martedì 19 marzo 2024   
  Cerca  
 
wwwalkemia.gif
  Login  
Home1 » Le mafie  
mafia1.jpg
DSGHDS
La mafia Siciliana  La mafia Siciliana Riduci

  
HGJHGKJG
Ultime notizie  Ultime notizie Riduci

  
dghdfh
 Text/HTML Riduci
Alla Tenda di Modena l’ultima inchiesta di Giovanni Tizian

Perché l’Emilia Romagna non sia terra “Senza Regole”

Di Ermanno Bugamelli.

 


Il 12 dicembre scorso La Tenda di Modena ha ospitato la presentazione del video-inchiesta “Senza Regole. L’avanzata criminale, economica e culturale nell’Emilia Romagna che resiste”, firmato da Giovanni Tizian cronista sotto scorta dal novembre del 2011, e dai colleghi Laura Galesi e Federico Lacche. Un lavoro prodotto da Coop. Voli Group e Libera Radio Voci contro le mafie e patrocinata da Legacoop Bologna e dalla Camera di Commercio sempre del capoluogo emiliano. Alla serata oltre agli autori Tizian e Lacche, ha partecipato Marco Imperato, Procuratore della Repubblica di Modena. L’iniziativa verrà replicata il 20 dicembre a San Cesario sul Panaro, e l’8 e 31 gennaio a Bomporto e Nonantola.


Suddivisa in sei episodi, l’indagine affronta l’impatto della criminalità organizzata sulla società emiliana. Magistrati, uomini delle forze dell’ordine, imprenditori, esponenti delle istituzioni, raccontano la quotidiana azione di contrasto ad un fenomeno che ha già compiuto il salto di qualità temuto. Le infiltrazioni segnalate da anni oggi sono mutate in vero radicamento. I clan si insediano nel tessuto sociale, operano in molti settori dell’economia, stringono contatti con politici locali come nel caso Serramazzoni, drogano le regole del mercato iniettando i sistemi violenti dell’usura e del racket.


Ma ancora più pericolose sono le società ed imprese che indossando l’abito dell’apparente legalità s’infiltrano sia negli appalti di opere ed edilizia pubblici con invitanti offerte al ribasso, o come testimoniato dalla vicenda del boss Ventrici a San Marino di Bentivoglio in provincia di Bologna, nel settore immobiliare privato; aggrediscono la ricostruzione post terremoto dove il numero di società entrate nella black list è salito già a 25; monopolizzano fette di mercato nel trasporto di merci su gomma in un paese dove l’80% della movimentazione nazionale corre su asfalto; conquistano spazi sempre più ampi nella distribuzione agroalimentare e nella ristorazione; attraverso l’alterazione software delle slot machine mirano ad accaparrarsi una ghiotta porzione di quei 100 miliardi annui che rendono il gioco d’azzardo legale la terza economia del paese, tanto da definire città come Reggio Emilia, Modena, Bologna, Rimini, distretti della Las Vegas Emiliana.


Clan dei Casalesi, ‘Ndrangheta, Mafia siciliana, nessun protagonista della criminalità organizzata nazionale manca all’appello. Tutti impegnati a trasformare il nostro territorio in una frontiera senza regole. E dove morde la crisi economica, le montagne di contante illecito a pronto uso di cui dispongono, divengono magli d’acciaio con cui sfondare le fragili mura di una cultura della legalità collettiva mai come ora stremata da decenni di esempi pubblici indecenti. E se lo Stato molla la presa in un simile contesto economico, il lavoro smarrisce il costituzionale valore di diritto acquisito, e in tanti cadono vittima di aziende in mano all’economia illegale.


L’Emilia Romagna sta resistendo, lo narrano i protagonisti, lo confermano le inchieste e gli strumenti messi in atto. Ma oltre le leggi e lo sforzo degli inquirenti, il dna di una terra antimafia necessita di una genetica avversione verso chiunque propone la strada più breve operando senza regole. Una cultura che si costruisce con l’educazione, con gli esempi positivi, risvegliando coscienze ed attenzione quotidiana, perché anche nella nostra regione oggi, i mafiosi o la loro cultura, possiamo incontrarli ovunque, sul lavoro, nella nostra banca di fiducia, nel negozio sotto casa, quali vicini della porta accanto.


Alkemia, 14 dicembre 2013


 


 Stampa   
Milano saluta Lea Garofalo: in migliaia ai funerali civili


La figlia Denise: “…Non smetterò mai di ringraziarti mamma..”

 

di Ermanno Bugamelli

 


Sabato 19 ottobre piazza Beccaria a Milano era gremita. A migliaia si sono riuniti qui per l’ultimo saluto a Lea Garofalo. Migliaia come le bandiere gialle che “Libera contro le mafie” ha voluto dedicare a Lea, dove accanto al suo volto spicca la scritta “Vedo, Sento, Parlo”.


Perché Lea è stata uccisa il 24 novembre del 2009 per ciò che ha visto, sentito nel cuore e infine denunciato. E’ stata rapita, torturata, cosparsa di benzina, fatta a pezzi e incendiata per non aver voltato lo sguardo dinanzi ai crimini di ‘ndrangheta della famiglia in cui è cresciuta e vissuta, delitti e faide interne al culmine di un vita trascorsa in un durevole e persistente clima di violenza. La sua è oggi una storia simbolo del coraggio di una madre che sola ha sfidato l’intero clan famigliare e con esso l’essenza della cultura mafiosa. Lea Garofalo fugge dalla Calabria con la figlia, rompe con la famiglia, e paga con la vita l’aver ribaltato il ruolo femminile nella tradizione mafiosa. Alle donne, la mafia da sempre relega il compito di veicolare alle generazioni future i valori dell’onorata società. Un ruolo da svolgere in silenzio, prive di ogni diritto, abbassando lo sguardo. La scelta di Lea è per amore della figlia Denise, alla quale intendeva regalare più di ogni altra cosa, un futuro diverso e di libertà.


Le quattro sentenze all’ergastolo confermate dalla Corte di Appello di Milano nel maggio scorso, tra cui quella a Carlo Cosco, ex compagno di Lea e padre di Denise, condannato in veste di mandante dell’omicidio, rendono giustizia al sacrificio della donna, ma non possono acuire il dolore per la scomparsa di una persona a cui la pur eccezionale forza non ha salvato la vita. Lo Stato non si mostra attento quanto basta, revoca e poi riattiva il programma di protezione testimoni di giustizia, non ascolta tutti i suoi appelli d’aiuto in una vicenda lunga anni. Tentennamenti che logorano la forza della donna isolandola, e la solitudine la induce ad accettare l’invito dell’ex compagno in quel fatale ultimo appuntamento trappola a Milano.


Celebrare i suoi funerali a Milano dove quattro anni fa Lea è scomparsa, esaudisce una ferma volontà proprio di Denise, rafforzata dal ritrovamento dei resti del corpo della madre soltanto alcuni mesi fa sepolti in un terreno in Brianza, dopo anni in cui si riteneva che il cadavere fosse stato sciolto nell’acido. La figlia 22enne era assente per motivi di sicurezza, ma la sua voce ha comunque invaso Piazza Beccaria dalla località protetta in cui si trovava. Una emozione fortissima ha pervaso tutti i presenti all’udire le sue parole rotte dalla commozione: ''Per me è un giorno triste, ma la forza me l’hai data tu…Se è successo tutto questo è solo per il mio bene e non smetterò mai di ringraziarti. Ciao Mamma''.


Don Ciotti e tutta Libera da anni sostiene la ragazza nella sua battaglia in memoria di Lea. Il sacerdote apre il suo intervento con: “E’ Denise che ci ha invitati qui per dire ciao alla sua mamma, e a lei vogliamo dare un forte abbraccio” e prosegue, “Oggi non basta parlare di verità, dobbiamo cercarla, ai tanti giovani inghiottiti dalle organizzazioni mafiose: contribuite a cercare la verità. Noi non vi lasceremo soli”. Descrivendo Lea Garofalo, il presidente di Libera la definisce“…una martire e testimone di libertà. Hai deciso di rompere il silenzio e l'ingiustizia e il tuo cuore e la tua coscienza - ha proseguito rivolgendosi alla testimone di giustizia uccisa “ sono sorgenti di liberta". Don Ciotti indirizzandosi poi a Denise: "Oggi in realtà la tua mamma è ancora viva, non è morta. La memoria ci sfida all'impegno, ci commuove e ci fa muovere. Noi tutti siamo in debito con te". E concludendo: "Denise, te lo abbiamo promesso, non ti lasceremo mai sola”.


L’amministrazione della città ha trasformato questa giornata in un appuntamento di riflessione e lotta alla criminalità organizzata. Il Sindaco Pisapia si è rivolto a piazza Beccaria: “Possiamo dirlo: Milano è una città antimafia ed è con Lea che si è immolata per la giustizia, la verità, la legalità”. Parlando della scelta di accogliere in questa piazza del centro i funerali civili di Lea Garofalo la definita “una prova particolarmente difficile per me, anche se questa piazza così piena mi dà e ci dà coraggio”. La morte di Lea deve rimanere viva nella memoria in quanto prosegue Pisapia “non è stato il destino, la malattia o un incidente. E’ stata la violenza degli uomini che più le stavano vicino che non tolleravano il suo coraggio e la sua indipendenza. Il coraggio di uscire dalla gabbia in cui la tenevano a forza e Lea era consapevole che lasciare la complicità criminale volesse dire scegliere la paura e la solitudine, scegliere un percorso di giustizia


Le celebrazioni sono proseguite nei giardini pubblici di fronte al palazzo di via Montello, luogo dove Lea Garofalo venne rapita ed ex fortino della ‘ndrangheta: lì è stata inaugurata una targa in suo nome, e altre iniziative seguiranno in città nei prossimi giorni.


Dopo gli anni della amministrazione Moratti-Leghista in cui si è negato ottusamente e ad oltranza l’esistenza di infiltrazioni mafiose nel capoluogo lombardo, oggi Milano ha serrato i ranghi e sfida a viso aperto la criminalità organizzata. Una scelta necessaria ma anche obbligata. Gli eventi di cronaca degli ultimi anni e le molteplici inchieste antimafia hanno tolto il coperchio e mostrato il vero volto di una città autentico feudo ‘ndranghetista.


E’ solo del 15 ottobre scorso inoltre, lo scioglimento per mafia del comune di Sedriano, il primo in Lombardia.


Alkemia, 17 novembre 2013.


 

 Text/HTML Riduci
Passa qui con il mouse e quindi clicca sulla toolbar per aggiungere il contenuto

 Stampa   
 Text/HTML Riduci
Passa qui con il mouse e quindi clicca sulla toolbar per aggiungere il contenuto

 Stampa   

Giovanni Tizian a Nonantola
INFILTRAZIONI MAFIOSE NEL POST TERREMOTO
di Ermanno Bugamelli


Occasione di approfondimento e formazione
Lo scorso 30 Novembre il Teatro Massimo Troisi di Nonantola ha ospitato un incontro con il cronista Giovanni Tizian sul tema “Infiltrazioni mafiose nel post terremoto”. Una serata organizzata con la collaborazione delle associazioni Libera, Pace&Solidarietà e i gruppi scout Agesci e Ranger, unitamente al patrocinio del comune di Nonantola.
Una sala non gremita era impreziosita da una altissima percentuale di giovani e studenti. Un contesto che ha suggerito alla conduttrice della serata, la giornalista di “Nostro Tempo” Mariapia Cavani, di improntare l’evento sia sull’approfondimento del pericolo delle infiltrazioni mafiose nella ricostruzione, che ad una più larga formazione di base sulle dinamiche della criminalità organizzata e sulla terminologia tecnica utilizzata dagli addetti ai lavori.
Ne è scaturita una serata importante, dove i ragazzi oltre all’informazione sullo stato dell’arte, hanno beneficiato di una lezione sui meccanismi che regolano gli appalti ed i subappalti, sul significato dei termini come “Interdittiva e Certificazione Antimafia”, “White List”, “Chiamata Diretta”, “Carta Etica e Osservatorio sui liberi professionisti”.
Una lezione donata da Giovanni Tizian, tra i più brillanti e preparati professionisti del giornalismo d’inchiesta sulla materia, che da circa un anno vive sotto scorta.
Una occasione di approfondimento e formazione, che il giovane pubblico sembra aver colto in pieno a giudicare dalla lunga lista di domande giunte a Tizian in conclusione di serata.


Assalto criminale da km 0
Le forti preoccupazioni esternate dall’Assessore Regionale dell’Emilia Romagna alle Attività Produttive e all’Edilizia Giancarlo Muzzarelli, trovano conferma nelle parole del Procuratore Capo di Bologna Alfonso nel corso di una intervista del giornalista: “Segnali di gruppi che tentano di entrare nell'affare ci sono. L'esperienza insegna che laddove arrivano soldi pubblici le organizzazioni mafiose tentano di accaparrarsene una fetta. Lanciare l'allarme è necessario per mettere in guardia”. La presenza in regione di imprese nel settore edile e del movimento terra legate alle cosche è oramai ampiamente documentata prosegue Tizian. I finanziamenti stanziati da Governo Italiano e CE per la ricostruzione nei settori pubblico e privato si aggirano sui 6 miliardi di euro, e circa due e mezzo di questi saranno indirizzati alla demolizione, ristrutturazione e ricostruzione di edifici privati e condomini. Il terreno ideale su cui muoversi per le aziende di ‘Ndrangheta, Camorra e Cosa Nostra radicate in zona da oltre un decennio.
Se nel post terremoto dell’Aquila, per impadronirsi gli appalti più ambiti la criminalità organizzata si mosse da Campania, Calabria e Sicilia come da Emilia Romagna e Lombardia, oggi la stessa azione può essere compiuta a km 0.
Realtà come l’asse Gualtieri, Brescello e Reggiolo, quest’ultimo tra i comuni più feriti dal sisma della provincia reggiana, autentico feudo ‘ndranghetista dei Grandi Alacri, così come le modenesi Cavezzo e Mirandola, seconda patria di numerose aziende riconducibili ai Casalesi, offrono un panorama inquietante delle trappole in cui amministrazioni pubbliche e privati possono cadere.
La testimonianza di Sandro Fogli Sindaco di Bastiglia (MO), intervenuto nel corso del dibattito è emblematica. L’efficienza emiliana, le necessità dei cittadini che si uniscono in un coro di “fate presto”, e le scarse disponibilità economiche di molti, inducono gli amministratori a percorrere ogni via per accelerare la ricostruzione e la ripresa economica. Ma la fretta è cattiva consigliera, e apre il fianco alle intrusioni di figure senza scrupoli che offrono servizi rapidi a prezzi stuzzicanti in cambio di nessuna trasparenza. Occorre calma quindi, e una attenta riflessione e analisi delle situazioni caso per caso.
L’Assessore Muzzarelli, denuncia come si siano già verificati numerosi tentativi d’intromissione da parte di sconosciuti personaggi che si presentano ad offrire prestazioni edili e di movimento terra e macerie con ribassi dell’oltre 80% sui prezzi di mercato. Offerte possibili solo grazie all’utilizzo di manodopera in nero e/o soggetta a caporalato.

L’antimafia della coscienza e della conoscenza

Tizian allargando lo sguardo, illustra come gli strumenti legislativi in possesso all’antimafia ci siano, ma necessitano di tempi tecnici lunghi per operare. Le interdittive antimafia e le white list possono costituire un filtro valido, in grado di fornire alle amministrazioni un elenco affidabile di fornitori d’opera a cui rivolgersi, ma per essere validate e utilizzate richiedono troppi mesi per il controllo incrociato dei dati. Operare in sicurezza comporta ritardi e non tutti sono disposti ad aspettare. Attraverso meccanismi come la “Chiamata diretta”, gli enti locali possono per importi bassi contattare direttamente il soggetto esecutore dei lavori, aprendo un canale dove l’azienda mafiosa entra in gioco eludendo le barriere e le certificazioni antimafia.
Se immaginiamo contesti come la Salerno-Reggio Calabria, l’Expo 2015 o una ricostruzione post terremoto, lo scenario si infittisce di una giungla di committenti e prestatori d’opera, che a loro volta si moltiplicano nella genesi dei subappalti. L’esperienza sul passato suggerisce la creazione di gruppi interforze che si occupano di criminalità organizzata, ed è quello che è successo a Bologna dove dopo lunga pressione del Procuratore Alfonso, è stata creata una unità con carabinieri, polizia e guardia di finanza che operano congiunti contro le infiltrazioni nella ricostruzione.
Le procure infatti rischiano spesso di cadere in confusione, in quanto soprattutto al Nord il confine tra legalità e criminalità e spesso sottile, specie quando il ruolo di anelli di giunzione è svolto da rispettati e insospettabili liberi professionisti. Le leggi servono ma la differenza la fanno gli uomini, con la loro onestà e coscienza conclude Tizian. Serve consapevolezza in ogni cittadino che può fare molto contro la criminalità organizzata. Può educare se stesso e quindi gli altri alla cultura della legalità, a non lasciarsi tentare da quotidiane scorciatoie individuali ma riflettere su quale impatto ogni sua scelta può determinare sulla collettività. Serve attribuire molta più importanza al proprio voto, alla scelta del proprio candidato che nella cabina elettorale si delega a determinare il futuro del paese. Occorre informarsi, conoscere, avere una visione ampia del proprio tempo e del contesto territoriale in cui si vive.
Bisogna costruire un paese che investa sulla cultura, sulla educazione, sulla ricerca, per garantire a tutti istruzione e conoscenza e quindi capacità di scelta e con essa la libertà, l’antidoto più efficace verso ogni espressione mafiosa.

 

 Giovanni Tizian  

Le domande del pubblico  

 

 


1 dicembre 2012


  LE MAFIE

Cronaca e storia di soprusi ed illegalità

fotoprimapag.jpg

La Criminalità Organizzata è un flagello per molti paesi e non vengono risparmiati dall’elenco, i nomi dei più ricchi del mondo. L’Italia rappresenta in assoluto una drammatica eccellenza in questo senso: è difficile riscontrare altrove un tale radicamento nel tessuto sociale di questi organismi malavitosi, in grado di contaminare in profondità gli equilibri politici ed economici di una nazione, fino ad instaurare un sistema di “stato nello stato”.

Analizzando l’intero ambito delle azioni illegali che si svolgono nel nostro paese, quelle mosse dalla Criminalità Organizzata svolgono un ruolo di protagoniste indiscusse. Il panorama delle sue attività criminose, tocca tutti i settori dell’economia e si è sviluppato in ogni area del territorio, fortificata da collegamenti che valicando i confini nazionali, legano i loro fili a quelli di organizzazioni dello stesso tipo di altri paesi.

Alcune di queste hanno caratteristiche di maggiore estemporaneità, con una azione limitata in termini di peculiarità malavitosa e di durata nel tempo.

Altre invece, possiedono una struttura oramai decennale o secolare, con i vertici organizzativi che si identificano in precise regioni del paese, ma da tempo capaci di estendere le loro ramificazioni in ogni direzione, fino a stringere relazioni con porzioni delle istituzioni politiche locali o nazionali ad esse colluse.

Il termine generico che le raggruppa, “Mafie”, necessita di ulteriori suddivisioni per riuscire nell’intento di compiere un’analisi delle radici storiche che le hanno originate. Ognuna di esse infatti ha avuto un suo percorso, contraddistinto da tempi ed avvenimenti diversi, anche legati agli eventi storici che hanno segnato le regioni in cui hanno visto la luce.

E’ opportuno quindi parlare in maniera distinta di “Mafia Siciliana” o “Cosa Nostra”, di “Camorra” Campana, di “Ndrangheta” Calabrese e di “Sacra Corona Unita” Pugliese.

Affronteremo separatamente ognuna di queste organizzazioni, nell’intento di comprenderne e ripercorrerne gli inizi, senza dimenticare però come la loro flessibilità operativa in funzione del maggior profitto, abbia fornito episodi non isolati di collaborazione incrociata.




 

Autorità, stampa, società civile e tanti modenesi abbracciano Giovanni Tizian

Alla Feltrinelli la presentazione di “Gotica” (MP3)


di Bugamelli Ermanno

 


Tutta la città alla Feltrinelli
Domenica 15 gennaio 2012 ore 11:30, la libreria Feltrinelli di Modena è gremita. Non c’è spazio, non ci si muove. Eppure qualcuno cerca ancora di entrare, di intrufolarsi, di guadagnare qualche centimetro. Di sedersi oramai neanche a parlarne. Per riuscirci nella trentina di sedie allineate occorreva arrivare oltre un’ora fa, ma ora è troppo tardi anche per accucciarsi alla meglio nei pochi angoli rimasti liberi. Si respira l’atmosfera degli appuntamenti che contano e tra gli scaffali pieni di libri trovano sistemazioni improvvisate il sindaco Giorgio Pighi, il presidente del Consiglio Regionale Matteo Richetti, il commissario straordinario del Governo antiracket e usura Giancarlo Trevisone, fino al segretario regionale del PD Stefano Bonacini.
Autorità, esponenti di partito, giornalisti, fotografi, cameraman, ragazzi della associazione antimafia  “daSud” “Io mi chiamo Giovanni Tizian”, Libera contro le mafie, cittadini comuni, tutti ad accogliere il cronista calabrese freelance Giovanni Tizian, che oggi presenta “Gotica. ‘Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea“ (Round Robin Editrice). Il libro costituisce una approfondita e inquietante inchiesta sullo stato dell’arte dell’intraprendenza mafiosa nel settentrione d’Italia, ma è anche la testimonianza personale delle drammatiche cicatrici che l’ndrangheta ha lasciato nella vita di Tizian.  Ad accompagnare il giornalista scrittore alla Feltrinelli, il capocronista della Gazzetta di Modena Giovanni Gualmini, ed il giornalista di Report Alberto Nerazzini.


Un abbraccio sincero della cittadinanza velato di amarezza
Un abbraccio affettuoso, importante, significativo. Nessuno dei presenti ignora come da alcuni giorni Giovanni Tizian viva sotto scorta proprio perché essere bravi cronisti d’inchiesta antimafia in Italia, accluda la condizione accessoria di minacciato a morte. Due agenti di polizia in borghese sono diventati i suoi angeli custodi, al supermercato come in libreria. La loro presenza rende tangibile “i gravi motivi” che il procuratore antimafia della DEA di Bologna Roberto Alfonso, ha individuato nella sua attività investigativa, ritenendo Tizian in pericolo di vita a causa delle inchieste di mafia di cui si occupa da anni. Del resto come ci ricorda Nerazzini riferendosi alla vicenda Cosentino, non può suscitare meraviglia che questo accada nel paese i cui la maggioranza dei rappresentanti del popolo, festeggia senza pudore lo scampato arresto per associazione mafiosa di uno dei suoi esponenti più discussi.
Eppure anche così tanto non basta a spiegare una tangibile  e sgradevole sensazione, una apprensione tinta di colpevole amarezza. Forse perchè tutto questo accade a Modena, nella culla della “rossa” e libera Emilia, e se questo è potuto succedere, è perché in troppi hanno abbassato la guardia, sottovalutato le situazioni, ciechi e sordi ai numerosi appelli che da anni gli addetti ai lavori hanno lanciato ad una platea che ci auguriamo di poter definire “solo” indifferente o alla peggio incapace. La politica emiliana pare risultare ancora immacolata dall’infame marchio di una collusione mafiosa conclamata, ma anche questo oggi non è più sufficiente. Imprenditoria e società civile sono oggetto di cronaca quasi quotidiana alla voce contaminazioni delle mafie. Come ci racconterà Tizian le organizzazioni criminali hanno da oltre 30 anni approfittato di un tessuto sociale ricco e tuttora impreparato a reagire con la necessaria forza e tempestività.
Il sindaco Pighi omaggia il giornalista e ripropone l’ennesima promessa d’intenti al massimo sforzo delle istituzioni a combattere le mafie. Un intervento identico a decine di altri ascoltati negli anni alcuni dei quali per sua voce, ma i fatti dimostrano che serve ben altro per arrestare l’espansione mafiosa. Magari aiuterebbe un poco di competenza, di realismo, di umiltà, e l’uscita di scena di quella schiera di figure dei partiti di governo locale e di opposizione legati o meno al mondo economico, ma che tutti ancora si trastullano negli interessi di parte crogiolandosi in una realtà da isola felice dissoltasi da alcuni decenni.

Esattamente come tardive sino a suscitare più di un pizzico di contrarietà, sono le parole in apertura di presentazione di Antonio Ramenghi, direttore della Gazzetta di Modena, una delle testate per la quale Tizian fornisce collaborazione. Elargendo un partecipe e convinto orgoglio, Ramenghi annuncia pubblicamente la promessa di stabilizzazione professionale per il suo collaboratore. Un tempo il termine freelance legato al giornalismo evocava immagini romanzesche e quasi avventuriere. Magari la sostanza non è cambiata, ma oggi lo stesso termine è sinonimo di precariato, di un lavoro spesso senza orari e diritti, mal retribuito sino a 4 euro ad articolo, indistintamente, anche se si racconta di mafia, anche se alla fine quegli articoli ti portano a rischiare la vita.
E quindi signor Direttore le sue parole sono importanti ci mancherebbe, ma ascoltandole s’incunea in noi un interrogativo spontaneo, magari banale, retorico, ma sicuramente sincero: un professionista con la storia e lo spessore di Tizian doveva essere minacciato di morte per uscire dal precariato in cui versava dal 2006?
E visto che a pensar male si rischia sempre una brutta figura ma spesso ci si azzecca, lei è proprio certo di avere la coscienza totalmente immacolata nell’aver sempre agevolato al meglio le inchieste antimafia di Tizian?
E ancora, se l’intero gruppo editoriale dell’Espresso ha deciso solo ora di rafforzare in pubblico la posizione del cronista, è casuale che questo avvenga alla luce di quanto accaduto?
Speriamo di cuore che la risposta ad ogni singola domanda non sia quella temuta, perché se così fosse alcuni dei presenti alla Feltrinelli si sarebbero serviti dell’occasione per l’ennesima strumentale passerella.

E ingoiando a fatica i residui della melassa riparatrice di Ramenghi, ci lasciamo guidare da Giovanni Gualmini nel fulcro della presentazione.



Mafie al Nord: omertà e inconsapevolezza hanno agevolato il radicamento
Visibilmente emozionato al cospetto della grande dimostrazione di affetto, Giovanni Tizian inizia ad illustrare la materia di cui tratta il suo “Gotica”, partendo da come al Nord d’Italia oggi non si possa più parlare di infiltrazione mafiosa ma di radicamento. Dagli anni ’80 ad oggi, le mafie hanno ricreato come al Sud le medesime condizioni in grado di renderle invisibili al tessuto sociale, instaurando le dinamiche necessarie a saccheggiarlo. E’ stato attuato un vero travaso di ricchezze, e nel settentrione le mafie hanno avviato le loro attività grazie ai proventi dei crimini con i quali hanno assoggettato il meridione. I criminali non prevedono distinzioni geografiche, ed è in questo senso che concepiscono la loro personale concezione di Italia unita: rendere l’intero territorio nazionale un campo d’azione per i loro affari. Campi di applicazione che vertono su estorsioni, traffico di droga, voto di scambio, corruzione elettorale, usura, un catalogo criminale che produce appalti pubblici e privati drogati, aliena la libera concorrenza, minaccia lo sviluppo democratico delle comunità. Per combattere tutto questo ogni regione, comune, piccola collettività, deve essere consapevole. Quanto sta accadendo in regioni come Liguria, Piemonte, Lombardia, da decenni sotto attacco, con comuni già sciolti per mafia e altri in procinto di esserlo, con centinaia di arresti eseguiti in ogni ambito, dimostra come questa consapevolezza sia mancata. Politica e imprenditoria si sono lasciate circuire, tentare, sino a cedere ad una vera aggressione da parte di forze capaci di insinuare e radicare, una fitta schiera di referenti delle organizzazioni criminali. Anche Modena e tutta l’Emilia sono vittima della medesima aggressione. Sempre più consapevoli della loro forza, e beneficiando di maglie più o meno consciamente larghe, i mafiosi hanno progressivamente alzato il tiro delle loro azioni, giungendo ad allestire una organizzazione munita di intelligence e vera capacità militare. Gli esempi di quanto accaduto a Modena nel 1991 in via Benedetto Marcello, dove una iniziale autobomba venne sostituita da un attacco armato nella faida tra camorristi, sino alle intimidazioni a Castelfranco e dintorni degli ultimi anni lo dimostrano. Ma paradossalmente, a risultare più pericolosa in ambito territoriale è la loro prerogativa di rendersi invisibili conquistando le attività legali che fanno parte del quotidiano di ognuno. Grazie ad una imponente disponibilità finanziaria unita all’arroganza e prepotenza, di legioni di avvocati, manager, notai, esperti in finanza, le mafie si sono impadronite di una fitta rete di esercizi operanti in ogni settore: ristoranti, bar, imprese edili, di autotrasporti, servizi bancari e finanziari, sino alla rete di gestione e distribuzione delle slot machine e dei video poker. Un ventaglio di competenze così ampio, da costruire una maglia di servizi nella quale ogni cittadino finisce per cadere, contribuendo inconsapevolmente ad alimentare le finanze della criminalità organizzata.

Nei successivi interventi Tizian affronta le difficoltà incontrate nel raccontare i fatti narrati in “Gotica” e le sensazioni provate a seguito della nuova situazione che lo obbliga a vivere sotto scorta.
Sul primo punto egli afferma:”L’omertà è un patrimonio dell’Italia intera, non si denunciava al Sud, e neppure al Nord”. Tizian descrive le difficoltà nel contattare gli imprenditori settentrionali sotto scacco della mafia, pur dopo che questi erano finiti vittima di pestaggi a sangue. Essi peccano spesso di mancanza di consapevolezza e rifiutano in genere di trattare l’argomento mafioso. Quando finiscono nella rete e vengono risucchiati dal gorgo nel ruolo di vittime o complici, essi si bloccano definitivamente e non denunciano. Si trovano costretti a rispettare le regole del codice criminale che attraverso una cascata di sub appalti finisce per coinvolgere un ampio panorama di aziende. “Ho trovato molta più disponibilità a raccontare e denunciare al Sud anche se vivono in contesti blindati…” prosegue Tizian, “…dove oramai c’è piena consapevolezza di chi sono i mafiosi e della loro pericolosità”.
A riguardo della sua vicenda personale, il cronista confessa come nel svolgere il proprio lavoro l’idea di essere in pericolo finisce prima o poi per sfiorarti, ma non ci pensi perchè non vi era nessuna percezione particolare. Non era stato oggetto di nessuna minaccia e quindi la situazione attuale è giunta improvvisa, ma aggiunge “…Faccio il giornalista e per questo dovrò sempre rompere le scatole a qualcuno”.


Mafia e politica: una linea rossa li unisce, una occasione di riscatto per l’Emilia
Alberto Nerazzini non manca di fornire un quadro a tinte fosche di quale trattamento viene riservato al giornalismo d’inchiesta in Italia. Nei paesi normali l’inchiesta porta prestigio alla testata, ma l’Italia non è un paese normale. Servono direttori ed editori disposti a supportare alti costi ed esiti incerti. In Italia il giornalismo è in preda al precariato, legato alla politica, incapace di fornire prospettive ai giovani. Nerazzini prosegue: “Il nostro non è un paese per giovani…se un 38enne come me viene ancora ritenuto giovane…giovani sono i 29enni come Giovanni che devono essere messi in condizione di lavorare dignitosamente…Forse i giornalisti d’inchiesta sono pochi ma sono sufficienti…vanno solo lasciati lavorare”. Il giornalista di Report entra nel vivo del legame stampa-politica: “…Le inchieste servono come una lente che mette a fuoco i fatti e fa aprire gli occhi alla gente…Il sindaco Pighi prima diceva che serve la stampa ma io insisto che serve anche la politica…”. Accennando allo spettacolo offerto dai parlamentari sul caso Cosentino Nerazzini affonda:” …la politica è unita alla mafia e alla vicenda di Giovanni da una linea rossa…occorre mettere a fuoco la classe politica e osservarli attentamente…e punirli come cittadini se si macchiano di atteggiamenti equivoci…Ci servono giornalisti come Giovanni e politici che veramente devono sottoporsi al giudizio dei cittadini…”. Originario della provincia di Modena (Fanano), non risparmia ai politici modenesi allusioni pungenti: “…Ogni volta che da Fanano scendo a Modena vedo nuove rotonde…ma perché si costruisce così tanto?...Occorre interrogarsi, serve che la politica non si chiuda nelle stanze, che accetti qualche pugno in faccia mediatico… già nel 1992 quando Giovanni si trasferisce a Modena, i suoi occhi svegli di ragazzo cresciuto tra le mafie scorge attorno a se molti indizi di affari mafiosi… se c’è una possibilità di riscatto per la politica modenese non c’è occasione migliore…non si può continuare a vivere di una rendita forse già consumata, su di un passato che ha fatto di questa regione un luogo più giusto di benessere condiviso…bisogna rilanciare questa terra con una economia già imbrattata di mafia…una sfida unica e difficile…”.
In conclusione del suo intervento Nerazzini compie anche una profonda autocritica sulle ragioni che hanno negli anni indebolito il ruolo della stampa. Il desiderio di carriera, l’assuefazione ai privilegi, la tentazione del denaro, ha causato una generale perdita di porzioni di onestà da parte di molti giornalisti. Serve che ognuno rifletta su cosa sta indagando, e basta poco per accorgersi che indipendentemente dal filone d’inchiesta che si imbocca, la mafia torna sempre fuori. L’Italia da sempre vive sul fenomeno mafioso. Oggi viviamo una epoca ancora più triste perché si è perduta ogni sfumatura etica in ambito politico:”I politici se ne fottono di ogni responsabilità…se invece sei accusato devi essere messo fuori gioco dai tuoi stessi dirigenti di partito…serve ripartire su questi punti dalla politica locale…

Nessun eroe, solo esempi

Nelle parole di Daniele Chirico della associazione “daSud”, l’appello più appropriato in chiusura di evento: “…Non facciamo l’errore di considerare Giovanni un simbolo o peggio ancora un eroe, quelli servono soltanto a fare spettacolo, consideriamolo un esempio perché gli esempi servono al nostro paese…
Una speranza che sentiamo nostra, e osservando la lunga coda di convenuti in attesa di una copia del libro autografata dall’autore, ci auguriamo che questa giornata consegni una eredità importante nella coscienza di ognuno, sfuggendo alle tentazioni dei facili sentimentalismi, ma forgiando una autentica consapevolezza collettiva antimafia anche nelle nostre terre. Un primo positivo riscontro sembra giungere solo sei giorni dopo, quando il 21 gennaio scorso l’associazione “daSud”  ha organizzato insieme alla biblioteca Delfini sempre di Modena, una staffetta di letture di “Gotica” per testimoniare ulteriormente la vicinanza al giornalista minacciato dalla mafia. Una folla identicamente numerosa ha affollato le sale della biblioteca oltre il limite della loro capienza.
Nel suo messaggio di saluto che ha fatto pervenire in quanto assente, Tizian lancia un messaggio ai modenesi. Li ringrazia dell’affetto che sente caloroso e vicino, e si augura che una terra come questa, libera e fondata sulla resistenza partigiana, trovi le energie e la forza per riorganizzarsi nella nuova resistenza del nostro tempo, quella contro le associazioni mafiose.

Giovanni Tizian, ha una storia personale e familiare che non si può e non si deve dimenticare: è arrivato a Modena a 12 anni, costretto a lasciare la Calabria, dove è nato, con quel che restava della sua famiglia, dopo l'incendio che ha distrutto la fabbrica del nonno e, a seguire, l'assassinio, per mano della 'ndrangheta, di suo padre, Giuseppe Tizian, funzionario del Monte Paschi di Siena a Locri. Laureato in criminologia presso l’università di Bologna, ha iniziato a scrivere con la Gazzetta di Modena nel 2006 (con cui collabora tutt’ora) per la quale si è occupato di infiltrazioni mafiose, conducendo numerose inchieste giornalistiche sul clan dei Casalesi. Ha scritto per il portale d’inchiesta rivistaonline.com e Liberainformazione.
Oggi scrive per il mensile Narcomafie e per i quotidiani ondine Lettera43.it e Linkiesta.it. Al giornalismo ha affiancato l’impegno civile e sociale, fa parte dell’associazione “daSud”, l’associazione antimafia con sede a Roma costituita nel 2005 da giovani emigranti meridionali che non hanno intenzione di lasciare le loro terre in mano alle cosche.

24 gennaio 2012

(foto Gazzetta di Modena)



 

 

A Vignola l’ultimo libro di Antonio Ingroia


Viaggio nel labirinto della mafia


di Ermanno Bugamelli


Il magistrato Antonio Ingroia (*), lo scorso 27 maggio è stato ospite della biblioteca Selmi Auris di Vignola (Modena), per presentare l’ultimo suo libro “Nel labirinto degli dei. Storia di mafia e antimafia” (Saggiatore 2010). Al cospetto di una platea gremita anche di molti giovani, ed intervistato da Enza Rando dell’ufficio di presidenza di Libera, Ingroia ha illustrato i contenuti di un testo che sopra ogni cosa vuole essere “…Non un libro di storia, ma un libro di storie…”. Storie di uomini e donne che la mafia l’hanno vissuta sulla propria pelle, dentro e contro l’organizzazione criminale, tutti prigionieri di un labirinto che come il magistrato ci suggerisce nel titolo, è dominato da dei potenti ma non invincibili.
“Il labirinto degli dei” narra in primo luogo della sua esperienza professionale, una carriera che vide gli albori quale giovane magistrato allievo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il loro ricordo è ancora vivo e presente, uomini straordinari che gli trasmisero la passione per uno dei mestieri più difficili, e costituirono un esempio di come l’essere magistrati dal valore assoluto, includeva in primo luogo il saper decifrare l’animo umano. Una eredità di cui aggiungiamo noi, Ingroia si è fatto carico in modo esemplare.
Il magistrato apre poi ad una riflessione profonda su quel labirinto che è la mafia e a volte l’antimafia, degli intrecci della prima con la politica, e del non sempre compatto fronte della seconda; affronta il parallelo tra Vito e Massimo Ciancimino, diverse espressioni di una umanità condizionata dalla medesima matrice culturale mafiosa; non lesina particolari del suo incontro con Silvio Berlusconi del 26 novembre 2002, quando in qualità di pm nel processo a Dell’Utri, Ingroia si recò a Palazzo Chigi per fare luce su alcuni fatti relativi ai rapporti Mangano-Dell’Utri, circostanza dove il premier si avvalse della facoltà di non rispondere, disattendo doverosi chiarimenti in merito a spostamenti di denaro riguardanti le holding Fininvest; si sofferma sulla discutibile evoluzione che progressivamente dal 2001, ha colpito la normativa che regola i criteri con cui lo Stato fornisce protezione ai collaboratori di giustizia, restrizioni (portate alla luce dal recente caso Spatuzza) che oggi disincentivano i mafiosi a pentirsi, e che hanno subito una casuale accelerazione, da quando negli ultimi anni la magistratura ha affondato i colpi sui rapporti mafia politica; ripercorre la drammatica vicenda di Rita Atria, la giovane testimone di giustizia che scelse di togliersi la vita l’indomani l’uccisione di Paolo Borsellino. Borsellino fu l’uomo che indusse Rita a denunciare la cultura famigliare mafiosa, per intraprendere una esistenza al fianco della legalità, ma divenne soprattutto un secondo padre dopo il totale ripudio infertogli dalla famiglia di sangue. La perdita anche di questa nuova famiglia acquisita la gettò in uno sconforto dal quale non riuscì a sopravvivere.
In conclusione il magistrato indica quale è la sua strada per uscire dal labirinto: proseguire con ostinato ottimismo seguendo una via sicuramente lunga, irta e faticosa, attingendo forza dagli esempi virtuosi di coloro che hanno consentito nei decenni di far luce sull’universo mafioso, consentendone oggi una decifrazione impossibile sino a pochi anni addietro, alimentare ed infoltire la spinta di un fronte antimafia che deve radicare i propri connotati culturali oltre che giudiziari.
Di questo e altro ancora Antonio Ingroia ha parlato nel corso della serata, e stimolato dal dibattito conclusivo con il pubblico, non ha mancato di esprimere il proprio rammarico verso una informazione nazionale inadeguata a formare una corretta conoscenza dei fatti, aspetto questo, in grado di deformare il corso della vita democratica di un paese. 
Il tour promozionale del libro è diventato così un itinerario di incontri e confronti, aperti ed informali. Occasioni in cui come a Vignola, i cittadini hanno manifestato al magistrato sincero affetto e calorosa gratitudine, ma anche una combinazione di inquietudine, frustrazione e preoccupazione, per la crescente deriva morale che ha sospinto la nostra società sul ciglio del baratro di una illegalità diffusa e patrocinata dalle poco trasparenti condotte di politici e potenti. 
(*) Antonio Ingroia è un magistrato italiano. Si forma professionalmente a Palermo, sua città natale, a partire dal 1987, nel pool di Falcone e Borsellino. Quest’ultimo l'aveva espressamente voluto al proprio fianco. Sostituto procuratore a Palermo dal 1992 con Gian Carlo Caselli, diviene un importante pubblico ministero antimafia. Una delle indagini che fanno capo a lui riguarda l'attuale senatore del PdL Marcello Dell'Utri. Durante l'indagine preliminare fu indagato anche Silvio Berlusconi, ma poi la sua posizione fu archiviata. Nel 2009 è stato nominato procuratore aggiunto della procura distrettuale antimafia di Palermo.

 
Alkemia, 31 maggio 2011

 


 

Dall’autore di “Biùtiful Cauntri” Peppe Ruggiero, le ricadute sul cibo delle attività mafiose

 

Sulle nostre tavole Mafia da mangiare

 

di Ermanno Bugamelli

 


E’ nota prerogativa mafiosa, non porsi limiti nel selezionare gli ambiti su cui allungare i propri tentacoli alla ricerca di ogni opportunità di guadagno. Pur consapevoli di questo, anche nell’era “post gomorriana” che ha ampliato e di molto il campo di applicazione dei crimini di mafia, nella comune percezione popolare esistono ancora delle zone franche, contesti nei quali anche per i criminali più incalliti e privi di scrupoli, può apparire illogico e autolesionista inquinare e manipolare.
Uno di questi è il cibo, necessità primaria per ogni individuo.
Con il libro “L’ultima cena” (Edizioni Ambiente, 2010), il giornalista e scrittore Peppe Ruggiero (1) annichilisce anche questa illusione, e ci trascina in un allucinante viaggio lungo il “Bel Paese”, alla scoperta delle ricadute sugli alimenti delle attività criminali mafiose.

…Un libro difficile da digerire…
Il volume è arricchito dalla prefazione di Don Luigi Ciotti, presidente e fondatore di “Libera contro le mafie”, e dall’introduzione di Roberto Morrione, direttore responsabile di Libera Informazione. Per Don Ciotti l’opera di Ruggiero è “…una ricerca attenta, documentata,  approfondita…”, e senza intenti giocosi lo definisce con amara lucidità “...un libro difficile da digerire”. Morrione apre ad una riflessione più ampia ponendo interrogativi su cosa si nasconda all’ombra del dilagare mafioso in ogni contesto: “Cosa sta investendo il nostro paese, corrodendo in profondità la sua anima, cambiando i valori fondanti e la sensibilità del suo popolo, fino a creare quella cortina di indifferenza e di estraneità alle leggi dello Stato e alla morale che al Sud è spesso rassegnata condizione di vita, nella quale le mafie edificano i loro vincenti imperi?
Lo scritto di Peppe Ruggiero colpisce la pancia e raggela l’anima. La mafia che viene raccontata non usa il tritolo, non spara a bruciapelo, non traffica in cocaina o armi, ma inquina ed avvelena terreni, animali ed alimenti, detta le regole sul commercio di beni essenziali e popolari quali pane, carne, pesce, latticini, gelati e caffé. Uomini che a scopo di lucro danno fondo ad una illimitata creatività integralmente al servizio del male. Questa mafia non ha remore, non si pone freni, sfrutta, minaccia, e soprattutto uccide, ma lo fa lentamente, giorno dopo giorno, come lenta è l’azione del veleno che entra nel nostro corpo attraverso il cibo in maniera subdola e silente.
“L’ultima cena” è il frutto di una lunga e accurata ricerca tra atti giudiziari, intercettazioni, ordinanze, che secondo il giornalista costituiscono materiale sufficiente per “fare memoria e azione di denuncia”, ma che invece finisce per essere dimenticato in polverosi angoli degli archivi. A questo “mosaico”, Peppe Ruggiero fonde la personale ricerca sul campo del bravo giornalista d’inchiesta. Il risultato è una rassegna di racconti che sfondano le pareti della immaginazione per inondare le vette della pura angoscia.

Storie di ordinaria follia criminale

Prendono vita storie di ordinaria follia criminale dove il pane e la pizza vengono cotti in forni abusivi o legali, alimentati con il legno delle bare cimiteriali, o trattato chimicamente, o proveniente da scenografie teatrali; un contesto che ha come sfondo la scoperta di tombe profanate nel cimitero di Poggioreale, dove più salme venivano “ritumulate” nello stesso loculo per procurarsi il legno con cui rifornire panetterie e pizzerie.
Si riporta alla luce la dimenticata frode risalente al 2000 del burro alterato dal clan dei Zagaria con oli impiegati nella cosmesi, grassi di origine animale, e derivati di sintesi da idrocarburi. Oltre 22.000 tonnellate di prodotto altamente tossico per il metabolismo epatico, venne distribuito su scala europea coinvolgendo un bacino di oltre 80 milioni di persone.
Ruggiero affonda i colpi sui Casalesi che prima hanno avvelenato il territorio saturandolo di rifiuti tossici, poi le bufale che su quei terreni arricchiti di diossina pascolano, e infine la celebre mozzarella prodotta con quel latte, o con altro di provenienza estera privo di controlli, al quale si aggiunge calce e acqua ossigenata per sbiancare e gonfiare trecce e bocconcini; attacca famiglie come i Contini, gli Schiavone, i Fabbroncino, eredi di una tradizione camorristica nell’alterazione degli allevamenti risalente agli anni ’50, rei di “dopare” con terribili misture di farmaci il bestiame destinato alla macellazione clandestina, al fine di ingrossare oltre ai guadagni pure mucche e bistecche; denuncia l’azione di boss come Giuseppe Misso (Rione Sanità), che imponeva quale refrigerante del pescato, la vendita alle pescherie dell’acqua di mare satura di coliformi fecali pompata dal lungomare napoletano; si lancia contro il racket dei “caparozzolanti”, i pescatori abusivi di cozze e vongole, che alla guida di “drifting” da 300 cavalli, scorazzano nell’inquinata Laguna Veneta presso il petrolchimico di Porto Marghera, per immettere nel circuito dei più prestigiosi ristoranti di Venezia e del Nord, decine e decine di quintali di mitili poco veraci e molto tossici; narra degli orrori emersi dalla operazione “Diomede” dei Carabinieri del NAS di Napoli datata 2006, dove in un organizzato circuito ippico di corse clandestine gestito dai clan, gli animali venivano prima bombati con letali cocktail di anabolizzanti, cocaina e farmaci di ogni genere, Viagra incluso ( ma solo alle femmine), per esasperarne le prestazioni sportive, e poi una volta spompato il cuore, distrutto i tendini e avvelenatogli le carni, i cavalli finivano macellati per rifornire il mercato della loro ricostituente fettina per bimbi ed anziani.
La Camorra ha distrutto e per sempre, quello che era il giardino dell’Eden dell’orto frutta Campano, l’area tra le province di Napoli e Caserta. Coltivazioni di fragole, insalate, finocchi, zucchine, frutteti di mele, pesche e ciliegie  concimate con diossina, ceneri da combustione, oli minerali,vernici e fanghi di scarto, polveri di abbattimento dei fumi siderurgici. Un territorio agricolo che per anni ha subito il versamento di rifiuti tossici di ogni genere. Una quantità che se raccolta in una montagna supererebbe l’Everest come ci ricordava Roberto Saviano. Si stima che solo che solo negli ultimi tre anni, siano oltre 15 milioni le tonnellate sotterrate in vari angoli della regione. Enormi buche scavate nel terreno in cui si è sepolto rifiuti ospedalieri e cimiteriali, scorie di alluminio, cromo, rame, zinco, cadmio. Poi una volta ricoperte, spesso poco e male, sopra quei terreni si è costruito case e coltivato frutta e verdura. A tutto questo si somma la più terribile delle sostanze, l’essenza del selvaggio inquinamento operato da circa un trentennio: il percolato, la parte liquida che i rifiuti urbani rilasciano nel tempo decomponendosi. Un fluido mortale che si forma nel tempo sul fondo delle discariche abusive le quali, prive dei necessari sistemi di contenimento, lasciano penetrare il percolato nel terreno sino alle falde acquifere. Un processo lento e silenzioso che secondo autorevoli studi recenti, raggiungerà il culmine dei suoi effetti mortali solo tra qualche decennio. Tonnellate di rifiuti riposano sotto gli stessi campi da cui si raccolgono oggi come ieri, tonnellate di prodotti agricoli commercializzati in tutto il paese, e consumate sulle tavole di Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, alcune di quelle regioni da cui sono giunti i rifiuti velenosi.
Quanto sopra è solo un accenno al corollario di nefandezze narrato da Peppe Ruggiero, un elenco di crimini difficile da metabolizzare, a cui si rifiuta di credere per autodifesa, o perché smarriti e impotenti. Le denunce mediatiche vengono spesso zittite da politica e imprenditoria per le devastanti ricadute economiche ed elettorali. Come inascoltate sono le grida di dolore di una popolazione che vede morire i propri cari con una allucinante percentuale di tumori di gran lunga superiore alla media nazionale. Un silenzio complice, criminale, irresponsabile.
Ogni classe politica minimamente dotata di coscienza e di decenza, non avrebbe consentito un simile scempio.

Un epilogo per la speranza
Eppure Peppe Ruggiero riesce a concludere il suo libro con un forte messaggio di speranza, unitamente al fine reale della sua inchiesta: informare per creare quella consapevolezza che fornisca al cittadino gli strumenti per conoscere, capire, scegliere e quindi denunciare. In coda “L’ultima cena”, dedica diverse pagine al lavoro svolto dalle cooperative di Libera Terra, insieme alle altre associazioni che usufruiscono della legge 109 del 1996 che regola l’utilizzo dei beni confiscati alle mafie a fine sociale. Il felice epilogo di un percorso avviato dalla legge Rognoni-La Torre nel 1982. Rappresentano quella porzione di paese che si oppone alle mafie in silenzio, con l’onestà del proprio lavoro. Finalmente racconti e testimonianze della migliore gioventù italiana, che ogni anno affolla volontariamente  terreni in Sicilia, Puglia, Campania e Calabria sottratti ai capitali mafiosi, per trasformarli in esempi virtuosi di produttività agricola biologica. Pane, pasta, olio, vino, conserve, e tanti altri frutti della terra, si propongono come una sicura e concreta alternativa per la spesa quotidiana oggi acquistabili in molti punti vendita della grande distribuzione, e si trasformano in pratiche ricette culinarie garantite sul piano del gusto e della salute.
Un esempio ed un simbolo al contempo di una mafia vincibile, e della tangibile possibilità di costruire un Italia diversa. 

Un sistema criminale che giova di una metastasi culturale

I tentacoli mafiosi che abbracciano il sistema agroalimentare quindi, espongono i consumatori impegnati nella spesa quotidiana, e gli ignari avventori di bar,ristoranti e pizzerie, a percorrere un girone dantesco intriso di mimetizzate esche avvelenate. Tutti noi inconsapevolmente, rischiamo ogni giorno di cenare, pranzare, fare colazione o uno spuntino ospiti dei boss, di consumare cibo servitoci a caro prezzo e privo di alcuna amorevole cura, proveniente da uno degli svariati circuiti controllati dalla criminalità organizzata.
Un sistema criminale il cui fatturato si aggira sui 70 miliardi di euro l’anno, e che l’imponente disponibilità di denaro liquido rende terribilmente potente. Si stimano in oltre 5000 il numero dei locali nazionali tra ristoranti, pizzerie, bar, in mano alle mafie. Uno stuolo di esercizi spesso intestati a prestanome, dove la pratica dell’evasione fiscale è sistematica. Come svariate inchieste hanno consentito di scoprire, alcuni di questi costituivano l’elite del settore nelle maggiori città, ambiti e ricercati per le più importanti occasioni pubbliche e private. Una rete truccata in grado di produrre a sua volta ricchezza “pulita” detergendo il denaro mafioso macchiato di sangue e violenza. Capitali che alimentano un circolo vizioso che droga le regole del mercato, strangola la concorrenza, corrompe allevatori, produttori, veterinari, medici, ispettori delle ASL, figure che da organi di controllo della filiera alimentare, divengono elementi chiave della filiera criminale.
Ed è attorno alla metastasi culturale della corruzione, come al patto di ferro sancito tra politica economia e mafia, che ruotano alcune delle risposte al drammatico quesito di Roberto Morrione.
Le mancanti forse, le possiamo cercare solo in noi stessi, donne e uomini di un tempo che attoniti e assuefatti, sembrano aver smarrito la forza dell’indignazione.

 (1) Peppe Ruggiero, giornalista professionista dal 2003, collabora con varie testate tra cui l’Unità, Terra, La nuova ecologia, Narcomafie, Libera Informazione. Responsabile ufficio stampa di Libera e di Legambiente Campania, è tra i curatori del Rapporto Ecomafia di Legambiente. Ha curato tra gli altri, il dossier Racket degli animali (1998), il dossier Chernobyl (2000) e il libro bianco “Radiografia dei traffici illeciti, Dieci anni di rifiuti S.p.a” (2004). Ha pubblicato il libro “Terre tremule” in occasione del ventennale del terremoto in Irpinia e ha collaborato al documentario “La terra è fatta così” di Gianni Amelio sul terremoto in Irpinia.
Nel 2007 ha realizzato con Andrea D’Ambrosio ed Esmeralda Calabria il documentario “Biùtiful Cauntri”, vincitore del Nastro d’Argento 2008 come miglior documentario uscito in sala. Nel 2010 è stato consulente su criminalità e sicurezza alimentare per la trasmissione “Mi manda Rai Tre”.

Alkemia, 10 maggio 2011


 

In memoria di Angelo Vassallo e contro l’inquinamento mafioso di cibo e territorio

A San Cesario sul Panaro, tappa de “I comuni per la legalità”

di Ermanno Bugamelli

 

I comuni modenesi contro le mafie
All’interno dell’iniziativa “I comuni per la legalità”, rassegna di conferenze a sostegno della lotta contro le infiltrazioni mafiose in memoria di Angelo Vassallo, il 18 aprile scorso Villa Boschetti di San Cesario sul Panaro ha ospitato un incontro sul tema “Mafie ed ecomafie”. Si è trattato del sesto appuntamento del ciclo organizzato dai comuni della provincia modenese di Bastiglia, Bomporto, Castelfranco Emilia, Nonantola, Ravarino e San Cesario sul Panaro, con la collaborazione di Libera contro le mafie e associazione Pace&Solidarietà, per sensibilizzare ed informare il nostro territorio sulla minaccia arrecata dalla contaminazione mafiosa in tutte le sue sfumature.
Sono 62 le cosche mafiose di cui si è accertata l’operatività in Emilia Romagna. Una mappatura criminale dominata nelle cifre dalla ‘Ndrangheta con 37 clan, seguita da Camorra e Cosa Nostra con 12 gruppi mafiosi ciascuno, e chiusa dall’unica cosca individuata della Sacra Corona Unita. Secondo l’ultimo rapporto di SOS Impresa inoltre, si viene a sapere che al 5% dei commercianti emiliano romagnoli, con la massima concentrazione nelle province di Modena, Bologna, e della Riviera, viene richiesto di pagare il pizzo. Un attacco all’economia legale che si apre a ventaglio e tocca un ampio ambito di settori,dall’edilizia a i trasporti, dal turismo all’industria del divertimento, sino al commercio e all’agroalimentare.
Gli sforzi degli investigatori, unitamente all’impegno di tutte le associazioni di categoria coinvolte, rischiano di non essere sufficienti. Occorre alimentare la consapevolezza della cittadinanza sulla gravità di un fenomeno in progressiva espansione, infrangendo il luogo comune che vede le mafie problema solo del Sud Italia, ed in questo senso si è mossa la scelta degli organizzatori: tessere una rete di dibattiti a sfondo culturale e informativo, per diffondere quel verbo della legalità grazie al quale la guerra alle mafie non rimanga argomento unicamente rivolto agli addetti ai lavori.

In memoria di Angelo
La serata di San Cesario, aperta dall’introduzione del sindaco Valerio Zanni, è stata condotta dal giornalista Federico Lacche (1), e arricchita dagli interventi dei colleghi Peppe Ruggiero (2) e Giovanni Tizian (3).
Ruggiero ha aperto la sua partecipazione ricordando Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla Camorra il 5 settembre 2010. Il ritratto personale che emerge dai ricordi acuisce un rammarico ed un dolore immenso. Ruggiero racconta di essere tornato a Pollica giusto la settimana scorsa, la prima volta dopo l’assassinio di Angelo: “Camminando per le strada alle cinque del pomeriggio, Pollica era ancora bellissima, ma si sentiva tanto la mancanza del sindaco…Lui mi diceva sempre io faccio l’amministratore e non il politico, io gli dicevo ma Angelo è la stessa cosa, ma lui mi ripeteva invece che vi era una differenza sottile. Angelo diceva che non era aggrappato alle poltrone, ma si sentiva un amministratore della città e dei cittadini. Per questo mi ripeteva che ogni mattina prima di andare in Comune, dalle 7 alle 8 lui si faceva trovare al bar della piazza principale di Pollica, in modo che i suoi cittadini potessero incontrarlo e parlargli, senza il bisogno di andare a cercarlo…Un’altra cosa molto bella che mi ripeteva era proteggiamo le nostre risorse, crediamo nello sviluppo ma rimaniamo piccoli, perché il turista ci sceglie perché siamo diversi, perché siamo qualcosa di particolare…Se diventiamo grandi perdiamo la nostra identità…
Angelo Vassallo vestiva la carica pubblica con semplicità, lavorando per il bene di tutta la sua comunità. Egli ha difeso e valorizzato il territorio di Pollica ed il suo patrimonio naturalistico, innescando così un circolo virtuoso dove la legalità, il rispetto delle regole e della vita di uomini e natura, hanno finito con il creare prosperità e benessere grazie al turismo. L’esatto opposto di quanto usano fare le mafie, che fondano la propria ricchezza sulla distruzione di vite e territori. Ed è per questo che Vassallo ha pagato con la vita le sue scelte. Scelte difficili che bisognavano di coraggio e fermezza quando si ha di fronte la Camorra. Senza indietreggiare, egli ha lavorato umilmente ed in silenzio, lontano dai riflettori, un impegno fatto di sostanza di cui in troppi si sono accorti solo dopo la sua morte. Molti suoi concittadini e amici pescatori affermava Ruggiero, hanno compreso sino in fondo solo dopo la sua uccisione quanto straordinario fosse il loro oramai ex sindaco. Una disattenzione popolare che secondo il giornalista è sfumata in una più grave e colpevole amnesia dei vertici del suo stesso schieramento di centro sinistra, verso i quali Vassallo non ha nascosto l’amarezza di sentirsi spesso dimenticato. Un disagio reale e sentito, seppur manifestato nella delicatezza dei toni tipica del suo stile.
Ruggiero termina il ricordo dell’amico scomparso: “Amministrare normalmente dovrebbe essere la cosa più semplice, ma può diventare una eccezionalità in questo paese”.


Le mafie inquinano il cibo
Con la presentazione dell’ultimo lavoro di Peppe Ruggiero, il libro “L’ultima cena” (Edizioni Ambiente, 2010), la serata  avvia un allucinante viaggio lungo il “Bel Paese”, alla scoperta delle ricadute sul cibo delle attività criminali mafiose. Il volume nella prefazione curata da Don Luigi Ciotti, viene definito dal presidente e fondatore di Libera “difficile da digerire”. Un gioco di parole che funge a preambolo ad un testo dai contenuti angoscianti e drammatici. Lo scritto di Ruggiero colpisce la pancia e raggela l’anima. La mafia che viene raccontata non usa il tritolo, non spara a bruciapelo, ma inquina ed avvelena terreni ed alimenti, detta le regole sul commercio di beni essenziali e popolari quali pane, latte e caffé. Uomini che a scopo di lucro mettono in risalto una illimitata creatività integralmente al servizio del male. Questa mafia che ha messo le mani su migliaia di esercizi della ristorazione, ed il cui fatturato si aggira sui 70 miliardi di euro l’anno, non ha remore, non si pone freni, sfrutta, minaccia, corrompe, e soprattutto uccide, ma lo fa lentamente, giorno dopo giorno, come lenta è l’azione del veleno che entra nel nostro corpo attraverso il cibo in maniera subdola e silente. I tentacoli mafiosi che abbracciano il sistema agroalimentare, costringono inermi consumatori impegnati nella spesa quotidiana, ed ignari avventori di bar,ristoranti e pizzerie, a percorrere un girone dantesco intriso di mimetizzate esche avvelenate. Tutti noi inconsapevolmente, rischiamo ogni giorno di cenare, pranzare, fare colazione o uno spuntino ospiti dei boss, di consumare cibo servitoci a caro prezzo e privo di alcuna amorevole cura, proveniente da uno degli svariati circuiti controllati dalla criminalità organizzata.
L’ultima cena” è il frutto di un lungo e accurato lavoro tra atti giudiziari, intercettazioni, ordinanze che secondo il giornalista costituiscono materiale sufficiente per “fare memoria e azione di denuncia”. A questo “mosaico”, Peppe Ruggiero fonde la personale ricerca sul campo del bravo giornalista d’inchiesta. Il risultato è una rassegna di racconti che sfondano le pareti della immaginazione per inondare le vette della pura angoscia.
Eppure una vasta porzione del giornalismo nazionale preferisce la notizia d’effetto e ignora un così prezioso archivio a cui attingere. Un aspetto che introduce alle difficoltà che Ruggiero aveva già incontrato nella divulgazione del suo “Biutiful Cauntri”, lo splendido e durissimo documentario premiato con il Nastro d’Argento 2008, che racconta dell’inquinamento ambientale compiuto dalla Camorra in terra Campana. I massimi circuiti mediatici nazionali Rai e Mediaset, si sono rifiutati di proporlo sia per la scabrosità del tema, in troppi temevano ricadute economiche devastanti, sia perché Ruggiero non risultava sufficientemente noto da assicurare l’audience desiderato. L’apice venne raggiunto da un funzionario televisivo, che pur elogiando il lavoro per qualità e contenuti, arrivò a motivare la scelta di non trasmetterlo in quanto il giornalista non era protetto da scorta, quasi che l’indice di professionalità richiedesse quale indicatore essenziale, l’alta probabilità di finire ammazzato.
Ruggiero diffuse il suo documentario attraverso oltre 700 incontri sul territorio nazionale, e alla luce di quella esperienza, ha scelto di ripercorrere il medesimo cammino anche con il suo ultimo libro.
Incontri fondamentali al fine di alimentare una consapevolezza comune oggi ancora insufficiente. Occorre che i cittadini siano informati al massimo su temi che sfuggono ai canali mediatici di massa. Essi devono maturare uno spirito critico che gli fornisca gli strumenti per difendersi, per giudicare, per scegliere e quindi anche per denunciare.

Frutta e verdura viaggiano su ruote mafiose
Ad alternare i racconti di Peppe Ruggiero, la testimonianza di Giovanni Tizian, giovane cronista di origini calabresi della Gazzetta di Modena. Tizian ci relaziona sulla pressione che i clan esercitano sul settore agroalimentare, attraverso il controllo del trasporto su gomma, sintesi dell'ultimo suo lavoro “Soffocati”, scritto a quattro mani con la collega Laura Galesi, e pubblicato sull’ultimo numero di Narcomafie. Partendo dai risultati della inchiesta antimafia del 2010 “Sud Pontino”, che ha stilato una vera mappatura nazionale dell’azione mafiosa sul settore, viene approfondito l’asse Sud Nord su cui si muove la frutta e la verdura. Una direttrice su cui, caso abbastanza raro nell’universo mafioso, si trovano imprenditori in grado di operare mettendo d’accordo Cosa Nostra, Camorra, ‘Ndrangheta e Stidda. E’ il caso di Costantino Pagano e della sua “Paganese Trasporti”, autentico leader del trasporto di ortofrutta al servizio delle organizzazioni criminali. Le mafie hanno da qualche tempo scelto di non applicare il pizzo ai produttori di frutta e verdura, ma attraverso trasportatori come la Paganese, scelgono di imporre il proprio servizio. Il produttore si trova costretto a servirsi di quei camion per far viaggiare i propri articoli, cosa di per sé accettabile all’inizio, in quanto le tariffe di partenza sono veramente concorrenziali, e l’intero affare appare come una reale opportunità economica. L'organizzazione criminale trascorso qualche mese però, una volta acquisito l’esclusività del servizio di trasporto con un vasto pacchetto di produttori, fa lievitare le tariffe all’improvviso. Come è facile immaginare, per gli imprenditori agricoli stretti nella morsa non è così semplice infrangere un patto con simili interlocutori. Nei casi meno fortunati gli strumenti di dissuasione mafiosa fanno tramontare ogni tentativo di rottura. Soggetti di particolare forza tentano comunque di spezzare il vincolo, ma come nel caso della “Lidl Italia”, alle prese con l’indrina calabrese dei Mancuso, si trattò di azioni di breve corso. La “Lidl Italia” a causa degli alti costi, ruppe il rapporto con i vecchi trasportatori sotto l’egida mafiosa. Per i primi tempi non accadde nulla, poi improvvisamente, i camion della nuova azienda di trasporti iniziarono a saltare in aria uno dopo l’altro. Il lasso di tempo che indusse la multinazionale a tornare sui propri passi e riallacciare i rapporti con i Mancuso fu molto breve. L’innalzamento dei costi di trasporto per mano mafiosa, costituisce un fardello gravoso lungo l'intera filiera, determinando un ulteriore incremento del prezzo dei prodotti a carico dei consumatori.
Giovanni Tizian entra nel dettaglio del percorso che alcuni prodotti seguono lungo l’Italia, attraversando vari anelli di una filiera dove la mafia ha posizionato efficienti centri di controllo. Accade che meloni siciliani prodotti da un coltivatore vicino a Matteo Messina Denaro, che su quei frutti impone la produzione esclusiva, o i famosi pomodori Pachino, vengano imbarcati sulle navi dirette a Napoli a bordo dei camion della Paganese, e giunti nel porto campano seguano la via di Fondi nel Lazio. All'interno di uno dei maggiori centri di smistamento europei dell’ortofrutta, i clan controllano diverse imprese. A questo punto del viaggio verso Nord, i meloni proseguono lungo canali sorvegliati, per giungere nei mercati di Bologna o Milano, dove la presenza accertata di altri picciotti, garantisce la chiusura del flusso commerciale. Ai pomodori Pachino a volte, s’impone un supplementare e assurdo viaggio di ritorno ai mercati di Sicilia: tormentati andirivieni lungo lo “Stivale”, che provocano il lievitare dei prezzi dal produttore al consumatore dalle tre alle otto volte.
L’aspetto più inquietante dell’intero traffico, è rappresentato dal sempre maggior numero di imprese e cooperative che finiscono sotto il controllo delle mafie. Al mercato ortofrutticolo di Milano ad esempio, erano più di 20 le cooperative scoperte in mano alle cosche dei clan Bruzzanti-Morabito di Reggio Calabria.
Tentando di rassicurare i presenti, Tizian conclude affermando che le filiere agroalimentari non sono per fortuna esclusiva mafiosa. Ne esistono ovviamente molte certificate e sicure, ma anche in questo caso un ruolo importante lo può svolgere il consumatore se informato e consapevole, che nei limiti del possibile, deve essere guidato verso una spesa intelligente, dove si privilegino i circuiti a km zero, o i produttori locali. Spesso nella gran parte della gente, il settore ortofrutta non rientra tra i canali convenzionali d’interesse mafioso. Trattasi invece di un settore in continua espansione, in grado di garantire alle mafie guadagni enormi sfruttando l’antica matrice culturale agricola del nostro paese, e quei canali che consentono ai clan d’insinuarsi nella rete della grande distribuzione.

(1) Federico Lacche lavora nella redazione di Città del Capo Radio Metropolitana, radio del circuito di Popolare Network. Nel corso della sua carriera professionale si è occupato in varia misura di temi inerenti l'ambiente e le economie sostenibili. Dal 2007 è responsabile di Libera Radio, testata indipendente nata per dare priorità di informazione ai temi della legalità e della criminalità organizzata. Da qualche tempo organizza laboratori radiofonici con i ragazzi e le ragazze delle scuole, che hanno come focus la conoscenza dei fenomeni mafiosi nel nostro Paese.


(2) Peppe Ruggiero, giornalista professionista dal 2003, collabora con varie testate tra cui l’Unità, Terra, La nuova ecologia, Narcomafie, Libera Informazione. Responsabile ufficio stampa di Libera e di Legambiente Campania, è tra i curatori del Rapporto Ecomafia di Legambiente. Ha curato tra gli altri, il dossier Racket degli animali (1998), il dossier Chernobyl (2000) e il libro bianco “Radiografia dei traffici illeciti, Dieci anni di rifiuti S.p.a” (2004). Ha pubblicato il libro “Terre tremule” in occasione del ventennale del terremoto in Irpinia e ha collaborato al documentario “La terra è fatta così” di Gianni Amelio sul terremoto in Irpinia.
Nel 2007 ha realizzato con Andrea D’Ambrosio ed Esmeralda Calabria il documentario Biùtiful Cauntri, vincitore del Nastro d’Argento 2008 come miglior documentario uscito in sala. Nel 2010 è stato consulente su criminalità e sicurezza alimentare per la trasmissione “Mi manda Rai Tre”.

(3) La storia di Giovanni Tizian merita un accenno. Trattasi dell’esperienza umana di chi riesce dopo un lungo e difficile cammino personale, a trasformare il dolore privato in impegno civile e professionale. Giovanni aveva sette anni quando il 23 ottobre 1989, suo padre venne ucciso a Locri. Un delitto che rimane ad oggi senza colpevoli, cosa di per sé grave, ma ben poca cosa a confronto della scandalosa archiviazione, che dopo solo un anno d’indagini ha decapitato ogni speranza di giustizia senza giungere a nessuna conclusione. Per la giustizia italiana la fine dell’uomo è stata di fatto e incredibilmente, equiparata ad una morte per causa naturale, ma i due uomini in motocicletta che affiancarono la vittima per trucidarlo stringendo una lupara con la matricola abrasa, sembrano raccontare di un delitto di ‘Ndrangheta. La famiglia di Giovanni che mai aveva sospettato nulla, decise di trasferirsi, sfiancata anche economicamente dal misterioso incendio che un anno prima aveva distrutto l’azienda del nonno. Due fatti che nessuno, famigliari inclusi, è mai riuscito a collegare con certezza. Giovanni Tizian racconta questo e molto altro in una intervista rilasciata all’associazione “da Sud” con cui collabora da tre anni (www.dasud.it), del 26 luglio 2010. Solo di recente il giovane ha trovato la forza per riprendere in mano gli atti giudiziari relativi all’uccisione del padre. Un atto di determinazione e coraggio nel tentativo di far luce su un delitto di stampo mafioso impunito, che unitamente all’impegno quotidiano di cronista di mafia, lo pongono nella giusta condizione di esortare verso tutti i giovani, il medesimo coinvolgimento:” Vedo ancora tanta indifferenza, anche tra i miei amici di Bovalino che hanno studiato fuori e si sono fatti una vita lontano dalla Calabria. Un problema che spesso viene visto come circoscritto alla Calabria o comunque una questione di cui si occupano solo gli addetti ai lavori. E questo è un problema perché finché non si crea una coscienza forte e collettiva che porta a vedere il problema come italiano, questo rimarrà immutato”.

Alkemia, 29 aprile 2011 

 


La “Statale” di Milano gremita contro la criminalità organizzata

Don Ciotti e Mario Draghi: le mafie frenano lo sviluppo civico ed economico

di Ermanno Bugamelli


La “Statale” di Milano contro l’avanzata delle mafie 
L’avanzata delle mafie nel Nord è oggi un fenomeno conclamato e inconfutabile, certificato dai fatti. Le operazioni di polizia e magistratura hanno subito una accelerazione senza precedenti negli ultimi anni. Solo dal luglio 2010 ai giorni scorsi, sono centinaia gli arresti operati dalle forze dell’ordine in Lombardia, Liguria, Piemonte, con ramificazioni d’inchiesta che hanno raggiunto Calabria, Sicilia, Campania, per propagarsi, all’inseguimento dell’onda di un crimine globale capace di azzerare le distanze, sino all’Australia, al Canada e al Sud America.
L’11 marzo scorso, l’Università Statale di Milano è stata teatro di un incontro organizzato dall’associazione “Libera contro le Mafie”, centrato sull’espansione mafiosa nel settentrione d’Italia. Si è trattato di un appuntamento al culmine di un percorso interuniversitario che ha coinvolto tutti e sette gli atenei del capoluogo lombardo. Un progetto teso ad elaborare una formazione sociale e scientifica atta a fornire un contrasto al fenomeno criminale in espansione. La risposta del pubblico è andata oltre ogni rosea previsione, e l’aula magna dell’ateneo era gremita in ogni angolo da un migliaio di convenuti. Nelle vesti di “padrone di casa”, il presidente di Libera Don Luigi Ciotti. Significativa la partecipazione al convegno di Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia.
I due relatori hanno dato vita ad un intenso dialogo a distanza.


Da Don Ciotti un appello all’impegno collettivo
Don Ciotti centra i suoi interventi sull’importanza della risposta civile che deve sopraggiungere da una società oggi troppo spesso passiva ed inerte al cospetto del manifesto dilagare di criminalità e corruzione. Partendo dal ricordare le parole di Paolo Borsellino che si appellava a tutte le forze sane del paese affinché non cadessero vittima di “perniciose illusioni”, nell’allentare la tensione e l’attenzione verso la lotta alla criminalità organizzata, ritenendo sconfitto il cancro sociale mafioso, il presidente di Libera affonda i colpi riportando passaggi della relazione della DNA (Direzione Nazionale Antimafia). Riferendosi alla Lombardia l’organismo si è pronunciato in termini di una autentica “colonizzazione” che il territorio sta subendo da parte delle forze criminali. Un attacco denunciato da molti anni da associazioni come Libera e da altri osservatori. Denunce non sempre accolte con l’adeguata attenzione da parte di istituzioni politiche a volte propense ad adagiarsi sugli allori di arresti celebri, e poco volenterose ad affondare lo sguardo sotto la luccicante superficie di un tessuto economico e sociale in realtà profondamente malato. Le impietose cifre riportate dalla Corte dei Conti che stima in circa 60 miliardi di euro l’ammontare annuo sottratto al circuito economico legale dalla corruzione a tutti i suoi stadi, sommate ai 130 miliardi (fonte “SOS Impresa”) della Mafia SPA nel suo insieme, costituiscono un fardello pesantissimo che grava sulle spalle del paese. I segnali importanti come quelli provenienti da Modena, dove si è stipulato un accordo da tutti gli ordini professionali che vigilerà sul regolare svolgimento delle professioni sul piano etico e legale, vanno replicati e rafforzati. La pena per coloro che lo infrangeranno, macchiandosi di collusione mafiosa o attività illecite, sarà l’espulsione dall’ordine di appartenenza.
Il peso delle decine di miliardi sottratti all’economia legale, viene secondo Don Ciotti accentuato in forma oramai insostenibile dalla lacerante presa d’atto di un folto corredo d’ingiustizie che tanti cittadini onesti devono sopportare ogni giorno. Lo Stato non può più rinviare una reale ed efficace opposizione morale e legislativa alla corruzione pubblica e al malaffare. La zona grigia denunciata dal procuratore aggiunto di Milano Ilda Bocassini inoltre, attorno alla quale si allineano e annidano imprenditori e politici collusi alla mafia, innalza una barriera di omertà diffusa che intralcia le inchieste, opprime la libera concorrenza nelle attività di ogni settore, scoraggia e deprime il bisogno di speranza quotidiano delle persone perbene.
Ed è a loro che si rivolge Don Ciotti nel suo appello conclusivo che invoca un risveglio collettivo delle coscienze: “Vogliamo più giustizia, vogliamo più trasparenza, vogliamo più libertà per tutti, ma noi dobbiamo fare la nostra parte. Vogliamo essere una spina propositiva. Il cambiamento ha bisogno di più da parte di ciascuno di noi. Questa è la speranza”. 


Le mafie frenano lo sviluppo e minano la democrazia
Le parole con cui Mario Draghi apre il suo intervento non lasciano spazio ad interpretazioni: “Contrastare le mafie, la presa che esse conservano al Sud, l'infiltrazione che tentano al Nord, serve a rinsaldare la fibra sociale del paese ma anche a togliere uno dei freni che rallentano il cammino della nostra economia”. Prendendo ad esempio la situazione di regioni come Puglia e Basilicata, territori fortemente colpiti dalla criminalità organizzata, ma in misura minore di altre realtà del Sud, Draghi evidenzia come il loro PIL avrebbe subito una decurtazione di circa 20 punti percentuali in trenta anni a causa del minor investimento da parte di privati. Non si contano gli imprenditori che scoraggiati dall’estorsione criminale o costretti alla fuga per l’assenza di una libera concorrenza, hanno deciso di investire altrove. La mafia dove regna conduce anche questo. Pur non uccidendo fisicamente, strangola l’economia di un territorio, privando i cittadini di opportunità di lavoro e sviluppo legali.
La crisi ancora in atto a distanza di tre anni accentua un attacco al sistema economico da parte dei gruppi mafiosi. Il settentrione d’Italia storicamente più ricco di aziende prospere che oggi come non mai accusano difficoltà per carenza di denaro contante, sente il peso di un fenomeno avviatosi da decenni da parte dei gruppi mafiosi.
Il Governatore della Banca d’Italia, supporta questo concetto riportando cifre relative a statistiche che certificano come l’estensione delle mafie al Nord cresca in misura esponenziale anno dopo anno cristallizzandosi in precise aree. Tra il 2004 ed il 2009, quattro su cinque denunce per reati collegati all’associazione mafiosa nel Nord del paese provengono dalle province di Milano, Bergamo e Brescia. La Lombardia costituisce quindi una autentica emergenza, ma è l’intero sistema democratico ad essere secondo Draghi, fortemente minacciato dalla combinazione di mafia e corruzione.
Il sistema finanziario sembra allinearsi ad una maggiore disciplina sul fronte dell’antiriciclaggio: se nel 2007 le segnalazioni di infrazione erano state 12.500, ben 37.000 sono giunte nel 2010. Meno scrupolosi appaiono al riguardo invece i liberi professionisti. Il bacino di possibili denunzianti tra notai, avvocati, commercialisti è nell’ordine di svariate centinaia di migliaia, ma nel 2010 sono giunte da questo fronte solo 233 denunce.
La distribuzione territoriale delle segnalazioni di operazioni sospette è in linea con le aree di reddito. Dalla Lombardia, regione da cui proviene il 20% del PIL del paese, giunge una pressoché identica percentuale di informazioni relative a criticità o infrazioni. Diversa è la situazione che emerge mutando l’angolo di osservazione: da regioni storicamente feudo delle associazioni criminali come Sicilia, Campania e Calabria, da cui provengono rispettivamente il 33, 27 e 16%  delle denunce per associazione mafiosa, giungono solo il 6, 12, e 2% delle notifiche antiriciclaggio. Risulta evidente come la morsa mafiosa su quelle aree, condizioni il flusso delle transazioni finanziarie e la libertà di scelta degli operatori.
L’impegno della Banca d’Italia al sostegno del mondo economico conclude Draghi, deve essere continuo e presente in ogni angolo del paese, affinché i clienti in difficoltà non cadano vittime dell’usura e dell’estorsione criminale, e vengano esortati a denunciare i comportamenti illeciti.

Alkemia, 24 marzo 2011



Su 201 comuni commissariati per mafia dal 1991, gli ultimi in Lombardia e Liguria


Nord in scioglimento per mafia


di Ermanno Bugamelli

 

Il carico dei 201

Sono 201 i comuni italiani che a partire dal 1991 sono stati commissariati per mafia, a cui vanno aggiunte quattro ASL infiltrate dal crimine organizzato. Un carico di vergogna per l’intero paese, una macchia che infanga tutto l’arco istituzionale. La conta prende il via nel 1991, anno d’introduzione della legge. A farne le spese per primo fu Taurianova, in provincia di Reggio Calabria. In loco era in corso una sanguinosa guerra di mafia, e per arrestare una emorragia di cadaveri e intrallazzi, il parlamento prese questa iniziativa che da quel momento ha colpito giunte comunali di ogni colore. Ben 31 hanno subito l’onta anche più di una volta, come ad esempio la stessa Taurianova “risciolta” nel 2009. Una infamia che non ha privato alcuni sindaci costretti alle dimissioni per collusione mafiosa della spregiudicatezza di ricandidarsi, come tentò con successo Carlo Esposito, primo cittadino sponda PD di Crispano, in provincia di Napoli. Il suo comune venne sciolto per infiltrazione mafiosa nel 2005, ma passati cinque anni Esposito torna in sella, si candida nuovamente per il Partito Democratico e viene eletto.
La legge sugli scioglimenti è stata modificata nel 2009, e le correzioni apportate non convincono il pm di Napoli Raffaele Cantone: “L’istituto dello scioglimento, malgrado tutti i limiti rappresenta un valido strumento nella lotta alle mafie e nel contrasto alle infiltrazioni malavitose. La legge 94 si sta dimostrando peggiorativa rispetto al passato. La norma ha introdotto presupposti per lo scioglimento molto più rigidi e stringenti così si rischia di confinarla solo ad episodi eclatanti, perdendo in questo modo la natura preventiva della legge, la funzione di utile controllo per la quale era nata”. Inutile sottolineare come una maggiore rigidità dei termini condurrà ad un innalzamento dei ricorsi con speranza di successo al TAR. Le motivazioni di scioglimento seguono un lungo elenco. Le più gettonate sono nell’ordine “legami di amministratori con mafiosi”, “irregolarità negli appalti”, “procedimenti penali contro amministratori”, “parentele di amministratori con mafiosi” e “abusivismo edilizio”.

La classifica per regioni è guidata dalla Campania con 76 scioglimenti, seguita a distanza da Sicilia e Calabria che si contendono il secondo gradino del podio a stretto giro. Nel confronto Centro Sud – Nord non c’è partita, ma sul settentrione grava una preoccupante inversione di tendenza, e pur contando solo tre comuni commissariati, annovera gli ultimi due in ordine di tempo.

Bordighera e la Liguria preda delle mafie
E’ del 12 marzo scorso la notizia dello scioglimento per mafia del comune di Bordighera, in provincia di Imperia.
Con la firma posta sul decreto per infiltrazione mafiosa, il ministro Roberto Maroni ha reso ufficiale quanto in molti sospettavano da tempo. Il provvedimento intrapreso per la giunta di centrodestra di Bordighera, rischia a non restare un caso isolato in Liguria: altri comuni come Ventimiglia e Arenzano, sono sotto stretta osservazione degli organi del ministero.
Quanto emerso dalla inchiesta per mano della Procura di San Remo del resto, racconta di una regione da molti anni sotto scacco della ‘Ndrangheta. A fornire lo spunto ai magistrati è stata l’esternazione di Marco Sferrazza assessore del Turismo. A seguito della sua opposizione all’apertura di una sala giochi, Sferrazza ricevette la visita di Giovanni Pellegrino e Francesco Barilaro, che senza minacciarlo mostrarono comunque una decisa contrarietà alla presa di posizione dell’assessore. Da allora Sferrazza si mostra visibilmente scosso in quanto dice di “dormire con la pistola sotto il cuscino”. Secondo Sferrazza, Pellegrino e Barilaro rivendicano un trascorso di appoggi al sindaco Giovanni Bosio poco trasparenti. Un sostegno alla giunta di Bordighera che il primo cittadino e non solo, doveva contraccambiare con disparati favori e tra questi, l’apertura della sala da giochi in questione, come confermerà anche un altro assessore.
Storie di ordinario malaffare sempre più comuni in ogni angolo del paese, che trovano riscontro anche in terra ligure appena qualcuno trova la forza di infrangere la contagiosa omertà. Diffuse come la reputazione di Giovanni Pellegrino, un nome noto a tutti in quel territorio per i metodi con cui si assicura gli affari. Una sorta di marchio indelebile, difficile da dimenticare come quella giornata del 2009 in cui l’uomo accolse a botte e minacce i carabinieri che si accingevano ad arrestarlo.
E risulterà altrettanto complicato per diversi esponenti della politica Ligure, fornire spiegazioni sulle immagini pubblicate on line dal sito Casa della Legalità, scattate durante una festa calabrese finanziata da enti locali genovesi. E’ il febbraio del 2010 e siamo sotto elezioni. Tra gli invitati Domenico Gangemi, finito in seguito agli arresti, colto a chiacchierare con Aldo Praticò (consigliere comunale PDL di Genova); e poi ancora Eugenio Minasso, deputato e vice coordinatore regionale del PDL, ripreso mentre celebra l’elezione in compagnia di un membro della famiglia Pellegrino ( al centro dell’inchiesta di Bordighera), e di Giovanni Ingrasciotta, che non ha mai rinnegato trascorse frequentazioni con niente meno che Matteo Messina Denaro, uno dei super latitanti di Cosa Nostra siciliana. Gli scatti della Casa della Legalità, toccano anche il centro sinistra: Cinzia Damonte, candidata in Liguria per l’IDV nonché ex assessore di Arenzano, viene colta ad una cena elettorale presso la comunità calabrese, in compagnia di Onofrio Garcea, pregiudicato, che secondo la Guardia di Finanza è “ben inserito negli ambienti della criminalità organizzata”. La Damonte si è giustificata giurando:”Non sapevo”. 
Notizie e sospetti su infiltrazioni e contatti reali o presunti che trovano conferme negli atti giudiziari acquisiti negli anni. Ripercorrendo le tappe del lavoro dei carabinieri, già dal 2006 vi sono riscontri che illustrano come le famiglie calabresi manifestassero un interesse particolare alle elezioni comunali di Bordighera, dove nel 2007 il centro destra trionferà. Una attenzione che darà vita a curiose forme di gemellaggio tra attività assai distanti: night club dove la prostituzione è di casa, diretti da figure in odore di mafia, sono affiliati a organizzazioni sportive del posto. Nelle vesti di dirigenti, secondo quanto scritto dai carabinieri del Nucleo di Imperia, il vice sindaco di Bordighera Mario Iacobucci e Consolato Scopelliti, fratello del Governatore della Calabria, entrambi al momento non tra gli indagati. In tale contesto non si contano i locali e le automobili che misteriosamente finiscono in fiamme. Nel maggio scorso poi, quando la vettura dell’imprenditore edile Pier Giorgio Parodi venne bersagliata da colpi di lupara, egli si limitò a minimizzare con un “Era uno scherzo”.
In pochi però sembrano aver ancora voglia di sorridere al cospetto del terzo comune del Nord sciolto per infiltrazione mafiosa, il secondo nell’arco di pochi mesi.


La tranquilla Desio si “autoscioglie”
Riavvolgiamo il nastro del tempo sino a fine novembre del 2010. Siamo a Desio in provincia di Monza , comune a guida PDL nel cuore della Brianza, fiore all’occhiello di quel modello sociale ed imprenditoriale che vuole essere lo “Stato Padano” nella mente dei suoi ideatori. La notizia delle dimissioni collettive da parte di 17 consiglieri comunali, per il coinvolgimento di altri nelle inchieste per mafia risalenti all’estate precedente, irrompe sulla scena politica. Non era mai accaduto che un comune lombardo venisse sciolto per mafia, e anche se “tecnicamente” non si è verificato neppure in questa circostanza, trattandosi di una sorta di “auto scioglimento”, il fatto costituisce un episodio senza precedenti dalle ricadute gravissime. A generare il terremoto, gli strascichi della imponente operazione anti ‘ndrangheta “Infinito” della DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) di Milano del 13 luglio 2010, che ha procurato oltre 300 arresti in tutta Italia di cui 50 proprio in Brianza.
Venerdì 26 novembre a oltre quattro mesi da quella operazione, 11 consiglieri di opposizione e aspetto ancora più significativo, ben 6 di maggioranza sponda Lega Nord, si presentano in Municipio e rassegnano le dimissioni. Una scelta difficile per gli esponenti leghisti che gli stessi hanno motivato:”Se fossimo restati un giorno in più in questa maggioranza avremmo riconsegnato le tessere del partito”. L’ex vice sindaco Ettore Motta, ha aggiunto, “di certo non volevamo essere complici di questo sistema”.  Il Sindaco Giampiero Mariani si è così visto sciogliere per mafia la propria giunta, dal provvedimento che il Prefetto ha inoltrato al Ministero degli Interni.
Il quadro che emerge dalle intercettazioni è inquietante. La tranquilla Desio appare come un intreccio di intrighi e collusioni politico imprenditoriali mafiose. Ad attirare le cosche gli innumerevoli appalti, tra svincoli e infrastrutture che ruotano attorno all’Expò del 2015. Affiora che uno dei consiglieri comunali pietra dello scandalo, Natale Marrone (PDL), si è rivolto ad un boss come Pio Candeloro per esercitare pressioni affinché si organizzasse iniziative a danno di un altro funzionario del comune di Desio. Compare il nome di Saverio Moscato, professione di facciata imprenditore, in pratica uno dei leader della ‘Ndrangheta che ha conquistato la Lombardia, scegliendo Desio come quartier generale. Moscato viene “ascoltato” mentre si intrattiene con Massimo Ponzoni, favorito di Roberto Formigoni, ex assessore regionale, e scalpitante giovane promessa del PDL lombardo. Ponzoni, ora indagato non per mafia ma per bancarotta fraudolenta, nonostante le intercettazioni confermino i suoi contatti con boss del calibro di Salvatore Strangio e Fortunato Stellitano, emerge come il nome nuovo sui cui puntare, un nome in grado di aggiudicarsi valanghe di preferenze ad ogni competizione elettorale. Preferenze preziose di cui i candidati del PDL faranno a Desio una tale scorpacciata, da costituire ben il 66% del computo totale dei voti, una percentuale irripetibile altrove, persino a Milano dove si aggira mediamente sul 30%. Riuscire a gestire a proprio vantaggio le preferenze, consente il controllo di un serbatoio di voti considerevole e determinante, e questo meccanismo a Desio segue le dinamiche correnti nei territori controllati dalle mafie. Un politico della città lombarda, che preferisce avvalersi dell’anonimato, racconta di come alle ultime amministrative figure sospette stazionassero dinanzi ad alcuni seggi per tutta la giornata. Costoro controllavano chi entrava nei seggi, altri fungevano da accompagnatori di votanti, anziani in particolare, altri ancora si passavano bigliettini. Comportamenti quanto meno sospetti che sommati alla consolidata presenza tra le fila dei rappresentanti di lista, di figure vicine alla dominante cosca Iamonte-Moscato, confermano come la ‘Ndrangheta a Desio ed in tutta la Lombardia fosse di casa e che quanto successo non possa costituire una sorpresa.
Relazioni politico mafiose che si protraggono da anni, dolosamente taciute da chi ne traeva benefici e profitti, dissimulate per imbarazzo e vergogna da chi si rifiutava di vedere quanto si muoveva sotto i loro occhi, nel nome di una reputazione “Nordista”, da tutelare ad ogni costo.


Bardonecchia feudo di “Roccuzzo” Lo Presti

Il poco invidiabile primato di prima giunta settentrionale a cadere sotto i colpi dello scioglimento per mafia, se lo aggiudicò Bardonecchia nell’aprile del 1995. La località dell’Alta Val di Susa, era caduta nelle mani dei calabresi di Rocco Lo Presti, giunto ragazzino in Piemonte negli anni ’50 come figlioccio del padre padrino Ciccio Mazzaferro a seguito dell’applicazione su questo ultimo della legge sul soggiorno obbligato. Fu solo uno dei molti infelici effetti di un provvedimento che doveva rimuovere i mafiosi dalla loro terra d’origine, nell’intento di isolarli a centinaia di chilometri, ma che ottenne il risultato di esportare la criminalità organizzata laddove era inesistente. Trascorrono gli anni e anche la commissione antimafia annota il suo nome tra gli osservati speciali. Il nullatenente muratore di Marina di Gioiosa Jonica, diviene il leader dell’Ndrangheta locale. L’accademia dell’industria della violenza, a cui è stato forgiato dai clan Mazzaferro e Ursini è del resto una garanzia. Gli affari di “Roccuzzo”, così viene nominato in alcune intercettazioni da sodali e amici, si allargano presto dall’edilizia all’autotrasporto sino al commercio, il tutto condito dalla pratica sistematica dell’usura. I calabresi che lo raggiungono per lavorare in negozi, bar, ristoranti, sale da gioco da lui controllati, si contano a centinaia. Siamo negli anni ‘70 e la Bardonecchia sciistica pare assomigliare sempre più ad un satellite della grande Torino. Una edificazione arrembante ed una fitta rete di raccordi e strade accorciano le distanze dal capoluogo, fornendo alle attività dell’impresa Lo Presti coadiuvata dai Mazzaferro, cospicue fonti di guadagno.
Ma non tutti accettarono di buon grado le regole imposte dalla ‘Ndrangheta. Un imprenditore edile che nel 1975 si oppone di assumere i calabresi di Lo Presti, finisce per essere rapito e assassinato. Si chiamava Mario Ceretto, e per la sua scomparsa Lo Presti viene condannato in primo grado ed in appello a 26 anni di carcere, ma poi la Cassazione annullò tutto, qualcuno sostiene per le troppe amicizie altolocate che l’uomo si era coltivato nel pentapartito di governo. I magistrati sono certi della sua posizione di leader della ‘Ndrangheta, ma incastrarlo è un’altra cosa. I guai con la giustizia di Lo Presti proseguono e nel 1996 finirà di nuovo in carcere per l’affare Campo Smith, un intrigo di appalti edili che ricoprì di cemento una delle più antiche località del turismo invernale del Piemonte. A seguito della inchiesta sul progetto, verranno condannati il Sindaco, il segretario comunale, il consulente urbanistico ed il progettista, e sarà questa la ragione scatenante dello scioglimento per mafia del comune di Bardonecchia. Dopo una condanna di sei anni nel 2002 per associazione a delinquere di stampo mafioso, Lo Presti riconquisterà la libertà grazie ai suoi legali, e forse alle amicizie politiche mai trascurate e ora militanti in Forza Italia. Nel gennaio del 2009, appena ricevuta la conferma dell’ennesima condanna per mafia della sua vita criminale, questa volta per usura, il cuore di Lo Presti smette di pulsare per un attacco cardiaco. Trovava applicazione l’unica sentenza possibile in grado di porre fine e definitivamente, alla sua carriera di mafioso.

Ancora una volta…
Quando nel 1995 l’opinione pubblica venne scossa dalla notizia di una Bardonecchia preda della criminalità organizzata, la reazione più diffusa fu di incredulità e sconcerto. In molti, troppi, finirono per minimizzare quell’episodio, ritenendolo un caso sporadico e non replicabile nell’industrioso e legale Nord. In tanti si indignarono, accusando la magistratura di esser caduta in erronee e precipitose conclusioni non rispondenti alla realtà. Flebili furono le voci che si alzarono verso coloro che marciarono a favore degli arrestati per l’inchiesta di Campo Smith, dove esponenti clericali e politici di destra e sinistra, invocarono in coro la riabilitazione di Bardonecchia, al grido che la mafia nella loro terra non esisteva. Eppure le tangenti, le esplosioni nei cantieri causati dal racket, e l’edilizia selvaggia che si abbatterono in quegli anni sulla valle, dettando legge anche su opere e altri affari legati al turismo invernale, al Traforo del Frejus e alla TAV, non avevano una matrice eterea e spirituale. Erano in realtà, il frutto di dinamiche criminali umane tipiche di una politica corrotta che abbraccia la mafia, apre i cancelli dei pubblici appalti e agli imprenditori a lei legati. Un dato di fatto inconfutabile sovrasta comunque ogni analisi: gli ingenti capitali mafiosi hanno consentito di aprire innumerevoli porte, e le economie legali di molti territori del Nord hanno visto il loro PIL beneficiare di quanto prodotto con ricavi illeciti. 
Anche per questo in pochi prestarono adeguata attenzione ad un fenomeno di colonizzazione che aveva radici lontane, esattamente come le prime denunce relative alle attività di clan criminali in terra di Piemonte. Una indagine avviata tra il 1973 e 1976, da alcuni deputati della Repubblica tra i quali Pio La Torre, che da Cosa Nostra verrà ucciso a Palermo il 30 aprile del 1982, indicava senza ombre come a Bardonecchia e dintorni operasse un clan mafioso guidato dai fratelli Vincenzo e Francesco Mazzaferro, una cosca perno della gran parte delle attività illecite della zona.
Ancora una volta, l’ennesima, si è dimostrato come tutto quanto era necessario sapere per proteggere un territorio e reagire alle infiltrazioni mafiose che lo aggredivano, era fruibile e da lungo tempo agli addetti ai lavori.
Un lungo elenco di atti pubblici stava lì a dimostrarlo. Sempre. Nell’oramai lontano 1995 con Bardonecchia e la Val di Susa protagoniste, come nei casi contemporanei di Desio e Bordighera, relazioni delle commissioni antimafia nazionali e regionali congiunte a inchieste di polizia e carabinieri, fornivano indicazioni precise su nomi, luoghi e attività in accertato o forte odore di mafia.
E allora, cosa non ha funzionato nel tessuto politico e sociale del nostro settentrione?
E’ possibile circoscrivere una così vasta contaminazione mafiosa con la sola sottovalutazione del problema, con la disattenzione e con l’incompetenza in materia?
E’ forse mancato il tempo necessario, o la cultura antimafia, o l’umiltà per indurre questi uomini a porre in discussione l’operato proprio e dei predecessori?
O ancora una volta a disertare in politici e amministratori, sono state virtù come l’onestà, il senso del dovere, la rettitudine etica e morale, indispensabili per convertire quelle conoscenze in una sana attività politica al servizio delle comunità?
E ancora.
Può l’intelligenza di ognuno di noi, essere ancora una volta messa a dura prova continuando ad assistere a reazioni come quelle rilasciate dalla presidenza PDL della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, che alcuni giorni addietro ha tacciato di “miserabile” il collega governatore della Puglia Nichi Vendola, reo di aver affermato che “La Lombardia è la regione più mafiosa d’Italia”?
Le affermazioni di Vendola erano sicuramente dure, ma costituivano solo la sintesi di quanto riportato dai quotidiani  in merito alle varie operazioni anti ‘Ndrangheta in Lombardia, l’ultima delle quali la “Caposaldo”, ha presentato gli ospedali milanesi come teatro di incontri al vertice tra boss del calibro di Paolo Martino e Giuseppe Flachi, lasciando intendere che la Sanità Lombarda è preda della mafia non solo sul fronte degli appalti, ma anche in termini di occupazione territoriale. Forse politici come Formigoni, sono incoraggiati a negare dati di fatto in luogo di risposte accettabili, solo perché la passività di tanti cittadini perbene, lo induce a ritenerli sprovvisti di una intelligenza degna di non essere oltraggiata. Un risveglio collettivo delle coscienze è quindi urgente.
Le svariate documentazioni sulle infiltrazioni mafiose in possesso di magistratura e forze dell’ordine, riguardano oggi uno spettro molto ampio di territori e settori economici in tutto il Nord Italia, fornendo un quadro che suscita forte preoccupazione per il futuro.
Un futuro che nemmeno troppo lontano, potrebbe tingersi di un Nord in scioglimento per mafia.


Alkemia, 29 marzo 2011


 

Da Enzo Ciconte* una esemplare lezione di antimafia

 “’Ndrangheta Padana”

di Ermanno Bugamelli

Lo scorso 17 febbraio nei locali della libreria “La Fenice” di Carpi, lo scrittore Enzo Ciconte ha presentato il suo ultimo libro “’Ndrangheta Padana”, un approfondito saggio inchiesta sulle attività delle ‘ndrine in terra Lombarda. Immerso in un gradevole clima familiare, il pubblico ha assistito ad una esemplare lezione di antimafia da parte di uno dei massimi studiosi nazionali dei fenomeni di criminalità organizzata. Attraverso una esposizione chiara, fluida e accattivante, arricchita dalla ricostruzione di svariati episodi che hanno infuso nei presenti la reale percezione del contesto, Ciconte ha spaziato sul tema mafia a 360 gradi.

Intervista a Enzo Ciconte

La clonazione Lombarda

Dal suo racconto emerge lo sconcertante grado di penetrazione della ‘Ndrangheta in Lombardia, certificato dalla raffica di arresti operati in regione nel luglio del 2010. L’operazione condusse al fermo di ben cinque consiglieri regionali del PDL e uno della Lega Nord, nonché di decine di consiglieri comunali sparsi per l’intera Lombardia. Nello stesso blitz orchestrato in varie parti d’Italia, venne arrestato anche il direttore della ASL di Pavia, a riprova di quanto permeabile alla mafia si sia rivelato l’intero panorama delle istituzioni pubbliche. Un radicamento avviatosi da oltre quarant’anni, ma che ha subito una sconvolgente accelerazione nell’ultimo ventennio. Impietoso il raffronto che Ciconte propone con un’altra importante operazione dell’antimafia nazionale effettuata in Lombardia nel biennio 1992-94: se l’allora numero dei politici locali coinvolti era praticamente nullo ed il mondo imprenditoriale figurava unicamente nella veste di vittima dell’azione criminale, ben diverso appare il quadro attuale. Oltre alla estesa penetrazione nel sistema istituzionale, la ‘Ndrangheta lombarda include oggi nel suo organico, una rete di imprenditori collusi o quali elementi attivi dell’organizzazione. Ciconte rivela che dalla Calabria alla Lombardia, l’Ndrangheta ha realizzato una clonazione in blocco dell’intero sistema criminale. Un passaggio certamente possibile grazie a figure cosiddette “cerniera”, esponenti fusi nella società civile che fungono da collegamento tra il mondo illegale e quello lecito. L’applicabilità in serie di simili connivenze, è però il frutto di una classe politica e dirigente priva della volontà di affrontare il problema, e che lascia nelle sole mani della magistratura il compito di combattere le mafie. Per ogni figura istituzionale arrestata, ve ne sono altre che ne hanno consentito la scalata nei ruoli chiave pur sapendole macchiate di contatti criminali, e queste molto spesso rimangono al loro posto con il potere di rinnovare altre discutibili nomine. Nel chiudere il capitolo lo studioso annota con amara ironia, come la politica di sponda leghista abbia confinato alla propaganda gran parte del reale impegno nella lotta alle mafie. Un effetto collaterale indotto dalle assidue frequentazioni con chi ha fatto della propaganda, l’asse portante del proprio programma politico.

L’Emilia per ora pare reggere a l’onda d’urto criminale

Inevitabile il parallelo con il contesto emiliano romagnolo, e lo spunto di partenza è fornito da un'altra pubblicazione di Enzo Ciconte, “Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta in Emilia Romagna”. Il lavoro datato 1998 e commissionato allo scrittore dalla stessa Regione senza alcuna imposizione di reticenza sul esito, costituisce un dettagliato studio storico scientifico aggiornato all’epoca, sul radicamento mafioso nel nostro territorio. A 13 anni di distanza, Ciconte afferma che il tessuto politico sociale emiliano ha nella sostanza retto a l’onda d’urto criminale. Ciconte ribadisce che ad ora, egli non è a conoscenza di episodi che abbiano visto politici locali dell’Emilia Romagna legati ad esponenti mafiosi, ed è questa la marcata differenza che separa la nostra regione da altre realtà come la Lombardia o la Calabria. Le mafie non sono riuscite a penetrare diffusamente nella rete civica, non hanno in sostanza replicato quel fenomeno clonante riuscitogli altrove. Ad arginare l’infiltrazione, il profondo radicamento nella cultura popolare di un diffuso senso per la legalità, unito ad una politica dalle sane tradizioni frutto dell’impegno costante di persone perbene. Sentimento condiviso da una schiera di amministratori locali che hanno contrastato le espansioni criminali, a cominciare dalla ferma opposizione con cui impedirono in svariate circostanze l’applicazione del soggiorno obbligato, vietando il trasferimento di pezzi da novanta delle mafie nei nostri comuni.Tuttavia questa consapevolezza, non deve secondo lo scrittore generare l’illusione di sentirsi immuni all’attacco mafioso, tutt’altro. L’Emilia Romagna costituisce una preda ambita per l’enorme ricchezza della sua economia. Dal turismo all’edilizia, dal commercio ai trasporti, nelle fiorenti attività della regione la mafia si è insinuata con sempre maggiore insistenza. Aziende controllate dalla mafia hanno intaccato le economie infiltrandosi nelle gare di appalto con lo strumento dell’eccesso di ribasso; oppure singoli emissari mossisi dalle cosche del Sud, scegliendo le vittime tra i conterranei emigrati al Nord, hanno applicato estorsione e pratiche violente tra le attività commerciali. Ad oggi si può parlare di episodi che non costituiscono la prova del radicamento di un sistema, ma il pericolo è comunque gravissimo. Pur condividendo in linea di massima la chiave di lettura di un autorevole voce come quella di Enzo Ciconte, la nostra percezione è che anche tra le fila della politica locale, non sempre abbia prevalso la massima fermezza e l’unità d’intenti. Uno sguardo maggiormente consapevole e competente, crediamo avrebbe smascherato le realtà criminali con maggiore efficacia e tempestività. La presunzione di vivere per troppo a lungo in una “isola felice”, ha minato quel sano realismo che si è rivelato assente in più di una delibera dei consigli emiliano romagnoli. Una preoccupazione crescente in prospettiva, dove la sempre minore disponibilità economica degli enti locali, potrebbe indurre ad assegnare appalti e commesse ad imprese che si offrono a prezzi allettanti, senza una adeguata riflessione dell’amministrazione sulla natura di condizioni così vantaggiose.

“La famiglia”, asse portante delle ‘ndrine

Nell’ultima porzione della serata, il dibattito apertosi con il pubblico ha consentito a Ciconte di allargare il fronte della discussione.Estremamente interessante l’analisi delle peculiarità culturali delle ’ndrine. Ne emerge una struttura portante affidata alla famiglia di sangue. Attorno al “capo bastone” familiare, l’organizzazione crea quella maglia impenetrabile e silenziosa che rende la ‘Ndrangheta una industria criminale in grado di elevarsi a potenza mondiale del narco traffico, e capace di trapiantarsi in ogni continente. I legami di sangue e parentali, accorpano gli affiliati in un unico organismo. Garantiscono all’organizzazione la fedeltà sino alla morte dei loro membri, assicurando una segretezza impenetrabile dall’esterno. L’Ndrangheta è la mafia che annovera il minor numero di collaboratori di giustizia, e solo negli ultimi anni le forze dell’ordine possono avvalersi del contributo di pentiti che sembrano in lenta crescita numerica. Il peso della famiglia di sangue, è inoltre certificato da un’altra tipicità delle ‘ndrine: il nome del ceppo famigliare, viene anteposto al territorio da lui dominato costituendone una sorta di marchio di garanzia. Se ad esempio in ambito di mafia siciliana o camorra napoletana, nel linguaggio di uso comune s’intende il territorio intorno a Corleone sotto l’egida dei “Corleonesi”, oppure Casal di Principe controllato dai “Casalesi”, nella mappatura delle cosche calabresi compare prima il nome della famiglia dei Piromalli quale reggente a Gioia Tauro, oppure dei Nirta-Strangio a San Luca, o dei Condello a Reggio Calabria. Quella che ad uno sguardo meno esperto può apparire come una sfumatura secondaria, rivela una matrice culturale di antica memoria. Le regole che ancora oggi si applicano nell’affiliazione dei nuovi membri e che determinano la struttura delle ‘ndrine, risalgono ai secoli scorsi e rappresentano l’espressione di radicate tradizioni popolari dalla matrice liturgica, fuse in rituali di arcaica connotazione massonica. Sfumature che sembrano provenire da una realtà tribale primitiva, a cui si è indotti associare un generale concetto di arretratezza e povertà.Ciconte in conclusione della sua disamina, definisce questo approccio come un grave ed imperdonabile errore. Un abbaglio a volte orchestrato da chi ne aveva un interesse strumentale, ma che ha comunque generato in tanti e per molti anni, una sottovalutazione della pericolosità della ‘Ndrangheta. Concordiamo a pieno con lo scrittore, ritenendo che tutte queste manifestazioni appartengano sì ad un autentico sub mondo del crimine, espressione di una differente e raccapricciante dimensione umana, ma perfettamente amalgamato all’universo legale a tal punto da riuscire a dominarne la scena.

Il ruolo della politica la vera chiave di svolta

Stimolato da una domanda Enzo Ciconte ha infine toccato il tema della “trattativa Stato-mafia”. Per Ciconte la trattativa è certamente esistita, ma i contorni a noi conosciuti sono troppo confusi per consentire una limpida decifrazione degli eventi. Egli ritiene che la verità sarà difficile da raggiungere in tempi brevi. L’implicazione presunta di massoneria e servizi deviati non fa che complicare ogni tentativo di far luce. La così accelerata uccisione di Borsellino, lascia supporre che egli fosse venuto a conoscenza di un tentativo mosso in questo senso da figure istituzionali, e che queste, consapevoli d’incontrare la sua ferma opposizione, avrebbero provveduto a toglierlo di mezzo. Una ipotesi che fusa alla ricostruzione di altre porzioni di verità emerse, conduce al cuore vero del problema: la reale consistenza dell’impegno politico nel far luce su quei fatti. La storia della mafia, dal questore romagnolo Ermanno Sangiorgi di fine ‘800, a Falcone e Borsellino un secolo più tardi, è densa di episodi dove straordinari servitori dello Stato e della legalità, hanno gioco forza segnato il passo al cospetto di una politica schierata a protezione delle cosche. Enzo Ciconte ribadisce come la chiave di svolta in ogni ambito della lotta alla mafia, necessiti di una politica totalmente sconnessa al potere mafioso e da qualsiasi zona grigia attigua.

Una condizione che tutti noi sentiamo ancora lontana a realizzarsi.

 

* L'autore - Enzo Ciconte (Soriano Calabro, 1947) è docente di Storia della criminalità organizzata all'Università di Roma Tre. Scrittore e politico italiano, è considerato fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose. Deputato nella X legislatura (1987-1992), membro della Commissione giustizia e consulente della Commissione parlamentare antimafia, ha realizzato numerosi studi relativi al meccanismo di penetrazione delle mafie al nord, ai rapporti tra criminalità mafiosa e locale e alle attività mafiose nei nuovi territori. I volumi che ha pubblicato costituiscono i primi esempi in Italia di indagini scientifiche del fenomeno malavitoso nelle aree non tradizionali.

Alkemia, 23 febbraio 2011.



TRAVAGLIO PRESENTA SPATARO
“NE VALEVA LA PENA”

 di Elena Ferrari
 

 


Qualche settimana fa si è svolta a Modena, presso il Baluardo della Cittadella, con la collaborazione di Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia, la presentazione del libro di Armando Spataro edito da Laterza “Ne valeva la pena” (vincitore del Premio Capalbio 2010 per la sezione Politica e Istituzioni). La serata ha visto partecipi l’autore introdotto da un ospite di eccezione: Marco Travaglio in veste di presentatore.
Seicento pagine, contenenti le più scottanti inchieste della storia giudiziaria italiana degli ultimi trent’anni: dal caso Abu Omar alle stragi degli anni di piombo; dalle Brigate Rosse alla ‘Ndrangheta; dal terrorismo internazionale, fino alle collisioni odierne tra governi e Magistratura. Seicento pagine redatte dalla penna di chi per tutta la vita si è dedicato a questi temi: Armando Spataro è infatti magistrato dal 1975 presso la Procura della Repubblica di Milano, Procuratore Aggiunto dal 2003, giudice nel Consiglio Superiore della Magistratura tra il 1998 e il 2002, nonchè autore di saggi in materia di criminalità organizzata e terroristica, tecniche investigative e procedura penale. Protagonista e titolare stesso delle inchieste da lui descritte.
Una graffiante apertura quella di Travaglio, che propone di leggere il titolo con il punto interrogativo: ne valeva la pena?
Questa perplessità nasce da alcune semplici constatazioni: gli ultimi sedici anni, tra governi di opposti schieramenti, caratterizzati da un continuum di impunità estesa; la difficoltà per alcuni magistrati coraggiosi, definiti proprio da Travaglio “cani sciolti”, di ricevere riconoscimenti e lodi se non solo dopo la loro strage, a discapito di chi amministra la giustizia nel silenzio dell’omertà, per non dimenticare il continuo ricorso a leggi speciali e al segreto di stato, con il solo scopo di rafforzare il potere costituito.
Questa perplessità si riconferma nell’osservare in Italia alcuni “aspetti” della giustizia: ad esempio si è raccontato più volte, come in molti stati siano presenti provvedimenti come il “Lodo Alfano”, volti alla protezione delle cariche politiche, mentre questa si rivela essere un’eccezione tutta italiana.
Nella maggioranza delle democrazie, il Presidente del Consiglio è imputabile sia per i reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, sia per quelli commessi prima e dopo la sua nomina; allo stesso modo la questione della separazione delle carriere giudiziarie che la classe politica vuole all’unanimità attuare, nonostante il consiglio d’Europa si sia ripetutamente espresso contro un tale provvedimento. Infine la prassi sempre più frequente di sottrarre le inchieste ai magistrati titolari, proprio nel punto di svolta delle indagini, attraverso provvedimenti disciplinari o trasferimenti dettati da alquanto dubbie necessità e motivazioni.
La voglia e la necessità di esprimere tutto questo, di condividerlo con gli Italiani, di alzare la testa perché “quando è troppo è troppo”, è stato sicuramente il catalizzatore di una non semplice stesura ma, a detta dello stesso autore, una scelta autoterapeutica di curare l’amarezza accumulata in molti anni di lavoro, di fatiche e di contraddizioni.
Non si può credere che un presidente del consiglio possa affermare davanti al proprio paese che “non si può combattere il terrorismo con il codice in mano”, quando molti magistrati proprio per quel codice hanno sacrificato la vita; non è possibile che chi crea provvedimenti “pugnale” per la giustizia come quello del falso in bilancio, ora sia vicepresidente del CSM e non è concepibile che le torture siano definite “tecniche di interrogatorio” o i magistrati semplici “impiegati che hanno vinto un concorso”.
In questo pezzo di storia giudiziaria proposto da Armando Spataro, si rivela come dietro all'eccezionalità delle inchieste ci sia la normalità di chi le ha condotte, talvolta ricevendo l’incarico anche per caso, in rispetto della propria deontologia o di ciò che il cuore suggeriva di fare. “Non vuole essere - aggiunge Spataro - l’esaltazione eroica del ruolo di magistrato, ma piuttosto quella di tutte le persone che fanno del loro dovere il proprio ideale”.
Allora la risposta è sì, ne valeva la pena.

23/11/10


MAFIA A MODENA: IL TEMPISMO DI UN DIBATTITO
di Boris

 

“Un ampio confronto tra maggioranza e opposizione”cita il comunicato dell'ufficio stampa del comune di Modena, dopo il Consiglio comunale tenutosi il 7 ottobre alla presenza di Enzo Ciconte, consulente della Commissione parlamentare antimafia, e di Vito Zincani, procuratore della Repubblica di Modena.  
Un ampio confronto su quale argomento, aggiungeremmo noi.
Numerosi infatti, sono stati gli interventi sul problema Mafia a Modena e alle possibili soluzioni atte a contrastare le ormai numerose infiltrazioni mafiose presenti sul nostro territorio.
Ampia e dettagliata è stata la relazione del Prof. Ciconte che già nei primi anni 90' evidenziava, grazie alla pubblicazione di una sua ricerca, la presenza nella nostra regione delle organizzazioni malavitosi intorno ai detenuti provenienti dalle regioni del Sud d'Italia.
Delirante invece, il resto dei lavori del Consiglio Comunale. Non solo per il livello dei contributi portati alla discussione ma, anche per il comportamento dei consiglieri e della giunta, durante le oltre cinque ore di dibattito. Come al solito, nonostante l'importanza dell'argomento, diversi di loro non ascoltavano la parte avversa e per la maggior parte del tempo in cui sono stati presenti in aula, dato il via vai continuo, o leggevano il proprio quotidiano di riferimento on-line o gestivano la propria posta elettronica. Per fortuna, o per dispiacere dato lo scempio, il pubblico era praticamente assente.

Per meglio specificare il livello del dibattito, basti considerare che questo consiglio comunale è stato convocato per illustrare e discutere degli Ordini del Giorno ed Interrogazioni depositate agli atti, dal 26 novembre 2009 al 15 febbraio 2010. Ovvero dopo quasi un anno.
I contenuti dei testi chiedevano dall'adesione al “No alla vendita dei beni confiscati alla mafia” del consigliere PD Guerzoni, al “continuare alla lotta senza quartiere alla criminalità organizzata” di Morandi del PdL. Dall'adesione ad “Avviso Pubblico” richiesto dal Pd Trande, all'adesione alla “XV giornata della memoria in ricordo delle vittime della mafia”.
Nulla vuol togliere merito a queste richieste d'adesione ma, altro e più importante è quello che deve discutere un amministrazione pubblica. Basti pensare a quello che è successo in questo anno. Come se non avessero evidenziato nulla, tutti gli arresti e i connubi accertati con parti  economiche legati non solo all'edilizia, della nostra città.

Per contrastare le Mafie, non serve affrettarsi a presentare un giusto encomio alle forze dell'ordine. Occorre elaborare ed adoperarsi seriamente per arginare questo ormai dilagante fenomeno,  senza paura di essere considerati incapaci di governare.

Non è sufficiente per contrastare la mafia dai colletti bianchi “un encomio alla Confindustria per aver deciso l'espulsione delle imprese che sottostanno ai ricatti mafiosi” come proposto dal consigliere Trade del PD. Dovrebbe essere la norma. E' necessario, invece, prodigarsi attivamente affinchè sia redatta una LISTA BIANCA, dove la precedenza nell'assegnazione degli appalti venga data a quelle aziende che HANNO DENUNCIATO i loro ricattatori. Un lavoro che dev'essere affiancato innanzitutto dal controllo della distribuzione degli appalti, monitorando costantemente oltre l'utilizzo sconsiderato del Caporalato nei cantieri edili, anche i movimenti finanziari di alcune agenzie d'intermediazione e prestito presenti sul nostro territorio. Senza dimenticare la fondamentale trasparenza che va richiesta a tutte le società attualmente impiegate in subappalto, nella realizzazione, anche fuori dal nostro territorio o regione, delle cosiddette “grandi opere”.

Spiace anche costatare che nella capacità d'intervento sull'argomento, il Partito Democratico che ha tra le sue file amministratori minacciati o uccisi come il sindaco Angelo Vassallo di Pollica, siano stati superati, anche se a noi pare in modo strumentale, dalla consigliera Olga Vecchi del PdL che identifica nella "smania di costruire del Comune di Modena,  il rischio di rendere la città un polo di attrazione per la mafia che nel mattone, tenta di pulire il proprio denaro sporco". Affermazioni queste che porterebbero “di logica” a sostenere la proposta del Pd, Paolo Trande, che ha anticipato l'istituzione, da parte del suo partito, di un comitato provinciale sulla legalità e il contrasto alla criminalità organizzata e l'introduzione, in tutte le procedure negoziali, delle autorizzazioni preventive per i sub-affidamenti nei settori più a rischio. Resta comunque incomprensibile quanto affermato dall'assessore Antonino Marino che in difesa della giunta, sottolinea che in risposta a questo fenomeno, si sia proceduto all'affidamento ad aziende locali di ben l'80 percento degli appalti. Una sorta di pedigree delle aziende di stampo leghista che però non ne garantisce la trasparenza e affidabilità. Soprattutto se scelte solo attraverso il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.

10/10/10


2° Campeggio Nazionale delle Resistenze 2010
PRECARIATO, ANTIMAFIA ED ANTIFASCISMO
Tre giorni di dibattiti, incontri e presentazione di libri

 
Venerdì 2 luglio

 

"ATTACCO ALLA COSTITUZIONE: REVISIONISMO E NEOFASCISMO"

 

Flavio Novara (Associazione Alkemia)
Salvatore (Collettivo auto organizzato universitario di Napoli)
Cinzia Venturoli (storica)

coordina: Mauro Sarti (giornalista Agenda Net)

 

 

Sabato 3 luglio

 

"RESISTERE AL PRECARIATO: ESPERIENZE DI LOTTA"

 

Barbara Evola (precaria della scuola COBAS)
Francesca Ruocco (Rete nazionale ricercatori precari Nodo di Bologna)
Domenico Teglia (Delegato RSU Cartiera "Reno de Medici")

coordina: Marco Madonia (giornalista del Corriere di Bologna)

 

 

Domenica 4 luglio

"LE MAFIE VISTE DA VICINO"


coordina: Roberto Rossi (redattore di Ossigeno)

ANTONIO INGROIA (Procura distrettuale antimafia di Palermo)
Il suo incontro e lavoro con Paolo Borsellino e Giovanni Falcone
Il caso Dell’Utri
Andreotti e l’Italia dei primi anni 90’
Il pentito Gaspare Spatuzza
La legge contro le intercettazioni

 

 

 



GOACCHINO GENCHI (Questura di Palermo)
Il suo incontro e lavoro con Giovanni Falcone
L’attentato dell’Addaura
Il caso Dell’Utri

L’attentato di via Damelio e gli uomini della scorta
Il trasferimento dei Boss
Il pensiero di Sandro Pertini
L’incontro con Michele Greco 

 

 

 

 

 

LIBERO MANCUSO (Associazione Avviso Pubblico)
L’accordo mafia-stato, il “papello” e il ruolo del governo Berlusconi.

 

 

  

 

 

 

RICCARDO ORIOLES (giornalista antimafia)
Il giornalismo militante e il concetto di antimafia.

Il ricordo di Pippo Fava
Resistenza attiva alla mafia
La P2 e la Banda della Magliana

 

 

 

   

 

ALESSANDRO LEO (presidente Libera Terra Puglia)
L’esperienza di lotto nel lavorare le terre sequestrate alla mafia.
Il legame tra organizzazioni mafiose e gli uomini del Presidente Berlusconi.

 

 

 

L’AGENDA ROSSA DI PAOLO BORSELLINO
Storia di una sparizione
Il pensiero di Gioacchino Genchi e Antonio Ingroia

 

LE DOMANDE DEL PUBBLICO:
L’inchiesta Why Not a che punto è?
Possibile sospendere il processo Dell’Utri?
Dove trovate la forza di proseguire?
Il perché fu affidato a Sandro Andò la stesura del programma del PD in Sicilia?

 


PER NON DIMENTICARE:

GIOVANNI SPAMPINATO: GIORNALISTA UCCISO DALLA MAFIA

Giovanni Spampinato fu uno di questi giornalisti innamorati della ricerca della verità e delle notizie scritte senza guardare in faccia nessuno. Uno di quei cronisti con la schiena dritta e il taccuino sempre a portata di mano che il potere, soprattutto quando è colluso, anche oggi non ama». Lo ha dichiarato il deputato europeo dell'IdV e presidente dell'Associazione nazionale familiari vittime di mafia, Sonia Alfano.
Giovanni Spampinato, cronista del giornale "L'Ora" ucciso  a  Ragusa il 28 ottobre 1972 da Roberto Campria, figlio dell'allora presidente del tribunale di Ragusa, in un contesto che all'epoca non venne adeguatamente investigato in sede giudiziaria. Spampinato indagava sull'uccisione di un facoltoso ingegnere-imprenditore, Angelo Tumino, che era avvenuta a Ragusa il 25 febbraio dello stesso anno.

Spampinato era anche impegnato in una inchiesta sulle attività del neofascismo in Sicilia, in relazione pure a situazioni di contrabbando e di affari illeciti con la mafia che avevano luogo lungo le aree orientali dell'isola.


 



ALKEMIA da tempo ha aderito al progetto LIBERA che da sempre lavora per rafforzare il versante della prevenzione nell'opera di contrasto alle mafie, nella consapevolezza che il solo versante repressivo sia necessario ma non sufficiente. La prima vera risposta al controllo mafioso del territorio è la pratica di cittadinanza e partecipazione che singoli, associazioni e formazioni sociali di ogni genere sono chiamati a costruire e vivere. Obiettivi principali: "costruire una comunità alternativa alle mafie", dove vengano riconosciuti a ogni essere umano diritti e non favori, come avviene nel sistema mafioso, così come è definito nella Carta Costituzionale. La battaglia contro le mafie è quindi necessariamente una battaglia per i diritti sanciti dalla Costituzione.

CONTROMAFIE è un percorso di impegno culturale e sociale, uno strumento di lavoro che LIBERA propone periodicamente per offrire progettualità e contenuti all'associazionismo che si occupa di lotta alle mafie e che si batte per legalità e giustizia sociale; ulteriore obiettivo è la verifica degli esiti del confronto avviato con le istituzioni, con la politica e altri soggetti, a partire da quanto contenuto nel Manifesto finale di ogni edizione. Il messaggio degli Stati generali è duplice, ovviamente negativo (contro le mafie) ma soprattutto positivo (per i diritti della Costituzione): è necessario "essere contro" tutte le mafie e la corruzione, le illegalità e i soprusi, ma è più importante "essere per" costruire percorsi e spazi di libertà, cittadinanza, informazione, legalità, giustizia, solidarietà.

OBIETTIVI E CONTENUTI

I principali obiettivi della seconda edizione di Contromafie sono:

a) la definizione di percorsi e strategie di prevenzione e contrasto alla violenza mafiosa;

b) la forte denuncia della ripresa del fenomeno della corruzione e della cultura dell'illegalità che l'alimenta e all'interno della quale le mafie prosperano e reclutano nuove forze;

c) l'approfondimento dell'organizzazione delle diverse mafie, dei loro principali affari e alleanze illecite, alla luce dell'attuale congiuntura di crisi economica mondiale;

d) il rafforzamento e l'accompagnamento di associazioni, organizzazioni e realtà che promuovono cultura, informazione e mobilitazione contro le mafie e i loro complici;

e) la verifica a distanza di tre anni della realizzazione delle proposte contenute nel manifesto della prima edizione, per sottolineare gli obiettivi raggiunti e denunciare lacune e ritardi;

f) la redazione di un nuovo manifesto indirizzato alla società e alla politica non solo italiana, ma europea in primo luogo, per dare respiro continentale alla lotta contro le mafie.

Seguiranno maggiori dettagli e il programma delle tre giornate.
- proroga delle iscrizioni al 15 ottobre 2009 -

LE TRE GIORNATE
Si conferma lo schema della prima edizione, in ragione dei positivi riscontri e dalla maggiore funzionalità garantita al dibattito, al confronto e alla proposta.
 
PROPOSTE ALLOGGI
Gli alloggi che vi proponiamo per le giornate.

IL MANIFESTO DELLA PRIMA EDIZIONE
La centralità della plenaria d'apertura è dedicata all'analisi dei risultati e degli obiettivi che sono stati raggiunti sulla base delle richieste contenute nel Manifesto della prima edizione. Pannelli e video d'apertura sono gli strumenti utilizzabili a questo scopo.
 
LE AREE E I GRUPPI DI LAVORO


HANNO ADERITO AL MOMENTO:
Agesci - Aifo - Arci - Avviso Pubblico - Azione Cattolica - Cgil - Coop Adriatica - Flare - Legambiente - Osservatorio Zoomafie - Tavola della Pace - Terra del Fuoco - Uds - Alba Società Cooperativa - A.L.I.L.A.C.C.O. Associazione - Associazione Umanista No.à. - Acmos - Colonnarotta - Associazione Rita Atria - Giovani Democratici Genova - Associazione antiracket Gaetano Giordano (Gela) - Associazione SUD, Archivio stopndrangheta - Associazione DaSud onlus - Cisl Bergamo - Sermais Società Civile Responsabile - Associazione Gianluca Congiusta - Associazione culturale Falcone e Borsellino, AntimafiaDuemila - Rete NoName, Antimafia in movimento - Osservatorio per la sicurezza e la legalità Regione Lazio - Unilibera - Acli - Coordinamento informale GPL,  percorsi di giustizia, pace e legalità - Associazione di Volontariato Gruppo Vulcano - MoVI Gela, movimento per il volontariato italiano - Scetammece - Gym Volley Borgomanero - Oltre il muro - coop. Sociale - CISL Lombardia - Consulta dei giovani cortalesi - ITACA  - Associazione culturale Pierpaolo Pasolini Cervaro - Fondazione Antiusura Interesse Uomo, Potenza - Gruppo Abele - Narcomafie - L.I.M.En - Ce.St.Ri.M. centro srudi e ricerche sulla realtà meridionale - La Zagara - ALT 74 - FUCI - Forum Nazionale Giovani - Osservatorio permanente Peppino Impastato, Frosinone - AGESCI Piemonte - Coop. Emmaus - Coop. Sant'Anna - Associazione Piccola opera Papa Giovanni - Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo - Fondazione Frammartino onlus - Associazione Ilaria Alpi - Azione giovani, federazione di Reggio Calabria - Coop. Sociale Terre di Puglia Libera Terra - Associazione provinciale Antimafia Antiracket Molfetta - Alla luce del sole - La Strada - Associazione Murales - Comune di Capaci - Anpi, Scandicci (Associazione Nazionale Partigiani) - Partecipazione - FAI (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane).


INFO
TEL. 06/69770326
WEB http://www.libera.it

FESTAMODENA 2008

Presentazione del libro
CHI HA PAURA MUORE OGNI GIORNO

Aiala-1.jpg  Aiala-2.jpg

I MIEI ANNI CON FALCONE E BORSELLINO
con l’autore GIUSEPPE AYALA

mp34.gif frecce_02.gif


LA CAMORRA SI INFILTRA A MODENA

“Sandokan “ ordina l’espansione in Emilia

Le rivelazioni del pentito Domenico Bidognetti, cugino del boss “ Cicciotto ‘e Mezzanotte “, pubblicate sull’Espresso il 19 settembre scorso, rafforzano gli allarmi lanciati nel nostro territorio da più parti, a riguardo di una progressiva opera di infiltrazione dei clan camorristici dell’agro-aversano. Una manovra che ha avuto il via ben 13 anni fa, per ordine del celebre Francesco Schiavone detto “ Sandokan “ con il preciso obbiettivo di insinuarsi nel tessuto sociale emiliano e aggredire le imprese locali. Se per l’Emilia Romagna e Modena, tutto questo rappresenta una novità frutto del perfezionamento di un collaudato sistema estorsivo, l’operazione costituì una sorpresa anche per una porzione degli stessi affiliati. I clan con la loro rete articolata e ramificata, costituita da un essenza di ricatti e intimidazioni, che nella sua fase iniziale ha colpito in prevalenza titolari di esercizi e attività trasferitisi dalla Campania in Emilia, alza ora il tiro dei suoi obbiettivi. 
Le famiglie di Casapesenna, come Casal di Principe o San Cipriano d’Aversa, da oltre un decennio hanno quindi dato ordine di colpire imprenditori anche modenesi.

La genesi del cambio di strategia

Il boss Schiavone, in piena linea con il suo curriculum di “ abile imprenditore” del crimine, nel 1995 ordinò agli affiliati di estendere l’estorsione non solo ai commercianti casertani, ma anche a imprenditori non campani come gli emiliani. Una novità per chi fino ad allora aveva applicato il racket estorsivo per lo più colpendo attività inserite nel circolo dei grossi appalti, un motivo ora di forte preoccupazione per la magistratura locale.
Un cambio di strategia spiega Bidognetti, che ha la sua genesi nella necessità dei clan di ampliare le sorgenti sicure del profitto illecito, in un momento come la metà degli anni ’90, che vedeva alcune famiglie camorristiche in difficoltà dopo la cattura e l’arresto di capi clan e figure di secondo piano. Il metodo Schiavone si centrava sul “ bussare alla porta “ degli imprenditori locali per estorcere del denaro, convincendo le vittime a pagare attraverso l’uso della violenza e delle intimidazioni nel caso il bersaglio si opponesse con un primo rifiuto, addolcendo poi la pillola con la stuzzicante prospettiva di nuovi contratti nell’area del sud. Uno scambio in apparenza tollerabile per imprenditori pronti a tutto o spaventati, ma garante di un futuro irrimediabilmente stretto nella morsa delle leggi della camorra, e uscirne spesso risulta ben più complicato dell’opporsi con forza al primo contatto.

Le infiltrazioni nel modenese

Bidognetti ha elencato i nomi dei fiancheggiatori dei clan, nonchè i luoghi dove a Modena questi operano da basisti fornendo appoggio logistico, nascondendo latitanti in fuga e custodendo armi.
Sempre nel capoluogo poi, si parla di un pedinamento al fine di un omicidio che non riuscì, ma che venne eseguito in Campania. Si trattò di un inseguimento per le vie del centro di Modena, ma il bersaglio una volta colto in una piazzetta, venne salvato dall’arrivo all’ultimo istante di un auto. I killer decisero di rinunciare, rinviando l’esecuzione tempo dopo ad Aversa.
Gli inquirenti hanno tratto da queste dichiarazioni spunti per indagini che sono tuttora in corso, e agli arresti già avvenuti, altri certamente ne seguiranno al termine dei controlli e dei pedinamenti in atto.
Dove il pentito non è stato in grado di fornire nominativi, è al riguardo degli imprenditori locali vittime del racket, in quanto essendo lui incaricato di occuparsi dell’aspetto “ militare “ dell’organizzazione, non seguiva quel campo.
Un quadro che per molti modenesi è difficile da accettare perché considerare questa città un centro camorristico sembra aldilà di ogni immaginazione, ma la realtà locale oggi non è più tranquilla come un tempo. Una perduta serenità che costituisce però la prima arma di difesa contro le infiltrazioni.

Il settore edile il più esposto, ma anche esercizi pubblici e imprese di pulizia

L’osservatorio provinciale sugli appalti pubblici, istituito dalla provincia e che raccoglie enti locali, Inps, Inail, prefettura e Casse edili, ha dichiarato per parola del suo direttore Vincenzo Pascucci, di essere intervenuto negli ultimi mesi annullando in partenza due opere in forte odore di camorra: il tratto di tangenziale tra Modena e Vignola e la costruzione per la palazzina dell’Acer. “ Sul fronte degli appalti pubblici…” prosegue Pascucci, “ riteniamo di aver attuato controlli e intese… tali da rendere sufficientemente trasparente la situazione… Qualcosa non è escluso sfugga nei subappalti non autorizzati… Comunque il pubblico è un mercato che vede la maggior parte dei cantieri con importi non altissimi, e quelli maggiori vanno nel 50% ad imprese modenesi… in solo 5 o 6 casi sono state coinvolte aziende del sud.”
L’anello debole della catena di controlli nel settore pubblico è rappresentato dall’Alta Velocità, dove l’osservatorio modenese non è riuscito ad entrare, anche se su quei cantieri dovrebbe vigilare l’equivalente organo interregionale tra Toscana e Emilia Romagna.
Se ancora da più parti viene ritenuta episodica l’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, crea maggiori preoccupazioni il mercato degli appalti privati, con i suoi 400 milioni di euro annui come giro d’affari. In questo ambito l’accordo stretto con la polizia municipale, ha permesso agli agenti di verificare oltre ai controlli di routine, anche la provenienza e la consistenza delle ditte: un’azione che ha indotto esponenti dei casalesi a spostarsi in altre regioni del nord.
Se il settore edile sembra il più esposto, non è l’unico che evidenza fenditure vulnerabili alle penetrazioni malavitose.
Le associazioni sindacali sono preoccupate dei segnali provenienti dai pubblici esercizi e dal settore delle pulizie. Esaminando bilanci e ragioni sociali nel contesto dei pubblici esercizi, traspare la consistente probabilità che non siano isolati gli episodi di attività create con denaro di provenienza illecita. Quando poi ci troviamo dinanzi a incendi dolosi e ritorsioni di vario tipo, risulta facile inserirli in un contesto di rappresaglia per chi ha cercato di sottrarsi alle intimidazioni.
Confesercenti di Modena sostiene che le parole di Bidognetti “ Gettano una luce nuova su una serie di atti criminosi succedutisi in questi mesi nella nostra provincia”, invitando ad approfondire senza esitazioni la conoscenza dei meccanismi che le organizzazioni criminali attuano per mettere le radici nel nostro territorio.
Una rete che purtroppo pare aver già posto solide fondamenta e come spesso accade, il crimine si rivela un passo avanti sulla legalità.





LA CAMORRA ALLA CONQUISTA DELL’ EMILIA

Parla "Cicciotto 'e Mezzanotte"

Da quando Roberto Saviano ha scelto di usare come titolo del suo romanzo il nome biblico di una delle “cinque città della pianura“ che vengono distrutte per la "corruzione" dei suoi abitanti, “Gomorra” è diventata sinonimo esplicativo di sistema camorristico campano. Un sistema tentacolare che da anni, ha allungato le sue ramificazioni anche nel nord del paese.
Una espansione fatta di episodi a volte accertati a volte supposti, che oggi secondo quanto pubblicato dall’ Espresso del 19 settembre 2008, assume i contorni di un disegno pianificato da tempo.
Le dichiarazioni del pentito Domenico Bidognetti, nome importante nell’ambito della malavita campana divenuto da circa un anno collaboratore di giustizia, sono precise e accusatorie e a nulla sono servite le minacce ai suoi familiari e l’uccisione di suo padre tre mesi fa. 
Suo cugino, Francesco Bidognetti, è quel boss noto come “Cicciotto ‘e Mezzanotte“, figura di spicco del clan dei casalesi, protagonista insieme a Francesco Schiavone (detto Sandokan per la presunta somiglianza all’attore Kabir Bedi), di una scalata che ha portato in un ventennio i camorristi di desolati paesi dell’entroterra campano a costruire un impero malavitoso tra i più potenti del mondo.
Con “Cicciotto e Sandokan“ entrambi in carcere ma in grado di tirare le fila dei loro affari, le rivelazioni “dell’infame“ Domenico hanno illuminato di riscontri concreti l’ascesa dei camorristi nel nord Italia e particolare in Emilia Romagna. Una regione questa, ambito luogo di ricchi guadagni dove minore era il rischio di scontrarsi con le cosche siciliane e calabresi, ben presenti in Piemonte e Lombardia. Tappa di un disegno ambizioso, che prevedeva di mettere piede anche in quella Milano già nel mirino di Raffaele Cutolo nei primi anni ottanta.

Colonie emiliane

Province come Bologna, Modena, Reggio Emilia, e Parma hanno visto dalla fine degli anni ’70 e primi ’80, la comparsa dei primi emissari camorristi provenienti dalla Campania,  in prevalenza mediante il settore edile.
La vera scoperta di una sorta di “terra promessa “, avviene tra l’89 e il ’90, tramite il collaudato modello del soggiorno obbligato. Il pentito narra che si esercitavano pressioni sui casalesi o sanciprianesi in Emilia quando si era a Modena o Reggio per latitanza o provvedimenti giudiziari. Bidognetti giunge per la prima volta in Emilia quando aveva 15 anni come apprendista di una ditta del casertano, ma dopo tre mesi torna a casa “perché mi sentivo sfruttato“.
La gestione di bische e video poker, rappresentò un modo meno faticoso per guadagnare molti soldi, e i boss venuti dal sud estendono una rete che unisce Caserta, Modena e Reggio Emilia.
Per difenderla dal monopolio arrivano a incontrarsi con la mafia del Brenta di Felice Maniero, (definito dalla delegazione camorrista un appuntamento inutile perché Maniero è “ un drogato “).
Si stringono patti invece con i più potenti e affidabili malavitosi della ‘ndrangheta, suddividendo le zone su cui esercitare il racket in funzione della provenienza delle vittime.
Dopo l’ordine di Schiavone del 1995 di aggredire il nord in forma più ampia, si ricostruisce il clima di intimidazione e omertà delle terre d’origine e paradossale diventa la condizione di imprenditori, ristoratori, esercenti che si ritrovano strangolati dello stesso sistema dal quale erano fuggiti trasferendosi al nord. Affari chiamano affari e progressivamente la ragnatela si espande, ampliandosi dal settore ludico e dei night club alle grandi opere, fino a giungere ad oggi dove vi sono aziende in mano a criminali che si trasformano a loro volta in imprenditori. Bidognetti arriva a dire “…che vista la massiccia presenza di casalesi, Modena e Reggio Emilia rispondono a Casal di Principe e San Cipriano d’Aversa “.

La miniera d’oro delle grandi opere pubbliche

L’assalto alle grandi opere emiliane come l’Alta Velocità, le tangenziali, le nuove corsie dell’autostrada nell’asse Bologna, Modena, Reggio, Parma, è direttamente collegato alle numerose
commesse pubbliche che ormai da diversi anni a Caserta o nel resto della Campania vengono affidate a grandi imprese del nord.
Aziende che per poter lavorare in quelle zone, dovevano assecondare le regole imposte dalla camorra, che imponeva subappalti a ditte in loco e elargendo mazzette. In cambio queste ricevevano servizi importanti come protezione e manodopera a basso costo con annessa pace sindacale.
Il collaboratore narra la vicenda della impresa Pizzarotti di Parma, che accettò le condizioni dei casalesi per la costruzione del nuovo carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove venivano destinati i propri affiliati reclusi. Un mega appalto da 82 miliardi di lire che la CMC di Ravenna insieme a Pizzarotti si aggiudicarono dal 1993, nell’era post mani pulite.
La delegazione emiliana venne presa a schiaffi e intimidita con rivoltelle spianate in un incontro a cui partecipò lo stesso Bidognetti. I boss ottengono “la fiducia“ desiderata, anche strappando agli imprenditori contratti leciti di subappalto, pagati in nero con giri di false fatturazioni.
Attraverso canali “ privilegiati “imbastiti da tempo, si tenta il colpo grosso verso quella autentica miniera d’oro costituita dai centinaia di cantieri con commesse prolungate negli anni, delle opere pubbliche. A tele riguardo però, i riscontri risultano meno chiari e non vi sono al momento certezze sulla riuscita di questo progetto malavitoso distribuito in larga scala.
Bidognetti non sa dare poi precise informazioni sugli investimenti dei casalesi a Bologna, anche se gli investigatori sono da tempo certi della presenza di un ampio circuito di riciclaggio di denaro sporco sotto le due torri. A Parma invece gli inquirenti hanno sventato l’infiltrazione della terza grande famiglia casalese oltre ai Bidognetti e gli Schiavone: gli Zagaria.
Con l’intermediazione di immobiliaristi e politici locali, i Zagaria erano ad un passo dall’inserirsi nel circuito delle grandi costruzioni, come risulta dalle intercettazioni che provano il contatto tra un loro esponente e Giovanni Bernini, giovane leader di Forza Italia, presidente uscente del consiglio comunale e soprattutto non a caso, consigliere dell’allora ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi.

Romagna quale nuovo centro per droga e relax

Nemmeno la costa romagnola è rimasta immune dalle contaminazioni imprenditoriali dei clan casalesi, creando per l’occasione nuove figure professionali. A parlarne è Gaetano Vassallo, conosciuto nell’ambiente come “il ministro dei rifiuti“ della camorra. Vassallo descrive quanto i vertici dei clan fossero rimasti colpiti positivamente dall’abilità di un narco trafficante romagnolo, capace di schiudere le porte di una nuova via per i rifornimenti di droga dal Sud America.
Egli conquista l’accesso nel giro dei camorristi che contano, garantendo l’ingresso di dieci chili di stupefacenti alla settimana, 40 al mese, attraverso corrieri insospettabili.
Un’altra delle specialità del nuovo socio in Romagna era il saper fornire rifugi sicuri, con annessi extra ricreativi a 360°, per quei latitanti che necessitavano di momenti di relax.
La costa romagnola diviene così un centro rigenerante per chi ad Aversa o Casal di Principe, ha bisogno di stare alla larga da retate o killer rivali.
 Una nuova esclusiva stella di cui la riviera può fregiarsi, magari da non esibire nel carnet dei servizi per il turista di massa.






DotNetNuke® is copyright 2002-2024 by DotNetNuke Corporation