto il loro territorio e poter ritornare così alle loro case d’origine. Afferma, inoltre, che davanti alla continua prepotenza israeliana, come partito di governo, hanno il dovere, insieme anche all’aiuto della delegazione italiana, di riaffermare tutti i diritti del popolo palestinese. Conclude, parlando dell’importanza di creare un’unità nazionale palestinese ed abbandonare tutte le divergenze.  La divisione porta solo ad aumentare la crisi interna, favorendo così solo Israele.

 


Terminato l’incontro, la delegazione è stata portata a rendere omaggio alla tomba di Rafiq al-Hariri, vicino alla grande moschea, da lui fatta costruire.

 

   

        


Continua…


LA REPUBBLICA EBRAICA DI ISRAELE*
di Gideon Levy


Prestare giuramento ad uno Stato ebraico può essere determinante per il destino dello Stato stesso. Si rischia di trasformare il Paese in una teocrazia come l'Arabia Saudita.

 

Ricordate questo giorno. È il giorno in cui Israele cambia la sua natura. Di conseguenza, il suo nome potrebbe trasformarsi in “Repubblica Ebraica d'Israele”, proprio come la Repubblica Islamica dell'Iran. La proposta di legge sul giuramento di fedeltà che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu sta cercando di far passare sarà rivolta soltanto ai nuovi cittadini non-ebrei, ma avrà in concreto effetti sul futuro di tutti noi.

Da oggi in poi vivremo in un Paese ufficialmente etnocratico, teocratico, nazionalista e razzista. Chiunque pensi che ciò non lo riguardi, si sbaglia. C'è una maggioranza muta che sta accettando tutto questo con preoccupante apatia, come dire: “Non m'importa in che Paese vivo”. E così, chi pensa che il mondo, dopo l'approvazione di questa legge, continuerà a trattare Israele come una democrazia, non ha capito nulla. Questo è un altro passo che danneggia seriamente l'immagine di Israele.
 
 

Oggi il Primo Ministro Benjamin Netanyahu dimostrerà di essere in realtà il leader di Yisrael Beiteinu Avigdor Lieberman e il Ministro della Giustizia Yaakov Neeman dimostrerà di essere senza dubbio un fedele membro di Yisrael Beiteinu. Il Partito Laburista dimostrerà di non essere altro che uno zerbino. E Israele oggi dimostrerà di non fregarsene nulla. Oggi la proposta di legge del giuramento di fedeltà, domani la LEGGE sul giuramento di fedeltà. La diga traboccherà, rischiando di sommergere quel che resta di una democrazia, fino a lasciarci, probabilmente, in uno Stato Ebraico di cui nessuno riesce realmente a capire la natura, ma che tutto sarà fuorché una democrazia. Coloro che spingono per il giuramento di fedeltà sono gli stessi che si stanno appropriando indebitamente della fedeltà allo Stato.

 

Nella prossima riunione, la Knesset discuterà circa 20 altre proposte anti-democratiche. Durante il week-end, l'Associazione per i Diritti Civili in Israele ha stilato una lista nera della legislazione: una “legge di fedeltà” per i membri della Knesset; un “legge di fedeltà” per la produzione cinematografica; un “legge di fedeltà” per le organizzazioni non-profit (ciò pone la Nakba, la Catastrofe Palestinese, oltre il campo di applicazione della legge); il divieto di qualsiasi appello al boicottaggio; e una proposta di legge per la revoca della cittadinanza. È, insomma, un pericoloso balletto Maccartista da parte di legislatori ignoranti che non hanno mai compreso appieno cosa fosse la democrazia. Sarebbe pericoloso anche se solo una fetta delle proposte diventasse legge, poiché il nostro futuro e il nostro essere risulterebbero modificati.

Non è difficile capire la coppia Netanyahu-Lieberman. Non possiamo infatti aspettarci che i due, irriducibili nazionalisti, capiscano che la democrazia non si esprime nel dominio della maggioranza, ma soprattutto nella tutela dei diritti delle minoranze. La cosa che è più difficile da comprendere è la compiacenza delle masse. Le piazze oggi dovrebbero essere piene di cittadini che non vogliono vivere in un paese in cui la minoranza è oppressa da leggi draconiane, come quella che costringe a prestare  falso giuramento verso uno Stato ebraico. Ma, sorprendentemente, quasi nessuno sembra curarsene.

 

Per decenni abbiamo inutilmente cercato di rispondere alla domanda su Chi sia un Ebreo. Da oggi la questione di Cosa sia Ebraico non ci abbandonerà. Qual è lo “Stato di una nazione ebraica”? Apparterrà più agli ebrei della diaspora che ai suoi cittadini arabi? Saranno loro a decidere il suo destino e potremo ancora chiamarla democrazia? O sarà la setta ultraortodossa Neturei Karta, che è contraria all'esistenza dello stato, insieme a centinaia di migliaia di ebrei che si oppongono a fare di questo stato qualsiasi cosa si voglia? Cosa è “ebraico”? Sono ebraiche le feste? Le regole alimentari kosher? Il crescente controllo dell'establishment religioso (come se non ce ne fosse già abbastanza adesso a falsare la democrazia)? Prestare giuramento ad uno stato ebraico può risultare determinante per il destino dello Stato stesso. Si rischia di trasformare il paese in una teocrazia come l'Arabia Saudita.

È vero che finora è stata una faccenda di slogan vuoti e ridicoli. Non esistono al mondo anche solo tre ebrei che siano d'accordo su come debba essere uno “Stato ebraico”. Ma la storia ci ha insegnato che anche “vuoti slogan” possono lastricare la via per l'inferno. Intanto, questa proposta di legge servirà ad aumentare l'emarginazione dei cittadini arabi israeliani in prima istanza e, in ultima istanza, di un più ampio segmento di popolazione.

 

Questo è ciò che accade quando il fuoco cova ancora sotto la cenere; il fuoco della sostanziale mancanza di fede nella giustizia del nostro patto. Solo la mancanza di fiducia può dar vita a proposte di legge assurde come quella che viene approvata oggi (poiché certamente l'approvazione ci sarà). Il Canada, come altri stati, non ha bisogno che i suoi cittadini gli prestino giuramento. Solo Israele lo fa. Ma chiaramente questo gioco mira a provocare in maniera più decisa la minoranza araba e spingerla ad un più alto grado di “mancanza di lealtà” per avere un giorno la scusa per sbarazzarsi definitivamente di loro; oppure è stato progettato per far naufragare ogni prospettiva di pace negli accordi con i palestinesi. In un modo o nell'altro, nel Primo Congresso Sionista del 1897 a Basilea lo Stato Ebraico è stato fondato, come dichiarò Theodor Herzl. E oggi sarà fondata la Repubblica Non-Illuminata di Israele.


* Editoriale pubblicato su Haaretz il 10 ottobre 2010

Traduzione dall’inglese di Maria Teresa Patarnello


 

I DIRITTI DEI RIFUGIATI PALESTINESI
RICORDO DI UN MASSACRO

di Mirca Garuti

 

 

Tornata dal viaggio in Libano con il comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, mi ritrovo, ora, a voler raccontare questa mia sesta esperienza nei vari campi profughi palestinesi.
L’attività del comitato, fondato dal giornalista del “Manifesto” Stefano Chiarini, è sempre stata chiara, schierata apertamente con i rifugiati palestinesi, a sostenere i loro diritti e, quindi, dalla parte della vera giustizia.

                    

La settimana del nostro viaggio ha coinciso anche con i giorni nei quali sono state riprese le difficili trattative tra il governo d’Israele con Netanyahu ed il presidente dell’Anp (Autorità nazionale palestinese) Abu Mazen, sotto l’influenza del governo americano.
Sono stati giorni molto intensi, abbiamo incontrato vari esponenti di partiti politici palestinesi e libanesi, siamo ritornati sui luoghi segnati dai tanti attacchi israeliani, siamo stati nei vari campi profughi ed abbiamo incontrato le “nostre” donne palestinesi.
Per tutto questo, ho il dovere di raccontare.  Posso, in questo modo, dire “grazie” ad Anna, Saura ed a tutte le altre donne che ci hanno accolto a braccia aperte. So benissimo che noi non possiamo cambiare le cose, ma, continuare il nostro impegno ad essere con loro, a sostenere la loro causa sempre ed ovunque, a denunciare le azioni del governo israeliano contro il popolo palestinese, ci permette di sperare e di andare avanti nella nostra lotta.

                       

 

Sono arrivata a Beirut il 12 settembre scorso. La delegazione è stata accolta, come di consueto, dal nostro referente in Libano Kassem Aina dell’associazione Ong palestinese Beit Atfal Assumoud. Il coordinamento delle Organizzazioni non governative operative nella comunità palestinese in Libano è stato il primo a porgerci il benvenuto ed ad illustrarci la situazione attuale dei Palestinesi nei campi profughi.
Il rappresentante del giornale As-Safir ha volutamente ricordato che la comunità palestinese vive in Libano da 62 anni senza nessun diritto, da quello del lavoro, alla proprietà, allo studio, alla sanità, all’associazionismo, nel più completo abbandono. I rifugiati palestinesi in Libano sono quasi 426.000, di cui 227.000 i registrati nei campi dall’Unrwa (agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza dei rifugiati palestinesi). Sono rifugiati dalle guerre del 1948 e del 1967 in fuga dall’esercito israeliano e dalla cacciata negli anni settanta dal re della Giordania. Il Direttorato Libanese degli affari dei profughi stima, invece, un numero più alto di profughi e questo, perché ha tutto l’interesse di esagerare nei numeri per aumentare la vastità del problema. Non dobbiamo però dimenticarci anche di quei palestinesi registrati solo presso le autorità libanesi, oppure quelli non registrati da nessuna delle due autorità competenti e quelli che sono ancora registrati ma che hanno ottenuto la cittadinanza libanese o che vivono all’estero. Tutti i numeri quindi, non essendo basati su reali censimenti, sono da considerarsi incerti. La situazione nei campi è sempre però più drammatica ed i pretesti, da parte delle forze del governo libanese, per non concedere diritti ai palestinesi, sono tutti falsi. Permettere di poter fare qualsiasi lavoro, oppure, dare il diritto alla proprietà, non si corre il rischio di dovere, per forza, anche riconoscergli la cittadinanza libanese, percepita come una minaccia di rottura del sottile equilibrio delle forze politiche interne. I partiti della destra cristiana ed anche quelli sciiti, infatti, temono che una politica favorevole ai palestinesi, che sono musulmani sunniti, può incoraggiarli a restare sul suolo libanese, alterando così l’attuale composizione demografica e confessionale. Gli stessi rifugiati di vecchia generazione dichiarano, però, di non volere essere “libanizzati” del tutto, per non perdere la condizione del “diritto al ritorno”, in base alla Risoluzione 194 dell’Onu. Chiedono, solo, il diritto di avere una vita dignitosa, nell’attesa del ritorno alla loro terra d’origine. Probabilmente, i giovani nati sul suolo libanese, invece, vorrebbero la cittadinanza per poter avere così più opportunità per una vita migliore.

     

 

Da quest’anno, sostiene Laila El-Ali del coordinamento Ong palestinesi, è iniziato un serio dialogo tra i libanesi per quanto riguarda i diritti dei rifugiati. Dialogo portato avanti con fermezza dalle varie organizzazioni civili palestinesi che, dopo aver fatto ricerche sulla situazione reale dei campi, hanno potuto presentare delle interrogazioni al governo libanese spingendolo a fare qualcosa in merito.  Il 27 giugno scorso, infatti, cinquemila tra libanesi e palestinesi hanno partecipato alla “marcia per i diritti dei profughi palestinesi” che si è conclusa davanti al Parlamento, dove una delegazione ha consegnato una petizione popolare. I promotori degli emendamenti di legge sono stati i deputati Walid Jumblatt,   Elie Aoun che hanno il sostegno dei sunniti di Mustaqbal (il partito del premier Saad Hariri) e degli sciiti dei movimenti Hezbollah e Amal. Si sono invece schierati contro i deputati cristiani della Corrente dei Liberi Patrioti (guidata dall’ex generale Michel Aoun, uno degli alleati di Hezbollah) e quelli della destra estrema cristiana di Forze Libanesi e Falange. I deputati cristiani avevano inoltre chiesto che tali proposte fossero decise attraverso il “consenso nazionale” e non con votazioni in Parlamento. Ciò avrebbe significato perdere ogni possibilità di poter sperare in qualche novità legislativa a favore dei palestinesi.
Il governo Hariri ha approvato poi il 17 agosto scorso un disegno di legge che consente ai profughi palestinesi nati in Libano e registrati al Ministero degli Interni, equiparati quindi a qualsiasi altro straniero, di poter praticare solo alcuni marginali lavori che però, in realtà, sono già, di fatto, di loro appartenenza. Dopo 62 anni il governo libanese ha dunque riconosciuto ai palestinesi un incompleto diritto al lavoro! Secondo il testo di legge possono fare questi specifici lavori, ma con l’obbligo di richiederne il permesso e di doversi registrare agli ordini ed ai sindacati di categoria. Significa solo che il lavoro diventa regolare, non più in “nero”, lasciando spazio, quindi, ad una probabile corruzione da parte di chi dovrà gestire il passaggio. Restano, in ogni modo, sempre esclusi i lavori di alta qualificazione come il medico, l’avvocato, l’ingegnere e quelli legati al settore pubblico. Le leggi libanesi che riguardano il lavoro considerano gli extracomunitari in base al principio di reciprocità, ossia, gli extracomunitari ricevono lo stesso trattamento legale che un libanese riceve nei loro rispettivi paesi. I territori palestinesi non essendo riconosciuti come “paese”, il principio di reciprocità, quindi, non vale per i Palestinesi, con la conseguenza del divieto di lavorare nei settori più professionali. La situazione è quindi difficile e drammatica. Restano sempre in sospeso il diritto alla proprietà privata (una legge libanese approvata nel 2001 stipula che solo gli stranieri provenienti da stati riconosciuti hanno il diritto di possedere proprietà immobiliari) ed all’assistenza sanitaria, oltre che al diritto ad un sistema scolastico pubblico. I diritti dei palestinesi si scontrano con la dura realtà della negazione anche nelle più piccole cose, nei bisogni di tutti i giorni, come per esempio, se si deve acquistare un frigorifero o televisore, bisogna avere l’autorizzazione dei servizi segreti libanesi!

                    

La discriminazione in Libano quindi è molto forte. Esistono 18 confessioni religiose, quindi, qualsiasi decisione che il governo deve prendere, ha l’obbligo di considerarle tutte.  Si evidenzia, così, che prima viene l’interesse della propria confessione, poi, solo in seguito, quello del paese.
I cinque milioni di profughi palestinesi nel mondo rappresentano quindi il problema più grande e non risolto di questo secolo. Nel 1917 gli ebrei rappresentavano solo il 10% della popolazione, ma quando fu proclamato lo Stato d’Israele, la comunità Ebrea in Palestina raggiunse la cifra di 650.000. I profughi palestinesi, come afferma Kassem Aina, in tutti i paesi della diaspora, sostengono la loro unità nazionale, riaffermano il loro diritto al ritorno e all’autodeterminazione, come dalla risoluzione 194 dell’Onu del 11 dicembre 1948 rafforzata dal Manifesto dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 1948.
I palestinesi in Giordania hanno diritti completi, come la cittadinanza ed il passaporto ed in Siria hanno diritti civili pur mantenendo la loro identità palestinese, secondo il protocollo di Casablanca firmato nel settembre 1965.  In Libano, come abbiamo visto, vivono in condizioni estremamente difficili causa la mancanza dei diritti civili ed umani fondamentali.

 

continua...

 


Lettera aperta a chi oggi tace sull’antisemitismo e il machismo di
Berlusconi

di Cinzia Nachira


Albert Einstein, pochi giorni prima di essere costretto a lasciare la Germania e nel momento in cui fu escluso dall’insegnamento universitario perché ebreo, disse una frase che ancora oggi non è stata smentita: “Può essere che l’universo sia finito, la stupidità umana al contrario è infinita”.
Può sembrare un eccesso scomodare Einstein per la «battuta» antisemita e quella machista con cui Berlusconi ha sfoggiato la sua infinita stupidità.
Sottolineiamo che essere stupidi non è un’attenuante.
Noi viviamo in un Paese in cui il degrado culturale, sociale, economico e politico sta raggiungendo livelli pericolosi. E come in tutti i momenti di crisi profonda, non è strano che chi è al potere cerchi di avallare gli istinti più bassi. Non è strano che oggi, in piena crisi complessiva, in Italia si cerchino capri espiatori su cui riversare le angosce di chi, la maggioranza, non riesce a riemergere dalla crisi.
I migranti sono già nel mirino del razzismo fattosi legge. Il caso dell’espulsione di massa della comunità Rom in Francia e il plauso che questa politica ha ricevuto dall’establishment italiano è testimone molto esplicito del baratro su cui tutti siamo in Europa.
In questo contesto, gli insulti rivolti agli ebrei e alle donne sono ancora più pericolosi.
Non è un caso se la «barzelletta» antisemita raccontata per strada fosse centrata sul mito della ricchezza economica degli ebrei.
Ciò che colpisce è il silenzio, pericoloso, di molte, troppe figure pubbliche di questo Paese che se avessero un minimo di coscienza storica, dovrebbero insorgere.
Dal presidente della Repubblica, ai presidenti dei due rami del Parlamento, ai dirigenti delle comunità ebraiche italiane, tacciono, rendendosi di fatto complici ed artefici insieme del degrado, politico, morale e culturale di un Paese come l’Italia, che ebbe un ruolo attivo nella persecuzione e nello sterminio degli ebrei.
L’On. Napolitano, alcuni anni fa ebbe a sostenere che l’antisionismo è un travestimento dell’antisemitismo (ben sapendo, si spera, che era un falso da ogni punto di vista). Oggi non sappiamo cosa pensa delle esternazioni berlusconiane. Non ha trovato il tempo per dire qualcosa, impegnato a stilare gli auguri ai nonni e alle nonne d’Italia.
Fini e Schifani non perdono occasione per recarsi allo Yad Vashem a rendere un falso omaggio a quelle vittime di cui sono politicamente e culturalmente responsabili.
I dirigenti delle comunità ebraiche italiane, nelle loro espressioni pubbliche e parlamentari (Riccardo Pacifici e Fiamma Nirenstein) il 7 ottobre prossimo si accingono a dichiararsi amici di Berlusconi, pubblicamente e spudoratamente.
Vorremmo dire a tutti costoro di stare molto attenti: razzismo, maschilismo, antisemitismo e volgarità sono tutti elementi comuni ad una cultura precisa, non sono «battute». Che nell’arco di pochi giorni in parlamento venga reiterata l’accusa di tradimento agli ebrei, venga reiterato il mito negativo della «ricchezza degli ebrei» e venga, infine ma non ultimo, reiterato l’assioma machista che le donne intelligenti non sono belle e quindi poco appetibili per i maschi, è un segnale terribilmente pericoloso.
Ogni qualvolta viene criticata la politica israeliana verso i palestinesi, chi oggi tace è pronto a gridare al pericolo del ritorno dell’antisemitismo.
Bene, ora è chiaro che costoro, che seggono anche sugli scranni parlamentari e rivestono cariche determinanti nel nostro sventurato Paese, sono i veri antisemiti, non più celati. E saranno loro i veri e soli responsabili del ritorno di un clima antisemita in Italia e non chi, invece, è al fianco dei popoli oppressi, ovunque si trovino e chiunque sia l’oppressore.
Molti ebrei di Israele e della diaspora, ormai da molti anni, hanno coniato il bello slogan "Not in my name", per non essere additati come corresponsabili di politiche che in fin dei conti sono dannose, terribilmente, per tutti gli ebrei nel mondo.
Noi continueremo a sfidare l’embargo contro Gaza, continueremo a lottare al fianco dei palestinesi contro l’occupazione, continueremo a essere al fianco dei migranti e dei Rom, a denunciare il maschilismo e a lottare contro di esso e continueremo ad essere al fianco degli ebrei in Italia, e altrove, quando essi saranno vittime anche solo di «battute».
Chi è in grado di sentirsi in pericolo, al di là delle proprie appartenenze etniche o religiose, quando su queste basi altri vengono attaccati, rappresenta il vero e solo antidoto al ritorno dell’antisemitismo.

03/10/2010


RISPOSTA ALLA MANIFESTAZIONE PRO-ISRAELE
di Giorgio Forti

 

Si terrà a Roma il 7 ottobre una manifestazione pro-Israele, promossa dalla deputata del PdL e colona, Fiamma Nirenstein. Vi parteciperanno politici di destra come J.M. Aznar, ex premier spagnolo, il deputato berlusconiano G. Quagliariello, insieme a deputati e dirigenti del PD come W. VeltroniFurio Colombo, senatori come U. Veronesi, giornalisti di destra come Giuliano Ferrara e Mario Sechi, insieme a quelli di “sinistra” come Barbara Palombelli, il presidente della Comunità Ebraica romana Riccardo Pacifici, universitari “mediatici”, artisti del varietà ed altri.
Ci colpisce come particolarmente incongrua la partecipazione bipartisan di politici e parlamentari del governo e dell’opposizione, in nome di una mal intesa solidarietà con lo Stato di  Israele che si esprime con l’appoggio incondizionato al governo israeliano, qualsiasi cosa compia, in dispregio dei diritti civili, politici ed umani dei Palestinesi, che siano cittadini israeliani o abitanti dei Territori Occupati  dal 1967. Giorno dopo giorno viene sottratta loro la terra di sotto i piedi, distrutte le case per costruirvi quelle dei coloni Ebrei, tolta l’acqua per darla ai coloni, tolta la libertà di circolazione nel loro Paese e la libertà personale: circa 6000 persone sono in prigione, quattordicenni compresi, e centinaia di detenuti “amministrativi”,  senza processo.
Sotto il governo Netanyahu è stata ribadita la validità attuale di una legge ignobile votata anni fa come 'temporanea', che di fatto vieta a coniugi israeliani Arabi, di convivere in Israele o nei Territori Occupati con il coniuge non prima residente. La stessa separazione viene imposta ai palestinesi di Gaza rispetto a quelli di Cisgiordania. Un provvedimento, quest’ultimo, che neppure il regime fascista mussoliniano avrebbe osato prendere. L'assedio di Gaza, che impedisce ogni attività produttiva e crea fame, continua. E' di meno di due anni fa l'attacco che ha causato la morte di quasi 1.400 abitanti, la maggior parte dei quali non aveva preso parte alle ostilità.


Quando una flottilla di pacifisti ha cercato di rompere l'assedio, prima dell'estate, l'esercito israeliano non ha esitato a compiere assassinii a sangue freddo, per fermarla; così il report recentemente diffuso dall'ONU. La “nave degli Ebrei” che portava generi di conforto e giocattoli per la popolazione civile di Gaza, (a bordo della quale si trovava un sopravvissuto ai lager nazisti e un premio Nobel per la pace) è stata sequestrata in alto mare con tutto il suo carico e il pacifista israeliano  Jonathan Shapira, rappresentante delll’organizzazione pacifista israelo-palestinese “Combatants for Peace”, è stato sequestrato e torturato.
Ci sembra veramente che questa manifestazione sia una vergogna per chiunque abbia ancora stima per le libertà civili e democratiche, e si voglia opporre alla avanzata del nazionalismo razzista, in Italia come in Israele. Il razzismo oggi si manifesta soprattutto contro il mondo arabo e contro gli immigranti di ogni etnia, Rom, Africani e Slavi. La politica del governo Nethanyahu e l’appoggio che esso pretende di ricevere dagli ebrei della diaspora hanno  dato fiato anche all'antisemitismo fascista e di una certa pseudosinistra.
Il 2 ottobre – quando era ormai nota a tutti la ripugnante storiella antisemita raccontata dal nostro premier – l'organizzatrice della manifestazione pro-Israele ha scritto: “Berlusconi (…) ha dichiarato il suo consueto e sincero attaccamento al mondo ebraico”. Altri, di coloro che hanno dichiarato il sostegno attivo all'evento, tacciono. Noi Ebrei di queste amicizie e di queste colpevoli connivenze ne facciamo volentieri a meno.
Agli Ebrei italiani che vogliano esser fedeli alla tradizione universalista ed antinazionalista che ha caratterizzato la cultura ebraica da molti secoli, e alla Memoria dei morti, chiediamo di rinunciare al nazionalismo sciovinista per il governo di  Israele, prevedibilmente portatore di colpevoli sventure per tutti.

Rete-ECO (Rete degli Ebrei contro l’Occupazione)

4 ottobre 2010


 
 
 

BREVE STORIA DEL BATTELLO "IRENE"

HANNO FERMATO IL BATTELLO “IRENE”

 




«Dieci navi da guerra israeliane hanno costretto il battello a fare rotta verso Ashdod (porto israeliano)», lo ha annunciato all’AFP uno degli organizzatori che si trova a terra a Gaza, Amjad al-Shawa.
«Si sono arresi perché erano accerchiati, non avevano scelta», ha aggiunto. «La marina ha preso il controllo del veliero per portarlo al porto di Ashdod». Un portavoce militare israeliano ha  precisato  che l’arrembaggio non ha dato luogo a violenze, né da una parte né dall’altra.
La portavoce della spedizione pacifista contro il blocco di Gaza, Miri Weingarten, tuttavia non ha potuto confermare la versione delle forze armate israeliane. “Non abbiamo più avuto notizie da coloro che sono a bordo dell’Irene – ha detto Weingarten a Nena News – i telefoni cellulari e satellitari sono stati sequestrati e spenti. Sappiamo solo che i soldati hanno ammanettato tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggi. Non abbiamo altre informazioni”.
«Ci hanno detto che ci avvicinavamo a una zona sottoposta a blocco marittimo e ci hanno chiesto di cambiare rotta», aveva prima spiegato un passeggero del battello, Yonatan Shapira, la “guida” del gruppo pacifista ebraico, un ex pilota di elicotteri dell’aviazione israeliana nonché uno dei refusenik più noti, in una telefonata col telefono satellitare.
Il battello “Irene”, un piccolo veliero battente bandiera britannica, con a bordo sette militanti ebrei pro-palestinesi e due giornalisti, aveva preso il largo domenica da Famagusta, nel nord di Cipro.

(martedì 28 settembre 2010, con le agenzie di stampa)
fonte francese: http://www.aloufok.net/spip.php?article2524
fonte italiana:   http://www.nena-news.com

 

 

UNA NAVE EBRAICA E’ PARTITA DA CIPRO VERSO GAZA



La nave, battezzata Irene, è un veliero che batte bandiera britannica. Il tragitto verso Gaza dovrebbe, in teoria, durare circa 36 ore. «Noi abbiamo una strategia non violenta e di non scontro, se l’esercito israeliano ferma la nave, noi non collaboreremo a portarlo al porto (di Ashdod)», ha dichiarato Yonatan Shapira, un ex soldato israeliano, membro dell’equipaggio.

Una nave carica di aiuti destinati alla popolazione di Gaza e noleggiata da gruppi ebraici a livello internazionale ha preso il largo oggi alle 13.32 ora locale.
La nave, Irene, che viaggia con bandiera britannica, ha imbarcato dieci passeggeri e l’equipaggio. Sono ebrei degli Stati Uniti, del Regno Unito, dalla Germania e da Israele. A bordo vi sono anche due giornalisti britannici.


In questo momento di crisi dei colloqui di pace, degli ebrei, degli israeliani, lanciano un appello affinché sia tolto l’assedio a Gaza e per la fine dell’occupazione.
Il carico della nave è composto da aiuti simbolici in giocattoli per i bambini e strumenti musicali, quaderni, reti per la pesca per i pescatori di Gaza e protesi per interventi chirurgici negli ospedali di Gaza.
L’organizzazione ospite a Gaza è il Programma di salute mentale, diretta dal Dr. Eyad Sarraj, medico psichiatra.
La nave tenterà di raggiungere la costa di Gaza e scaricare gli aiuti con un’azione simbolica non violenta di solidarietà e di protesta. Sarà fatto un appello per la fine dell’assedio di Gaza e perché sia possibile la circolazione di persone e merci da e verso Gaza.
La nave issa diverse bandiere della pace che portano il nome di dozzine di ebrei che hanno espresso il loro appoggio a questa azione, simbolo del largo sostegno a questa nave da parte degli ebrei di tutto il mondo.
Da Londra, Richard Kuper del gruppo Ebrei per la giustizia per i palestinesi, membro del gruppo organizzatore, ha dichiarato, oggi, che la nave ebraica per Gaza è un atto di protesta simbolica contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi e contro l’assedio di Gaza ed è anche un messaggio di solidarietà con i palestinesi e gli israeliani desiderosi di pace e giustizia.
«Il governo israeliano non ha il sostegno di tutti gli ebrei» ha detto Richard Kuper. « Noi ci appelliamo ai governi e ai popoli del mondo perché si esprimano e agiscano contro l’occupazione e contro l’assedio».
Riguardo il rischio di intercettazione da parte della marina israeliana, Richard Kuper ha precisato: «questa è un’azione non violenta. Noi vogliamo raggiungere Gaza, ma i nostri militanti non si impegneranno in alcuno scontro fisico. Non offriremo alcuna ragione né scusa agli israeliani per ricorrere alla forza o per attaccarli.

Reuven Moshkovitz, passeggero di 82 anni, ha detto di aver dedicato la propria vita dei nemici degli amici. «Siamo due popoli ma abbiamo lo stesso futuro» Ha aggiunto «Per me è un dovere sacro in quanto sopravvissuto (alla Shoah) di protestare contro la persecuzione, l’oppressione e la reclusione di tanta gente, tra cui oltre 800.000 bambini a Gaza».

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Numero di telefono satellitare per raggiungere i passeggeri a bordo è: 008821668610337
Contatto stampa a Londra: Yosh 00 8821668610337
Contatto JNews in Israele: Miri 00 972 549270796
Gruppi di sostegno: Organizzazioni ebraiche e singoli in Olanda, Germania, Stati Uniti, Svizzera, Danimarca, Svezia, Belgio, Francia, Austria, Australia e Israele.
Organizzatori e sponsor: Ebrei Europei per una Pace Giusta (EJJP), Jews for Justice for Palestinians (Regno Unito), Jüdische Stimme Für einen Gerechten Frieden in Nahost (Germania), American Jews for a Just Peace (USA), Jewish voice for Peace (USA), Jews Against the Occupation (Sydney, Australia)
(Traduzione dal francese Cinzia Nachira)

 (domenica 26 settembre 2010)


 

I COMBATTENTI PER LA PACE


 

Ex soldati israeliani ed ex prigionieri palestinesi, dal 2005, si sono uniti per creare l’organizzazione “combattenti per la pace” con l’obiettivo di porre fine all’occupazione militare israeliana riportando la legalità e la giustizia nei Territori Occupati, attraverso gli strumenti della “non violenza”. Non è facile credere nella “non violenza, quando, da una parte, c’è il dominio territoriale di uno stato, mentre dall’altra, ci sono persone costrette a vivere accerchiate in zone controllate da ogni parte, all’interno di un muro. A volte, però, i miracoli, sotto la veste della “conoscenza”, si avverano.
 

La maggior parte dei soldati israeliani, fino all’età dei 18 anni, data in cui inizia il servizio militare, non conosce la realtà palestinese. Gli insegnamenti scolastici non prevedono certamente uno studio inerente alla “Nakba” catastrofe palestinese, ma sono indirizzati invece solo verso la Shoah, inculcando così solo sentimenti di odio e di paura.
Capita, quindi, che quando il proprio cammino è attraversato da chi rappresenta il proprio nemico, si prenda coscienza della realtà in cui si vive e, a volte, può, quindi, scattare il dubbio verso il proprio coinvolgimento nella politica del proprio governo. L’alternativa al servizio militare obbligatorio (tre anni per i ragazzi, due per le ragazze) in Israele è la prigione. Esistono comunque alcuni espedienti più semplici, come per esempio, la possibilità di andare a studiare all’estero almeno fino ai 24 anni, così si è reclutati solo per un anno, oppure di presentare un certificato medico falso in cui si attesti un’instabilità mentale. Occorre quindi maturare una motivazione forte per arrivare ad un’opposizione al servizio militare, tenendo anche conto delle conseguenze psicologiche, oltre a quelle sancite dall’esercito, per l’ostilità espressa dalla maggior parte della società israeliana e dei propri coetanei. Lo stesso discorso sulla conoscenza dell’altro può essere valido anche per l’ex combattente palestinese. Dopo un percorso di violenza subita ed effettuata si può arrivare, a pensare di percorrere una strada non violenta per arrivare alla soluzione di un conflitto che dura da 64 anni. I

 

Combattenti per la Pace, dunque, promuovono azioni ed iniziative che mirano al dialogo, alla conoscenza e alla comprensione reciproca. Credono nella necessità di cessare l’occupazione e di ogni forma di violenza, nell’educazione all’ascolto e nel rispetto, attraverso letture pubbliche e racconti di veterani di entrambi gli schieramenti, nella creazione di progetti per l’educazione alla non violenza, nella richiesta della nascita di uno Stato palestinese affianco a quello israeliano, con capitale Gerusalemme Est.

“I palestinesi sono vittime di un popolo di vittime, ma il messaggio che voglio dare al mio popolo è che dobbiamo essere forti abbastanza per non essere più vittime di nessuno.”  Queste sono le parole di Bassam Aramin, uno dei fondatori palestinesi dell’organizzazione “Combattenti per la pace”.

 


Avner Wishnitzer, l’attuale coordinatore della sezione israeliana, commenta: “Se milito in Combatants for Peace non è solo per altruismo o generosità: lo faccio per la mia società. Combatants for peace non è un gioco a somma zero”. Gli fa eco Aramin: “Non schieratevi con un popolo o con l’altro. Non prendete parte per gli israeliani o per i palestinesi. Prendete parte per l’umanità. E   per la Palestina libera”.

 

Modena, 5 luglio 2010

I rappresentanti dei Combattenti per la Pace


Ashraf Khader (Palestinese)

 

 

 

 

 

 

 

 

Liri Mizrachi (Israeliana)

 

 

 

 

 

 

hanno rilasciato a Modena le loro testimonianze  


“APPELLO DEI SINDACATI PALESTINESI AL
SINDACATO INTERNAZIONALE DEI PORTUALI”

Bloccate il carico e lo scarico delle navi israeliane

Finché Israele non rispetti pienamente il diritto internazionale e metta fine al suo assedio illegale di Gaza

*Il movimento sindacale palestinese*, soggetto chiave del Comitato nazionale per il "boicottaggio, disinvestimento, sanzioni" fa appello ai sindacati dei lavoratori portuali in tutto il mondo perché blocchino il commercio marittimo israeliano in risposta al massacro operato da Israele di lavoratori e attivisti umanitari a bordo della Flotta per la libertà di Gaza, finché Israele non rispetti il diritto internazionale e metta fine al suo illegale blocco di Gaza.                                                

Ubriaco di potere e impunità, Israele ha ignorato i recenti appelli del Segretario generale delle Nazioni Unite e il quasi generale consenso dei Governi del mondo per la fine dell'assedio, scaricando l'onere sulla società civile internazionale di sostenere la responsabilità morale di obbligare Israele a rendere conto di fronte al diritto internazionale, per mettere fine alla sua impunità criminale. I lavoratori portuali nel mondo hanno storicamente contribuito alla lotta contro l'ingiustizia, e in modo particolare contro il regime di apartheid in Sud Africa, quando i portuali hanno rifiutato di caricare/scaricare i cargo da e per il Sud Africa come uno dei mezzi più efficaci di protesta contro il regime di apartheid.

Oggi, vi chiediamo di unirvi al *South African Transport and Allied Workers Union* (SATAWU), che ha deciso di non scaricare le navi israeliane a Durban nel febbraio 2009 per protestare contro la guerra di aggressione israeliana contro Gaza e al sindacato svedese dei portuali *Swedish Dockworkers Union* [2] che ha deciso di bloccare tutte le navi israeliane e cargo per e da Israele per protestare contro l'attacco israeliano alla flotta della libertà e la prosecuzione dell'assedio mortale israeliano della striscia occupata di Gaza //

Il perdurante blocco israeliano di essenziali alimenti, materiali per la salute, la scuola, la costruzione non è solo immorale, è una durissima forma di punizione collettiva, un crimine di guerra rigidamente proibito dall'art. 33 della 4 Convenzione di Ginevra, - che sta provocando povertà di massa, inquinamento dell'acqua, disastro ambientale, malattie croniche, devastazione economica e centinaia di morti. Questo triennale assedio medioevale contro 1,5 milioni di palestinesi a Gaza, è stato apertamente condannato da autorevoli esperti giuristi, incluso il relatore speciale delle Nazioni Unite Richard Falk, che lo descrive come, nella sostanza, un "lento genocidio".

Il deprecabile attacco di Israele a navi disarmate è insieme una violazione del diritto marittimo internazionale e della Convenzione sul diritto del mare delle Nazioni Unite, che stabilisce che "l'alto mare dovrebbe essere riservato a obiettivi di pace". Secondo l'articolo 3 della Convenzione di Roma "per la soppressione degli atti illegali contro la sicurezza della navigazione marittima" del 1988, risulta crimine internazionale per chiunque prendere o esercitare il controllo di una nave con la forza, ed è anche crimine ferire o uccidere persone durante queste azioni. Come hanno recentemente confermato eminenti esperti di diritto internazionale non c'è assolutamente alcuna giustificazione legale per l'atto di aggressione di Israele contro navi civili internazionali, cariche di aiuti umanitari e per lo sviluppo, per civili che soffrono sotto l'occupazione e un blocco palesemente illegale, che ha creato e sostenuto deliberatamente, con mani umane, una catastrofe umanitaria. La nostra risposta deve essere proporzionata a questa crisi.

Gaza oggi è diventato il banco di prova della nostra moralità universale e della nostra comune umanità. Durante la lotta contro l'apartheid in Sud Africa, il mondo è stato ispirato dalle azioni coraggiose e basate su saldi principi, di lavoratori del porto che rifiutarono di gestire cargo sud africani, contribuendo
significativamente a far crollare il regime di apartheid. Oggi chiediamo a voi, sindacati dei lavoratori dei porti del mondo, di fare lo stesso contro l'occupazione e l'apartheid israeliano. Questa è la più efficace forma di solidarietà per mettere fine all'ingiustizia e sostenere i diritti umani universali.

Firmato da:

- Palestinian General Federation of Trade Unions (PGFTU)
- General Union of Palestinian Workers (GUPW)
- Federation of Independent Trade Unions (IFU)
- Palestinian Professionals Association**
- Youth Workers Movement (Fatah)

- Central Office for the Workers Movement (Fatah)
- Progressive Workers Block
- Workers Unity Block
- Workers Struggle Block
- Palestinian Federation of Unions of University Professors and Employees (PFUUPE) – part of IFU
- Workers Liberation Front
- Labor Front Block
- Workers Solidarity Organization
- Workers Struggle Organization

**Includes the national syndicates of engineers, agricultural engineers, doctors, dentists, pharmacists, lawyers and veterinarians.


 

ATTACCO ISRAELIANO ALLA FREEDOM FLOTILLA
 

 
 
Una flotta composta da 9 navi con 10mila tonnellate di aiuti umanitari per la popolazione di Gaza ridotta, ormai,  allo stremo dall’assedio che Israele impone dal 2006, e con  circa 700 pacifisti, è stata attaccata questa notte dalle forze armate israeliane. Per il momento, sembra,  siano state accertate 19 vittime ed una trentina di feriti.


Riportiamo alcuni significativi articoli su questo episodio:

 

Israele Stato terroristico di Cinzia Nachira

 

 


 

BASTA EMBARGO CONTRO GAZA!
di Mirca Garuti

 

Sabato 5 giugno Modena  è stata attraversata da una manifestazione di massa in solidarietà con la Palestina, per il diritto all’autodeterminazione, per la liberazione dei pacifisti e per la fine dell’ignobile embargo contro Gaza.

                                                      

  

 

   

 

L’azione contro la Freedom Flotilla, svolta in acque internazionali, ha causato, ufficialmente, la morte di 9 persone ed il ferimento di altre 45, tra cui alcuni in modo molto grave. Le otto navi della flotta che trasportavano materiali di costruzione, scolastici, generatori, impianti fotovoltaici, medicinali e beni di prima necessità, sono stati sequestrati ed i 750 attivisti, arrestati.
La notizia dell’attacco è stata immediata, come la reazione nei territori occupati, nelle regioni dei paesi arabi, in Europa e nel resto del mondo. Le Tv, i siti web, i giornali hanno riempito spazi, prime pagine con il racconto di quanto accaduto cercando, con le prime analisi dei fatti, di capire cosa, come e il perché di tutto questo.
Ci troviamo di fronte  all’ennesimo atto di terrorismo del governo israeliano.
Israele, come sua prima risposta,  giustifica l’accaduto come “legittima difesa”e così, i pacifisti, messi sotto accusa, sono diventati “Provocatori” e la flotta “la nave del terrore e dell’odio”.
La reazione dell’Onu è stata molto cauta. Dopo una riunione durata più di dieci ore, ha rilasciato solo una dichiarazione formale con la quale condanna gli atti sfociati nella perdita di vite umane, chiede il rilascio dei civili e l’apertura di un’indagine “rapida, imparziale, credibile e trasparente”(ma non internazionale).  Anche, però, tutta l’indignazione mostrata in questi giorni da parte dei governi occidentali e di quelli arabi non si è tradotta, alla fine,  in nulla di concreto. Nessuno propone di rompere gli accordi di cooperazione economica o militare con il governo Netanyahu. È un’indignazione volta a calmare le rispettive opinioni pubbliche e nella quale l’Italia, nonostante la presenza di suoi sei cittadini coinvolti nella Flotilla, assieme agli Stati Uniti e Olanda, ha votato contro la risoluzione del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite che chiedeva di “inviare una missione internazionale per indagare su violazioni delle leggi internazionali”. Il Ministro degli Affari Esteri italiano Franco Frattini ha spiegato questo NO affermando che “Israele è uno Stato democratico e perfettamente in grado di condurre un’inchiesta credibile e indipendente”.
In Italia, come nel resto del mondo, soltanto la crescita di una mobilitazione di massa potrà aiutare il popolo palestinese.
Così è stato: tantissime persone, spontaneamente, sono scese in piazza in tante città, paesi, per protestare contro l’impunità in cui si avvolge Israele! Manifestazioni che, a volte, sono state attraversate da violenze da parte di polizia o da semplici cittadini al grido di “Viva Israele!”.

 

    

 

E’ successo a Qalandiya, posto di blocco che divide Ramallah da Gerusalemme, una giovane artista americana, Emily Henochowicz, durante la manifestazione, subito dopo l’attacco israeliano alla Freedom Flotilla, è stata colpita in pieno volto da un candelotto di gas lacrimogeno sparato dalla polizia israeliana. Ha subito l’asportazione del bulbo oculare ed altre fratture al viso.
L’indagine interna (sempre e solo quella!) ha accertato che è stato solo un incidente: il candelotto ha colpito prima il muro e, poi di rimbalzo, il viso di Emily.
Sembra, invece, che la guardia di frontiera israeliana abbia sparato in successione tre candelotti ad alta velocità mirando ai manifestanti, Emily era solo ad una quindicina di metri di distanza dalla polizia, quindi, l’impatto è stato molto forte. Un attivista israeliano ha dichiarato che, in questi casi, il gas lacrimogeno dovrebbe essere sparato con una traiettoria di 60 gradi, ma, spesso non succede e, l’esercito spara sui dimostranti a distanza ravvicinata.

 

A Roma, invece, al termine della manifestazione di venerdì 4 giugno, un ragazzo ed una ragazza,  mentre tornavano a casa, hanno subito un’aggressione, un pestaggio in piena regola,  da quattro ragazzini in motorino. Dieci secondi di terrore, di rabbia, e poi, con il grido “Forza Israele”, tutto finito! Aspettano di colpire due persone isolate, tranquille, non vanno dentro il corteo a confrontarsi con gli organizzatori o con i militanti, no, sarebbe troppo difficile!

 
 

Anche le notizie apparse sui giornali sono state, a volte, molto pesanti e molto lontane dalla verità.

 

 

Il titolo migliore va al “Giornale” con il commento di Vittorio Feltri “Israele ha fatto bene a sparare, Dieci morti tra gli amici dei terroristi”, oppure l’articolo che porta la firma di Fiamma Nirenstein : "Dieci morti per una verità capovolta" All’articolo della Nirenstein risponde Miriam Marino, scrittrice ed attivista per i diritti umani:
“Rovesciamento della verità , bugie, sono tutti strumenti usati dalla Nirestein in modo eccellente nella sua fervente propaganda per una causa persa. Gli argomenti sono quelli del ladro incallito che accusa gli altri di rubare. Secondo lei a Jenin non fu fatta strage, il piccolo Mohamed Al Dura si sarebbe assassinato da solo e i pacifisti turchi avrebbero provocato le teste di cuoio che hanno fatto l'arrembaggio piratesco in acque internazionali. I civili per lei sono “guerrieri di prima fila”e perciò è giusto ucciderli. La serie di vomitevoli stupidaggini che elenca l'articolo è tale da richiedere un rotolo di scottex, mi soffermerò su alcune perle: siccome la striscia di Gaza è dominata da Hamas che a suo dire perseguita i cristiani, (i quali sono andati via per sfuggire alla vita impossibile sotto occupazione e non ad Hamas) e che condanna a morte tutti gli ebrei (ma pare che non abbia eseguito la condanna visto che gli ebrei ci sono ancora) che usa bambini, edifici allo scopo di combattere l'occidente intero (siamo ancora all'aberrante dottrina dello “scontro di civiltà”) e così abbiamo anche giustificato il crimine di “Piombo fuso” si sa, a Gaza case, scuole, ospedali,bambini, non esistono di per se, ma per essere usati da Hamas di modo che Israele li bombardi. Il piccolo particolare che a Gaza c'è un milione e mezzo di persone, la metà  bambini e minori, oltre Hamas, non sfiora la mente dell'illuminata articolista.
Da tempo sono disgustata dagli articoli della Nirestein fin dagli anni della seconda Intifada, quando occupava la prima pagina di “Shalom” il giornale nazionale ebraico con articoli pieni di ipocrite e velenose menzogne. Come  donna e come ebrea non posso accettare e tollerare un simile disprezzo per la verità , per ogni criterio di legalità e di giustizia.”

 

Nell’agosto 2005 il governo israeliano inizia il ritiro dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza. Le scene che ritraggono le forze militari mobilitate per smantellare gli insediamenti illegali fanno il giro del mondo. Viene solo sottolineata la sofferenza ed il sacrificio dei coloni costretti ad andarsene. In realtà questo “ritiro” non è altro che un trasferimento da Gaza alla  Cisgiordania in alloggi aggiuntivi o in nuovi insediamenti, ma soprattutto, è che i Palestinesi non hanno, in realtà,  nessuna sovranità nella Striscia. Israele mantiene, infatti, il controllo su tutti gli accessi via mare, terra e cielo. Gaza era ed è una prigione isolata e violata. Questo “ritiro” è stata una mossa vincente per Israele, per vari motivi: mantenere quelle colonie era diventato troppo oneroso, attaccare, ora, la Striscia diventava più facile, in quanto non esistevano più ostacoli ed infine il premier israeliano Sharon aveva ottenuto il plauso della comunità internazionale per la sua umanità.
A fine gennaio 2006 a Gaza, come in Cisgiordania e Gerusalemme Est, ci sono le elezioni politiche.
Hamas vince a Gaza. “Il popolo palestinese è stanco dell’incompetenza di Fatah e della corruzione endemica che lo corrode. Se la corruzione esisteva fin dai tempi di Arafat, questa era controbilanciata, per così dire, dall’esistenza di una linea politica pressappoco coerente. Con la morte del presidente dell’Olp e dell’Autorità Palestinese, di Fatah  non resta che la corruzione, o quasi.”(Michel Warschawskj in Programmare il Disastro, genn.2009).
Gaza è attaccata ripetutamente: estate 2006(“Pioggia Estiva”)  febbraio 2008 (“Inverno Caldo”) ed infine  dicembre 2008/gennaio 2009 (“Piombo Fuso”).

 

Sono molteplici le violazioni del diritto internazionale che Israele ha commesso nell’ultima operazione “Piombo Fuso” denunciate da varie indagini indipendenti e dal rapporto Onu “Goldstone”. Prima di tutto c’è l’embargo, un piano di isolamento economico e politico imposto da Istraele alla Striscia di Gaza, da molto tempo: limitazione di beni che possono entrare a Gaza, il taglio al rifornimento di energia elettrica ed acqua e la chiusura dei confini per persone e cose. Israele, vincolato dalla Quarta Convenzione di Ginevra, dovrebbe assicurare una adeguata distribuzione di cibo ed attrezzature sanitarie per andare incontro ai bisogni della popolazione.
L’esercito israeliano ha poi deliberatamente attaccato la popolazione civile,  rifiutando, spesso, anche il legittimo permesso di evacuare i feriti o l’accesso alle ambulanze. Ha usato armi improprie, come il fosforo bianco ed i missili flechettes. Ha distrutto infrastrutture industriali, fabbriche alimentari, impianti idrici, sistema fognario ed abitazioni ( es. attacco al Mulino “Al Bader”, l’unico funzionante all’interno della Striscia, all’azienda di allevamento polli, che forniva più del 10% del mercato di uova, al complesso”Namar Wells di Jabalya” composto da due pozzi, sistema di pompaggio, generatore e deposito carburante).  Tutti questi non erano obiettivi militari, ma, erano indispensabili per il sostentamento della popolazione, così come per le abitazioni. E’ stato dunque violato il diritto, per le famiglie colpite dalle distruzione, ad una residenza adeguata. E continua il divieto assoluto di introdurre cemento per la ricostruzione, in quanto, Israele teme che possa servire alla costruzione di nuovi bunker usati da Hamas. Inoltre, civili palestinesi  sono stati usati come scudo umano, sono stati incarcerati, per un lungo periodo, senza aver commesso nessun reato e sono stati oggetto di  rappresaglie. Secondo le dichiarazioni rilasciate dai leader israeliani, la distruzione di beni civili sarebbe motivata da una risposta al lancio dei razzi (“distruggere 100 case per ogni razzo lanciato”), si tratta, dunque, di rappresaglia contro civili, contrarie al diritto umanitario internazionale. Il sistema sanitario è stato messo a dura prova, anche perché, gli ospedali e le ambulanze erano diventati un obiettivo degli attacchi israeliani. Non sono quantificabili i numeri delle persone che hanno  riportato disabilità permanenti, così come, la previsione relativa al numero di individui con problemi e disturbi mentali, è molto alta. Sono state compiute violazioni delle specifiche disposizioni relative alla protezione dei diritti umani dei bambini, particolarmente di quelli che sono vittime di conflitti armati, ma anche di disabili e donne.
Israele ha violato obblighi specifici in qualità di Potere Occupante, come chiaramente illustrato nella Quarta Convenzione di Ginevra, quali l’obbligo a mantenere in attività centri medici e ospedalieri e fornire i servizi correlati nonché a concordare programmi d soccorso, nel caso in cui i territori occupati non siano adeguatamente forniti.
Ma, alla fine, Israele, si considera sempre “l’unica vera democrazia del Medio Oriente”!
Per fortuna, non tutti sono d’accordo su questa affermazione e, la lotta per chiedere “Diritti” per il popolo palestinese continua …
Lo dimostra il fatto che stanno arrivando sempre più notizie relative alla possibilità di tentare di arrivare a Gaza da altri convogli o da rappresentanti di altri paesi: la “Barca Ebraica”, il “Viva Palestina”di George Galloway, la Mezzaluna Rossa iraniana, il Segretario generale della Lega Araba, Amr Musa.

 

LA "NAVE DEGLI EBREI" (JEWISH BOAT) PER GAZA PARTIRÀ PRESTO

 

In un porto del mediterraneo (e non diciamo per ora quale) un piccolo vascello aspetta una missione speciale: partirà per Gaza. Per evitare sabotaggi, data e nome esatto del porto di partenza verranno annunciati solo poco prima della partenza.
"Il nostro obiettivo è chiedere la fine dell'assedio di Gaza, di questa illegale punizione  collettiva della intera popolazione civile. La nostra barca è piccola, per questo quello che portiamo può solo essere simbolico: portiamo borse per la scuola, piene di regali degli studenti delle scuole in Germania, strumenti musicali e materiali artistici. Per i servizi medici portiamo medicine essenziali e piccole attrezzature mediche e per i pescatori portiamo reti e attrezzature. Siamo in collegamento con i servizi medici, educativi e mentali a Gaza."
''Attaccando la flotta della libertà Israele ha dimostrato, ancora una volta, a tutto il mondo la sua odiosa brutalità. Ma io so che ci sono moltissimi israeliani impegnati nella campagna per una pace giusta con passione e coraggio. Dal momento che sulla nostra barca ci saranno importanti giornalisti dei canali radiotelevisivi, Israele avrà una grande occasione per mostrare al mondo che c'è un'altra strada, una strada di coraggio e non di paura, una strada di speranza e non di odio'',dice Edith Lutz, una degli organizzatori e passeggeri della “nave degli ebrei”.
La ''Jüdische Stimme'' (Voce ebraica per una pace giusta in medio oriente), insieme ai suoi amici della rete “Ebrei europei per una pace giusta in Medio oriente” e “Ebrei per la giustizia per i palestinesi (UK)” inviano un appello ai leaders del mondo perché aiutino Israele a tornare alla ragione, al senso di umanità, alla vita senza paura.
Le “voci ebraiche” si aspettano che i leader di Israele e del mondo garantiscano un passaggio sicuro verso Gaza per la piccola nave e in tal modo aiutino a realizzare un ponte verso la pace.
 
Edith Lutz, Ejjp-Germany
Kate Leiterer, Ejjp-Germany
Glyn Secker, Jews for Justice For Palestinians (UK)

 

Mentre questi ultimi avvenimenti sono ancora alla ribalta delle tv e giornali, un’altra vicenda rimane, invece, in sordina. Si tratta della costruzione della barriera egiziana di acciaio di circa 10km., a prova di bomba, che sta avanzando lungo il confine tra Egitto e Gaza. L’opera del “Muro della vergogna”, tempo un anno, sarà conclusa. Il suo intento è quello di bloccare tutti i tunnel sotterranei, ma invece, costringerà, in realtà, i palestinesi solo a scavare più in profondità. L’embargo illegale imposto da Israele costringe la popolazione di Gaza ad inventarsi sistemi per avere quei beni di prima necessità negati dal governo occupante. Il governo di Mubarak è riuscito a rimanere in silenzio di fronte alle proteste del mondo arabo, anzi, più volte la polizia egiziana ha minacciato i suoi residenti sul confine di Rafah di non parlare con la stampa. Se da una parte l’Egitto dichiara che “Chiuderemo tutti i tunnel, e’ un nostro diritto costruire questa  barriera, ed e’ anche legittimo”, dall’altra, con la sua posizione molta ambigua, vuole dimostrare, ora, la sua vicinanza alla popolazione di Gaza aprendo, a tempo indeterminato, il valico di Rafah, però con la condizione “fino a quando non ci saranno violazioni dall’altra parte”.



09/06/2010


ISRAELE SPARA SU FLOTILLA,UCCISI ALMENO 16 CIVILI

Gaza 31 maggio 2010 (foto dal sito www.haaretz.com la nave turca ”Mavi Marmara”) Nena News

 

Almeno 16 attivisti internazionali sono stati uccisi e oltre 30 sono rimasti feriti la scorsa notte quando le Forze Armate israeliane hanno aperto il fuoco contro il convoglio navale ”Freedom Flotilla” in navigazione verso Gaza, dove avrebbe dovuto scaricare 10mila tonnellate di aiuti umanitari e far scendere a terra circa 700 pacifisti. Lo riferisce la televisione privata israeliana “Canale 10″. Al momento nessun attivista italiano partecipante alla missione pacifista sembra essere rimasto coinvolto ma la notizia attende una conferma definitiva.
  Secondo quanto riferito dagli organizzatori della “Freedom Flotilla”, nel cuore della notte, commandos israeliani calandosi dagli elicotteri hanno abbordato, sparando, la nave passeggeri turca “Mavi Marmara”. Un filmato visibile in streaming mostra i soldati israeliani sull’imbarcazione e alcuni passeggeri uccisi o feriti.
   L’attacco è avvenuto in acque internazionali, a 75 miglia al largo della costa israeliana. Da parte sua Israele dice di aver preso il controllo delle imbarcazioni pacifiste che non avevano risposto alla sua intimazione di invertire la rotta. I suoi militari, aggiunge, si sarebbero “difesi” dai colpi d’arma da fuoco sparati da alcuni passeggeri della nave turca. Una versione seccamente smentita dagli organizzatori della ”Freedom Flotilla” che al contrario parlano di strage.
    La coalizione formata dal Free Gaza Movement (FG), European Campaign to End the Siege of Gaza (ECESG), Insani Yardim Vakfi (IHH), Perdana Global Peace Organisation, Ship to Gaza Greece, Ship to Gaza Sweden e International Committee to Lift the Siege on Gaza, ha lanciato un appello alla comunità internazionale per chiedere a Israele di fermare l’attacco contro civili che portavano aiuti di vitale importanza ai palestinesi di Gaza e di consentire alle navi di continuare il loro cammino. (redazione Nena news)

 

 

FLOTILLA…ISRAELE SI LAMENTA PURE PER COSTI ARREMBAGGIO


 Tel Aviv, 31 maggio 2010
Oggi si contano i morti dell’arrembaggio israeliano alla Freedom Flotilla diretta a Gaza ma gli amministratori del ministero della difesa a Tel Aviv sono impegnati in altri conteggi.
Costa tre milioni di shekel (circa un milione di dollari) il centro di identificazione e detenzione allestito al porto di Ashdod, destinato ad «accogliere» i circa 700 attivisti internazionali a bordo delle imbarcazioni pacifiste arrestati dai commando israeliani. Come prevede un portavoce del ministero della difesa, che ha parlato al quotidiano economico on line «Globes», molti dei pacifisti stranieri che arriveranno al centro di detenzione Ashdod non collaboreranno ed attueranno forme di protesta per l’uccisione e il ferimento di  tanti loro compagni, “allungando” i tempi della detenzione e, di conseguenza, anche i costi per il loro mantenimento.
Da parte sua «Globes» aggiunge che lo Stato di Israele dovrà pagare il costo dei biglietti aerei necessari per rimandare a casa gli attivisti arrestati e che la Marina militare dovrà spendere fondi per il mantenimento della flottiglia sequestrata con la forza e al termine di uno spargimento di sangue in alto mare. L’Esercito, prosegue il giornale on line, dovrà provvedere a far arrivare a Gaza almeno una parte delle 10mila tonnellate di aiuti umanitari a bordo delle navi pacifiste, allo scopo di migliorare l’immagine internazionale dello Stato ebraico dopo la strage dei pacifisti.
(redazione Nena News)

 

PIRATI E ASSASSINI!

 

Israele ha assassinato un  numero imprecisato di attivisti internazionali in acque internazionali tra Cipro e Gaza, tra le 19 e le 25 persone. L’attacco pirata portato questa notte alla nave ammiraglia della Flottiglia della Libertà era stato pianificato e annunciato da giorni. Le autorità israeliane, non temendo di cadere nel ridicolo, parlavano di arrembaggio.
Non è la prima volta che Israele assassina attivisti internazionali, né è sorprendente che Israele si faccia beffa delle acque internazionali e del diritto internazionale.
Questa flottiglia disarmata aveva come obiettivo quello di tentare di rompere l’assedio che Israele e l’intera comunità internazionale impone a Gaza fin dal 2006: un milione e mezzo di civili ostaggi, privati dei più elementari beni di prima necessità e diritti.
Mentre scriviamo questo comunicato si apprende che Israele ha sequestrato l’intera flottiglia con gli attivisti che la compongono, per dirigerla verso il porto di Ashdod, dove, preventivamente svuotata, la prigione locale «accoglierà» gli attivisti internazionali che, dopo l’identificazione, dovrebbero essere forzatamente rimpatriati.
Questo atto di palese illegalità internazionale non ha nessuna giustificazione.
Israele lo ha commesso forte dell’impunità internazionale di cui gode e della complicità internazionale su cui può contare.
Quello che ora le autorità internazionali devono fare sono cose elementari:

-    chiedere l’immediata liberazione delle navi e degli attivisti;
-    condannare senza appello Israele per questo atto piratesco senza senso;
-    portare di fronte a un tribunale internazionale i responsabili politici e militari di questo atto barbarico;
-    imporre a Israele di togliere l’assedio a Gaza e non solo per motivi umanitari;

Se ciò non verrà fatto semplicemente i governi occidentali a partire dall’Italia saranno tutti complici della morte lenta e disperata di un milione e mezzo di civili, corresponsabili dell’assassinio di tante persone disarmate il cui unico carico è rappresentato da beni di prima necessità, materiale da costruzione, materiale medico.
Mobilitarci immediatamente in solidarietà con il popolo palestinese di Gaza sotto assedio, con le vittime,  i feriti e gli arrestati della Flottiglia internazionale è nostro dovere.
Ora il governo italiano ha il dovere di proteggere i propri concittadini in mano agli israeliani e chiederne l’immediata scarcerazione.

GRUPPO BDS SALENTO

 

GAZA, ASSALTO IN MARE

 

Sono almeno venti le vittime dell’assalto dell’esercito israeliano, avvenuto questa mattina all’alba, di una delle navi che portano aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. La barca assaltata, la Mari Marmara, fa parte della Freedom Flotilla, gruppo di imbarcazioni partite da vari paesi per portare sollievo alla popolazione civile di Gaza.
Impossibile contattare gli altri attivisti della Flotilla, i cui telefoni sono stati oscurati nella notte, poche ore prima dell'assalto dei corpi speciali israeliani. Tutti i membri della Flotilla sono da considerare in stato di fermo e le unità militari israeliane li stanno portando nel porto di Haifa, mentre in un primo momento il loro arrivo era previsto nel porto di Ashdod. L'ultimo comunicato stampa della rete che gestisce l'iniziativa recita: ''Lo streaming video mostra i soldati israeliani che sparano a civili, e l'ultimo messaggio diceva "Aiutateci, siamo stati abbordati dagli israeliani".
La coalizione formata dal Free Gaza Movement (FG), European Campaign to End the Siege of Gaza (ECESG), Insani Yardim Vakfi (IHH), Perdana Global Peace Organisation , Ship to Gaza Greece, Ship to Gaza Sweden, e International Committee to Lift the Siege on Gaza lancia un appello alla comunità internazionale per chiedere a Israele di fermare questo brutale attacco contro civili che stavano tentando di portare aiuti di vitale importanza ai palestinesi imprigionati a Gaza e di consentire alle navi di continuare il loro cammino. La diretta dell'iniziativa umanitaria veniva seguita in diretta sul sito della coalizione, WitnessGaza.
Il numero delle vittime non è accertato, l'unico numero è stato fornito da un portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri. Quest'informazione, fornita in una intervista in tv, non ha per ora altra conferma.
Le immagini, trasmesse in tutto il mondo da al-Jazeera, che ha una troupe a bordo di una delle navi, mostrano elementi delle forze d'assalto israeliane che fanno irruzione a bordo. La Radio Militare israeliana ha confermato, poco fa, che le vittime sono almeno 16. Secondo i militari israeliani, gli incursori avrebebro incontrato resistenza nel tentativo di salire a bordo, in quanto alcuni membri dell'equipaggio brandivano non meglio precisate 'armi da taglio'.
L'assalto è avvenuto a 65 chilometri dalla costa della Striscia di Gaza, in acque internazionali. Il cargo batteva bandiera turca e il governo di Ankara ha già rilasciato una nota nella quale chiede immediati chiarimenti al governo israeliano. La polizia turca ha protetto dall'assalto di un gruppo di dimostranti la sede diplomatica israeliana ad Ankara.
Una fonte ufficiale dell'esercito israeliano, sentito dalla televisione al-Arabiya, ha confermato che che le vittime sono 19: nove cittadini turchi e diversi arabi, anche se non è stata fornita la nazionalità di tutte le vittime. Al momento sono stati inoltre ricoverati 16 feriti, tra cui dieci soldati israeliani colpiti con coltelli durante l'assalto alle navi dai volontari. Si attende l'arrivo di tutte le navi nel porto di Ashdod mentre prosegue il recupero dei feriti da parte della marina israeliana.
La Turchia ha convocato l'ambasciatore israeliano ad Ankara dopo l'assalto. Lo ha reso noto un diplomatico turco. "L'ambasciatore Gabby Levy è stato convocato al ministero degli Esteri. Faremo presente la nostra reazione nei termini più perentori". Il vice-premier Bulent Airnc ha convocato una riunione di emergenza ad Ankara a cui partecipano tra l'altro il ministro dell'Interno, il comandante della Marina e il capo delle operazioni dell'esercito
''Proclamiamo per domani uno sciopero generale a Gaza e in Cisgiordania in solidarietà con i volontari della flotta attaccata dai militari israeliani", ha annunciato Ismail Haniyeh, primo ministro di Hamas. Haniyeh ha indetto una conferenza stampa, in diretta televisiva, questa mattina. ''Quella di oggi sarà ricordata come la giornata della libertà per il popolo palestinese - ha affermato - tutte le vittime di questo attacco saranno i martiri del nostro popolo''. Haniyeh ha invocato la collaborazione dell'Autorità nazionale palestinese, guidata da Abu Mazen e che controlla la Cisgiordania, della Lega Araba e dell'Unione Europea.  La Lega Araba ha reagito subito, convocando per domani al Cairo una riunione urgente dopo l'attacco di questa mattina. Lo ha reso noto una fonte della Lega Araba citata da al-Arabiya.
Alta tensione anche in Israele. La polizia israeliana, appena è stata diffusa la notizia dell'assalto alla nave della Flotilla, ha predisposto la chiusura al traffico di alcune vie di comunicazione sensibili, in particolare in zone dov'è alta la presenza di arabi-israeliani. Movimenti di polizia si sono, in particolare, registrati subito nella zona di Wadi Ara, dove la tensione è alta, in quanto si è diffusa la notizia che una delle vittime sarebbe lo sceicco Raed Sallah, originario di questa zona.
La polizia israeliana ha inoltre deciso di isolare la zona della Spianata delle Moschee a Gerusalemme.
31/05/2010 da PeaceReporter  Christian Elia

 

Gaza: la CGIL esprime profondo cordoglio, ora ferma condanna Israele

Riprendere immediatamente il processo di pace, con il coinvolgimento della Comunità Internazionale
La CGIL, di fronte ai gravissimi fatti di questa notte che hanno visto l’assalto militare israeliano al convoglio umanitario nelle acque internazionali di fronte a Gaza, con un numero elevato di morti e feriti tra gli attivisti pacifisti, esprime il suo profondo cordoglio alle famiglie delle vittime e chiede al Governo Italiano, all’Unione Europea e alla Comunità Internazionale la più ferma condanna del comportamento di Israele.

Non è più possibile rimanere inerti di fronte al continuo aggravarsi del dramma della popolazione di Gaza. La CGIL sostiene con forza la richiesta dell’Alto Rappresentante per la politica estera europea Catherine Ashton “dell’immediata apertura senza condizioni del libero passaggio del flusso di aiuti umanitari, beni commerciali e persone da e per Gaza”.

L’Italia e la UE, coerentemente con tale posizione, devono essere ben più incisivi rispetto all’insostenibilità dell’attuale situazione umanitaria di Gaza e devono chiamare in causa la diretta responsabilità di Israele che continua nel suo rifiuto del rispetto dei deliberati e dei trattati internazionali, come dimostra anche la mancata adesione al trattato di non proliferazione nucleare.
Di fronte alla reiterata politica unilaterale di Israele, occorre assumere provvedimenti concreti, a partire dall’invio di una forza di interposizione per garantire ai Palestinesi normali condizioni di vita. Occorre  riprendere immediatamente il processo di pace, con il coinvolgimento della Comunità Internazionale, al fine di evitare l’ulteriore drammatico aggravamento delle tensioni nell’area medio-orientale che questo episodio violento rischia di rialimentare.

La CGIL, sulla base di tali posizioni, promuoverà iniziative su tutto il territorio nazionale.
31/05/10

 

 

Movimento di liberazione nazionale palestinese
Fateh – sezione Italia

 

Oggi la marina militare dell’esercito d’occupazione israeliana, ha commesso l’ennesimo atto di brutale criminalità, nelle acque internazionali, attaccando questa volta, i pacifisti solidali con la causa palestinese. Con la loro flotilla erano diretti a Gaza, trasportando  tonnellate di aiuti umanitarie alla sterminata popolazione della striscia di Gaza, costretta a vivere, da quattro anni circa, sotto un criminale assedio.

Il movimento di liberazione nazionale palestinese “fateh” sezione Italia, esprime la sua piena condanna, di questo crimine, compiuto contro gli attivisti della solidarietà e chiede, a tutte le forze politiche, sociali, comitati di solidarietà e organizzazione internazionale, di condannare questa catena di assassini programmati e l’occupazione di un popolo che subisce tuttora una pulizia etnica, iniziata 60 anni orsono.  Chiede, inoltre, alla comunità internazione, di considerare questo governo israeliano illegale e fuori dalla comunità internazionale e di adottare tutte le misure di sanzioni nei suoi confronti.
Esprime la rabbia e il profondo dolore a tutti i partecipanti alla flotilla per questo vile atto, che ha causato la caduta di 19 morti e decine di feriti, e chiede il rilascio immediato di tutti i componenti della flotilla, per poter proseguire la loro missione e raggiungere Gaza.

Rivoluzione fino alla vittoria!

Roma 31maggio2010
 

IL 25 APRILE SENZA FASCISTI E SIONISTI ALLE NOSTRE MANIFESTAZIONI

dal Comitato "Palestina nel cuore"



A tutti gli antifascisti
Ai soci dell’ANPI
Agli iscritti all’ANPI giovani

 
Oggi a Roma il comizio convocato dall’ANPI a Porta San Paolo è stata l’occasione per assistere a una serie di gravissime provocazioni che come antifascisti e democratici non siamo disposti a tollerare e di cui chiediamo conto alla direzione dell’ANPI nazionale e romana.
Alla  commemorazione del 25 aprile è stata invitata la neo-presidente della Regione Lazio Renata Polverini; un invito reso più grave dall’imminenza del  7 maggio, giorno in cui  il blocco studentesco ha convocato la sua marcia su Roma insultando la storia di una città  medaglia d’oro della Resistenza: un merito riaffermato nel corso degli anni dalle lotte antifasciste delle generazioni di giovani che si sono susseguite.  Renata Polverini è parte di una coalizione politica reazionaria, promotrice  di politiche classiste, razziste, clericali e omofobe.
Come se non bastasse, erano presenti e sono stati invitati sul palco esponenti dell’Associazione Romana Amici d’Israele, calata a Porta San Paolo con un delirante volantino inneggiante al sionismo e a Israele, e sventolando bandiere israeliane, tra cui faceva bella mostra di sè la bandiera dell’aviazione israeliana; l’aviazione  israeliana l’anno scorso  ha perpetrato – lo ricordiamo a chi se lo fosse dimenticato -  il massacro di Gaza bruciando oltre  1400 vite in 20 giorni, e continua a bombardare quotidianamente la striscia di Gaza stretta in un assedio criminale. Cosa c’entrano questi sciacalli con la Resistenza? La nostra Resistenza ha combattuto per dare a tutti la possibilità di emanciparsi e di vivere in uno stato laico e ospitale: il sionismo è un’ideologia neocoloniale che mira alla supremazia del popolo ebraico e alla sopraffazione del popolo palestinese, negandogli il diritto alla vita, alla terra e alla libertà; “il problema è la natura etnica del sionismo: il sionismo non ha gli stessi margini di pluralismo che offre il giudaismo, meno che mai per i palestinesi. Essi non potranno essere mai parte dello stato e dello spazio sionista e continueranno a lottare” (da “La pulizia etnica della Palestina” di Ilan Pappè, docente israeliano rifugiatosi in Inghilterra, all’università di Exeter).

Contro la politica di apartheid dello stato israeliano in tutto il mondo sta crescendo  una campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni: “La stessa questione della uguaglianza è ciò che motiva il movimento per il disinvestimento di oggi, che ha come obiettivo la fine dell'occupazione israeliana da 43 anni e l'iniquo trattamento del popolo palestinese dal governo israeliano. Gli abusi che i palestinesi si trovano ad affrontare sono reali, e nessuna persona dovrebbe essere offesa da atti di principio, moralmente coerente e nonviolenta per opporvisi. Non è affatto sbagliato accusare Israele in particolare per i suoi abusi come non lo era accusare il regime dell'Apartheid in particolare per i suoi abusi”.  (Desmond Tutu, arcivescovo emerito di Città del Capo).

L’ANPI ospita invece i sostenitori di Israele!

A coloro che ingiustamente vi accusano di slealtà o danno a loro arrecato da questa vostra richiesta di disinvestimento, vi propongo, con umiltà, che il danno subito dal confrontarsi con pensieri che sfidano le proprie opinioni impallidisce rispetto al danno fatto da una vita sotto occupazione e quotidiana negazione dei diritti fondamentali e della dignità. Non è con rancore che critichiamo il governo israeliano, ma con speranza, una speranza che si possa realizzare un futuro migliore per israeliani e palestinesi, un futuro in cui sia la violenza degli occupanti che la conseguente resistenza violenta degli occupati finiscano, e dove una popolazione non domini su un'altra, generando sofferenza, umiliazione e ritorsioni.
In mezzo a loro c’era non solo il neofascista Riccardo Pacifici ma anche la deputata del  PDL nonché colona sionista israeliana Fiamma Nirenstein che si è dichiarata sorpresa dalla contestazione e così farnetica nel suo blog: “E' del tutto sconcertante assistere ad atteggiamenti di tale aggressività da parte di gente che ancora osa sventolare bandiere con falce e martello e soprattutto bandiere palestinesi nel giorno della Liberazione”.

Sono le nostre bandiere: non tollereremo mai più simili offese nè che una simile razzista abbia agibilità nei nostri cortei.
 
Chiediamo conto ai dirigenti dell’ANPI di queste scelte: è chiaro il vostro tentativo di voler  riscrivere la storia e i valori dell’antifascismo, invitando personaggi come Renata Polverini, Fiamma Nirenstein e associazioni che sostengono uno stato  guerrafondaio e razzista come lo stato di Israele. L’apologia di Israele non ha niente a che vedere con la lotta di liberazione, la politica di Israele contraddice apertamente l’articolo 11 della costituzione italiana (così spesso citato dall’ANPI): Israele ha sempre utilizzato la guerra e il terrore come strumento politico  principale. E’ di questi giorni il decreto militare di espulsione emesso da Israele, che colpirà decine di migliaia di palestinesi residenti in Cisgiordania perché privi di documenti che Israele stessa si rifiuta di dargli.

Ci rivolgiamo ai giovani iscritti all’ANPI e a tutti gli iscritti all’ANPI perché si facciano promotori di una protesta  presso i loro dirigenti, colpevoli di scelte che snaturano i valori di questa associazione!

Agli antifascisti: difendiamo i valori dell’antifascismo! Nessuno spazio per i sionisti e per i revisionisti! Ora e sempre resistenza a fianco dei popoli oppressi.

Roma, 25 aprile 2010
(dal sito:Forumpalestina.org)


PALESTINA: DALLA CRISI USA-ISRAELE AD UNA NUOVA INTIFADA?

 



Le frizioni tra la nuova amministrazione statunitense e Israele tutto possono essere tranne che sorprendenti. Compreso lo stile di brutalità con le quali sono emerse.

La brutalità diplomatica, e non solo,  del nuovo governo israeliano…e dell’ “opposizione”

Tzipi Livni, ex primo ministro israeliano, criminale di guerra, durante i bombardamenti sulla striscia di Gaza del 2008-2009 rivendicò, in modo chiaro, che la politica israeliana sarebbe stata costellata da azioni “folli”. Lei è una che se ne intende: in 22 giorni, sotto la sua responsabilità, sono stati assassinati 1.400 civili palestinesi, di cui un numero intollerabile di bambini.
La Livni è la rappresentante moderata di un’«opposizione» al governo il più oltranzista, razzista e xenofobo della storia israeliana.  Il governo è peggio. 
In questo quadro, appena abbozzato, non è sorprendente che il ministro dell'interno israeliano  Eli Yishai, esponente dell’estrema destra religiosa, abbia contribuito a tendere i rapporti con gli USA, annunciando, durante il viaggio nella regione del vice presidente John Biden, la costruzione di 1.600 nuovi alloggi nella colonia di Ramat Shlomo, a Gerusalemme Est. Tutto questo dopo che l’inaugurazione, in grande stile, di una restaurata sinagoga, risalente al XVII secolo, sita a poche centinaia di metri dalla Moschea di Al Aqsa, aveva già prodotto, agli inizi del mese di marzo, scontri tra palestinesi e esercito israeliano.
Si può perfettamente concordare con Gideon Levy, una delle poche voci rimaste lucide del giornalismo israeliano, che in un editoriale su Hareetz, il giorno dopo l’annuncio di Yishai, ringrazia il ministro per aver sollevato la nebbia della patina dorata con cui si voleva avvolgere la visita di Biden in Palestina.

L’agenda degli USA non coincide con quella israeliana

È chiaro che ora, a poco più di un anno dall’annunciato ritiro dall’Iraq, l’amministrazione USA ha bisogno urgentemente di allentare la tensione sul dossier palestinese.
Il tentativo avviato ormai da mesi dall’amministrazione Obama è quello di tornare al “clima di Oslo”. Per questo motivo, Biden aveva il compito di approntare un “negoziato indiretto”. Indiretto perché è evidente l’impossibilità di poter avviare un negoziato reale. Sarebbe bastato poco a Obama, Biden e Clinton per ritenersi soddisfatti.
In cambio di una loro posizione intransigente contro l’Iran e il suo nucleare, si sarebbero accontentati di una promessa di congelamento degli insediamenti a Gerusalemme est. Ovviamente, anche se ciò è insufficiente, una cosa simile sarebbe bastata agli USA per imporre all’ANP di Abu Mazen di accettare dei negoziati.
Se lo scompiglio prodotto da Yishai ha provocato una crisi che non possiamo prevedere come si concluderà, tuttavia conferma un dato: le agende di Stati Uniti e Israele, oggi, non coincidono.
A Tel Aviv, durante il discorso tenuto all’università, Biden ha detto parole precise in questo senso: « A volte proprio un vecchio amico di Israele, appunto come me, deve far sentire la sua voce».
Questo, ovviamente, non significa che concretamente, come si è già detto, gli USA siano pronti a rimettere in discussione la politica di colonizzazione della Cisgiordania, che prosegue indisturbata, né, ancor più, la costruzione del Muro di separazione e l’assedio feroce alla striscia di Gaza. Ciò significa che, come ribadito da Netanyahu nel suo viaggio negli Stati Uniti, il suo governo rivendica il «diritto» a costruire a Gerusalemme perché si rivendica Gerusalemme come capitale eterna dello Stato ebraico di Israele. Per altro a Gerusalemme, compresa la sua periferia, già vivono 200.000 coloni.
Moshe Dayan, il generale che nel giugno 1967 conquistò la parte est della città, con questo slogan attraversò la Porta di Damasco, uno degli accessi alla città vecchia di Gerusalemme.
Oggi, nel 2010, Netanyahu inscrive l’azione politica del suo governo in questa direzione, mai abbandonata in questi quarantatre anni di occupazione.
Netanyahu e il governo israeliano si possono permettere questa disinvoltura perché è chiaro che l’alleanza di fondo con gli Stati Uniti – soprattutto quella militare – non è scalfita neanche dalla brutta figura di Biden in Medioriente e neanche dalla vendetta attuata dallo staff della Casa Bianca che ha tenuto, la visita di Netanyahu negli USA e soprattutto il suo incontro con Obama, nell’ombra.

Verso una terza intifada?



L’altra carta in mano a Netanyahu è il caos che regna sovrano in campo palestinese e arabo.
Certo, l’ANP di Abu Mazen, sempre più in crisi, cerca di recuperare credibilità presso il suo stesso popolo grazie a questa crisi.
In molti scordano facilmente tre cose elementari: la subalternità dell’ANP verso Israele, la complicità dell’ANP nei massacri di un anno fa a Gaza e il ruolo attivo dei Paesi Arabi, soprattutto dell’Egitto, nell’assedio di Gaza. I palestinesi, anche di Cisgiordania e di Gerusalemme Est, non dimenticano, al contrario.
A guardare la mappa degli scontri esplosi a marzo, ci si rende conto che essi sono scoppiati lì dove l’ANP e le sue forze di repressione erano meno presenti. I centri più grandi della Cisgiordania erano totalmente controllati ed era impossibile una qualsiasi forma di protesta.
Questo a dimostrazione del fatto che l’ANP sta puntando a inserirsi nello scontro tra Stati Uniti e Israele come elemento passivo. Di questo atteggiamento evidentemente cerca di approfittare Hamas.
Con la proclamazione della giornata della collera, il primo venerdì dopo l’annuncio dei nuovi 1.600 alloggi a Gerusalemme Est, l’organizzazione di ispirazione islamica ha cercato di inviare un messaggio all’ANP: state attenti che riusciamo, se vogliamo, a prendere la leadership della rivolta anche in Cisgiordania. Ma questo, oltre all’effetto propagandistico, è tutto da dimostrare.
Ciò che invece emerge in modo chiaro è che Hamas cerca di riprendere il ruolo che aveva prima del 2006, quando, anche se può sembrare paradossale, la vittoria schiacciante alle elezioni legislative, lo ha messo più in difficoltà di quanto si aspettasse.
Negli anni precedenti al 2006, Hamas ha costruito il suo consenso e il suo radicamento tra la popolazione palestinese, grazie al fatto che si presentava contemporaneamente come l’unica forza politica in grado di garantire un sostegno concreto alla popolazione e contraria agli accordi di Oslo.
A causa dell’assedio a Gaza sicuramente la capacità di garantire il sostegno concreto è molto diminuita. Inoltre, in vari momenti, le conseguenze di questo si sono trasformate in scontri armati anche all’interno della Striscia prima contro Fatah (giugno 2007) e poi contro altre formazioni politiche di ispirazione islamica ben più estremistiche di Hamas (2009).
Inoltre, non è un dettaglio secondario, Hamas deve far fronte a condizioni di vita a Gaza sempre più intollerabili.
Una vera e propria catastrofe economica: nell’arco di due anni, il 95%  delle imprese hanno chiuso e il 98% degli impieghi, nel settore privato, sono andati distrutti. L’impossibilità di importare cemento ed altri materiali edili, impedisce di fatto la ricostruzione dopo la devastante distruzione del 2008-2009.
Inoltre, a meno di non volersi bendare gli occhi, il clima politico a Gaza è tutto tranne che rose e fiori.
Questo, ovviamente, non significa sposare l’idea che stia per realizzarsi il progetto israeliano, europeo, statunitense e arabo di una rivolta della popolazione palestinese di Gaza contro Hamas. Significa non perdere mai di vista di che natura è l’organizzazione politica Hamas: un’organizzazione conservatrice e reazionaria che fa della religione lo strumento privilegiato di controllo politico, culturale e sociale.
Il compito di Hamas viene «facilitato» da Israele che l’assedia e tenta di «sradicarla» militarmente e dall’ANP che cerca di usare questo assedio e le aggressioni militari perché non ha speranza alcuna di sostenere il confronto, dai Paesi arabi e l’Occidente che partecipano a pieno ai piani di Israele.
Ma la decomposizione quasi totale delle organizzazioni politiche in Cisgiordania sia che siano  o no legate all’ANP e, l’inefficacia assoluta sul piano politico ed economico dell’ANP,produce anche l’effetto, che, a lungo termine, non può che dare risultati implosivi, dell’impossibilità di sfruttare in positivo l’afflusso consistente di aiuti economici che essa riceve dall’estero.
L’ultima iniezione, 500 milioni di dollari, l’ha ricevuta in queste settimane dalla Lega Araba.
Lega Araba che, riunita d’urgenza dopo le dichiarazioni israeliane su Ramat Shlomo, non ha potuto che prendere atto del fallimento del piano lanciato, del tutto ignorato da Israele, nel 2002 dall’Arabia Saudita e, che consisteva nell’impegno da parte araba a riconoscere Israele in cambio della restituzione dei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est.
Si può osservare che la Lega Araba ha impiegato otto anni a capire ciò che era chiaro già nel 2002, quando Sharon iniziò la costruzione del Muro e che aveva come obiettivo quello di annettersi di fatto gran parte della Cisgiordania, creando l’ennesimo fatto compiuto.
Oggi, dopo le enormi mobilitazioni di un anno fa al fianco dei palestinesi di Gaza, i Paesi Arabi hanno (come molte altre volte nella storia) la necessità di far finta di schierarsi per evitare che le proprie popolazioni scelgano fino in fondo la via dell’opposizione interna. Tra l’altro, al contrario di ciò che si pensa, nei diversi Paesi arabi non tutto è piatto e inamovibile.
Gli scontri di queste settimane in Cisgiordania, con quattro giovani adolescenti assassinati, in meno di dodici ore tra il 20 e il 21 marzo, hanno fatto ricordare in parte ciò che avvenne nel dicembre 1987 allo scoppio della prima Intifada e nel settembre 2000 allo scoppio della seconda.


Ma oltre alla banale constatazione del mutato contesto generale, le differenze con le due precedenti rivolte sono abissali, soprattutto con la prima Intifada.
All’epoca, quello che sembrava un episodio (un camionista israeliano che investì otto lavoratori palestinesi) di  « ordinario razzismo e colonialismo»  divenne, invece, la miccia che avrebbe incendiato tutti i Territori Occupati e, si rivelò una rivolta auto-organizzata che riuscì  a mantenere, a lungo, lo scontro con l’esercito occupante,  a coordinarlo ed a renderlo efficace politicamente.
Ciò che rese tutto questo possibile furono diversi fattori, ma tre di essi influirono in modo determinante: la Cisgiordania e Gaza erano occupate direttamente dall’esercito israeliano; il gruppo dirigente dell’OLP, nell’esilio dorato di Tunisi, solo dopo alcuni mesi, riuscì a prendere il controllo della rivolta; le organizzazioni che, nei Territori Occupati,rappresentavano la galassia dell’OLP, con l’esclusione di Hamas, nei venti anni di occupazione avevano sviluppato un coordinamento  «di base » e una collaborazione politica che non era assolutamente caratteristica dell’OLP  «dell’esterno».
Soprattutto il terzo elemento portò alla nascita del Comando Nazionale Unificato, di fatto una direzione all’interno dei Territori Occupati che non si contrapponeva ufficialmente all’OLP, ma, che era comunque alternativa ad essa. Si era creato quello che si può definire un  «dualismo di potere» tra interno ed esterno. L’organizzazione interna consentì il coinvolgimento capillare della popolazione palestinese, sganciando le rivendicazioni dirette del popolo in rivolta dalle alchimie diplomatiche in cui era invischiata all’esterno l’OLP.
Questo  « dualismo di potere » era inaccettabile per la direzione dell’OLP a Tunisi che riuscì alla fine, a disarticolare l’auto-organizzazione interna, grazie anche a Israele che chiuse gli occhi sulla nascita (nel 1988) di Hamas e sulla sua crescita. Anche se,  è necessario sottolinearlo, la carta vincente per Hamas fu quella di presentarsi presso i palestinesi come alternativa all’OLP, di cui non mancava di sottolineare la corruzione.
Come  è noto, la prima Intifada  « finì  » con gli accordi di Oslo dopo sei anni di strenua lotta che la popolazione palestinese pagò con un prezzo umano altissimo.
Ma sicuramente la pantomima che si svolse sul prato della Casa Bianca nel 1993 non sarebbe stata possibile senza la prima Intifada.
Quegli accordi erano il risultato dell’incrociarsi di tre interessi: Israele aveva capito che, nonostante l’OLP avesse determinato lo  « svuotamento » dell’Intifada, doveva creare le condizioni perché una cosa simile non si ripetesse; l’OLP aveva bisogno come l’aria di un  «risultato» da esibire al proprio popolo; i Paesi imperialistici, in primis gli USA, avevano bisogno di un  «risultato» sul versante più pericoloso del Medio Oriente, soprattutto dopo il fallimento della prima guerra del Golfo nel 1991.
I sette anni di tregua che dividono la firma degli accordi di Oslo e lo scoppio della seconda Intifada nel 2000 rivelano in pieno alla popolazione palestinese l’intreccio degli interessi di cui prima si parlava.
La colonizzazione anziché essere fermata, o anche solo diminuita, raddoppierà.
Il rientro, con grande clangore di trombe, della direzione dell’OLP, in primis di Yasser Arafat, nei Territori Occupati, invece di essere il presupposto per la costruzione di una direzione politica in loco che avesse come obiettivo quello di arrivare ad uno Stato indipendente, si trasformò, in breve tempo, al contrario, nella crescita esponenziale di un apparato che, di fatto, aveva come compito prioritario il controllo dei palestinesi, perché gli obiettivi di Oslo, tutti favorevoli a Israele, si realizzassero.
Quando Ariel Sharon, nel 2000, con la piena collaborazione del governo allora presieduto da Ehud Barak, compì la provocazione, passeggiando, attorniato dalla stampa internazionale e dall’esercito, sulla Spianata delle Moschee, era chiaro che i palestinesi avrebbero reagito.
Quella che fu chiamata la seconda Intifada, però, aveva profonde differenze con la rivolta del 1987.
Le divisioni all’interno dell’apparato dell’ANP portarono alla militarizzazione della rivolta, con l’esclusione della popolazione. Al posto degli scioperi generali, le milizie dell’ANP che non avevano a disposizione che poche armi leggere, iniziarono a reagire agli attacchi dell’esercito israeliano, che, non facendosi sfuggire l’occasione, rispose usando, contro i fucili,tutte le armi a sua disposizione: dagli elicotteri di guerra ai carri armati. Il conto è presto fatto se si tiene conto che quello israeliano è l’esercito più tecnologizzato del Medio Oriente.
Il costo umano fu enorme e pagato molto più rapidamente che in precedenza.
La leadership di Arafat era sempre più in difficoltà: dal lato militare (cosa scontata visto la sproporzione dei mezzi in campo), dal lato politico, ancor di più, perché si sforzava di tenere insieme il «profilo diplomatico di Oslo» e, contemporaneamente, di apparire comunque a capo della rivolta. Cosa che ovviamente risultava impossibile.
La marginalizzazione delle masse portò lo scontro su un livello insostenibile, ossia quello militare.
Nel 2002 Sharon lancia l’operazione «Scudo di difesa» che altro non era che la reinvansione militare della Cisgiordania.
In seguito a questa operazione fu iniziata la costruzione del Muro di separazione, che, in realtà,  serve solo  ad appropriarsi delle terre palestinesi e alla messa sotto assedio di Yasser Arafat, nel suo quartier generale alla Muqata a Ramallah, dove rimase prigioniero e malato in pratica fino alla fine dei suoi giorni, nel novembre 2004.
Dopo la sua morte, l’ANP non ha alcun gruppo dirigente reale e credibile e, la scelta di investire nella successione, un burocrate scialbo come Mahmud Abbas, non fa che acuire le contraddizioni.
Contraddizioni che nel gennaio 2006 si traducono nella vittoria imponente di Hamas alle elezioni legislative.
Hamas, nel corso degli anni, si delineò come un’organizzazione assai pragmatica, ben lontana dall’estremismo confessionale che caratterizzava altre organizzazioni politiche di ispirazione islamica in altri Paesi arabi. In altri termini, essa portava avanti la lotta in nome di Allah, ma soprattutto contro Israele: infedele, ma anche occupante, o almeno in questo modo l’ha percepita la maggioranza della popolazione palestinese, soprattutto a Gaza.
Questo pragmatismo ha messo in sordina il suo carattere religioso. Anche perché, a differenza di altri Paesi arabi in cui lo scontro confessionale è più drammatico (l’Iraq), sia a Gaza che in Cisgiordania, l’omogeneità religiosa, ossia la stragrande maggioranza sunnita e una minoranza cristiana, ha permesso a Hamas di presentarsi innanzitutto e sostanzialmente ancora come l’organizzazione che privilegiava la resistenza agli accordi a tutti i costi.
Quando nel giugno 2007 forzando l’acceleratore dello scontro arrivò a cacciare gran parte dei dirigenti di Fatah, ancora presenti a Gaza, la situazione mutò radicalmente.
Questo mutamento consisteva fondamentalmente in due fattori: Hamas si trovava a gestire e non cogestire il potere, il blocco imposto da Israele, con la complicità esplicita di alcuni Paesi arabi, soprattutto l’Egitto, gli USA e l’Europa diventa totale.
L’ANP, dal canto suo, cerca di approfittare della divisione tra Cisgiordania e Gaza, ma nonostante tutto il conto è ancora sbagliato.
Da un lato, come abbiamo già detto, c’è l’incapacità di gestire in modo appropriato le risorse economiche di cui dispone, dall’altro, la volontà di non uscire dalla «logica di Oslo» porta l’ANP a restare, di fatto, estranea alla lotta quotidiana dei palestinesi di Cisgiordania: dal Muro all’espansione delle colonie, alla sempre maggiore violenza dei coloni e dell’esercito.
Quando poco più di un anno fa l’ANP accettò l’aggressione israeliana contro Gaza, sperando le risolvesse, così, un po’ i problemi, essa per non precipitare nell’abisso dei propri errori,cercò goffamente di fare marcia indietro, ovviamente, senza riuscirci.
E gli scontri di questo drammatico inizio di primavera lo dimostrano.
Non possiamo prevedere ora se si andrà verso una «terza Intifada». Certo, il clima resta incandescente e, come abbiamo tentato di spiegare, molto più confuso rispetto al passato.



Prospettive

Oggi Hamas è certamente più in difficoltà.

Da un lato, per le conseguenze dell’aggressione e dell’assedio, come rilevato sopra, ma anche, se non soprattutto, perché è chiaro che una «stabilizzazione religiosa» che le consenta di conservare il controllo della Striscia, non è scontata.
La galassia dei gruppi «jihadisti», che si riconoscono nella rete di Al Qaida e che, come obiettivo, hanno la costituzione a Gaza di un emirato islamico, cresce e cerca di approfittare del fatto che, dopo la devastante aggressione del 2008-2009, il governo di Hamas a Gaza sta cercando una via d’uscita politica, non solo militare.
Questo, ovviamente, passa anche attraverso il cercare di fermare i lanci di razzi contro Israele, cosa che avviene utilizzando una forza di sicurezza interna di quindicimila agenti, che su una popolazione di un milione e mezzo di persone non è poca cosa.
Hamas cerca anche di edulcorare il proprio pragmatismo introducendo leggi che impediscono alle donne di andare in moto e ai parrucchieri di avere clientela femminile.
Inoltre, per garantirsi i fondi economici ha imposto una tassa sulle «merci di importazione» che a Gaza significa solo una cosa: tassare i beni di prima necessità che riescono ad entrare nella striscia dai tunnel sotterranei che la collegano all’Egitto.
Sulle prospettive occorre essere prudenti perché, nonostante la divisione tra Gaza e Cisgiordania, è chiaro che, è una pura illusione, poter pensare che queste due porzioni del popolo palestinese abbiano destini separati.
Sia in Cisgiordania e che a Gaza vanno formandosi delle nuove aggregazioni politiche diffuse in cui confluiscono sempre più persone. Queste non si possono però confondere con quella che in Occidente amiamo chiamare «società civile»  che significa niente, sia qui che lì.
L’organizzazione di comitati in Cisgiordania che nascono sempre più spesso per lottare contro il Muro, i check-point, la colonizzazione, che non di rado vedono anche la presenza di israeliani; e, la nascita, a Gaza dei comitati per la lotta contro la «zona cuscinetto» imposta da Israele, una vasta zona frontaliera che di fatto impedisce a molti contadini di lavorare quelle terre, tra le più fertili della striscia, sono lì a dimostrare, ancora una volta, che nulla si può dare per scontato in Palestina.
Ma tutti questi sono segnali da tenere presenti per poter comprendere  se ci potrà essere o no una terza Intifada sulle orme della prima.
Per altro, i giovani palestinesi che, nel mese di marzo, si sono più volte scontrati con l’esercito israeliano non fanno certo riferimento organico a Hamas, né, ovviamente, all’ANP.
Certo, i giovani palestinesi non hanno alcun timore di scontrarsi con uomini in divisa, siano israeliani o palestinesi, ma è anche vero che, se non troveranno una sponda politica adeguata alle loro richieste, ma solo un rimaneggiamento di vecchi slogan, magari sotto mentite e «nuove» spoglie, i loro sforzi, e certamente le loro vite, andranno sprecati.

07/04/2010


IDENTITA’ E CONFLITTO di Cinzia Nachira
Il  caso Israeliano-Palestinese


Parlare del conflitto  israeliano-palestinese, il più complicato e complesso nel quadro medio-orientale, non è facile. 

Cinzia Nachira, nel suo nuovo libro, edito da Shahrazad edizioni e presentato a Modena,  il  25 febbraio scorso, presso la sala Circoscrizione del Centro Storico – Piazza Redecocca 1, ci mostra, in modo semplice e diretto, tutta la molteplicità delle basi fondamentali direttamente implicate nel problema.
L’obiettivo di Cinzia è quello di far riflettere su quanto è accaduto e sta accadendo in quella terra martoriata. I mezzi di comunicazione si limitano, infatti, ad offrirci unicamente notizie di cronaca, senza mai arrivare alle radici del conflitto.

Cinzia, invece, comincia dall’inizio.  Il suo saggio cerca di far comprendere la complessità delle identità degli attori protagonisti del conflitto ed a cogliere le motivazioni ed i contesti storici che sono alla base della guerra coloniale in Palestina, in particolare l’antisemitismo europeo.
Offrendoci una tale analisi, Cinzia Nachira, come sottolinea Michel Warschawski nella sua postfazione, ci aiuta a cogliere le linee possibili di frattura sulle quali possiamo basarci per far avanzare la pace, ossia il diritto.

Un ulteriore approfondimento di tale conflitto, attraverso il libro di Cinzia, è stato anche sviluppato dal Professore di Filosofia del diritto, Danilo Zolo, invitato a partecipare a questa presentazione.

 

La presentazione

Le domande del pubblico

 

 

 


 

 

“GAZA FREEDOM MARCH”

Mirca Garuti

 


  Il Coordinamento modenese
contro l’occupazione della Palestina e ass. ALKEMIA
Presentano:

Di ritorno dalla Gaza Freedom March  



Nell'anniversario della guerra “Piombo Fuso” circa 1.300 attivisti provenienti da tutto il mondo, hanno aderito alla manifestazione contro l'assedio israeliano della Striscia di Gaza   che rende impossibile la vita di 1.500.000 abitanti.
Il governo egiziano ha bloccato gli attivisti internazionali alla periferia del Cairo, proibendo loro di raggiungere Gaza.
Il governo egiziano conferma così la sua complicità nel blocco della Striscia di Gaza.

 

Interventi degli attivisti di ritorno dalla marcia per la libertà e l’autodeterminazione del popolo palestinese:

Mirca Garuti, Flavio Novara, Goretta Bonacorsi, Franco Zavatti 

Avv. Fausto Gianelli 

 


COME POSSONO ESSERE NEGATI GLI AIUTI AI BAMBINI PALESTINI

Lettera aperta alla stampa e alle autorità diplomatiche degli Stati Uniti d’America.
Dr. Mingarelli Mariano

 

Il Dipartimento di Sicurezza degli Stati Uniti ha il diritto di bloccare le transazioni e di tenere poi sequestrati i versamenti in denaro inviati, tramite la Western Union – Finint, a Betlemme per effettuare adozioni a distanza, finalizzate al sostegno di bambini di famiglie palestinesi molto povere?

Indubbiamente, qualsiasi persona di buon senso, a mio avviso, non può che rimanere stupita, se non disgustata e indignata di fronte all’assurdità di una tale disposizione, espressione di un comportamento inqualificabile, di totale inciviltà e disumanità, con la quale le autorità governative statunitensi hanno interferito arbitrariamente – e senza darne giustificazione alcuna – su un doveroso atto di generosità con il quale alcuni donatori di buon cuore hanno destinato un sussidio modesto, ma essenziale, a bambini poveri perché con esso fossero in grado di mitigare le privazioni di una vita precaria.

Ad ogni occasione pubblica, si parla di diritti dell’infanzia, di obblighi nei confronti dei bambini e della tutela del loro sviluppo, specie se soggetti alle violenze delle guerre, degli arbitri delle occupazioni militari, del degrado sociale delle comunità o delle istituzioni, ma poi – come nel caso in oggetto – si interviene in modo subdolo per creare barriere invisibili, ma invalicabili, laddove si tenta di creare ponti di solidarietà umana e si vanificano le prospettive di interventi indirizzati al sostegno di questi stessi diritti, che risultano essere così solo parole vuote nelle bocche afone dei potenti di turno!

Il fatto denunciato, che è all’origine di questa protesta, riguarda l’effettuazione dell’invio da parte mia di due commissioni di €.1795,00 l’una - per un totale, quindi, di €.3590,00 – ad un intermediario palestinese di Betlemme, al quale era stato affidato l’incarico di distribuire il denaro ricevuto a bambini espressamente indicati come destinatari di quote predeterminate.

Il denaro, messo a disposizione da alcuni donatori, è stato versato, per le operazioni di trasferimento, presso una sede abilitata della Western Union – Finint di Firenze nei giorni 3 e 4 del mese di agosto 2009.

Contrariamente ad ogni aspettativa, il denaro versato non è mai giunto a disposizione.

Dopo ripetute sollecitazioni e richieste di chiarimenti, in data 25 settembre 2009, la sede centrale di Milano della Western Union – Finint ha fatto sapere che le quote inviate, per le quali era attesa l’autorizzazione al trasferimento da parte della direzione competente con sede negli Stati Uniti, erano state invece trasmesse al Dipartimento di Sicurezza del governo americano, che avrebbe deciso in merito.

Da allora – ed è trascorso quasi un mese – non ho avuto più notizie sul destino dei €.3590,00 sequestrati e trattenuti indebitamente dal governo degli Stati Uniti.

Se non ci fosse il dramma dei poveri bambini destinatari di quel misero sussidio, quanto accaduto non potrebbe apparire che come una farsa che rasenta il ridicolo.

La grande potenza degli Stati Uniti d’America è preoccupata. Essa ritiene pericoloso l’invio di quella quota irrisoria di denaro a Betlemme in quanto potrebbe trasformarsi in una determinante stampella per il terrorismo internazionale!!!!

Se la tanto vantata “civiltà” degli Stati Uniti d’America non è capace di valutare in modo adeguato un problema di questo tipo, che cosa potremo aspettarci da lei quando si tratta di trovare la soluzione per problemi ben più sostanziali e di portata mondiale?

Firenze 19 ottobre 2009
Per contatti: mariano.mingarelli@tiscali.it 

ONU OSTAGGIO DELL’AMERICA E D’ISRAELE
IL TRADIMENTO DI ABU MAZEN

di  Mirca  Garuti


Rabbia, sconforto, dolore, sdegno sono i sentimenti provati da tutti i palestinesi e le varie organizzazioni palestinesi in Europa, alla notizia della decisione presa dall’Anp (la scorsa settimana a Ginevra) di accettare il rinvio a marzo 2010, deciso dal Consiglio Onu per i Diritti Umani, sulla discussione ed il voto del Rapporto Goldstone.

Il Consiglio per i Diritti Umani (Unhrc) nato nel 2006, ha sede a Ginevra ed è formato dai delegati di 47 stati membri delle Nazioni Unite, a rotazione per un periodo di tre anni. Il suo compito è quello di “supervisionare il rispetto e le violazioni dei diritti umani in tutti gli stati aderenti all’Onu ed informare l’opinione pubblica mondiale dello stato dei diritti umani nel mondo”. Il Consiglio ha quindi l’autorità per poter istituire “procedure speciali” di verifica, nel caso in cui riconoscesse violazioni di diritti umani in un paese. L’Unhrc può analizzare anche i comportamenti degli stati che non hanno aderito al trattato istitutivo, come Israele e Stati Uniti.
Il Consiglio aveva già condannato Israele a giugno 2006, sempre per violazione dei diritti umani contro la popolazione civile palestinese, provocando forti polemiche ed anche la condanna, da parte di Kofi Annan, all’operato del Consiglio. Da quel momento il Consiglio ha tenuto le distanze da Israele, ma, l’operazione “Piombo fuso” è stata troppo scandalosa, violenta per far finta di niente.

L’Onu, quindi, aveva affidato in aprile al giudice Richard Goldstone, ex giudice della Corte costituzionale sudafricana ed ex procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda, l’incarico di indagare sui crimini ed abusi subiti dalla popolazione civile di Gaza durante l’ultimo attacco degli israeliani (operazione “Piombo Fuso” 27/12/08 – 18/01/09).

L’inchiesta, decisa a gennaio scorso a Ginevra da una risoluzione Onu per i diritti umani, è stata anche condotta da Christine Chinkin, specialista di diritto internazionale, Hina Jilani, giudice della Corte suprema del Pakistan ed esperta per i diritti umani e Desmond Treves, colonnello irlandese in pensione. Goldstone, riferisce il Jerusalem Post, rimase “scioccato” da questa nomina, in quanto ebreo e membro del consiglio dei governatori dell’Università ebraica di Gerusalemme.
“Seguo con grande interesse ciò che avviene in Israele – ha dichiarato – e credo che potrò svolgere questo incarico con imparzialità – precisando che il suo team “indagherà su tutte le violazioni del diritto umanitario internazionale”.
Dopo cinque mesi di indagini, Richard Goldstone, dichiara nel suo rapporto, sia Israele che Hamas responsabili di avere commesso crimini di guerra, ma, con un distinguo: Israele è accusata di crimini contro l’umanità, Hamas, invece, di crimini di guerra per aver lanciato razzi contro i territori israeliani.
Secondo il rapporto, durante le tre settimane del conflitto, Israele ha “deliberatamente fatto un uso della forza sproporzionato”. La commissione afferma di avere delle prove che “indicano che Israele, a Gaza, ha commesso gravi violazioni del diritto internazionale e della legislazione sui diritti umani”.

La guerra, va ricordato, ha causato 1.366 morti (430 bambini e 111 donne, 6 giornalisti, 6 medici, 2 operatori Onu), 5360 feriti (1870 bambini e 800 donne), 16 strutture ospedaliere colpite (tra cui l'ospedale al-Quds distrutto). Sono state distrutte 3 scuole dell'Unrwa, 19 moschee, 215 cliniche, 28 ambulanze, 20 mila edifici e campi e serre.
Durante i 22 giorni di attacchi di cielo, terra e mare, Israele ha utilizzato 1 milione di kg di bombe (di cui il 5% ancora inesplose), di cui ADM (armi di distruzione di massa), e DIME (Dense inert metal explosion).

 

Sempre secondo il rapporto, le operazioni militari israeliane “sono state pianificate con attenzione in tutte le loro fasi, come attacchi deliberatamente sproporzionati e volti a punire, umiliare e terrorizzare la popolazione civile”. Ricorda, inoltre, che lo stato sionista si era rifiutato di cooperare con gli investigatori dell’Onu.
Il documento Onu, condannando anche Hamas, spiega che “lanciando missili e sparando colpi di mortaio sul sud di Israele, i gruppi armati palestinesi non hanno fatto distinzioni fra gli obiettivi militari e la popolazione civile e, senza un obiettivo militare, essi costituiscono un deliberato attacco contro la popolazione civile”.
Sia Israele che Hamas hanno quindi criticato il rapporto Goldstone: lo Stato ebraico ha accusato il giudice di avere “scritto un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto dei popoli all’autodifesa” e definito il rapporto “scandaloso, estremista e del tutto sganciato dalla realtà”; Hamas, invece ha parlato di”un rapporto politico, parziale e disonesto, perché mette sullo stesso piano coloro che commettono crimini di guerra e coloro che resistono”.

Goldstone, durante la conferenza per la presentazione del rapporto, ha chiesto, inoltre, al pubblico ministero del tribunale dell’Aja, che il dossier venga esaminato “il più rapidamente possibile”.
Robbie Sabel, esperto di legge internazionale, ha precisato che dal momento che sia Israele che Palestina non fanno parte della Corte per i crimini internazionali (Cci), gli ufficiali israeliani non possono essere accusati di crimini di guerra. Le possibilità di affrontare queste accuse rimarranno molto basse, finché Israele non diventi membro ufficiale del Cci o finché l’Anp non si costituisca come Stato e s’iscriva alla Corte. Il rapporto, comunque, potrebbe, nei paesi la cui legge permetta di citare in giudizio altri paesi, far sporgere denuncia contro lo stato d’Israele. Ma anche questa possibilità ha il profumo di una semplice utopia, se, infatti, si rammentano tutti i tentativi di processare, da parte della Corte Suprema belga, Ariel Sharon, per il massacro di Sabra e Chatila del 1982, sulla denuncia di 23 superstiti.


Il rapporto Onu, comunque, composto da 575 pagine basate su 188 interviste, oltre 10mila pagine di documenti e 1200 fotografie, risulta essere la testimonianza più approfondita sul massacro di Gaza.
Israele, oltre ad attaccare Richard Goldstone, non ha mai cercato di affrontare i contenuti del report. Supportata dal silenzio della comunità internazionale, ha cominciato una massiccia campagna contro la sottoscrizione del documento, cercando di far credere che la sua approvazione potrebbe limitare la capacità di combattere la guerra al terrorismo.
Il quotidiano israeliano Haaretz cita alcune dichiarazioni rilasciate da Goldstone, in un’intervista televisiva “Alcuni assassinii sono stati certamente intenzionali..Non vi sono stati errori nel bombardamento di fabbriche. L’intelligence israeliana disponeva di informazioni precise”.

Nonostante tutto questo, il Presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas) ha acconsentito al rinvio della discussione, al Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, del rapporto Goldstone.

Immediatamente la protesta. Alcune centinaia di persone hanno dato il via ad un corteo nel centro di Ramallah, scandendo slogan molto duri, dichiarando il rinvio come un “insulto al sangue dei martiri”. Lo sgomento è forte. Per la maggior parte dei palestinesi e delle varie organizzazioni per la Palestina si tratta di una “capitolazione” verso le pressioni statunitensi, in particolare del Segretario di Stato Hilary Clinton, basate sulla minaccia che l’approvazione del rapporto avrebbe spinto Israele ad abbandonare ogni possibilità di negoziato. Ma quale negoziato, se Israele continua a rifiutare di sospendere le costruzioni di nuovi insediamenti coloniali in Cisgiordania e le incursioni, quasi quotidiane, nella Striscia di Gaza?
La decisione del rinvio di Abu Mazen compromette anche l’accordo di pacificazione con Hamas che doveva essere firmato al Cairo il prossimo 18 ottobre. Il premier di Hamas, Haniyeh ha, infatti, dichiarato “La decisione presa dall’Anp di accettare il rinvio delle conclusioni del Consiglio sul rapporto Goldstone è irresponsabile e avventata. Questa decisione offende il sangue versato dai figli di Gaza durante il conflitto. Come possiamo sederci al tavolo con loro? Come possiamo firmare un accordo con persone che si comportano così?”.


Fa sorridere, si fa per dire, la decisione di Abbas, per cercare di salvare la faccia, di formare una commissione d’inchiesta sui motivi che hanno portato il suo governo a ritardare l’azione internazionale. Abbas essendo però il presidente dell’Olp non può aprire un’indagine sulle azioni del suo governo, quindi, sta solo cercando di non apparire il responsabile di un provvedimento che, per la sua importanza, può aver dato solo lui.
I motivi che hanno spinto Abbas a questa scelta sono dati principalmente dalle forti pressioni statunitensi, ma possono essere anche ricondotti a motivazioni commerciali o addirittura, sembra, ad un ricatto.

Richard Falk, relatore dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, infatti, ha rivelato che Israele avrebbe rifiutato di assegnare le frequenze alla seconda compagnia di telefonia mobile (il cui presidente è proprio uno dei figli di Abbas) in Cisgiordania, privando così l’Anp di un guadagno di 300milioni di dollari. Israele, inoltre, sempre da indiscrezioni, minacciava anche di congelare i dazi doganali e l’Iva incassata per conto dell’Anp.
Minacce quindi così importanti da considerarle prioritarie sulla memoria delle vittime di Gaza.

Il sito Shahab News riporta, da fonti che sembrano attendibili, la notizia di un presunto ricatto israeliano nei confronti di Abbas. Israele, infatti, avrebbe minacciato di rendere pubblico sia all’Onu che a tutti i media, un video nel quale è stata ripresa un’importante riunione, durante l’operazione “Piombo fuso”. Tre erano le persone presenti: Abbas, il ministro della difesa israeliano Barack ed il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni. Le immagini mostrano Barack titubante nel continuare l’offensiva, in quanto ha già creato troppi morti ed indignato l’opinione pubblica, ed invece, Abbas che lo incita a continuare per distruggere totalmente Hamas.
Non si sa ancora se questo video possa essere veritiero, ma, si sa che, mentre Israele massacrava Gaza, Abbas mandava i suoi uomini ad arrestare i militanti di Hamas in Cisgiordania.

Quale sia il motivo vero che ha spinto Abu Mazen a ritardare il rapporto Goldstone diventerà evidente nello sviluppo della situazione palestinese dei prossimi giorni o mesi.

La Libia, presidente di turno dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, aveva richiesto, con l’appoggio di Egitto, Sudan, Lega Araba e Palestina, una seduta straordinaria specifica sul rapporto Goldstone. Il rappresentante Usa ha fatto però sapere che “Washington non sosterrà alcuna decisione presa dal Consiglio di Sicurezza sul rapporto Goldstone e che il luogo appropriato per discutere della relazione è il Consiglio Onu per i diritti umani a Ginevra”.

Ancora una volta, quindi, le legittime aspettative del popolo palestinese sono state tradite, salvando i criminali israeliani.


 

 

“PROGRAMMARE IL DISASTRO"
La politica israeliana  in azione


di Michel Warschawski

  Presentazione del libro con l’Autore

 Nel corso della serata è stato presentato anche il libro: “Gaza: restiamo umani”
di Vittorio Arrigoni, cronache da Gaza nei giorni del massacro.

Con:
Michelangelo Cocco, giornalista de "Il manifesto".

Michel Warschawski:

Le domande del pubblico:

 Michel Warschawski fu tra i primi israeliani a rifiutare ripetutamente il servizio militare, e per questo più volte incarcerato.  Attualmente dirige l’Alternative Information Center di Gerusalemme.

 A cura di:
SINISTRA CRITICA e del Coordinamento modenese contro l'occupazione della Palestina

(19/03/09 Sala Ex Oratorio del Palazzo dei Musei, V.le Vittorio Veneto, Modena)


 
E … DOPO LA GUERRA A GAZA …

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Piena tutela legale ai soldati contro le accuse di “crimini di guerra”

Lo Stato di Israele fornirà tutela legale ai soldati che hanno combattuto nella guerra di Gaza contro eventuali incriminazioni da parte della Corte penale internazionale. Il Primo ministro Ehud Olmert ha dichiarato che "Ufficiali e soldati impegnati nell'operazione “Piombo fuso” devono sapere che sono totalmente al sicuro da tutti i tribunali e Israele aiuterà a proteggerli”. Olmert ha dato incarico a Daniel Friedman, ministro della Giustizia, di presiedere una commissione che coordinerà “gli sforzi di Israele per la tutela legale nei confronti di chiunque ha preso parte alle operazioni”. La censura militare israeliana ha già posto il divieto a rivelare l'identità dei leader delle unità militari che hanno combattuto nella Striscia di Gaza, nel timore che possano affrontare l'accusa di crimini di guerra. Amnesty International ha già definito “innegabile” l'uso di fosforo bianco nelle aree affollate di civili, in violazione della legge internazionale. Il Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha chiesto che i responsabili del bombardamento di edifici delle Nazioni Uniti possano venire chiamati a rispondere delle loro azioni. Otto agenzie umanitarie hanno chiesto al governo israeliano di indagare sulle conseguenze sui civili, descrivendo come “terrificante” il numero delle donne e dei bambini uccisi. Israele ha insistito che “è stato fatto il possibile per limitare le vittime civili, accusando Hamas di nascondersi dietro i civili per lanciare razzi nel sud di Israele”. Fonti mediche israeliane hanno fissato in 1.330 il numero dei morti e a 5.450 quello dei feriti.


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Ventidue giorni di genocidio a Gaza hanno fatto salire l'indice di gradimento verso il partito di destra Likud e il suo leader, Benjamin Netanyahu.

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Il prossimo 10 febbraio si svolgeranno, infatti, le elezioni parlamentari in Israele, e dai sondaggi diffusi dal quotidiano Maariv, il Likud otterrebbe "28 seggi" alla Knesset, mentre il partito di centro-destra Kadima "24", il Laburista “16” e e il fondamentalista religioso Shas "9".

1300 morti e oltre 5000 feriti palestinesi "offerti" dal laburista Ehud Barak, ministro della Difesa, e dalla ministra degli Esteri Tzipi Livni, leader di Kadima, all'altare delle elezioni israeliane sembrano non siano stati sufficienti per l'elettorato della "unica democrazia del Medio Oriente". Evidentemente, la maggioranza degli israeliani sembra privilegiare un politico in particolare, Netanyahu, che invoca da tempo una "guerra totale" contro la Striscia affamata e assediata, che rifiuta la creazione di un qualsivoglia stato-banthustan palestinese, e per il quale gli insediamenti, illegali, sono espressione dei "valori del sionismo".
In realtà, durante le tre settimane di crimini di guerra israeliani contro Gaza, i sondaggi si sono mostrati favorevoli a Livni e Barak, ma, evidentemente, l'effetto-morti è durato poco, e l'estremismo del Likud, con al suo interno un'ala di coloni oltranzisti, piace molto agli israeliani.
(26/01/2009 Peacereporter)



UNA DELEGAZIONE SVIZZERA A GAZA: “SIAMO SCIOCCATI !”
Una delegazione svizzera, che sta visitando Gaza, ha dichiarato di essere stata scioccata dall’immagine di distruzione causata dall’esercito israeliano durante l’aggressione contro la Striscia di Gaza, aggressione durata per tre settimane e che ha causato la morte o il ferimento di più di settemila cittadini palestinesi, nonché la distruzione di migliaia di case.
Anwar al-Gharbi, portavoce della “Campagna Europea Contro l’Assedio di Gaza”, da cui è stata organizzata la visita in collaborazione con l’associazione svizzera “Diritti per Tutti”, ha detto che la delegazione, che sabato 24 gennaio è potuta entrare nella Striscia di Gaza tramite il valico di Rafah, ha visto da vicino gli effetti della distruzione, recandosi presso l’ospedale al-Shifa e presso la sede distrutta del Consiglio Legislativo Palestinese.
Al-Gharbi ha affermato: «L’aggressione israeliana ha toccato le persone, le pietre e le piante, ed è quello che si vede girando per Gaza». Ha inoltre aggiunto: «Quanto hanno commesso le forze di occupazione nella Striscia di Gaza è un crimine di guerra, nel vero senso del termine».

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La delegazione composta da parlamentari svizzeri, On. Carlo Sommaruga, membro della Commissione Parlamentare degli Esteri, On. John Charles Rele, parlamentare e presidente dell’Ordine dei Medici, On. Antonio Hogoros, On. Josef Zisyadis, dal presidente dell’associazione “Diritti per Tutti”, da Anwar al-Gharbi, dall’avvocato Henry Jen loy e da due giornalisti svizzeri, vuole conoscere da vicino gli effetti della guerra israeliana sulla vita nella Striscia di Gaza.
In una dichiarazione alla stampa al-Gharbi ha detto: «La delegazione ha confermato di fare tutto il possibile per trasmettere al mondo esterno l’immagine della terribile distruzione di cui è testimone, rivelare i crimini dell’occupazione israeliana e premere per processare i capi dell’occupazione».
I deputati, durante la loro visita al CLP a Gaza, hanno ribadito il sostegno del Parlamento svizzero e dei parlamenti europei al CLP e il loro rifiuto di tutte le aggressioni nei confronti dei deputati palestinesi, di quelli detenuti, con in testa il Presidente del Consiglio Legislativo Aziz Dweik, e di tutti i deputati eletti democraticamente.



IL TERREMOTO ISRAELIANO A GAZA
 (PCHR)*

L' offensiva delle forze di occupazione israeliane (IOF) sulla striscia di Gaza ha reso il territorio simile ad una zona colpita da un terremoto pretendendo che i diritti civili e di proprietà di intere famiglie spariscono.

Più del 43% delle vittime sono donne e bambini.

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Interi servizi di molte aree sono dissolti. Le infrastrutture sono completamente distrutte. Centinaia di famiglie sono senza casa.

L'offensiva lanciata dalle forze di occupazione israeliane (IOF) sulla Striscia di Gaza, tra il 27 dicembre e il 18 gennaio 2009, ha causato distruzione totale in molti territori della Striscia di Gaza, come se fossero state devastate da un terremoto. Durante l'offensiva su Gaza, le IOF hanno impiegato il loro intero arsenale utilizzando le loro forze aeree, di terra e di mare. Alcune aree sono state quasi completamente rase al suolo, mentre molte abitazioni e edifici civili sono diventati "colline di polvere". L' offensiva delle IOF ha causato la morte di innocenti civili disarmati, compreso un vasto numero di donne e bambini. Tra le vittime sono incluse intere famiglie (per maggiori informazioni, consultare il comunicato stampa pubblicato dal centro palestinese per i diritti umani (PCHR) durante l'offensiva delle IOF sulla striscia di Gaza).
Dopo la ritirata delle IOF dalla Striscia di Gaza nella prima mattinata del 18 gennaio 2009, i volontari del PCHR hanno potuto osservare da vicino la crisi umanitaria causata dall'offensiva israeliana. Era ovvio che il loro intento fosse quello di eliminare qualsiasi elemento di civilizzazione presente nella Striscia di Gaza. Hanno deliberatamente e sistematicamente distrutto le risorse vitali facendo ritornare Gaza decenni indietro. Attraverso i dati e le statistiche che il PCHR ha raccolto, saranno mostrati tutti i crimini di guerra commessi dalle IOF contro i civili palestinesi e le loro proprietà. Il PCHR si avvale di un team qualificato di volontari e giuristi in grado osservare e documentare i danni reali causati dalle IOF durante la loro offensiva sulla striscia di Gaza.
La più vasta scala di distruzione ha avuto luogo nella città di Gaza e nella zona nord della Striscia. Nella città di Gaza le zone più colpite sono state: il quartiere di Tal al-Hawa, a sud della città, i quartieri di al-Zaytoun, al-Tufah e al-Shuja'iya, a est della città.
Invece le zone più colpite nella zona nord della Striscia di Gaza sono state: al-'Atatra, Jabal al-Rayes, Jabal al-Kashef e al-Twam. Il numero maggiore di vittime si è riscontrato in questi due governorati.

La tabella in basso fornisce dati sui morti e i feriti

 

 

 

Governorati di Gaza

 

Totale

% totale di morti e feriti

Zona Nord della striscia di Gaza

Città di Gaza

zona centrale della striscia di Gaza

Khan Yunis

Rafah

Numero totale dei morti

1285

--

462

533

157

83

50

Morti tra civili e membri delle forze di polizia non coinvolti nei combattimenti

1062

82.6%

 

 

 

 

 

Morti dei civili

894

69.6%

401

313

81

61

39

Morti tra i bambini

280

21.8%

125

105

21

16

13

Morti tra donne

111

8.6%

54

41

10

5

1

Totale dei feriti

4336

--

1914

1000

530

395

497

Bambini feriti

1133

26%

591

200

140

100

102

Donne ferite

735

17%

385

100

90

76

84


* Centro palestinese per i diritti umani
(26/01/09 infopal)

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GUERRA: IN NOME DELL’OCCUPAZIONE E DELLA COLONIZZAZIONE
Mirca Garuti

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Il 15 gennaio, mentre Bush si trova ancora in Medio Oriente per promuovere un discorso di pace tra Israele e Palestina, Gaza è sotto l’assedio dei carri armati israeliani. Non è in verità una situazione vera di guerra, perché non c’è una normale guerra tra due eserciti, ma vi è solo un esercito che interviene contro un popolo che ne subisce l’aggressione. Le forze d’occupazione israeliane hanno invaso la zona ad est del quartiere Az-Zaitun e Ash-Shujaiyah, ad est della città di Gaza, con più di 20 corazzati militari e 2 bulldozer, sotto la copertura aerea degli elicotteri. I bulldozer israeliani hanno anche distrutto molti terreni agricoli. I carri armati hanno bombardato la zona intorno alla fabbrica Al-Sawda. Alcuni soldati hanno preso il controllo di diversi tetti delle abitazioni civili, mentre altri impediscono il passaggio delle ambulanze per soccorrere i feriti. I bombardamenti dell'artiglieria e dell'aviazione israeliana hanno provocato la morte di 18 persone e una quarantina di feriti. Tra le vittime c'è anche Husam Zahhar, il figlio del leader di Hamas ed ex ministro degli esteri, Mahmoud Zahhar. "Questa è una conseguenza della visita di Bush, che ha incoraggiato il governo israeliano ad ucciderci", ha così dichiarato il leader di Hamas , subito dopo l’aggressione ad una conferenza stampa. "

Il dott. Mu’awiya Hassanin, direttore del pronto soccorso del ministero della sanità, ha dichiarato che le bombe utilizzate dalle forze di occupazione israeliane sono non convenzionali: chiodi a frammentazione, che strappano e bruciano i corpi delle vittime.

Questo 15 gennaio è stato, dunque, uno dei giorni più sanguinosi negli ultimi mesi e, quello che preoccupa di più, è, che è successo durante i cosiddetti “colloqui di pace”.

Cosa nascondono, quindi, tutti questi incontri? Dove si vuole arrivare?

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Il funerale delle 18 vittime è stato celebrato, in un clima di rabbia e la folla ha invitato la popolazione a continuare ed ad intensificare la resistenza contro le aggressioni dell’esercito d’occupazione. Il primo ministro del governo della Striscia di Gaza Ismail Haniyah, ha confermato, durante il suo discorso al funerale, che il popolo palestinese rimarrà ancorato ai propri principi e diritti. Ha rilevato, inoltre, che "l’occupante soffre come soffrono i palestinesi", ma che quest'ultimo "attende la libertà, la dignità e il martirio, al contrario dell’occupante che cerca solo di sopravvivere". Ha parlato anche della "gran differenza tra chi cerca la dignità e l’onore e chi accetta la vita umiliante. Tra chi si oppone alle aggressioni e chi attende i baci e prende in giro Gaza, che è sempre stata il ”cimitero degli “invasori”. Il riferimento di Haniyah è rivolto naturalmente alla dirigenza dell'Anp di Ramallah. Infine, Haniyah ha messo in guardia "i piccoli collaborazionisti che si trovano sulle strade e che forniscono le informazioni all’occupazione, a non proseguire nel loro lavoro", spiegando di "aver dato ordini precisi alle forze di sicurezza di ricercare e perseguitare i collaboratori e le spie". Fino ad ora sono stati arrestati più di 30 sospettati.

Gaza: un assedio infinito

La Striscia di Gaza si trova sotto feroce assedio israeliano e internazionale dall’estate dell’anno scorso. Nessuno può uscire o entrare: un milione e mezzo di esseri umani sono rinchiusi in una grande prigione a cielo aperto. Non si può chiamare in altro modo una piccola striscia di terra di circa 50 km per 7. Un pezzetto di terra minuscolo con una densità della popolazione altissima, 3.227 per km2. È circondata dal lato della terra da ciclopici muri o da filo spinato per tutta la sua estensione. Dal lato del mare, i suoi pescatori possono arrivare a 6/7 km dalla riva, oltre quella distanza, la guardia israeliana li respingerebbe a mitragliate.

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Nessuno può uscire dalla Striscia se non con permessi molto speciali. In teoria solo i malati per farsi curare, ma le decisioni sono così arbitrarie che, negli ultimi due mesi, sono morte 30 persone. O perché non hanno avuto il permesso, o perché non l’hanno avuto in tempo per richiederlo. È ormai normale, che i malati aspettino sotto il sole per molte ore senza un riparo, solo perché qualcuno ha deciso che quel giorno, la “frontiera” deve restare chiusa. Nessuno studente che voglia continuare o avviare gli studi all’estero può farlo. La linea di confine non è una frontiera perché, l’ingresso e l’uscita dipendono esclusivamente dall’esercito/polizia/”autorità” israeliana. I confini della striscia sono stati imposti, costruiti e ora sorvegliati da un’unica autorità, il governo israeliano. Nessun cittadino israeliano ha il permesso di visitare Gaza, non perché glielo impediscano i palestinesi ma perché è il governo stesso israeliano che lo impedisce “per protezione”, anche contro la loro stessa volontà. Nessuno dei medici ebrei israeliani di “Physicians for Human Rights” che desideravano visitare Gaza,  ha avuto il permesso di entrare. Nessun israeliano potrà avere dunque l’opportunità, qualora lo voglia, di vedere, di vivere l’esperienza dell’altro, di vedere la situazione in cui si vive ogni giorno a Gaza assediata.

Certo lo Stato glielo impedisce, ma, a tutti oggi, internet, quotidiani come Haaretz, a volte anche documentari trasmessi dalla TV israelita in ore notturne, permettono di conoscere i resoconti dei pochi che riescono ad entrare o delle associazioni che lavorano dentro il territorio occupato (come il Gaza Community Mental Health Programme).

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Una situazione vicino al collasso

Le condizioni igieniche-sanitarie, già disastrate, sono ora al collasso. I bambini sono denutriti. Mancano cibo e acqua. Le madri partoriscono figli malati e sottopeso. Gli ammalati muoiono per mancanza di medicine. Nel corso di questi ultimi mesi ne sono morti 72, ma in “attesa di decesso” ce ne sono centinaia di altri. Alle sale operatorie mancano ormai le attrezzature basilari e i gas anestetici per gli interventi chirurgici. I feriti sono sempre più, come le bombe “non convenzionali” (che violano, in pratica, tutti i trattati internazionali) lanciate dall’esercito israeliano sulla popolazione palestinese.

La Striscia di Gaza è vittima della “pulizia etnica” (ethnic cleansing) pianificata da Israele, in violazione di tutte le leggi umanitarie internazionali e delle risoluzioni delle Nazioni Unite. 

Dati generali:

Dal settembre 2000 ad oggi sono oltre 5.400 i palestinesi uccisi dall’esercito e dai coloni israeliani. Tra i morti ci sono un migliaio di minori, 370 donne e oltre 500 vittime di “omicidi mirati”.

Oltre 60.000 sono i feriti.

I detenuti sono 11.000, di cui 318 sono minori di 18 anni,  103 sono donne.

Israele controlla il 95% dell’acqua palestinese in Cisgiordania e Striscia di Gaza. 

Il 70% delle famiglie di Gaza vive sotto il livello di povertà. Il 42% vive in profonda povertà. Il livello più alto di miseria si concentra nelle province a nord di Gaza, 73%, e Khan Yunes, 75%. 

Il 19 gennaio il governo palestinese della Striscia di Gaza, guidato da Ismail Haniyah, ha invitato “la Repubblica Araba d'Egitto a prendere una decisione coraggiosa: aprire il valico di Rafah per far entrare i generi di prima necessità, salvare la vita dei feriti e curarli negli ospedali fuori della Palestina”.

Una ormai disastrosa situazione sanitaria

Il Ministero della Sanità della Striscia di Gaza, Dr. Medhat Abbas, a cui fanno capo 12 ospedali e 52 cliniche di primaria assistenza, il 20 gennaio, riportando la decisione presa dal governo israeliano di chiudere i confini della Striscia di Gaza, lancia un appello urgente alla comunità internazionale: “Le riserve di combustibile negli ospedali stanno scendendo di ora in ora, con il rischio che i generatori (d'emergenza) si possono fermare all'improvviso. Centinaia di pazienti sono destinati a morire entro breve, salvo che le forniture di combustibile siano immediatamente riprese.

Non vi è tempo da perdere. Ogni sforzo deve essere fatto per interrompere immediatamente quest’operazione israeliana. I reparti di neonatologia, i reparti per le cure intensive, le sale operatorie, reparti per i pazienti con insufficienza renale, i reparti di cardiologia, le sale parto si fermeranno entro breve”.

Infatti, come previsto, domenica 20 gennaio alle ore 20, un milione e mezzo di palestinesi si sono trovati completamente al buio!!

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Il governo di Hamas è stato costretto, infatti, a disattivare l’unica centrale termoelettrica di Gaza, che rifornisce circa il 30% del territorio, per la mancanza di carburante causata dal blocco totale dei varchi della Striscia. La popolazione è stata così colpita dalla rappresaglia dello Stato Ebraico agli attacchi dei razzi Qassam verso il sud del paese. Il leader politico di Hamas Meshaal si è rivolto a tutti gli stati arabi affinché potessero fare pressione su Israele per interrompere questo crimine sionista.

Un portavoce del ministro degli esteri israeliano accusa, invece, Hamas di avere creato uno stato d’emergenza “artificiale”, dal momento che Gaza continuerebbe a ricevere il 75% dei suoi regolari rifornimenti, solo per attrarre la “simpatia” internazionale.

Fonti mediche palestinesi in diversi ospedali della Striscia, hanno annunciato, il decesso di 5 cittadini palestinesi malati. La morte è stata causata dall'assedio e dalla chiusura dei valichi, che non hanno permesso a chi necessitava di cure, di recarsi all'estero.

I forni sono chiusi, il traffico delle auto bloccato, a causa della mancanza di rifornimento di combustibile.

Testimoni oculari hanno riferito che le forze d’occupazione hanno vietato l’ingresso a due camion carichi di medicine e di altri aiuti sanitari per la Striscia, nonostante le promesse di Olmert di permetterne l'entrata.

Khaled Radi, portavoce del ministero della sanità nella Striscia di Gaza, ha confermato che la situazione dei malati è disastrosa: la maggior parte di loro sono feriti degli ultimi bombardamenti israeliani, e se si dovessero fermare i generatori, sono a rischio di morte.

E, ha aggiunto che, "l’ospedale Ash-Shifa, il più grande della Striscia, ha una riserva che basta per un solo giorno, se lavora a pieno ritmo".

Il portavoce del Comitato internazionale della Croce Rossa ha dichiarato che stanno tentando di convincere Israele a riaprire le frontiere di Gaza almeno per gli aiuti e per il combustibile.

Ha, infine, proseguito: "Gli ospedali hanno ancora una riserva che non può durare più di due o tre giorni; se non sarà garantito altro carburante, potete immaginare cosa significherà per i malati".

La cronaca degli ultimi giorni

Il 23 gennaio, il numero dei cittadini morti per mancanza di cure adeguate era salito a 77. Una situazione che il popolo palestinese non poteva più tollerare e per questo ha deciso di assaltare il confine con l’Egitto. Testimoni oculari hanno riferito che, uomini armati hanno piazzato cariche esplosive sotto parti del muro, sul lato palestinese, a sud di Rafah, e lo hanno fatto saltare. L'esplosione si è sentita in tutta la città.

Il giorno prima, a mezzogiorno, centinaia di manifestanti palestinesi, in maggioranza donne, avevano protestato contro il proseguimento dell’assedio di Gaza. Avevano invaso il cancello principale ed erano entrati, per essere poi dispersi con la forza dalla polizia egiziana.

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Il ruolo dell’Egitto e la "Grande Gaza"

La polizia di frontiera egiziana ha cercato, in un primo momento, di contenere la rabbia, ma non si può fermare la disperazione di un popolo accumulata in più di sette mesi d’embargo, d’assedio e di violazioni del principale diritto umano: quello di vivere. Una marea, di disperati che a piedi, in macchina e a dorso di mulo, ha oltrepassato il confine alla ricerca di cibo, medicinali e di cose che erano ormai diventate proibitive ed introvabili.

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Rafah ora rappresenta la grande vittoria del popolo palestinese, che non si è mai rassegnato alla sua condizione e che continua a lottare per la sua libertà. L’Egitto in questo momento può apparire come la “terra promessa”, ma attenzione, può essere pericoloso. All’Egitto sta a cuore veramente la causa palestinese? Può esserci, forse, la possibilità che la Striscia di Gaza torni sotto il controllo egiziano?

Il consiglio di sicurezza dell’Onu, riunitosi in sessione d’emergenza, non è riuscito a trovare un accordo sul documento, proposto dalla Libia, che chiedeva ad Israele di aprire i valichi.

Il governo israeliano ha, infatti, in ogni caso, deciso di mantenere l'assedio alla Striscia di Gaza. Sarà concesso solo l’ingresso del gas per uso domestico e una quantità limitata di benzina per le ambulanze e per il funzionamento dei generatori elettrici degli ospedali.

Israele ha accusato, inoltre, il governo egiziano di quello che è successo alla frontiera con la Striscia di Gaza e di avere permesso una “libertà” ad un milione e mezzo di essere umani imprigionati da giugno dell'anno scorso. Il portavoce del ministero degli esteri israeliano, Ariel Mikel, ha dichiarato: "Siamo preoccupati per l'apertura dei varchi, che permettono ai palestinesi di uscire da Gaza e possono permettere facilmente a Hamas di fare entrare armi e terroristi attraverso l’Egitto". Mikel ha aggiunto che "la questione della frontiera è di responsabilità solo egiziana, secondo gli accordi siglati con Israele.

Dopo due giorni di libero transito, i cancelli si sono richiusi! La crisi è rientrata e, dunque anche i Palestinesi devono tornare a casa. Hamas ha raggiunto un accordo con le autorità egiziane per la chiusura del valico entro due giorni e l’apertura, poi, di un confine controllato, gestito dal partito islamico insieme a rappresentanti del governo di Ramallah.

Anche se il confine di Rafah funziona solo a senso unico, gli abitanti di Gaza sanno, di non essere soli. Infatti, le manifestazioni a sostegno della loro causa, si moltiplicano nei vari stati arabi (Egitto, Giordania, Libano). La protesta sta mettendo in seria difficoltà il presidente egiziano Mubarak, preso da due fuochi. Da un lato deve considerare il sostegno delle popolazioni arabe, comprese quelle egiziane e dall’altro, deve affondare la rabbia del governo israeliano.

Il 30 gennaio le guardie di sicurezza egiziane hanno ripreso il controllo della frontiera tra l'Egitto e la Striscia di Gaza, chiudendo, con filo spinato, i varchi aperti nel muro di confine con Rafah. La polizia egiziana ha chiuso 11 varchi aperti. Ne rimangono aperti due nei pressi dell'area "brasiliana" e a Tal As-Sultan.

Ora il movimento dei palestinesi è molto diminuito e nella Striscia, i rifornimenti di cibo scarseggiano di nuovo.

Analisti egiziani ritengono che l'attuale drammatica situazione palestinese ai confini con l'Egitto e il transito di centinaia di migliaia di cittadini verso il Sinai faccia parte del vecchio piano israeliano della "Grande Gaza": la regione del Sinai destinata ad ospitare i "poveri abitanti della Striscia". 

Il numero dei "martiri dell’assedio israeliano" alla Striscia di Gaza, ossia dei decessi per mancanza di cure, al 31 gennaio è salito a 87.

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Attacco a Betlemme

Anche Betlemme non è stata risparmiata. Il 28 gennaio infatti, è stata assalita dalle forze d’occupazione israeliane. Un vasto dispiegamento dell’esercito composto di 25 blindati, accompagnato da cani poliziotto e da unità speciali di soldati travestiti da arabi, ha invaso Betlemme, vicino alla Basilica della Natività. I militari hanno circondato la zona e perquisito varie abitazioni e gruppi di giovani palestinesi hanno poi cercato di respingere l’invasione. Un adolescente palestinese di 17 anni è stato ucciso. Le forze d’occupazione hanno anche sequestrato diversi giornalisti, imprigionandoli all’interno di un negozio, per impedirgli così di seguire quanto stava succedendo. La loro azione ha avuto successo, questa notizia infatti, non è apparsa su nessuna televisione o giornale; è stata riportata solo sul sito www.infopal.it

Le ricorrenze

A fine gennaio del 2008 si celebreranno le giornate della “Memoria” istituite per ricordare, affinché non si debba mai più ripetere per nessuno, l’Olocausto e i 60 anni della creazione dello stato d’Israele.

Quello che m’indigna è che, mentre si procederà nella celebrazione di queste ricorrenze, nessuno invece si soffermerà, anche per solo un attimo, a considerare che sono sessanta anni di sofferenze, di privazioni, di morte, di catastrofe (nakba).anche per il popolo Palestinese.

Cosa c’è dunque da celebrare? Quando l’esistenza di un popolo è basato sulla non esistenza di un altro, non ci potrà mai essere una vera democrazia, una vera pace, un mondo uguale per tutti.


Campagna per Gaza: il 24 febbraio spegniamo le luci

vi invitiamo a spegnere le luci solo per 20 minuti

 dalle 20 alle 20,20

La Campagna è promossa dalla Federazione delle organizzazione islamiche in Europa


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