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Documenti di approfondimento » Sindrome Internazionale  

La “nuova” sindrome internazionale

Cinzia Nachira

In un anno di presidenza Obama la situazione internazionale non è cambiata più di tanto se non per delle intenzioni espresse in molti discorsi e non mantenute.
Iniziamo dalla fine.
Il giorno di natale un giovane nigeriano, Umar Farouk Abdulmutajab, figlio dell’alta borghesia di quel Paese sale su un volo Delta diretto da Amsterdam a Detroit con un carico di tritolo negli indumenti intimi tale che, se fosse riuscito ad esplodere, avrebbe provocato una strage.
Umar Farouk Abdulmutajab riesce a superare i tanti controlli dell’aeroporto olandese senza che nessuno rilevi il suo carico, né le macchine né gli addetti ai controlli. Forse per l’inesperienza, forse per un caso il suo obiettivo, per fortuna, fallisce. L’attentato non ha luogo.
A poche ore dal suo arresto una serie di dati emergono: il suo nome era da tempo stato segnalato all’intelligence statunitense e non da qualche “pentito” ma dal padre, diplomatico nigeriano.
È subito chiaro che, ancora una volta, il sistema di sicurezza statunitense e internazionale ha miseramente fallito.
Il presidente USA punta il dito contro i vertici della CIA. L’episodio ha il sapore della beffa.
Ma immediatamente, grazie alle rivelazioni dell’attentatore fallito dopo il suo arresto, Barak Obama dichiara nel discorso alla nazione che lo Yemen, Paese lacerato da una guerra interna annosa e con un governo che controlla ben poco, insomma un tragico incrocio tra l’Afghanistan attuale e la Somalia, dove Umar Farouk Abdulmutajab dice di essere stato addestrato da una cellula di Al Qaida, deve “pagare”.
Un altro Paese “fantasma”, del continente africano attraversato da crisi e guerre civili terribili, emerge agli onori dell’attenzione internazionale come “esportatore” di terrore, come nuova dimora per i terroristi integralisti dopo l’invasione dell’Afghanistan. Quindi, uno dei Paesi più poveri del mondo e dove il caos è già di casa, ma dove il governo ufficiale è uno stretto collaboratore degli Stati Uniti, dovrà, secondo le intenzioni del presidente statunitense essere il “nuovo fronte” della sempiterna guerra contro il terrorismo.
Guerra al terrorismo che riemerge nei discorsi di Barak Obama, appena edulcorata, come all’epoca della presidenza Bush II.
In Occidente chiaramente c’è chi esulta alla “nuova” formula obamiana, che sembra fagocitare la filosofia di vita che lo stesso Barak Obama aveva enunciato fin dai discorsi durante la campagna elettorale che alla fine l’ha visto vittorioso.
In Occidente, come altrove, c’è chi invece si dibatte in enormi difficoltà per aver totalmente, o quasi, delegato al Presidente nero la soluzione di tutti i problemi che l’era Bush II aveva lasciato in eredità all’umanità: dalla guerra, al clima, all’assenza (e non solo negli Stati Uniti) di quel minimo di walfare state che consenta una vita appena dignitosa ai più, alla soluzione della crisi economica mondiale che si abbatte sempre peggio su molti Paesi.
Per chiarire: non si tratta, qui, di sostenere che ora Obama si è trasformato in un Bush III. Le differenze di necessità restano tutte. Anche se queste riguardano evidentemente più l’interno che l’estero.
È evidente che dopo la vittoria per la riforma sanitaria, che renderà appena meno feroce il sistema sanitario statunitense, Umar Farouk Abdulmutajab offre agli oppositori interni di poter tornare sul loro terreno più agevole e gradito: la sicurezza.
È evidente che, anche se per motivi che nulla hanno a che vedere con la riforma interna, in Europa molti sono coloro pronti a salire sul nuovo carro della nuova guerra contro lo Yemen, a breve, e contro la Somalia più a lungo termine.
Come, inoltre, se le potenze imperialistiche fossero estranee ai disastri di questi due Paesi, come di molti altri.
La nuova ondata di panico internazionale sta a dimostrare che la “sindrome dell’11 settembre 2001” è tutt’altro che superata.
Tanto che è sufficiente che un uomo, per poter trascorrere insieme alla fidanzata gli ultimi minuti prima che lei parta, attraversi controcorrente il varco d’uscita dagli imbarchi (incustodito), entrandovi, a Newark uno degli aeroporti di New York, a determinare il blocco totale di migliaia di persone. Per altro sfuggendo per lunghe ore al fermo.
Le immagini giunte da Newark hanno offerto una chiara dimostrazione della illogicità del panico: migliaia di persone pigiate in uno spazio che in quelle condizioni diventava una trappola mortale. Passeggeri già imbarcati costretti a scendere e ripetere la via crucis dei controlli personali.
Quattro ore in cui se in quell’aeroporto scoppiava accidentalmente un incendio le dimensioni della strage sarebbero state incalcolabili.
Quattro ore in cui se a qualche persona veniva un malore faceva in tempo a morire prima che i soccorsi potessero farsi largo in quella ressa incredibile.
Quattro ore che hanno dimostrato che se invece di un caso fosse stato un piano di attacco gli attentatori avevano a portata di mano migliaia di vite umane, come bersaglio fisso.
Quattro ore in cui si è dimostrato che a volte la cura può essere ben più dannosa del male.
Il fallito attentato di Natale e ciò che è accaduto a Newark, in maniera più caotica che mai, rimettono in cima alla lista delle preoccupazioni di chi voleva cambiare il mondo e anelava a giungere all’armonia cosmica, la nostra preziosa incolumità.

Obama fa il mea culpa per non perdere l’equilibrio…assai precario

Nelle ore immediatamente successive al fallito attentato sul volo Delta, Obama si presenta all’opinione statunitense e mondiale, scuro in volto, per annunciare che la “sicurezza” statunitense ha fallito e, lascia intendere, vi sarà una dura resa dei conti con le varie agenzie di intelligence.
Ma l’affare risulta più complicato. È evidente che in molti dell’establishment, militare e non, statunitense puntano a far pressione sul Presidente perché Guantanamo non venga chiusa.
È altrettanto evidente che il prezzo che Obama paga è quello di assumersi le responsabilità. Dopo l’impunità offerta ai torturatori di Guantanamo, questo è il passo più pesante che Obama fa per evitare uno scontro diretto con tutta la rete di interessi (economici, politici e militari) che negli anni dell’era Bush II sono cresciuti e si sono rafforzati da tutti i punti di vista.
Inoltre, dopo le prime dichiarazioni durissime contro lo Yemen che lasciavano intravedere, a breve-medio termine, l’apertura di un nuovo fronte e dopo il coup de théâtre della chiusura di alcune ambasciate occidentali in quel Paese, per prima quella statunitense, c’è un “nuovo” colpo di scena, che molto assomiglia ad una frettolosa marcia indietro.
Dopo un’offensiva lanciata dal governo yemenita nelle zone in cui vi sarebbero le basi di addestramento di Al Qaida, le ambasciate occidentali (inclusa quella statunitense) riaprono e viene smentito che gli USA stiano organizzando un surge in Yemen…
Tutta questa girandola ha tre motivi di fondo: in Afghanistan le potenze occupanti, in primis  gli Stati Uniti, sono in forte difficoltà nonostante l’aumento già avvenuto di truppe e quello preannunciato in dicembre. Quindi, gli Stati Uniti, non possono permettersi un nuovo fronte in Yemen, che a catena si trascinerebbe anche l’intera penisola arabica.
In secondo luogo, il governo yemenita non può rinunciare agli aiuti economici e militari statunitensi e quindi cerca di dimostrare il proprio impegno. Anche se poi, si dice pronto a “dialogare con Al Qaida se questa depone le armi”. Il primo passo per annunciare, come in Afghanistan con i Talebani che si è pronti a negoziare, purché ci sia qualcosa che permetta di salvare la faccia.
In terzo luogo, fin dalle prime ore successive all’annuncio di Obama che lo Yemen diventava il nuovo nemico in Europa, con l’eccezione della Gran Bretagna, si è molto poco convinti che l’apertura di un nuovo fronte sia possibile.
Ancora una volta quegli spiragli che sembravano essersi aperti nella governance globale con l’elezione di Barak Obama, si rivelano essere effetti di fata Morgana.
L’apertura del secondo anno di presidenza Obama alla Casa Bianca, quindi si apre con la rimessa al primo posto della teoria secondo la quale la nostra sicurezza ed incolumità è l’unico parametro possibile con cui misurare la vivibilità del pianeta.


Il mondo dopo il premio Nobel per la pace

Incolumità, però, che non sarà preservata se non si giungerà ad una vera svolta.
È questo il vero inceppamento degli sforzi e delle teorie di Barak Obama e dei suoi incondizionati ammiratori.
Aveva, probabilmente, ragione quel giornalista statunitense che il giorno in cui fu annunciato che Obama era insignito del Nobel, disse che il Presidente avrebbe fatto meglio a rifiutare.
Obama non ha rifiutato, anzi fin dal discorso alla consegna del premio ha chiarito:

Ma forse il problema maggiore è che io sono il comandante in capo di una nazione impegnata in due guerre. Una di queste guerre sta lentamente esaurendosi. L’altra è un conflitto che l’America non ha cercato, un conflitto a cui prendono parte insieme a noi altri quarantatre Paesi, compresa la Norvegia, nel tentativo di difendere noi stessi e tutte le nazioni da ulteriori attacchi.
Ciò non toglie però che siamo in guerra e che io sono responsabile del dispiegamento sul fronte, in una terra lontana, di migliaia di giovani americani. Alcuni di loro uccideranno. Alcuni saranno uccisi. Per questo vengo qui con l’acuta consapevolezza di quale sia il costo di un conflitto armato, carico di difficili interrogativi sul rapporto tra guerra e pace e sui nostri sforzi per sostituire la prima con la seconda.

In questo passaggio è esplicito il non-superamento del concetto di fondo. L’unico parametro sono le vite occidentali, le altre, per parafrasare un titolo di un film molto noto «le vite degli altri», sono rilevate solo en passant come specchi per le proprie.
In questo contesto, è tutto tranne che eccezionale che Barak Obama riscopra il concetto di «guerra giusta» come guerra di autodifesa.
Ma tutto questo “capovolgimento” non fa i conti con le “cose terrene”.
Il fallimento iracheno, da cui faticosamente gli Stati Uniti cercano di uscire; il largamente preannunciato fallimento del surge in Afghanistan sono lì a dimostrare che dall’era Bush II non si esce a parole, ma con atti precisi.
Oggi i Taliban in Afghanistan controllano gran parte del Paese.
Anche in pieno teatro di guerra comincia a delinearsi un’incrinatura delle “alleanze”.
L’ufficiale afgano che spara su una pattuglia italiana e ancor più l’attacco suicida di un giordano in una base CIA, dove sono rimasti uccisi sette agenti statunitensi, sono lì a dimostrare come la strategia di aumentare le truppe statunitensi fino a farle arrivare a centomila serve a poco. Come serve a poco annunciare che questo aumento di truppe sia preliminare ad un graduale ritiro.
Evidentemente, coloro che coerentemente hanno sempre a fatica ingoiato la “svolta obamiana” ora sottolineano che gran parte dei detenuti di Guantanamo liberati dopo anni di detenzione, oggi si ritrovano in Yemen come leaders di Al Qaida.
Ma questa critica, di fatto alla chiusura del campo di Guantanamo, ancora una volta, si ferma alla superficie delle cose.
A Guantanamo negli anni scorsi sono finiti in tanti che con Al Qaida non avevano a che fare, ma che dopo i tanti anni di torture e soprusi hanno finito per radicalizzarsi.
Le storie atroci di chi da Guantanamo è uscito vivo hanno avuto un impatto molte forte su tutti quei Paesi che ancora oggi sono nel mirino imperialistico.
In tutto il mondo arabo e musulmano l’insicurezza è intatta, il senso di sentirsi colpevoli perché nati “nella parte sbagliata del mondo” è ancora ad oggi tangibile nella vita di tutti i giorni.
È per questo motivo centrale che a nove anni dal lancio ufficiale della «guerra globale, preventiva e permanente» Al Qaida e tutti i movimenti politici di ispirazione islamica sono ben lungi dall’essere indeboliti.
A tutto questo clamore fa da sfondo una coppia di provvedimenti: i body scanner negli aeroporti internazionali europei e una rinnovata lista nera di Paesi (Cuba, Iran, Siria e Sudan, Afghanistan, Algeria, Libano, Libia, Iraq, Nigeria, Pakistan, Arabia saudita, Somalia e Yemen).
L’aspetto che, se non fosse tragico, sarebbe ridicolo e divertente è che di questa lista sette Paesi hanno governi saldamente legati agli Stati Uniti. L’inserimento all’interno della lista nera la dice lunga su quanto i governi di questi Paesi godano del consenso popolare, evidentemente.
Poi c’è la scandalosa presenza di Cuba.
Ancora deve arrivare qualcuno in grado di dimostrare che questa nazione, sotto embargo fin dal 1960 per aver scelto una propria via di sviluppo, abbia mai, fin dal trionfo della rivoluzione nel gennaio 1959, patrocinato un qualche attacco fuori dal proprio territorio. Semmai è avvenuto l’esatto contrario: la base USA a Guantanamo è il risultato di una violazione del diritto internazionale da parte degli Usa che continuano a detenere un pezzo di territorio cubano, ovviamente in barba al recesso del diritto di locazione, decretato dal regime rivoluzionario.
Cuba è stata oggetto nel 1961 di un tentativo fallito di invasione ancora da parte degli Stati Uniti. Il tentativo fallì per il buono e semplice motivo che la popolazione cubana difese il proprio territorio, infliggendo una sconfitta cocente al quel JFK (John Fitzgerald Kennedy), cui molti paragonano Obama. Poi assassinato due anni dopo. Di quell’assassinio ancora non si conoscono i mandanti, ma una cosa è certa: tutte le ipotesi che lo volevano come una “vendetta” di Castro per la Baia dei Porci (la parte di Cuba dove tentarono lo sbraco del 1961 i mercenari cubani residenti a Miami e i soldati statunitensi) si sono rivelate infondate.
Ma oltre a questi precedenti storici, che dovrebbero comunque essere più che sufficienti, l’inserimento di Cuba è un atto masochistico per la presidenza statunitense. Mette a repentaglio i pochissimi passi di distensione fatti verso l’intero continente latinoamericano, dove notoriamente la stragrande maggioranza dei governi non sono certo allineati con gli USA, neanche con Obama.
È appena necessario ricordare che proprio con l’America Latina (Cuba compresa) sembrava fosse iniziato il “disgelo statunitense”. In molti ricorderanno le immagini di Chavez, presidente venezuelano, che offre in dono a Obama una copia di un classico su quel continente: Le vene aperte dell’America Latina, di Eduardo Galeano, autore uruguayo, che in un solo libro è riuscito a descrivere e mirabilmente analizzare le tristi vicende che hanno attraversato quel continente.  
Probabilmente, se Obama avesse letto quel libro, avrebbe seguito altre strade e non solo in America Latina e con Cuba.


Sicurezza o un ulteriore  slittamento rapido verso la “società del controllo”?

L’introduzione, oggi chiesta a gran voce da molti governi occidentali, del body scanner negli aeroporti è il sintomo reale e concreto che nulla si è compreso.
Non si è compreso il nodo di fondo: visti gli squilibri globali di cui è responsabile l’Occidente, nessun Paese occidentale è “fuori pericolo”.
Questi apparecchi, costosi e non si sa quanto pericolosi per la salute, che mettono a nudo chi li attraversa in realtà non risolvono alcun problema e ne creano molti di nuovi.
La privacy innanzitutto. La sicurezza, appunto, in seconda battuta.
Molti esperti chiamati a giudicarne l’efficacia hanno dichiarato che il carico che portava Umar Farouk Abdulmutajab non sarebbe stato rilevato.
Inoltre, visto che è letteralmente impossibile controllare i grandi scali internazionali, se non al prezzo di una paralisi generalizzata, questi attrezzi sarebbero usati solo per chi viaggia in direzione di Stati Uniti e Gran Bretagna e poche altre destinazioni, definite “sensibili” e per i passeggeri che arrivano dai “tredici Paesi cattivi”.
Non si capisce cosa impedirebbe e impedirà a chi ne abbia le intenzioni di imbottirsi di tritolo in Canada o in Svizzera e imbarcarsi per un altro Paese occidentale.
Tutto questo coacervo caotico di paura e arroganza porta sicuramente a fare errori macroscopici di valutazione, mettendo a tacere anche il più banale buon senso.
Ciò vale anche per coloro che pensano che la “israelizzazione” degli aeroporti occidentali serva allo scopo.
In Israele, centinaia di soldati giovanissimi, ragazze e ragazzi, sono addetti “ai controlli”, che altro non sono che interrogatori lunghi e noiosi durante i quali si pensa di “cogliere in fallo” chi ha qualcosa da nascondere facendo le domande più stupide del mondo. Tipo se si pensa di “incontrare arabi”  una volta in Israele o se ne sono incontrati durante  il soggiorno nel Paese . A molti la risposta viene facile ed ironica: in  un Paese del Medio Oriente chi si dovrebbe incontrare, norvegesi?
L’esperienza diretta e concreta dice che questo metodo serve solo al controllo di cosa fanno coloro che cercano di entrare in Israele e non a sventare attentati in volo o a terra.
Inoltre, chi non ha la memoria corta, ricorda che nel 2004 la Spagna e nel 2005 la Gran Bretagna sono state teatro di due attacchi terroristici che non coinvolgevano voli, ma metropolitane e linee di autobus…
A meno di non voler immaginare le nostre città disseminate di body scanner è chiaro che il tutto deve partire da altri parametri di giudizio su cosa è la sicurezza.
La vera sicurezza o è garantita per tutti i popoli o non lo è per alcuno.
Lo insegnano i fatti di Rosarno. La rabbia esplosa in risposta allo sfruttamento più atroce non conosce obiettivi “mirati”.
Ma prima di scambiare tutti e tutte coloro che cercano di sfuggire a guerre e fame per dei nemici letteralmente da abbattere a fucilate è meglio che si avvii una riflessione seria sulle vie d’uscita.
Prima di scambiare le nostre sicurezze come gli unici valori degni d’essere protetti, anche a costo di nuove devastanti avventure militari è necessario rimettere in moto quel meccanismo, che si è inceppato, che porta a non sbagliare nemico, dentro e fuori i nostri Paesi.


Discorso di Barak Obama a Oslo 10 dicembre 2009.

22/01/10
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