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Documenti di approfondimento » Qualcuno mi spiega perché protestano gli studenti?  

“Qualcuno mi spiega perché protestano gli studenti?”
di Tiziana Nicolini


E’ quello che una mia amica chiedeva tramite un post sul suo profilo facebook, leggendo il quale mi sono ritrovata anch’io a non capire molte cose, tra cui anche il perchè migliaia di studenti e ricercatori sono scesi in piazza e saliti su tetti e monumenti.
Ho cercato nei giornali dove già in prima pagina ho trovato scene di guerriglia (anzi un’unica scena riportata sistematicamente sulla maggior parte delle testate, con riferimenti a luoghi e tempi discordanti) tra forze dell’ordine e studenti arrabbiati, con facili paragoni ai fatti del ’68.
Indubbiamente migliaia di studenti e di ricercatori sono in questi giorni insorti spinti dalla situazione ogni giorno più angosciante, ma per cosa di preciso?
A favore o contro cosa?


La situazione in cui si trova l’università italiana è così da decenni e tutti riconoscono la necessità di una riforma che ne modifichi lo stato attuale, quindi perché protestare contro e non proporre solo modifiche alla proposta dell’attuale ministro?

Il problema di fondo dell’università italiana è comune a quelle istituzioni dove l’unico metro di valutazione è l’anzianità.
Indubbiamente accanto a migliaia di docenti che fanno il loro lavoro con passione e competenza, ve ne sono tanti altri privi a volte di entrambe, ma non vi è alcun modo di prendere provvedimenti contro di questi. Del resto considerando solo l’anzianità, non c’è modo di premiare chi opera bene e penalizzare chi opera male.
Quello che servirebbe è un ripensamento complessivo delle modalità di spesa; un modo di misurare e valutare socialmente la qualità degli insegnamenti e delle attività di ricerca; creare un sistema dove sia il merito ad essere premiato e il demerito riconosciuto.

La Gelmini ha affrontato le tre necessità, ma con quale effetto sui diretti interessati?

Il perché gli studenti e i ricercatori protestino non  può essere compreso solo leggendo i giornali e vedendo la televisione, ma un elemento certo è che  non tutti sono arrabbiati per gli stessi motivi.
Che non tutti i docenti sono uguali è un dato di fatto, e se non hanno una vocazione all’insegnamento e alla ricerca sicuramente non hanno alcuno stimolo a migliorare la qualità del proprio lavoro, soprattutto una volta raggiunto il grado massimo della carriera; quando si è in una posizione che non verrà più messa in discussione da nessuno, perché ci si dovrebbe impegnare di più?

La riforma introdurrebbe l’obbligo per i docenti di certificare la loro presenza a lezione e di portare a 350 le ore di didattica (comprese quelle al servizio per gli studenti), ma tale aumento di presenza potrebbe essere aggirato unificando corsi e sostituendo ore effettive di lezione con attività didattiche alternative. Già oggi molti docenti intergrano le attività classiche con altre definite “formative”, che vedono gli studenti uditori  di convegni, o prestatori d’opera gratuita presso qualche istituzione consorziata.
Diversa è la condizione che si troverebbe a vivere un docente scrupoloso, per il quale ci sarebbe un aumento esponenziale dell’impegno didattico non solo a causa dell’aumento delle ore richieste dal ministero, ma anche per la modificazione sostanziale del ruolo del ricercatore - per il quale la didattica non sarebbe più un’attività quotidiana – e per l’aumento di mobilità lavorativa possibile per tutto il corpo docente.

La nuova strutturazione contrattuale ridisegnerebbe i compiti e le modalità di reclutamento dei ricercatori; le borse di studio post-dottorali e la docenza gratuita non sarebbero più permesse, quindi i ricercatori verrebbero inquadrati come lavoratori a tempo determinato per la durata di 3 anni ( rinnovabili per ulteriori 3) al termine dei quali l’università potrà verificare la validità del ricercatore prima di assumerlo come associato a tempo indeterminato.
Per favorire la mobilità del personale verrebbe poi introdotta la possibilità di ottenere fino a 5 anni di aspettativa per andare anche nel settore privato.
In questi casi – non essendo più possibile la docenza a contratto o gratuita -  su chi ricadrebbe la didattica?

Come si dovrebbe evitare la sospensione di un insegnamento?
Questi sono aspetti che verrebbero regolamentati in un secondo momento, con tempi e modi da definire, e nell’attesa ci si affiderebbe alle decisioni dell’attuale corpo docente, che verrebbe anche incaricato di partecipare alle stesure dei regolamenti interni conformi alle richieste ministeriali.

Considerando ciò, anche se pieno di vocazione alla didattica e di spirito di sacrificio, perché un docente al limite dell’età pensionabile dovrebbe correre il rischio di non veder corrisposta immediatamente la liquidazione (nel caso di richieste di Tremonti di ulteriori tagli sugli statali) e non dovrebbe approfittare di un’ultima finestra temporale che gli permetterebbe di uscire dal mondo accademico senza rinunciare a studi e attività di ricerca presso altre istituzioni ?
Per chi ha il privilegio di avere il calcolo pensionistico basato sul vecchio modello retributivo l’andare in pensione riduce solo minimamente la cifra dell’ultimo stipendio; a volte il potere d’acquisto aumenta notevolmente grazie alla riduzione delle spese legate agli impegni obbligatori ( gli spostamenti,il vivere lontano da casa, il delegare ad altri compiti che ora si possono svolgere autonomamente…). Non bisogna poi dimenticare l’alto numero di esistenti e “nuove” università private riconosciute (e sostenute con fondi indiretti dalla nuova proposta di legge) dove trovare possibilità di  collaborazioni anche solo nominali, per far aumentare il prestigio dell’offerta alternativa.

Queste uscite dal mondo accademico ufficiale avrebbero sicuramente delle ripercussioni non solo sui docenti rimasti, ma anche sulla struttura dei corsi, soprattutto nelle piccole facoltà già a rischio di unificazione per vicinanza geografica in ambito regionale.
Nella proposta Gelmini si introducono - come strumenti per abbattere i costi e ottimizzare la didattica e la  ricerca – i concetti di “federazione” tra atenei vicini in ambito regionale e di “unificazione” di settori scientifico-disciplinari, al fine di eliminare microaree (spesso nate solo per logiche di potere). Analogamente , in modo da evitare strutture troppo pesanti e inefficienti, viene posto a 12 unità il limite massimo di facoltà  per ogni ateneo.

Ma, a chi spetta definire concretamente il termine vicinanza?
E chi disegnerà i nuovi atenei nati dalla separazione delle facoltà?
Come verranno gestite le ricerche interdisciplinari se le facoltà non saranno più nello stesso ateneo?

Sicuramente i ricercatori avranno altre preoccupazioni prima di dover affrontare l’interdisciplinarietà della ricerca.
Il decreto Gelmini introdurrebbe il vincolo della conferma – al termine del periodo contrattuale a tempo determinato - per i soli ricercatori meritevoli, ma non è stata data alcuna specifica sui criteri di valutazione, né tanto meno viene indicato chi si occuperà di effettuare le valutazioni.
Una valutazione positiva sarà inoltre necessaria anche per ottenere il riconoscimento degli scatti di stipendio per i soli “professori migliori”.
Al momento viene identificata solo l’esistenza di un “nucleo di valutazione” composto anche da membri esterni all’ateneo a garanzia di una valutazione oggettiva e imparziale, ma non chi selezionerà tali membri che condizioneranno anche l’assegnazione dei fondi ministeriali.
In ogni caso non risulta così urgente definire le modalità di assunzione/promozione come richiede la riforma, infatti ci sarebbe comunque il blocco delle assunzioni almeno per i prossimi 3 anni (o anche 6). Se a questo blocco (per i nuovi professori associati) sommiamo la riduzione fisiologica dell’organico a causa dei pensionamenti (accelerati anche dalle scelte personali dei pre-riforma), vediamo concretizzarsi l’aumento di lavoro per i docenti rimasti.

Ulteriore elemento da non sottovalutare è che i nuovi ricercatori saranno tenuti a svolgere il solo lavoro di ricerca - l’unico considerato in fase valutativa almeno per coloro che avranno sottoscritto un contratto a tempo determinato - mentre per “gli altri” ci si affida nuovamente alle decisioni delle singole facoltà.

Ma chi sono “gli altri” ?
Quale sarebbe il futuro per gli attuali ricercatori a tempo indeterminato?

Nella non chiarezza di molti aspetti, una almeno sembra la certezza per tutti: sulle risorse destinate all’università gravano e graveranno ancora a lungo i tagli delle precedenti finanziarie, per cui non ci sono e non ci saranno, per molto tempo, i soldi nelle casse.
Mancano i fondi per promuovere a ruolo di associato gli attuali ricercatori a tempo indeterminato, mentre quelli che seguirebbero il nuovo percorso vivrebbero il periodo dei 3 (+ 3) anni sotto continuo stress da valutazione e in una costante condizione di precarietà, che con le previsioni di bilancio attuali porterebbe alla loro uscita dal mondo dell’università per mancanza della copertura finanziaria. Anche se venissero trovati i fondi per promozioni ed assunzioni, si troverebbero comunque di fronte a grandi incertezze legate alle modalità di valutazione, ancora lontane dall’essere dettagliate.

E nel frattempo?

L’unica  possibilità che ha al momento un ricercatore è quella di ampliare il proprio curriculum con tutti i possibili elementi valutativi di una futura logica, per cui è imprescindibile impegnarsi in: docenza; progetti sperimentali; pubblicazioni con visibilità internazionale; collaborazioni esterne con istituzioni pubbliche e private; ricerca pura.
Tutto ciò ovviamente senza gravare ulteriormente sui bilanci dipartimentali, ma contribuendo alla raccolta fondi anche attraverso la creazione di corsi a pagamento per categorie professionali (per aspiranti: commercialisti, avvocati, promotori finanziari, guide turistiche, traduttori… ) in modo da ottenere fondi per il dipartimento (e non destinati direttamente alle proprie ricerche).
Della distribuzione dei fondi ai dipartimenti si occupa anche la riforma; nel caso dei fondi ministeriali l’assegnazione avverrebbe in base alla qualità della ricerca e della didattica, tenendo conto delle valutazioni provenienti dal nucleo valutativo e direttamente dagli studenti.

Già, esistono anche gli studenti!

In tutta questa decentralizzazione delle decisioni, gli studenti sono gli unici che vivrebbero una controtendenza; la gestione dei fondi dedicati allo studio verrebbe centralizzata attraverso la creazione di un fondo nazionale che gestirebbe in modo uniforme le risorse. L’erogazione sarebbe però prevista solo sotto forma di “borse per merito”, ovvero: i soldi verranno distribuiti solo dopo che uno studente ha sostenuto le spese in modo autonomo (almeno) per un intero anno accademico.

Ma allora: perché protestano gli studenti?

In fondo, quelli che fossero in grado di sopportare il peso economico, potrebbero far affidamento su: una didattica non garantita che comporterebbe maggiori difficoltà nella preparazione degli esami, con conseguente ripercussione sulle valutazioni finali ( fondamentali per eventuali borse di studio); tasse sempre più alte; docenti sempre meno disponibili (causa aumento degli impegni non solo di didattica ma anche burocratici); possibilità di spostamento di sede a causa di unificazioni o  soppressioni dei corsi.

Alla condivisibile volontà di eliminare logiche baronali, corruzione e spreco di fondi pubblici dall’università italiana, la riforma Gelmini risponde, proponendo articoli vaghi che hanno bisogno di integrazioni successive di decreti attuativi o leggi delega.

Questi decreti attuativi – che con la crisi di governo verrebbero rimandati ad altra maggioranza – dovrebbero dettagliare concretamente i punti su cui il Ministero ha costruito la sua propaganda: i criteri di valutazione degli atenei (didattica e ricerca) e le modalità di distribuzione dei fondi e delle competenze, aspetti nevralgici che toccano il cuore del progetto di legge ma sui quali non è aperta alcuna forma di dibattito, e soprattutto non è possibile conoscere in anticipo le linee guida che seguirà il legislatore.

 [Ecco perché si può solo protestare e non chiedere modifiche!]

Di estrema criticità sono poi le norme che prevedono l’assegnazione al Senato Accademico del solo compito di avanzare le proposte di carattere scientifico, delegando al Consiglio d’Amministrazione (CDA) la responsabilità delle spese. Per  introdurre responsabilizzazione e competenza, il legislatore ha indicato la presenza di membri esterni almeno pari al 40%, in modo analogo a quanto fatto con i membri del nucleo di valutazione.
Inoltre la scelta del Rettore (con la carica limitata a 8 anni) non sarà limitata ai soli docenti di prima fascia dell’ateneo, ma viene reso eleggibile “tra i professori ordinari in servizio presso le università italiane”.
Certo la presenza del nuovo codice etico potrebbe risolvere legami d’interesse e parentele interni all’ateneo, ma nulla prescrive in merito ad eventuali scambi di membri esterni e di Rettori, per i quali potrebbero essere previsti anche poteri di selezione dei membri del CDA.
Con le nuove norme il CDA diviene di fatto l’unico con potere decisionale che delibera sia in materia economica e sia su didattica e ricerca.
Il Senato Accademico è stato infatti liberato dalle responsabilità finanziarie, ma contemporaneamente svuotato di fatto delle competenze sulla didattica e sulla ricerca, temi sui quali “formula pareri e proposte”. L’intera comunità accademica (studenti, docenti, ricercatori e personale) è privata quindi del luogo di rappresentanza decisionale nell’Ateneo ed è vincolata solo alle scelte del CDA.
Ulteriore segnale di preoccupazione è il fatto che le valutazioni degli atenei rischiano di essere esclusivamente basate su parametri quantitativi di bilancio - e non qualitativi – aggravata dalla  considerazione che la nuova riforma richiederebbe la pubblicazione dei bilanci - per una chiara gestione finanziaria - introducendo l’eventuale commissariamento in caso di dissesto.

Tra le numerose norme che regolano la formazione del CDA va ricordata quella che specifica per un membro la non appartenenza ai ruoli dell’ateneo nei tre anni precedenti il mandato e per tutta la durata dello stesso; quindi di fatto si richiede che siano membri esterni. Il numero è fissato solo nel limite minimo, rendendo possibile che gli esterni stabiliti dagli statuti possano essere molti di più rispetto agli altri membri.
La provenienza da aziende, istituzioni o enti locali mette poi seriamente a rischio l’autonomia didattica e di ricerca dell’ateneo. Non essendo specificata la modalità con cui selezionare gli esterni (e in generale tutti i membri del CDA) c’è il rischio che gli statuti possano prevedere la nomina da parte del Rettore degli stessi, aumentandone notevolmente i poteri di fatto su un CDA “controllato”.

In questo panorama tutte le scelte sarebbero subordinate alla politica di bilancio e non agli obiettivi didattici, formativi e di ricerca, e in un periodo dove non ci sono fondi e non si ci si fida della politica, è difficile non essere (almeno) solidali con chi è in prima linea a protestare.

16/12/2010

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