venerdì 19 aprile 2024   
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Medio Oriente » La regione araba:a che punto sono le rivoluzioni?  

LA REGIONE ARABA 
A CHE PUNTO SONO LE RIVOLUZIONI?

Intervista a  Gilbert Achcar *

Inprecor. Si avvicina il primo anniversario dello scoppio della «primavera araba», in Tunisia. Il rovesciamento di Ben Ali ha aperto la strada alle mobilitazioni di massa in Egitto e all’allontanamento dal potere di Hosni Mubarak, alla caduta di Gheddafi in Libia, alle mobilitazioni in Yemen e alle dimissioni del presidente Ali Abdallah Saleh, alle mobilitazioni negli Stati del Golfo e in Siria… in nome della democrazia. Come possono essere definiti questi movimenti?

Gilbert Achcar. Effettivamente sono dei movimenti che hanno come comun denominatore la rivendicazione della democrazia: si sviluppano in paesi con regimi dispotici ed esigono un cambiamento di regime, un cambiamento nelle forme del potere e la democratizzazione della vita politica. Questa è una dimensione comune a tali movimenti, che allo stesso tempo rappresenta la loro forza perché le rivendicazioni democratiche permettono di unire una grande massa di persone dagli orizzonti differenti, mentre queste rivendicazioni si sommano a un potenziale di rivolta sociale molto forte nella regione. Non bisogna dimenticare che in Tunisia il movimento è iniziato con un’esplosione sociale. Il giovane Mohammed Bouazizi, che si è suicidato dandosi fuoco, protestava contro le sue condizioni di vita e non avanzava rivendicazioni politiche. Il suo caso ha fatto emergere il problema della disoccupazione giovanile endemica nel paese, la crisi economica, l’assenza di prospettive sociali. In questo caso questi sono stati gli ingredienti di fondo. Ma quando si alleano con l’opposizione a un regime dispotico, tutto assume proporzioni considerevoli, come è appunto accaduto in Tunisia. Invece, nei paesi in cui la questione del dispotismo non si pone con la stessa acutezza, dove il regime è più liberale e più tollerante verso la diversificazione politica – il Marocco per esempio – il movimento si è costruito sulla base di esigenze sociali, ma non ha ancora assunto l’ampiezza esplosiva raggiunta molto rapidamente in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Yemen, in Barhein e in Siria. 

Inprecor. Come giudichi l’evoluzione della politica statunitense e quella dei paesi europei nella regione? Le elezioni in Tunisia, in Marocco e in Egitto, così come l’intervento militare in Libia, costituiscono una ripresa dell’iniziativa dell’imperialismo o delle borghesie nazionali compradore?

Gilbert Achcar. Nella tua domanda vi sono due attori: le borghesie e l’imperialismo, che non sono esattamente la stessa cosa. In più, parliamo di una parte del mondo dove coloro che oggi lavorano di concerto con le potenze occidentali, con gli Stati Uniti in particolare, non sono assolutamente dei governi che è possibile definire borghesi – mi riferisco alle monarchie petrolifere del Golfo, che hanno una dimensione pre-capitalistica e sono delle caste che vivono sfruttando le rendite del petrolio. In questi paesi non è la borghesia locale – compradora o meno che sia – che è al potere. Occorre fare le distinzioni necessarie. Per ciò che riguarda gli Stati Uniti – la principale forza imperialistica nella regione – si può sostenere che hanno relativamente riequilibrato la bilancia vista la situazione molto difficile in cui li avevano messi le sollevazioni tunisina ed egiziana, ma parlare di una «ripresa dell’iniziativa» mi sembra esagerato. Essi hanno potuto ridare lustro alla propria immagine intervenendo in Libia, pagando un prezzo relativamente basso e presentandosi come coloro che erano «al fianco della rivolta». Hanno affiancato questo con un generale discorso ipocrita sulla democrazia e – contrariamente a quanto alcuni sostengono – esso si estende anche alle monarchie del Golfo, benché in questo caso non si associ ad alcuna azione. Gli Stati Uniti tentano di presentarsi come i depositari dei valori della libertà che non hanno cessato di brandire come arma ideologica da diversi decenni, in particolare dalla «guerra fredda». In Siria, lo fanno con una certa disinvoltura, perché si tratta di un regime alleato dell’Iran, cui non tengono particolarmente, come è stato nel caso del regime libico. Ma sostenere che hanno recuperato la loro posizione egemonica nella regione sarebbe estremamente esagerato. In Libia, l’intervento occidentale è stato un intervento sostanzialmente a distanza, senza truppe sul terreno. L’influenza che possono avere gli Stati Uniti sul processo in corso in Libia è molto limitata. In effetti, in questo paese nessuno controlla la situazione e questo è stato dimostrato da dichiarazioni che non fanno alcun piacere agli Stati Uniti, compresa la crescente protesta contro il Consiglio Nazionale Transitorio e contro i suoi tentativi – d’altronde, molto timidi – di impegnarsi nella ricostruzione dello Stato. In Egitto, gli alleati militari di Washington mantengono sempre le redini della situazione nelle loro mani, ma è un potere assai contestato dalla piazza, dal  movimento popolare che continua – in particolare sul piano sociale dove si traduce in lotte dure e continue. L’affermazione significativa delle correnti islamiche sul piano elettorale è la prova di una nuova diffusione regionale: anche se queste correnti non rappresentano una minaccia per l’imperialismo statunitense, tuttavia non sono neppure uno strumento o un alleato docile quanto i militari.
Vi sono delle tensioni nell’alleanza e nella cooperazione tra i militari e i Fratelli musulmani. Questo non è paragonabile a ciò che rappresentava il regime di Mubarak per gli Stati Uniti. Ciò spiega, d’altronde, il fatto che gli Stati Uniti hanno dovuto ridefinire profondamente la loro politica nella regione a causa del fatto che i loro alleati tradizionali hanno ben poca legittimità popolare – cosa circa la quale non si facevano troppe illusioni, come hanno dimostrato le rivelazioni di Wikileaks. Ora che la rivendicazione della sovranità popolare si è affermata nelle strade e nelle piazze, gli Stati Uniti devono garantirsi la solidarietà di alleati provvisti di una vera base sociale. Per questo motivo si rivolgono ai Fratelli musulmani, che dopo essere stati demonizzati in questi ultimi anni, ora vengono presentati come «musulmani moderati», dei «buoni musulmani», in contrapposizione ai salafiti. I Fratelli musulmani sono presenti in tutta la regione. Gli Stati Uniti hanno bisogno di loro, come ai vecchi tempi dell’alleanza contro Nasser, contro il nazionalismo arabo, contro l’Unione sovietica e la sua influenza tra gli anni ‘50 agli anni ‘80. Le monarchie del Golfo – in particolare due tra queste che oggi svolgono un ruolo molto importante nel mondo arabo: il regno saudita e l’emirato del Qatar – cercano anche di riprendere l’iniziativa. Non per forza queste due monarchie perseguono la medesima politica, ma hanno una tradizione di rivalità che a volte ha portato a delle tensioni tra loro, ma fanno causa comune a fianco degli Stati Uniti nello sforzo di orientare gli eventi in una direzione che non minacci i loro interessi e che permetta loro di stabilizzare a breve termine la regione. Il Qatar, in particolare, ha visto aumentare considerevolmente la sua influenza grazie alle sollevazioni, contrariamente al regno saudita che condivide con gli Stati Uniti il declino e il riflusso della sua influenza. L’emirato del Qatar ha puntato da molti anni sul rapporto con i Fratelli musulmani, diventando il loro principale finanziatore e creando il canale satellitare Al Jazeera – uno strumento politico di rilevante potenza, che allo stesso tempo è a disposizione dei Fratelli musulmani, molto presenti tra il suo personale. Il Qatar ha giocato queste carte da molto tempo e gli avvenimenti attuali le hanno rese importanti strategicamente. In questo modo l’emirato si è trovato ad essere molto valorizzato ed è diventato un alleato molto importante per gli Stati Uniti, con i quali da lungo tempo intrattiene rapporti molto stretti, accettando sul proprio territorio la principale base militare americana della regione. Ma il Qatar per un certo periodo ha anche stabilito rapporti con l’Iran, con gli Hezbollah libanesi, ecc., per «ripartire i rischi» - è la mentalità di chi consolida le sue entrate diversificando gli investimenti. Oggi il Qatar può fare pienamente valere la sua influenza regionale agli occhi degli Stati Uniti. Tutto questo si aggiunge al ruolo svolto dalla Turchia nella regione. In questo caso è veramente possibile parlare di borghesia al potere, si può cioè parlare di un Paese in cui il governo è sicuramente espressione prima di tutto del capitalismo locale. Il governo turco è alleato degli Stati Uniti – la Turchia fa parte della NATO – ma interviene anche nella prospettiva degli interessi specifici del capitalismo turco e da questo deriva l’offensiva commerciale e gli investimenti nella regione che col passare degli anni hanno assunto un’importanza crescente. Questi sono, a grandi linee, i grandi giocatori nell’ambito degli Stati della regione. Ma il giocatore più importante, oggi, è il movimento di massa. Anche nei paesi in cui vi sono state delle mezze vittorie, come in Tunisia e in Egitto, il movimento di massa continua.

Inprecor. Come analizzi i successi elettorali dei partiti islamici in Tunisia, Marocco ed Egitto? Questi successi possono essere interpretati come una replica di ciò che avvenne durante la rivoluzione iraniana tra il 1979 e il 1981, o si tratta di un altro fenomeno?

 

Gilbert Achcar. Ci sono delle differenze secondo i paesi. In Marocco non vi è la stessa dinamica che vediamo in Egitto o in Tunisia. In Marocco il successo del partito islamico è molto relativo, prima di tutto perché le elezioni sono state massicciamente boicottate. Secondo le cifre ufficiali la partecipazione è stata al di sotto della maggioranza degli elettori iscritti, il cui numero, inoltre, si è curiosamente abbassato dopo la precedente tornata elettorale sullo sfondo di una energica campagna di boicottaggio contro le forze della effettiva opposizione che si erano riunite nel Movimento del 20 febbraio. Devo aggiungere, per evitare equivoci, che anche nelle forze di opposizione c’è una componente islamica, radicalmente opposta al regime. Il successo del partito islamico della «opposizione lealista» è quindi molto relativo in Marocco. Questo è stato probabilmente ben accolto dalla monarchia, se non auspicato, allo scopo di dare l’impressione che il Marocco abbia così conosciuto, con espressioni pacifiche e istituzionali, lo stesso processo in corso altrove. Inoltre, il partito in questione ha dei legami anche con i Fratelli musulmani. In Tunisia e in Egitto le vittorie elettorali dei partiti islamici sono più significative, ma non hanno niente di sorprendente. Nel caso dell’Egitto – occorre anche qui sottolineare le differenze tra i diversi paesi – le elezioni si sono svolte dopo decenni durante i quali i Fratelli musulmani erano l’unica opposizione di massa esistente, mentre i salafiti godevano di una certa libertà di manovra sotto Mubarak, che li considerava come una base di appoggio del suo regime per il fatto che essi dichiaravano la propria apoliticità. Nel corso degli anni queste due componenti del movimento islamico hanno potuto svilupparsi nonostante i soprusi subiti dai Fratelli musulmani. Nonostante queste due componenti non siano state alla testa del movimento di massa (si sono accodate), quando il movimento è riuscito a imporre una certa democratizzazione delle istituzioni esse erano organizzate meglio di qualunque altra forza per poterne trarre vantaggio. Non bisogna dimenticare che Mubarak ha dato le dimissioni soltanto lo scorso febbraio e che vi erano solo pochi mesi per preparare le elezioni. In così poco tempo non era possibile costruire una forza alternativa di opposizione credibile e capace di vincere sul piano elettorale. Il movimento di massa ha disarticolato il partito di regime – che era la principale macchina elettorale del paese – ma si trattava di una rivolta largamente decentralizzata nelle sue forme organizzative. Più che un «partito dirigente» era una rete di movimenti diversi. I Fratelli musulmani erano quindi l’unica forza organizzata presente nel movimento che disponesse di mezzi materiali. Il caso della Tunisia è differente perché Ennahda – il partito islamico – era stato interdetto e perseguitato sotto Ben Ali. Ma il regime repressivo di Ben Ali ha impedito anche la possibilità che emergessero forze di sinistra o anche democratiche. Queste forze non avevano l’ampiezza che aveva Ennahda agli inizi degli anni ‘90, prima che subisse la repressione che gli ha consentito di apparire nel corso del tempo come la forza di opposizione più forte e quella più radicalmente contraria Ben Ali, in particolare grazie all’aiuto di Al Jazeera. Neppure il partito Ennahda è stato alla testa della rivolta nel suo paese, ma, dato il breve lasso di tempo a disposizione per preparare le elezioni, era in una posizione migliore rispetto alle altre forze politiche. I partiti islamici in Egitto e in Tunisia disponevano di denaro, fattore essenziale per una campagna elettorale. Mentre in  passato le forze di sinistra nel mondo arabo potevano beneficiare del sostegno concreto dell’Unione sovietica o di questo o quel regime nazionalista, tutto questo è ormai finito da molto tempo. Invece per i partiti islamici si può constatare che c’è perfino concorrenza tra i  loro finanziatori: Qatar, Iran, l’Arabia saudita. Il ruolo del Qatar è molto importante sotto questo aspetto. Rached Gannouchi, il leader di Ennahda, si è recato in Qatar prima di rientrare in Tunisia. La nuova, fiammante sede di Ennahda a Tunisi, un edificio a più piani, non è certamente alla portata di un’organizzazione che esce da decenni di repressione. Dal febbraio scorso,  quando sono stati legalizzati, i Fratelli musulmani non hanno finito di inaugurare nuovi locali in tutti i punti del paese, con larga profusione di mezzi.  Un esempio è stato l’uso di fondi considerevoli durante la campagna elettorale. Il fattore denaro svolge un ruolo fondamentale e si aggiunge al loro capitale simbolico come principale forza di opposizione e, nel caso dell’Egitto, al loro radicamento come forza politico-religiosa che ha saputo sviluppare una rete importante realizzando opere sociali e facendo la carità. Non è per niente sorprendente che in tali condizioni queste forze emergano come i principali vincitori delle elezioni.

Inprecor. È possibile che, a più lungo termine, i partiti islamici possano essere sostituiti da forze che si stanno affermando?

Gilbert Achcar. Il problema grave, per il momento, è l’assenza di un’alternativa credibile. In questo senso, non è solo il tempo ad avere importanza, ma anche la capacità di dar vita a un progetto politico e organizzativo credibile. L’unica forza che, a mio avviso, potrebbe controbilanciare i partiti islamici nella regione non sono i liberali di qualsiasi tipo, che hanno per natura una base sociale limitata, ma lo è il movimento operaio. In paesi come la Tunisia e l’Egitto, il movimento operaio è ancora una forza significativa – una forza che contrariamente ai liberali ha delle radici popolari. Il movimento operaio è l’unica forza capace di costruire un’alternativa agli integralisti religiosi nei paesi coinvolti. Il problema cruciale è l’assenza di rappresentanza politica del movimento operaio. Un movimento operaio forte esiste sia in Tunisia sia in Egitto: l’UGTT in Tunisia, che è stato un fattore decisivo nel rovesciamento di Ben Ali, e in Egitto la nuova Federazione egiziana dei sindacati indipendenti. Quest’ultima non è una forza marginale:  dichiara di avere già un milione e mezzo di aderenti. La FESI (EFITU, secondo l’acronimo inglese) è stata fondata dopo la caduta di Mubarak sulla base dell’organizzazione degli scioperi che l’hanno preceduta e seguita. Questa organizzazione ha svolto un ruolo decisivo nel rovesciamento di Mubarak. Per certi versi la FESI assomiglia ai sindacati di opposizione che si sono organizzati contro le dittature in Corea, in Polonia e in Brasile. Il problema è che non esiste una rappresentanza politica del movimento operaio in Tunisia e in Egitto e, sfortunatamente, devo dire anche che la sinistra radicale in questi paesi non ha dato priorità a questo orientamento. La sinistra radicale pensa che auto-proclamandosi e auto-costruendosi politicamente possa svolgere un ruolo più importante  nel corso degli eventi, mentre questi si sviluppano a un tale ritmo da esigere delle politiche orientate più direttamente verso la promozione dello stesso movimento sociale. Si può dare priorità alla costruzione delle organizzazioni politiche nei periodi calmi, quando, per così dire, si è costretti ad attraversare il deserto, ma quando si vivono periodi di eccezionale fermento l’auto-costruzione non è sufficiente, anzi è del tutto insufficiente. A mio parere, in paesi come la Tunisia e l’Egitto l’idea classica dei partiti operai di massa basati sul movimento sindacale dovrebbe essere centrale, ma purtroppo tale idea è poco presente fra le problematiche politiche della sinistra radicale.

Inprecor. Perché le monarchie (Marocco, Giordania, penisola arabica) sembrano «reggere»? Per il Marocco hai menzionato gli elementi di «tolleranza» dell’attuale regime, ma questo non è il caso delle monarchie della penisola arabica…

Gilbert Achcar. Anche in questo caso è necessario fare delle distinzioni. Direi anzitutto che la Giordania è più simile al Marocco che a certe monarchie del Golfo. Anch’essa presenta una facciata di «dispotismo liberale» ovvero di «assolutismo liberale». Sono monarchie assolute, in cui non vi è sovranità popolare, ma che hanno concesso delle Costituzioni e una certa dose di liberalismo, con un pluralismo politico che non è un’illusione. Vi è anche una base sociale della monarchia, una base retrograda o di origine rurale protetta dalla monarchia. Tutto questo si combina, ben inteso, con una repressione selettiva. Ma l’attuale situazione sociale è diversa in Marocco e in Giordania. In Marocco c’è un forte movimento sociale. Il movimento del 20 febbraio è riuscito ad organizzare delle importanti mobilitazioni e finora ha dato prova di una considerevole perseveranza. Questo movimento ha commesso l’errore, a mio avviso, di fare i primi passi sulla questione costituzionale, ovvero sulla questione democratica che in Marocco non è molto grave, mentre molto più acuta è la questione sociale. Ma col passare dei mesi vi è stata un’evoluzione ed oggi i problemi sociali sono posti in primo piano. Tuttavia, nelle attuali condizioni, in Marocco potrà esserci una sollevazione popolare come quella tunisina o egiziana sulle questioni sociali ma non su quella democratica, perché il regime è così intelligente da non mostrare i denti su quest’ultima. Vi è ben poca repressione in Marocco se paragonata agli altri paesi della rivolta quali la Tunisia di Ben Ali o l’Egitto di Mubarak, per non parlare della Libia e della Siria. In questo caso vi sono degli elementi in comune tra il Marocco e la Giordania, dove il regime lascia fare pur controllando e, per così dire,  apre la valvola lasciando uscire il vapore. Allo stesso tempo il regime giordano punta sul fattore etnico. Anche in Giordania vi sono delle mobilitazioni importanti e che continuano. Quindi, in questi due paesi – Marocco e Giordania – c’è un movimento reale, anche se non è della stessa impressionante ampiezza rispetto a ciò che si è potuto vedere in Tunisia, in Egitto, in Barhein, in Yemen, in Libia o in Siria… Ma in Giordania lo squilibrio etnico, molto artificiale, tra o «giordani d’origine» e i palestinesi (ossia coloro che sono arrivati dall’altra riva del Giordano) è sfruttato dal regime. Sapendo che i palestinesi originari della Cisgiordania sono maggioritari nel Paese, la monarchia giordana soffia sul fuoco dell’ossessione dei «giordani originari» che temono di ritrovarsi in minoranza. È la classica soluzione del divide et impera, «dividere per regnare». Se volgiamo lo sguardo verso le monarchie del Golfo, la situazione è differente. Anche in questo caso vi sono, dov’era possibile, dei movimenti popolari. In Oman vi è stato un movimento sociale ed ora assistiamo allo sviluppo di un movimento politico in Kuwait. E vi sono stati movimenti di protesta e scontri – duramente repressi – anche nel regno saudita. E vi è sicuramente il Barhein, l’unica monarchia del Golfo che ha dovuto confrontarsi con una sollevazione di grande ampiezza. L’eccezione è rappresentata dai micro-Stati eminentemente artificiali – il Qatar e gli Emirati arabi uniti – dove dall’80% al 90% gli abitanti sono «stranieri»,  non hanno cioè alcun diritto e possono essere deportati in qualunque momento. Sono degli Stati che non temono troppo i movimenti sociali e che beneficiano della protezione diretta delle potenze occidentali – gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o la Francia (che ha dei legami diretti in particolare con gli Emirati arabi uniti, soprattutto sul piano militare). D’altronde dappertutto vi sono stati dei movimenti – anche in Kuwait, che ha una popolazione autoctona più organica, benché anche in questo caso molto limitata. Vi è stato soprattutto il movimento nel Barhein, che la monarchia locale e i sauditi hanno tentato di presentare come un movimento sciita totalmente confessionale – gli sciiti sono la grande maggioranza della popolazione dell’isola – contro la monarchia sunnita. La dimensione esiste, certo, ed è forte nella regione: gli sciiti vengono perseguitati tanto in Barhein quanto nel regno saudita (dove sono una minoranza). I regimi esistenti usano il confessionalismo più abietto per impedire la saldatura del movimento di massa e sostengono l’ostilità della loro base sociale contro gli sciiti. Ben inteso, questi regimi utilizzano anche i propri mezzi finanziari per comprare coloro che possono essere comprati. In Barhein abbiamo assistito ad un considerevole movimento democratico e abbiamo visto i rapporti di forza. Senza l’intervento esterno questo movimento avrebbe potuto – e ancora potrebbe – rovesciare la monarchia. L’intervento esterno si è materializzato sotto forma di truppe dei Paesi del Golfo, soprattutto saudite, inviate sull’isola per supplire alle forze locali, offrendo loro la possibilità di dedicarsi alla repressione del movimento. Ma il movimento continua in Barhein ed è destinato a non spegnersi. Infine vi è lo Yemen, che non fa parte delle monarchie del Golfo, ma appartiene alla stessa regione. Esso è – con il Sudan e la Mauritania – uno dei paesi arabi più poveri. I due terzi della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. In questo paese è il fattore tribale assieme al fattore regionale ad essere utilizzato dal regime, in modo tale che gli eventi hanno assunto le sembianze di quello che potremmo definire una «guerra civile fredda» che vede contrapporsi due frazioni della popolazione con imponenti mobilitazioni da una parte e dall’altra. Questo paese è l’unico, tra quelli coinvolti, in cui il potere è riuscito ad organizzare delle mobilitazioni importanti e autentiche, contrariamente a quelle, in buona parte fittizie,  che Gheddafi organizzava a Tripoli e che Assad organizza in Siria. Lo Yemen è un paese la cui situazione colpisce direttamente il regno saudita e questo spiega perché i sauditi vi si sono impegnati esplicitamente. Essi sostengono Abdallah  Saleh e nello stesso tempo attendono le sue «dimissioni» - che sono una farsa che non ha ingannato nessuno e soprattutto non ha ingannato l’opposizione radicale che continua la lotta.

Inprecor. Il regime algerino non è stato finora attaccato dalle mobilitazioni popolari, come lo spieghi?

Gilbert Achcar. Altrettanto si può dire per l’Iraq, per il Sudan e anche per il Libano. Questi sono paesi che hanno conosciuto lunghi periodi di guerra civile. In condizioni simili è comprensibile che la gente non sia molto incline a destabilizzare la situazione attuale. C’è paura dell’ignoto, paura che risorgano le forze integraliste più estremistiche, paura del rinnovamento, comprese le manipolazioni da parte del potere, e della guerra sporca che l’Algeria ha vissuto e della quale la popolazione ha fatto le spese. Questo quadro di fondo è molto importante. Non bisogna dimenticare che l’Algeria è un paese che ha già vissuto una sollevazione popolare nel 1988, che certamente non aveva la stessa ampiezza, né le stesse forme organizzative di quelle che si sono viste quest’anno, ma che nondimeno si è conclusa con una liberalizzazione politica. L’ascesa elettorale del Fronte islamico di salvezza (FIS) che ne è seguita si è chiusa con il colpo di Stato, che conosciamo, e con la guerra civile. È naturale e normale che la gente non speri che si ripeta un simile scenario. Questo è un fattore di freno in Algeria, in assenza di forze capaci di organizzare una saldatura sociale orizzontale su basi di classe, che potrebbe essere la base di una nuova sollevazione. In Algeria vi sono stati dei tentativi di mobilitazione, ma che non hanno avuto una grande eco. Qualsiasi prospettiva non sembra avere oggi alcuno sbocco. La situazione potrebbe cambiare se il movimento a livello regionale, iniziato nel dicembre 2010 in Tunisia, continuasse ad acquistare ampiezza. Bisogna anche tener conto del fatto che l’Algeria vede le vicine Tunisia e Libia sperimentare delle forme di democratizzazione che in entrambi i casi vanno a vantaggio di forze islamiche simili a ciò che fu il FIS, represso in Algeria. A un certo punto ciò può avere delle conseguenze dirette sulla situazione algerina e questo preoccupa i militari al potere.

 Inprecor. Pensi che in Siria i rivoluzionari potranno vincere? E chi sono questi rivoluzionari? 

 

Gilbert Achcar. La sollevazione di massa in Siria è prima di tutto una sollevazione della base popolare, della quale i giovani sono la punta di diamante. È la dimostrazione dell’averne le tasche piene di fronte a una dittatura famigliare al comando da 41 anni. Hafez el-Assad si è impadronito del potere nel 1970, è morto nel 2000, dopo trent’anni di potere e da allora, da undici anni, è suo figlio Bashar che lo sostituisce, promosso a questa carica quando non aveva ancora 35 anni. La stanchezza è quindi facilmente comprensibile, tanto più che l’elemento sociale visibile ovunque come infrastruttura delle rivolte è molto presente in Siria. Questo è un paese sottoposto da decenni a riforme economiche liberistiche, che hanno subito un’accelerazione in questi ultimi anni e che si sono concretizzate in un galoppante aumento del costo della vita, in una situazione sociale molto difficile e una povertà considerevole (il 30% degli abitanti vivono al di sotto del livello di povertà). A questo si aggiunge il carattere minoritario e confessionale del potere poiché la cricca regnante appartiene in gran parte alla minoranza alauita. Tutto ciò spiega perché, mentre l’ispirazione è venuta dalla Tunisia, dall’Egitto e infine dalla Libia – compreso l’intervento internazionale nel paese libico, che ha incoraggiato i siriani ad entrare in azione sperando che quell’intervento dissuadesse il regime a reprimere violentemente le proteste in corso –, abbiamo assistito all’esplosione di questo movimento che nessuna forza politica può pretendere di controllare e ancor meno di avere avviato. Sono queste reti di giovani in particolare – come si è potuto vedere dappertutto dal Marocco fino in Siria, che utilizzano le nuove tecnologie di comunicazione (ad esempio Facebook, di cui tanto si parla) – che hanno lanciato e organizzato queste rivolte attraverso la costituzione di «comitati di coordinamento locale» che ora si sono federati e che continuano a promuovere il movimento non avendo alcuna affiliazione politica. Ma vi sono anche delle forze politiche che si organizzano al fine di «rappresentare» il movimento. Sono emerse due forze, due raggruppamenti concorrenti: l’uno riunisce essenzialmente forze di sinistra, tra cui alcune non sono favorevoli ad una opposizione radicale al regime e hanno atteggiamenti ambigui verso di esso, dopo averlo invitato al dialogo, credendo di potersi inserire come mediatori tra la rivolta popolare e il regime e di riuscire a convincere quest’ultimo a fare delle riforme. Ben presto hanno verificato che ciò non funzionava e in gran parte hanno aderito all’obiettivo di rovesciare il regime. L’altro raggruppamento unisce i partiti più radicali nella loro opposizione al regime, un ventaglio di forze che va dai Fratelli musulmani (che anche in questo caso svolgono un ruolo centrale) al Partito democratico del popolo (nato da una scissione del Partito comunista siriano), che è mutato ideologicamente «all’italiana» ma resta un’opposizione di sinistra al regime e dei partiti kurdi. Queste forze hanno dato vita al Consiglio nazionale siriano, che è stato considerato da una buona parte del movimento come il proprio rappresentante, senza che ciò fosse il risultato di un controllo da parte di reti militanti. Questa è quindi una situazione particolare che si è concretizzata nella scelta di affidare la presidenza del CNS a Burhan Ghalioun, un indipendente piuttosto di sinistra. Ora si vede quest’ultimo sempre più partecipare ad un gioco diplomatico guidato dai Fratelli musulmani in accordo con la Turchia e con gli Stati Uniti. Questa è una dinamica pericolosa. Infine, vi sono i disertori dell’esercito. Dopo diversi mesi di repressione, ciò che doveva succedere è successo. Anche in assenza di un’organizzazione capace di indurre di soldati a passare dalla parte della rivolta popolare, l’esasperazione dei soldati si è tradotta nelle defezioni, all’inizio completamente disorganizzate. Dopo il mese di agosto, i soldati hanno organizzato un Esercito siriano libero, sullo sfondo dell’inizio di una guerra civile e con degli scontri tra i soldati dissidenti e la guardia pretoriana del regime. In Siria, quindi, vi è un ventaglio di forze. A causa del fatto che il paese non ha conosciuto per decenni una vita politica – benché il regime fosse meno totalitario di quanto lo fosse in Libia – è impossibile sapere quale sia il peso relativo degli uni e degli altri. Bisognerà attendere la caduta del regime, posto che ciò avvenga, e di elezioni libere per verificare la forza relativa delle correnti politiche organizzate.


Inprecor. Tornando alla Libia, la caduta di Gheddafi significa la fine della guerra civile o si rischia di vedere riemergere degli scontri armati e, se questo è il caso, chi ne sono i protagonisti?

Gilbert Achcar. Bisogna sottolineare innanzitutto che in Libia più di quarant’ani di regime totalitario avevano cancellato ogni forma di vita politica. La Libia appariva, quindi, come un terreno politicamente vergine e nessuno sa che tipo di panorama politico vi si costruirà, né ciò che potrebbero offrire delle elezioni libere, se ve ne fossero. Se per guerra civile si intende quella culminata con l’arresto e la liquidazione di Gheddafi e poi con l’arresto di suo figlio, questa è una fase essenzialmente finita per il momento. Ciò che ora succede è il verificarsi di una situazione caotica, un po’ come in Libano nei primi anni della guerra civile nel 1975, o, per citare un caso estremo, come in Somalia. Vi è un governo, ma non c’è lo Stato. Se si definisce lo Stato prima di tutto attraverso la sua colonna vertebrale, e cioè l’esercito, si può dire che in Libia non c’è più alcun esercito (anche se si fanno dei tentativi per ricostituirlo): c’è una pletora di milizie, strutturate su diverse basi, regionali, tribali, politico-ideologiche, ecc. Il fattore regionale, in senso stretto – Misrata o Zintan, per esempio – è determinante. Ogni regione ha la sua milizia. Ciò prova d’altronde il carattere popolare della guerra che ha rovesciato il regime. È stata senza ombra di dubbio un’insurrezione popolare e anche una guerra popolare quella cui abbiamo assistito in Libia, del tipo più classico: civili che svolgevano ogni tipo di professione trasformati in combattenti che si sono lanciati nella battaglia contro il regime. Coloro che hanno creduto che l’intervento della NATO avrebbe significato la fine del carattere popolare della ribellione e avrebbe trasformato i ribelli in fantocci della NATO hanno commesso un grave errore. D’altronde gran parte di coloro che sostenevano questa tesi cercavano di giustificare il loro sostegno al regime di Gheddafi contro la rivoluzione libica. Abbiamo assistito ad una confusione indescrivibile nella sinistra internazionale e ad atteggiamenti di ogni genere. Credere che la NATO avrebbe avuto il controllo della situazione in Libia dopo la caduta di Gheddafi, significava farsi grosse illusioni. Gli Stati Uniti non sono riusciti a controllare l’Iraq con il massiccio dispiegamento di truppe in quel paese, come era possibile, quindi, credere che potessero controllare la Libia senza disporre di truppe sul terreno? Il potenziale di protesta popolare emerso con la rivolta contro Gheddafi è sempre presente in Libia. Ne sono testimonianza, per esempio, le manifestazioni che si sono svolte il 12 dicembre a Bengasi contro il Consiglio nazionale transitorio e contro il tentativo fatto di cooptare personaggi legati al vecchio regime. La NATO continua a consigliare il Consiglio nazionale transitorio di integrare i membri del regime di Gheddafi, spiegando che questi suggerimenti vengono dalla lezione che hanno imparato dal fiasco iracheno. Tutto questo è stato rifiutato dalla popolazione e ci sono movimenti che vi si oppongono. Lo testimonia anche l’organizzazione delle donne – per la prima volta in Libia un movimento autonomo di donne si è costituito e mobilitato tanto sulla questione degli stupri quanto sulla rappresentanza politica. Vi sono anche proteste di civili che vogliono sbarazzarsi delle milizie. La Libia è un paese dove tutto questo esplode in tutte le direzioni e dove le energie potenziali che sono state risvegliate dalla rivolta si esprimono energicamente. Certo, le prospettive sono irte di difficoltà a causa dell’assenza di una sinistra, e ciò a causa sia di quello che è stato il regime sia di quello che ha fatto contro di ogni forma di opposizione politica. Ma vi sono comunque dei piccoli progressi – per esempio la costituzione di una Federazione di sindacati indipendenti che ha stabilito dei contatti con il suo omologo egiziano. Bisognerà vedere ciò che tutto questo metterà in campo. Per il momento in ogni caso, visto l’evolversi della rivolta con il rovesciamento armato del regime, e a dispetto dell’intervento imperialistico nel conflitto, la Libia, tra tutti i Paesi della regione, è quello in cui finora il cambiamento è stato più radicale. Il regime di Gheddafi è stato distrutto del tutto, anche se sopravvivono dei resti che provocano delle mobilitazioni popolari. Ma le sue strutture politiche fondamentali sono state distrutte – cosa che è molto diversa rispetto alla Tunisia e all’Egitto, per non parlare dello Yemen. In Egitto, ancor più che in Tunisia, le strutture politiche  sono tuttora in piedi e al Cairo è persino al potere una giunta militare.

Inprecor. La Tunisia, tra i paesi arabi, è quello dove le organizzazioni del movimento operaio – il sindacalismo – hanno più antiche tradizioni e sono più strutturate. Ma il movimento operaio è stato marginalizzato nel processo elettorale per la Costituente. Pensi che siamo di fronte a una stabilizzazione o solo di fronte a un intermezzo elettorale?

Gilbert Achcar. La Tunisia è un paese in cui  esiste una autentica  borghesia che ha tollerato il regime di Ben Ali o ne tratto vantaggio. Questa borghesia ha fatto ricorso al successore del regime di Burghiba – quindi del regime che ha preceduto la presa del potere da parte di Ben Ali – rappresentato da Beji Caid Essebsi, che è stato primo ministro fino alle elezioni. Oggi la borghesia tunisina tenta di cooptare la nuova maggioranza – il partito Ennahda, il Congresso per la Repubblica del nuovo presidente Moncef Marzouki, eccetera. Queste forze sono assimilabili alla borghesia perché non hanno un programma sociale o economico anticapitalistico. Si tratta proprio al contrario sia di liberali democratici più o meno progressisti, come Marzouki, sia di un movimento islamico di origine integralista, Ennahda, al quale appartiene il nuovo primo ministro, Hamadi Jabali, che sostiene di aver rovesciato il suo integralismo e di essere diventato l’equivalente tunisino del partito AKP al potere in Turchia. Come il grande capitale turco si è perfettamente accordato con il partito AKP, diretto da Recep Tayyip Erdogan, che oggi è divenuto anche il suo migliore rappresentante, la borghesia tunisina mira a cooptare Ennahda. Nello stesso tempo il movimento continua ad affermarsi alla base. Non appena terminate le elezioni abbiamo assistito a una rivolta nel bacino minerario di Gafsa – le cui lotte, in particolare nel 2008, avevano preannunciato la rivoluzione scoppiata nel dicembre 2010. Questa volta la protesta, come nel 2008, si è spostata sulla questione sociale, con la rivendicazione del diritto al lavoro e la richiesta di impieghi. Tutto questo continuerà perché in Tunisia il movimento è iniziato dalle questioni sociali e perché la coalizione oggi al potere non ha risposte per queste richieste. In Tunisia, quindi, vi è il terreno favorevole per la costruzione di una forza politica fondata sul movimento operaio, purché le forze di sinistra prendano l’iniziativa in questa direzione.

Inprecor. Come si evolvono le mobilitazioni in Yemen dopo le dimissioni del presidente Ali Abdallah Saleh?

Gilbert Achcar. Anche in Yemen il movimento prosegue. Una parte importante dell’opposizione comprende perfettamente che le dimissioni di Saleh non sono altro che un tentativo per avviare un cambiamento di facciata, senza modificare la sostanza. Anche la rivendicazione separatistica prende sempre più vigore in Sud-Yemen di fronte a questo compromesso poco convincente. Non si deve dimenticare che lo Yemen è stato riunificato solo nel 1994, dopo una lunga divisione in due Stati. Lo Stato del Sud ha conosciuto l’unico regime che nella regione si rifaceva al marxismo, con un’esperienza sociale poco nota ma notevole. Dopo la degenerazione burocratica favorita dalla dipendenza dall’Unione sovietica, il regime ha finito per crollare dopo il fallimento della potenza che lo sosteneva. Ma ora si vede nuovamente emergere una rivendicazione separatistica al Sud, che ritiene di essere socialmente più avanzato del Nord dove le strutture pre-capitalistiche, tribali e di altro genere sono più rilevanti. In Yemen vi è anche una causa di guerra confessionale con una minoranza del paese che ha subito attacchi da parte del regime, così come vi è Al-Qaida – lo Yemen è oggi senza dubbio il paese arabo nel quale la rete di Al-Qaida è più forte sul piano militare. Lo Yemen è perciò una considerevole polveriera.

Inprecor. Che cosa pensi della difficoltà in Europa di attuare delle campagne di solidarietà con le rivoluzioni nella regione araba?

Gilbert Achcar. Contrariamente a ciò che lascia intendere la tua domanda, credo che vi sia stata una forte simpatia, anche negli Stati Uniti, verso la rivolta in Tunisia e ancor più verso quella egiziana. Il fatto che questo non si sia tradotto in mobilitazioni, penso sia accaduto perché la gente non ha trovato un motivo particolare per mobilitarsi. Non si tratta di fare la storia con i “se”, ma io penso che se vi fosse stato un tentativo di intervento repressivo da parte dei governi occidentali contro la rivoluzione in Tunisia, avremmo visto nascere un importante movimento di solidarietà. Nel caso della Libia, agli occhi delle opinioni pubbliche i governi occidentali intervenivano dal lato giusto, almeno in apparenza. Nel caso libico, si pone generalmente una domanda inversa rispetto al caso della Tunisia e dell’Egitto: perché non vi è stata mobilitazione contro quest’intervento militare occidentale? Nel caso della Siria, il pubblico ascolta posizioni contraddittorie e si rende conto che l’atteggiamento dei propri governi è «prudente», cosa che non lo sollecita a mobilitarsi… Io vedo le cose in modo diverso. L’eco delle rivolte arabe presso la popolazione mondiale è stata molto forte. Lo si è visto già nel febbraio 2011 in Wisconsin, negli Stati Uniti, dove la popolazione si ispirava all’Egitto. E lo si è visto anche nella grande manifestazione sindacale di Londra, in marzo, e ancora nei movimenti degli «indignati» in Spagna e in Grecia, e più recentemente nel movimento Occupy che si è diffuso negli Stati Uniti e altrove… Ovunque si ritrovano dei riferimenti a ciò che avviene nel mondo arabo e in particolare alla rivolta egiziana – perché vi è stata una concentrazione mediatica mondiale molto più importante sugli eventi in Egitto che su tutto il resto. La gente dice «faremo come loro», «loro hanno osato farlo, facciamolo»! Ben inteso, non bisogna esagerare nell’altro senso. Dicendo questo, sono perfettamente conscio dei limiti di tutto questo, anche dove i movimenti hanno assunto un’ampiezza considerevole, come in Spagna. In nessun paese europeo vi è una situazione simile a quella del mondo arabo, ossia una combinazione fra una crisi sociale acuta e un governo dispotico senza legittimazione. In Europa, con i regimi di democrazia borghese, le cose non hanno la stessa acutezza e c’è sempre la possibilità del ricorso alle urne che contribuisce a smorzare l’esplosività. A mio parere non si tratta di organizzare la solidarietà, perché per il momento non vi è un intervento occidentale contro le rivolte nella regione – se questo dovesse accadere, bisognerebbe, ben inteso, mobilitarsi contro, ma per il momento ciò che è più importante è basarsi sull’esempio regionale, che dimostra che un movimento di massa può provocare dei cambiamenti radicali nella situazione di un paese. Oggi è questo che può avere un effetto valanga ed è ciò che mi sembra l’elemento più evidente.

Inprecor. Non credi che nella sinistra storica, tradizionale, che ora è comunque assai decadente, vi sia una perdita di riferimenti che frena le mobilitazioni? Tu hai citato il movimento degli “indignati”, ma questo è anche un movimento che sostiene «nessun partito, nessun sindacato ci rappresenta» e che non si sente quindi legato a questa sinistra tradizionale, o almeno non nei modi che abbiamo visto in passato…

Gilbert Achcar. Io credo, più in profondità, che da un certo numero di anni siamo di fronte ad una mutazione storica delle forme politiche della sinistra, del movimento operaio e della lotta di classe. Mi sembra che questa mutazione sia interpretata in modi molto diversi all’interno di ciò che resta della sinistra. Vi sono troppe persone che continuano a pensare nel quadro del pensiero ereditato dal XX secolo. L’esperienza della sinistra del XX secolo, che è tragicamente fallita, oggi è completamente superata. È necessario rifarsi a delle concezioni della lotta di classe che siano molto più orizzontali, meno verticali e centralizzate rispetto al modello che si è imposto nella sinistra dopo la vittoria dei bolscevichi nel 1917. Oggi la rivoluzione tecnologica permette forme di organizzazione molto più democratiche, più orizzontali, in reticolo… E questo è ciò che fanno i giovani, ciò che si vede nella pratica dei movimenti in azione nel mondo arabo. Senza farsi delle illusioni: credere che Facebook sarà nel XXI secolo l’equivalente del partito leninista, significherebbe farsi molte illusioni. Ma tra i due esempi – Facebook e partito leninista – vi è spazio per una combinazione creativa di organizzazione politica molto più democratica, che funzioni usando le nuove tecnologie e che sia capace di collegarsi con le reti sociali e di cittadinanza, oltre che di fare appello alle nuove generazioni. Le nuove generazioni sono praticamente nate all’interno di queste tecnologie: lo si vede da come le utilizzano e vi sono inserite. Tutto questo disegna un futuro che passa attraverso a un riarmo politico, ideologico, organizzativo della sinistra su scala mondiale. Questa è la sfida che si è posta, come dimostra anche ciò che avviene nel mondo arabo. Questa sfida era già stata realizzata dalla rivolta zapatista, che era un primo, importante tentativo di dar vita a nuove forme espressive della sinistra radicale. Aveva fatto seguito il movimento altermondialista e la riflessione dei  componenti di questo movimento. E oggi, con le rivolte nel mondo arabo, gli indignati, gli attivisti di Occupy, ecc., noi assistiamo ad un’esplosione delle mobilitazioni, in particolare da parte dei giovani -- ma non solo -- che usano questi nuovi  metodi d’azione. Per costruire una sinistra rivoluzionaria del XXI secolo è necessario che la sinistra sappia ricaricarsi e che si arrivi a una combinazione fra il bagaglio programmatico e teorico, in particolare marxista, della sinistra radicale, da una parte e, dall’altra, le “forme moderne” e cioè il rinnovamento radicale delle forme di organizzazione e di espressione.


*Gilbert Achcar, di origine libanese, è docente presso la School of Oriental and African Studies – SOAS – dell’università di Londra e autore di molti testi sul Medio Oriente. Recentemente ha pubblicato les Arabes et la Shoah : la guerre israélo-arabe des récits.


Traduzione dall’originale francese di Cinzia Nachira
( www.inprecor.fr/article-inprecor?id=1255)

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