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Medio Oriente » Viaggio tra i profughi palestinesi-Chatila 2012-3°  

Leggi la 2° parte 

VIAGGIO TRA I PROFUGHI PALESTINESI
CHATILA 2012
  
di Mirca Garuti
(3° parte)


Qana 1996 – 2006

Il confine con la Palestina è a soli 37 km. Qana è un piccolo villaggio del sud del Libano, teatro di due massacri. Nel 1996, durante “l'Operazione Furore”, due grandi proiettili sparati dall'artiglieria israeliana (155 millimetri) centrano una postazione ONU gremita di profughi che cercano solo un luogo sicuro in cui nascondersi dalla morte. Ma la morte arriva lo stesso, arriva all'improvviso e, come un'onda di fuoco travolge tutto. Il bilancio è pesante: 106 persone arse vive ed oltre 100 ferite. Il 30 luglio 2006, durante la “Seconda guerra del Libano”, un missile israeliano colpisce nella notte una palazzina di tre piani e la distrugge completamente. La dinamica è la stessa di dieci anni prima. “Chiunque rimanga nei villaggi interessati dai combattimenti verrà ritenuto un combattente”, questo era stato l’avviso divulgato dalle radio e dai volantini alla popolazione del sud che aveva intrapreso da giorni la via dell’esodo, tra strade bombardate, difficoltà di spostamenti e una miriade di bambini e donne. La sosta a Qana era sembrata forse “una salvezza” e, così molte famiglie si rifugiarono in questo palazzo, nei sotterranei, ma qui trovarono solo la morte: 60 le vittime, di cui 37 bambini (di cui 15 disabili).
Oggi ci troviamo nel cimitero di Qana per ricordare il  massacro del 2006 con un giornalista di
As Safir, testimone oculare di quella tragedia.

      

Ci lasciamo alle spalle la violenza, i massacri di quei giorni, per andare alla sede di Beit Atfal Assumoud nel Campo El Buss, sempre nel sud del Libano, vicino a Tiro.

 

L'associazione Assumoud, diretta agli orfani di entrambi i genitori, nasce nel 1976, subito dopo la distruzione del campo profughi di Tell El-Zaatar (La collina del timo), avvenuta dopo un lungo assedio iniziato il 20 giugno e terminato il 12 agosto 1976. La resa del campo è seguita da un massacro che nemmeno i dirigenti falangisti riescono a fermare, nel quale sono trucidate circa 1.000 persone. I 52 giorni d’assedio causano complessivamente circa 3000 morti, non solo per i bombardamenti o i combattimenti, ma anche per inedia e fame. Gli scampati al massacro (15.000) sono evacuati a Beirut Ovest.

All'alba del 12 agosto 1976, i miliziani fascisti della Falange, delle Tigri del Libano e i kataebisti cristiano-maroniti, penetrati nel campo con l'inganno, trucidano senza misericordia gli scampati all'assedio che sono usciti dai rifugi per organizzare il trasporto dei feriti. Nelle stradine di terra c'è una caccia all'uomo feroce, anche con i coltelli. Gli uomini del campo dai 15 ai 40 anni sono tutti eliminati a freddo. Lo stesso destino capita a donne e ai loro bambini. Vengono assassinati 60 infermieri. Più tardi, in due riprese, il convoglio della Croce Rossa raccoglie direttamente dalle mani delle milizie cristiane alcune migliaia di persone. Sono contro il muro, un'immagine di vergogna. Un testimone afferma che l'entrata nord del campo, a Dekuaneh, è una visione terribile, di orrore. Per muoversi tra le stradine, dove regna l'odore del putrido, dove decine e decine di cadaveri giacciono al suolo tanto che è impossibile contarli, bisogna usare la maschera. C'è chi alla resa preferisce la morte combattendo. Chi, fatto prigioniero, è ferocemente torturato prima di essere eliminato. Ora l'obiettivo cercato in tanti mesi di lotta da parte delle organizzazioni falangiste conservatrici è raggiunto: tutta la zona ad est della “linea verde” è omogenea, non ci sono più campi palestinesi ed i quartieri musulmani sono occupati o svuotati.” [tratto da “La diaspora palestinese in Libano” di Mariano Mingarelli]


Assumoud, oggi, ha varie sedi in Libano: a Nord, vicino a Tripoli nei campi di Nahr El Bared e Beddawi, al centro a Baalbeck nel campo di Wavel, a Beirut nei campi di Mar Elias, Chatila e Bourj Al Barajneh e al Sud, a Sidone nel campo di Ein El-Helwi ed a Tiro nei campi di El-Buss, Burj El Shemali e Rashidieh. I servizi dell'associazione sono rivolti a tutti, non solo ai palestinesi, ma a chi ne ha necessità.  I progetti sono finalizzati all'aiuto alle famiglie nella cura dei bambini sia da un punto di vista fisico, mentale e scolastico, ai servizi sanitari, alla musica, alla danza popolare, ai ricami, ossia a tutte quelle attività che servono per conservare la cultura palestinese.
Il campo di El Buss è stato costruito nel 1939 dal governo francese per i profughi armeni. I palestinesi sono arrivati intorno agli anni ’50.  Oggi,  i profughi registrati in questo campo sono più di 9.500. La responsabile di El Buss prosegue l'esposizione della struttura e sottolinea l'importanza del “Centro di salute psicologica”, aperto nel 2007 all’interno del campo stesso, grazie all'aiuto di un’associazione finlandese. Il centro è l'unico per tutti i campi profughi del sud del Libano. Nell'ultimo anno è stato avviato un nuovo programma di musica e arte in collaborazione con un’associazione palestinese che coinvolge 31 famiglie e 65 bambini. I bambini sono seguiti dalla nascita all'adolescenza. I sintomi maggiormente riscontrati riguardano vari disordini mentali, l'ansia, la depressione, la paura e l'incontinenza notturna. L'organico è diviso in due gruppi: uno lavora presso la sede, mentre l'altro direttamente all'interno delle famiglie. L'insegnamento di come trattare questi problemi è rivolto anche ad assistenti sociali, (attualmente sono 5) con l’obiettivo di  trasferire poi queste conoscenze alle stesse famiglie, rendendole così autonome nel gestire questi problemi.  Inoltre, il centro è diventato anche un luogo di studio rivolto a professionisti della salute mentale provenienti da altri paesi, come il Canada e gli Stati Uniti. La disponibilità finanziaria, purtroppo è un problema sempre presente ed assillante che non permette loro di fare programmi a lunga scadenza.
Maurizio Musolino, dopo la presentazione della responsabile, racconta come e quando ha conosciuto questa realtà e come è rimasto colpito dalla tenacia di queste donne a gestire questo importante centro per i bambini e le loro famiglie. E' utile quindi farlo conoscere e sostenere il lavoro di tutti quelli che credono in questo progetto.  Per questo, il Comitato consegna alla responsabile del centro il nostro piccolo contributo.

          


Durante la nostra visita al campo di El Buss, il vignettista Enzo Apicella, nostro compagno di viaggio, ha donato al centro due vignette disegnate durante la conferenza.

   


La nostra giornata termina al campo di Burj El Shemali in allegria tra i canti e balli della tradizione popolare palestinese. Sul palco si susseguono donne e uomini, ragazze e ragazzi in colorati abiti che rievocano le loro origini.  Attraverso le canzoni e la musica vogliono trasmettere al mondo intero la speranza di poter ritornare nella loro terra e di non essere dimenticati.

Foto manifestazione musicale

Oggi è un giorno molto particolare ed importante: siamo diretti al campo di Nahr El Bared, il secondo più grande del Libano, vicino a Tripoli. L’ultima volta che sono riuscita ad entrare è stato a giugno 2008. Il campo è stato distrutto completamente nell’estate del 2007 dopo gli scontri tra l’esercito libanese e le milizie di Fatah al –Islam. (vedi foto Nahr el Bared 2008) Lo scontro era iniziato il 20 maggio e, dopo ben otto settimane di combattimenti, si contavano più di 220 morti.  Si può senz’altro affermare che è stato il conflitto più intenso dopo la guerra civile libanese del periodo 1975-1990. (vedi Tra le rovine di Nahr el bared)
La guerra del 2007 ha generato un elevato numero di sfollati che hanno trovato rifugio nel vicino campo di Beddawi, ma non senza enormi difficoltà, legate all’inaspettato sovra popolamento. La ricostruzione, dopo 5 anni, non si è ancora conclusa. I tempi previsti non sono stati rispettati.
Il campo si trova ancora sotto il controllo militare libanese. Per poter entrare, infatti, abbiamo dovuto presentare, qualche giorno prima, le copie dei nostri passaporti.

 


 

 

Arriviamo a Nahr El Bared per incontrare il responsabile del campo, Mr. Marwan Abdul Al. Dopo il benvenuto, prima di iniziare la presentazione della situazione odierna, assistiamo alla visione di un filmato che riguarda la condizione del campo prima, durante e dopo la guerra del 2007.

 

 

 

 

Il palestinese è anche una vittima della non comprensione”, queste sono le parole pronunciate all’inizio della conferenza da alcuni esponenti della politica palestinese. Un sentimento che, anche grazie alla nostra continua presenza, sta cambiando all’interno del pensiero palestinese. Nahr el Bared rappresenta un aspetto di essere “vittima”: mai come in questo momento particolare, dal 1950 ad oggi, gli abitanti di questo campo sentono di appartenergli, si sentono vittime del campo.

L’amico Vittorio Arrigoni, che ha perso la vita per la Palestina, è stato il primo ad offrire il suo sostegno a Nahr el Bared, è stato profugo fuori dal campo per due mesi, senza poter entrare. Il campo era diventato una caserma. Oggi, dopo 5 anni di rabbia, frustrazione, accuse e di chiusura totale, dove nessuno poteva entrare senza un permesso del servizio di sicurezza libanese, la situazione è diversa.

Durante la ricostruzione, la vita economica del campo, che in precedenza era una delle più produttive, era stata sospesa, costringendo così la sua popolazione ad elemosinare acqua e cibo. Il rappresentante del campo aveva avvertito le autorità libanesi che la condizione interna era diventata esplosiva, ma nessuno lo aveva ascoltato. Le questioni palestinesi, purtroppo,  non hanno la priorità nella politica interna libanese. Così, il 15 giugno scorso si rompe quel fragile equilibrio, per l’uccisione di un giovane palestinese disarmato al posto di blocco. La reazione è immediata: esplode un intifada ed è decretata la totale chiusura del campo. I giovani occupano le strade, danno fuoco a diversi pneumatici, costituiscono un presidio e lanciano un solo slogan “La nostra dignità è una linea rossa.” In questo scontro si sono riversate tutte le umiliazioni, le delusioni degli abitanti del campo di Nahr el Bared, che ha portato la morte di tre giovani uomini, il ferimento di tanti altri ed un movimento in tutti gli altri campi profughi del Libano. Le richieste degli abitanti di Nahr El Bared erano: il rilascio di tutti quelli che erano stati arrestati; annullamento del sistema delle autorizzazioni per entrare e uscire dal campo; la non presenza dei militari per le strade del campo; la restituzione delle case abitate dai soldati libanesi agli abitanti palestinesi ed infine l’apertura per un’inchiesta su quanto accaduto.  Il presidio, organizzato dai giovani ma presieduto da tutti è durato 33 giorni fino al raggiungimento di un accordo. I risultati del compromesso riguardano la riattivazione della commissione al dialogo tra palestinesi e libanesi, la riconsegna di alcune case, la soluzione di pratiche burocratiche legate alla costruzione di alcuni quartieri all’interno del campo ed infine la sollecitazione, anche rivolta all’UNRWA, per una rapida conclusione dei lavori.  Tutti i paesi coinvolti nel finanziamento del campo sono stati ricevuti, qualche giorno prima di questo nostro incontro, dal Primo ministro libanese.
Quello che è successo a Nahr el Bared nel 2007, è stata una durissima lezione per i palestinesi perché tutto questo non dovrà mai più succedere.  Ciò conduce ad una semplice domanda: chi è responsabile del campo? La commissione al dialogo sostiene che c’è una comune responsabilità che coinvolge tre elementi: UNRWA, il governo libanese ed i palestinesi attraverso i comitati e le varie organizzazioni.
Gli abitanti di Nahr el Bared sono più di 32.000, di cui 20.000 vivono nel campo, 5000 si trovano ancora nel vicino campo di Beddawi e gli altri si trovano nelle vicinanze nell’attesa di poter tornare. La volontà degli abitanti del campo di voler tornare a vivere nelle loro case ancora bruciate o quasi demolite, dimostra il loro senso di appartenenza a quel luogo, perchè se fossero andati via ed assorbiti in altre realtà, non sarebbe mai più stato ricostruito.
La cosa importante è, infatti, quella di ricostruire la memoria, l’identità del popolo palestinese per non disperdere al vento il ricordo di tutti quelli che hanno consacrato la loro vita a questa causa.

  1° PARTE

 

  2° PARTE

 

 

 

Foto campo nahr el bared 2012

Il nostro viaggio si sta per concludere, ma abbiamo ancora alcuni incontri molto importanti e significativi per capire meglio questo Libano.
Sabato mattina incontriamo, infatti, a Sidone Mr. Osama Saad del partito nassiriano.


Mr. Osama non ci spiega solo che cos’è e come opera il suo partito, ma illustra anche la storia del Libano.
La città di Sidone ha sempre accolto i palestinesi e, l’organizzazione nassiriana ha sempre pensato che la questione palestinese fosse al centro di tutti i problemi della regione araba. Fin dagli anni trenta, quando la Palestina era sotto mandato britannico ed il Libano sotto quello francese, aveva partecipato a tutte le rivolte del popolo palestinese. Libanesi, palestinesi e siriani lottavano insieme contro l’occupazione straniera. Marouf Saad, fondatore del partito nassiriano, aveva combattuto contro il colonialismo francese ed inglese ed era ed è il simbolo del Movimento di Liberazione Nazionale di tutto il mondo arabo.
Questa forza politica ha sempre lottato contro il movimento sionista israeliano, considerandolo un’organizzazione razzista, coloniale e reazionaria.
Il massacro di Sabra e Chatila non è e non sarà, purtroppo, l’ultimo massacro compiuto dal governo d’Israele. L’accordo del Cairo del 1969 ha permesso alla resistenza palestinese di restare in alcuni villaggi del sud del Libano e di riorganizzarsi come movimento. La destra libanese ha sempre ostacolato questo movimento con l’intento di annientarlo completamente. Questa stessa destra è, infatti, la prima responsabile dell’assassinio di Marouf Saad nel 1975, per essere sempre stato al fianco del popolo palestinese, delle classi più povere, deboli e contro il sistema confessionale libanese. Quest’uccisione è stata anche il primo tentativo di creare le condizioni per una guerra civile in Libano (1975-1989). La destra era riuscita infatti a trasformarla in una guerra tra confessioni, una lotta tra musulmani e cristiani, in realtà, invece era una lotta sociale per i diritti e il lavoro. L’invasione israeliana ha contribuito a creare un’alleanza palestinese-libanese. Questa resistenza ha causato però tantissimi martiri, feriti ed arrestati. L’obiettivo d’Israele era quello di distruggere completamente l’OLP e di creare in Libano un regime piegato all’obbedienza dello stato d’Israele, ma, grazie a questa resistenza, tutti questi obiettivi sono crollati. Le forze patriottiche hanno ottenuto buoni risultati, ma non sono riuscite a costituire in Libano un sistema politico non confessionale. Le forze confessionali, infatti, rifiutano totalmente qualsiasi riforma del paese per mantenere intatto il potere dei propri partiti. La destra libanese è una delle destre più forti al mondo, con molte relazioni esterne ed ha la capacità di cambiare “colore, posizione, atteggiamenti” di continuo e di ricevere aiuti a livello economico, politico, mediatico e qualche volta anche militare, da vari governi arabi ed europei.  Per questo motivo, il partito nassiriano è impegnato, nei confronti della destra libanese, in una lotta dura e continua ed è sempre alla ricerca di creare collaborazioni con tutte quelle realtà che sono contro il capitalismo, il sionismo e qualsiasi forma di ideologia reazionaria. Sidone, la capitale del sud, è una città molto importante anche per gli equilibri nazionali del Libano. In essa, infatti, si trovano tutte le varietà religiose e politiche esistente nel paese: ad est ci sono i sunniti, ad ovest i cristiani, all’interno queste diverse realtà insieme al campo dei profughi palestinesi, il più grande di tutto il Libano. Sidone può essere sia il centro nazionale per l’unità del paese in appoggio alla causa palestinese e alla resistenza, e sia il centro di una nuova guerra civile e contro la questione palestinese ed i suoi diritti. Il conflitto in questa città s’identifica in queste due diverse direzioni. Tutto dipende quindi dalla forza che queste opposte posizioni possono mettere in campo.
Mr. Osama Saad conclude poi il suo intervento, rispondendo alle domande sulla legge elettorale e sulle nuove guerre arabe. Il problema della legge elettorale si trova nella legge stessa, rappresenta quindi la riforma essenziale per un nuovo sistema democratico in Libano. Oggi con il sistema confessionale sono sempre le stesse forze che legiferano e sono dunque privilegiate, proprio dalle stesse leggi. Il partito nassiriano vorrebbe riformare questo sistema, portando il diritto al voto a 18 anni ed il Libano ad un’unica circoscrizione elettorale con un sistema proporzionale e di lista bloccate. Il parlamento libanese è formato da alleanze capitalistiche e confessionali e non potrà quindi mai accettare il cambiamento perché questo significherebbe limitare i propri privilegi. Per portare avanti allora questo progetto, l’organizzazione di Saad sta cercando di costruire un forte movimento popolare, per poter arrivare ad obbligare il parlamento a discutere delle riforme. Questo partito, inoltre, da 4 - 5 anni tenta di organizzare una conferenza nazionale con la partecipazione di palestinese e libanesi per realizzare una carta dei diritti dei palestinesi per migliorare le loro condizioni di vita all’interno del Libano.  Per questo, il partito ha aperto il dialogo con tutti: l’Olp, l’Anp, le forze islamiste palestinesi, il Presidente del parlamento Berri, Hezbollah, il partito comunista libanese, altri partiti patriottici libanesi, il partito socialista progressista di Jumblatt ed il partito al-Mustaqbal di Hariri. Tutti hanno portato varie osservazioni e contributi da discutere all’interno della conferenza, ma quasi all’ultimo momento, il partito di Hariri e le forze libanesi dei maroniti hanno fatto cadere il documento, cercando di strumentalizzare i palestinesi, non perché interessati alla causa palestinese ma solo per rispondere ai piani americani ed israeliani.
Per ultima cosa si parla delle “Primavere arabe”. All’inizio, si è trattato di rivolte sociali che riguardavano il lavoro, la libertà, la democrazia iniziate dai progressisti, sia in Tunisia e sia in Egitto. Successivamente, Stati Uniti e altre forze reazionarie sono intervenuti sul movimento, hanno messo le loro mani sulle rivolte, cambiando la situazione, raccogliendone “i frutti”. I progressisti non hanno avuto la capacità di unire le loro forze e di coinvolgere la gente nel loro programma, mentre, sono state le forze reazionarie e islamiste ad avere questa capacità, sfruttando anche i luoghi culto per poter comunicare con la gente, trovando qui un contatto diretto. Un ruolo determinante è stato anche quello degli altri paesi arabi, come Arabia Saudita e Katar che, con il loro aiuto economico e mediatico, sono riusciti a convincere gli Stati Uniti che quelle reazioni potevano soddisfare i loro interessi. E’ chiaro che il governo americano vuole continuare ad avere un controllo su queste regioni per un interesse strategico, economico e che questi movimenti di rivolta sono molti utili a mantenere questo stato di cose. E’ inoltre importante non dimenticare che, queste forze religiose islamiste salafite che hanno preso il potere in molte regioni arabe, non sono contrarie alla politica selvaggia del liberalismo economico, vogliono il commercio ed il guadagno. Il partito nassiriano che si definisce progressista, resistente, panarabista vuole invece democrazia, libertà, giustizia sociale, la liberazione del mondo arabo dal sionismo e non accetterà mai di essere al seguito né degli Stati Uniti e né di nessun altro governo arabo. Ha un sogno: realizzare un progetto di rinascita araba che collabora con tutti i popoli del mondo; questo non è stato realizzato dalle Primavere arabe. Il dominio della volontà politica di questa regione è sempre nelle mani degli Stati Uniti e del sionismo.

 

 

 

 

 

 

                                                                                             

 

 


Rimaniamo ancora a Sidone per incontrare l’ex sindaco Abdul Rahman Bizri.
Mr. Bizri ci presenta la sua città come una città diversa dalle altre, una delle più antiche con una grande eredità culturale ed artistica. Sidone è la terza capitale amministrativa del paese, capitale della resistenza palestinese, libanese e islamista che ha liberato il sud del Libano. Capitale della diaspora palestinese e, a differenza della divisione confessionale che regna in Libano, questa città raccoglie tutte le idee progressiste, di sinistra, di resistenza e religiose, senza nessun conflitto. Nella città di Sidone e periferia vivono 275.000 persone ed il 40% sono palestinesi che sono parte integrante di questo tessuto sociale. Questa città è anche chiamata la “Grande Sidone” proprio perché raccoglie dentro di sé con le stesse condizioni sociali tutte le zone limitrofe esistenti. I palestinesi che vivono in questa regione rappresentano più del 60 – 65% di tutti i palestinesi presenti su tutto il territorio libanese. Secondo i dati dell’Unrwa, i palestinesi presenti in Libano sono circa 500.000, ma in realtà quelli che sono iscritti nelle sue liste, sono 260.000. Molti di loro emigrano dal Libano, in altre realtà per cercare migliori condizioni sociali ed economiche. I palestinesi, nell’attesa di poter ritornare in Palestina, cercano di vivere alle condizioni migliori e per questo motivo scelgono di vivere a Sidone. Oggi la situazione è più critica per tutto quello che sta succedendo intorno al Libano (guerra in Siria) e questo può creare un aumento delle divisioni religiose e confessionali all’interno del paese. La posizione assunta da tutti i palestinesi è quella di rimanere fuori da tutte le questioni interne libanesi per evitare ogni possibile complicazione che possa peggiorare una situazione già così fragile. Le forze islamiste interne al campo hanno anche collaborato con il governo locale proprio per impedire a gruppi estremisti esterni, finanziati da paesi del Golfo, di entrare per creare ulteriori conflitti. Un altro grave e delicato problema è quello legato alla nuova immigrazione dalla Siria verso il Libano. Sono arrivate ad oggi 170 famiglie e tutte sono state accolte ed ospitate all’interno dei campi.

L’ex sindaco ricorda ancora una volta il massacro di Sabra e Chatila, rimasto impunito e che può così incoraggiare ancora qualcuno a commettere altri massacri nei confronti del popolo palestinese.
Maurizio Musolino ricorda Mr. Bizri quando, nel 2006, subito dopo l’invasione israeliana del Libano, come sindaco di Sidone, ha accolto la nostra delegazione con gioia, raccontandoci la guerra che si era da poco conclusa. (v. Diario Libano 2006)
Il nostro incontro termina con le domande all’ex sindaco che risponde subito affermando di credere che la Palestina sarà liberata dal popolo arabo e non dai regimi politici.  La loro politica, infatti, è la causa della lunga oppressione della Palestina e, fin dagli anni 70-80, la discussione tra i militanti si dibatte tra cosa deve avvenire prima, se la liberazione della Palestina o l’unità del mondo arabo. Quello che sta succedendo in Siria è un affare siriano e nessuno si può permettere di avanzare soluzioni. Come arabi e panarabisti, continua Rahman,  vogliamo solo una Siria integra e forte. 

Mr. Bizri, ex sindaco di Sidone, sarà un candidato per i partiti della sinistra, nelle elezioni politiche libanesi di giugno prossimo.  “Prima di costruire delle alleanze – ha affermato – bisognerà verificare come sarà la nuova legge elettorale.”
La legge in vigore, adottata nel settembre del 2008, è quasi una copia di quella del 1960 ed è caratterizzata da un sistema maggioritario e dalla divisione del Libano in numerose circoscrizioni elettorali di piccole dimensioni e corrispondenti ai distretti.
La destra, nelle ultime elezioni politiche (2009), per non far candidare l’ex sindaco, ha volutamente inserito nella legge elettorale, alcuni requisiti necessari alla candidatura, sapendo benissimo che non li poteva possedere. In questo modo ha vinto il partito di Hariri.
Il risultato di Sidone, nelle elezioni del 2013, sarà determinante per il risultato finale e, per questo, tutte le forze di resistenza cercheranno, unite, di riprendersi la città di Sidone.
Sidone, attraverso il suo rapporto storico con la Palestina, con l’impegno panarabista, con il rispetto della persona ed i rapporti umani ereditati storicamente, ha contribuito a creare ottimi rapporti tra palestinesi e libanesi, senza infrangere la legge dello Stato.

 

 

 

 

 

 

 


L’ultimo incontro politico è con il Partito dei Comunisti Libanese. La nostra delegazione ringrazia il partito comunista perché, nonostante il periodo molto intenso di lavoro, ha accettato d’incontrarci.  La maggior parte della dirigenza è, infatti, da poco rientrata da un giro di conferenze in Europa e il giorno dopo a quest’incontro (22/09/12), ci sarà un’importante iniziativa nazionale per commemorare i trent’anni dell’inizio della resistenza.
Il partito dei comunisti libanese è essenziale per comprendere quello che succede in Medio Oriente sia perché ha rapporti con molte delle forze progressiste, comuniste di tutta questa zona e sia perché è fondamentale all’interno della resistenza libanese.
Il compagno Rabih Decraki, che fa parte della commissione estera ed è il responsabile del giornale del partito, ci dà il benvenuto nella sede centrale del partito comunista libanese. Rabih rileva subito che oggi si ricordano sia i 30 anni della strage di Sabra e Chatila e sia i 30 anni dell’inizio della resistenza libanese cominciata con un fronte patriottico contro l’occupazione israeliana. La resistenza inizia, infatti, il giorno dopo dell’inizio del massacro.

Rabih preferisce rispondere alle nostre domande piuttosto che parlare della situazione generale. Gli argomenti sono vari e tutti molto importanti. Il primo argomento è l’Iran. “Se il mondo imperialista vorrà fare una guerra contro l’Iran – dice Rabih - troverà certamente una buona scusa per iniziarla, come ha fatto con l’Irak. Il costo di questa guerra però la pagherà l’Europa, dal momento che dopo non avrà più né un ruolo e né mercati in tutta la regione.”

Quasi tutte le altre domande riguardano Hezbollah, le prossime elezioni e la Siria.

Il punto fermo tra Hezbollah ed il partito comunista è il diritto di resistere davanti al nemico. Hezbollah ha fatto però della resistenza una questione confessionale. Lo slogan del partito comunista è: Resistenza, insieme al cambiamento democratico, sociale, economico, istituzionale del paese. Questa, è la differenza essenziale tra loro.
Hezbollah, nella sua posizione di classe, non può accettare questi cambiamenti, perchè sono in contrasto con i suoi interessi e la sua stessa confessione. La resistenza li divide ancora, perché per Hezbollah la resistenza è nata solo con loro e finirà con loro, ma per il partito comunista non è così. La storia non dice questo. Il partito comunista ha iniziato la resistenza alla fine degli anni ’60. Il Fronte di resistenza patriottica libanese, dal ’82 al ’86, che non era solo costituito dal P.C.L, ma anche da tutti i vari partiti laici di sinistra, compreso i palestinesi, è riuscito a liberare quasi il 70% del territorio libanese. La resistenza quindi non può essere rappresentata da una sola realtà che è quello del Museo di Mitla di Hezbollah, ma è patrimonio di tutti quelli che la esercitano.
Riemerge ancora la questione delle armi di Hezbollah.  Una proposta del Presidente del Libano prevede di mettere le armi sotto il controllo delle forze armate, restando però nelle mani di Hezbollah.
Rabih commenta la proposta affermando innanzi tutto che ogni popolo che viene occupato ha il diritto di resistere. Lo slogan del partito comunista è “ Un Libano democratico, resistente, laico”. Il problema del Libano risiede sempre nel suo sistema politico in quanto non tutti, all’interno del governo, sono d’accordo che Israele (le Fattorie di Shebaa sono ancora sotto occupazione israeliana) è un nemico che sta occupando il paese. Al ritiro degli israeliani in Libano, infatti, le forze libanesi avevano catturato dei gruppi ben conosciuti per la loro stretta collaborazione con Israele. Ora questo governo li ha liberati e festeggiati come eroi, sempre in nome di un equilibrio tra le confessioni. Chi vuole ancora un fronte di resistenza, perché ci sono ancora zone occupate da Israele e prigionieri in carcere, deve cercare di superare questo sistema e creare invece un sistema democratico, laico del Libano. Il problema è sempre lo stesso: se chi sta al comando del governo non sa chi è il nemico o l’amico, le armi devono rimanere, per sicurezza, dove sono. Al governo attuale, ma anche in quello precedente, ci sono due fronti: il partito Hezbollah che ha fatto la resistenza, combattendo l’occupazione israeliana ed altri partiti che hanno invece collaborato, servito Israele. Come possono quindi mettere in atto una comune strategia di difesa?

Il governo sta presentando un progetto per la riforma della legge elettorale introducendo il metodo proporzionale ma senza eliminare il sistema confessionale.  Il partito comunista ha dato una valutazione positiva sul proporzionale, ma ha criticato la parte di questa riforma che riguarda come dividere le circoscrizioni elettorali secondo il sistema confessionale. La loro proposta considera la possibilità di una sola circoscrizione, al di fuori delle confessioni, su base proporzionale ed il diritto di voto per i libanesi che vivono all’estero.

Il Libano subirà le conseguenze per qualsiasi soluzione che avverrà in Siria.  Rabih sostiene che sarà una cosa molto lunga, siamo nella fase di una guerra civile e si avverte un timore molto serio e fondato di un’eventuale divisione della Siria in varie fazioni. Nel paese intervengono oggi tutte le forze del mondo, europei, americani, arabi, ed ogni alleanza arma i propri alleati che si trovano all’interno e questo non va incontro certamente agli interessi nazionali siriani. Le due parti che si contendono la guida del paese, il governo ed i ribelli, dimostrano l’importanza che la Siria ricopre nella regione: la sua posizione al confine con la Palestina occupata, con la Turchia ed i giacimenti di gas e petrolio scoperti sul suo territorio. Per questi motivi, il partito comunista chiede ai patrioti rivoluzionari siriani, di assumere come slogan queste tre richieste: NO all’intervento straniero, NO allo spargimento di sangue, NO alle confessioni. In Siria c’è un conflitto internazionale e regionale e le forze democratiche devono impegnarsi su questo per risolvere la situazione. Esiste purtroppo un avanzamento islamico nella regione che va combattuto con la creazione di un fronte nazionale unito per evitare uno scontro diretto tra religioni e confessioni. La sinistra è stata quella che ha iniziato la rivoluzione in Tunisia e in Egitto, ma poi ha vinto l’islam politico moderato dei Fratelli Musulmani, grazie all’intervento imperialistico americano. Questo è stato il mezzo per attaccare il laicismo sia nelle istituzioni e sia nella costituzione.  “L’arrivo di questo islam politico così detto “moderato”, ordinato dal governo americano – continua Rabih - non cambierà niente nella realtà socio politica economica del paese, considerando anche che gli accordi tra l’Egitto ed Israele del ’79 non sono stati messi in discussione”. Questa è diventata una “controrivoluzione” che ha obbligato le forze rivoluzionarie a continuare la lotta. La pericolosità del sistema islamico moderato è quella di dividere la regione in piccoli staterelli in continua lotta tra le varie religioni o fazioni di esse. L’inizio delle rivoluzioni è soggetto a diverse teorie che vanno dal complotto alla rabbia spontanea della popolazione. Non si può certo affermare in modo assoluto che tutti quelli che sono scesi in piazza facevano parte di un complotto. E’ possibile, invece, che una rivoluzione inizi spontaneamente dai cittadini, in quanto i popoli vanno ben oltre la politica, ma poi in seguito, è compito di tutti i partiti progressisti, definirla e portarla avanti. Purtroppo, per il momento, ha vinto la controrivoluzione che ha bloccato la vera rivoluzione, spetta quindi ai partiti democratici continuare la lotta. Il partito comunista critica, quindi, sia il governo siriano e sia la ribellione armata, è contrario a qualsiasi intervento esterno come soluzione di sicurezza ed avverte il pericolo di una suddivisione della Siria. Per combattere un’ingerenza straniera che porta con sé spesso anche aspetti mercenari, occorre stringere un’alleanza con il popolo e non contro il popolo, attraverso un regime democratico ed un equo sistema economico sociale. Rabih sottolinea infine che, per il partito comunista libanese, essere contro l’intervento esterno non significa stare con il regime ed essere con il popolo non significa stare con la ribellione armata.

   

 

 

 

 

 

 

                                           



Foto Unesco (celebrazione ufficiale dell’inizio della resistenza libanese)                                                 


Il viaggio in Libano è terminato per quasi tutta la delegazione italiana. L’intenzione di quelli che restano ancora qualche giorno è quella di recarsi in Siria, ma poiché questo non è possibile, si rimane a Beirut. Questo ci dà la possibilità di fare altri incontri e di conoscere meglio il paese. Incontriamo, infatti, l’Ong Amel, un’associazione laica, non confessionale, per le donne. L’associazione Amel è nata nel 1978, gestisce 5 centri nella periferia sud di Beirut, ha ottenuto lo status di membro consultivo delle Nazioni Unite (Ecosos) ed è una delle più importanti in Libano. Amel, che significa “lavoro” in arabo, gestisce una ampia rete di presidi sanitari su tutto il territorio libanese, in particolare nella valle della Beqaa, nel sud del Libano e nelle periferie di Beirut.
Amel, inoltre, offre assistenza per lo più ai rifugiati iracheni, sudanesi e siriani con l’obiettivo quindi di aiutare chi ne ha bisogno senza nessuna distinzione confessionale.
In Libano ci sono, infatti, più di 8.000 rifugiati iracheni e 50.000 siriani, anche se i siriani non fanno ancora parte dell’assistenza di Amel perché i rifugiati, prima di lasciare il proprio paese, devono iscriversi all’ONU.                                                                                   

   


Ci troviamo in un centro che si dedica all’insegnamento ai rifugiati non palestinesi e più precisamente rivolto a donne irachene e sudanesi.  Principalmente si tengono corsi di formazione artigianale per dare la possibilità alle donne di una base per un lavoro futuro, ma anche corsi di lingua straniera ed assistenza psicologica utilizzando tutti i metodi più moderni, dal teatro, alla musica e alla recitazione. L’anno scorso la punta massima dell’ospitalità al centro ha coinvolto 200 donne. Dopo una prima esposizione della situazione da parte di una signora americana–palestinese, responsabile dei programmi per i rifugiati, ci dà il benvenuto il Presidente di Amel, il Dottor Kamel Mohanna, responsabile delle Ong libanesi ed arabe.
Il Dott.Kamel specifica che la sua associazione lavora per l’uomo, in quanto tale, senza nessuna distinzione, con l’obiettivo di creare “un cittadino arabo senza confessioni”. Prima di creare “Amel” lavorava nei campi profughi palestinesi, la sua città natale era nel sud del Libano ed è stata distrutta due volte, la sua casa quattro volte ed ha vissuto sotto occupazione per 22 anni. “Noi del Sud siamo anche un po’ palestinesi” afferma il Dott.Kamel continuando a raccontare. Il suo slogan preferito è: Pensiero positivo e ottimismo.
L’organizzazione è composta da 23 centri nei quali lavorano 300 persone.  Si è anche sviluppata a livello internazionale con sedi in Francia e negli Stati Uniti. Il loro lavoro è sempre rivolto a dare risposte ai problemi degli immigrati nei vari paesi. Insieme alla società civile riesce così ad essere il collante tra le comunità immigrate e la società circostante per creare un mondo diverso. Le diversità diventano patrimonio comune attraverso lo scambio culturale tra le varie culture presenti.
Il loro punto strategico rimane, in ogni caso, la Palestina.

 

 

 1° PARTE 

 

 

 

                                              

   

   


Visitiamo il centro. Siamo nello spazio dedicato alla creatività. Qui si mette in pratica il progetto ”Chi è lei” rivolto a donne rifugiate dopo la seconda guerra del Golfo.  Un progetto con l’obiettivo di dare un’indipendenza economica a donne che sono arrivate in Libano sprovviste di tutto.  Offrire un lavoro con l’opportunità di guadagnare per avere una vita almeno dignitosa. Solidarietà e non carità, è il motto dell’associazione Amel. Le donne coinvolte in questo progetto provengono dal Sudan, Irak ed Etiopia. Il Dott. Kamel sottolinea che, in tutto il mondo anche in quello arabo, ogni cosa, ogni organizzazione, ogni gruppo ha un capo,  Amel invece ha 300 capi.
In questa struttura c’è anche un piccolo asilo nido “aziendale” per permettere alle donne che hanno figli di poter lavorare tranquillamente senza preoccuparsi di come e dove accudire loro.

                                                                                                                                                                       

   

     2° PARTE


Visitiamo ora il centro informatico. Poco tempo fa è stato organizzato un corso, finanziato da un’associazione francese, di computer sui diritti umani. A questa idea innovativa hanno partecipato 70-80 bambini provenienti dalle zone più povere di Beirut. L’obiettivo era insegnare ai bambini ad utilizzare il computer con la conoscenza dei loro diritti. 
In questa sede il dott. Kamel ci parla della morte del figlio, alla cui memoria è dedicato questo centro,  avvenuta durante un incendio nella scuola francese, dove studiava, mentre aiutava i suoi compagni a mettersi in salvo. Dopo questa disgrazia, tutta la vita di Kamel è stata dedicata a costruire nuove scuole, nuovi centri per aiutare l’umanità.
Ora ci troviamo in una zona in costruzione che sarà, secondo un progetto coordinato con un gruppo di donne giordane ed egiziane, una “Casa di protezione” per donne oggetto di violenze e soprusi.  Questa stessa idea sarà anche portata avanti dentro ad alcuni campi profughi palestinesi, a Chatila, Bourj al Barajneh e nella zona di Tiro, centri con lo stesso slogan: mai guardare alla razza o alla religione, ma solo a come rafforzare l’essere umano. L’organizzazione si sta anche occupando del lavoro delle domestiche con l’intenzione di riuscire ad ottenere più diritti, uguali a quelli dei lavoratori libanesi. Un altro aspetto che caratterizza questi centri, a differenza dei soliti abituali centri sociali a cui noi stessi siamo abituati, è quello della pulizia, dell’ordine e dell’accoglienza.

 

 

PARTE 

 

 

 

 

 

 

   


Visitiamo un altro centro di Amel, sempre a Beirut, che si occupa dei rifugiati sudanesi, iracheni ed ultimamente anche siriani. Questo centro è strutturato con una scuola per bambini/ragazzi dai tre anni fino alle classi medie superiori e, con attività sociali ed addestramento professionale, per ragazzi dai vent’anni in su. Il loro impegno è per lo più indirizzato verso un insegnamento che valorizza l’importanza dell’essere umano, non dimenticando mai la questione dei popoli, infatti, il Dott. Kamel afferma la loro contrarietà all’invasione americana dell’Iraq. Per un attimo ritorniamo indietro alla guerra del 2006 ed il dott. Kamel ricorda la distruzione del Libano, di Beirut, di questo quartiere con 300 edifici rasi al suolo.
Il dott. Kamel precisa, inoltre, che i servizi erogati nei centri, proprio perché i beneficiari sono i più poveri, necessitano di un  alto valore e preparazione. All’interno dei centri, tutti i gruppi che lavorano hanno la stessa importanza, ogni ruolo ha valore e rilevanza. Non ci sono solo attività scolastiche, ma anche attività sportive, musicali ed artistiche. E’ prevista inoltre anche  la figura di un psicologo e sociologo per seguire chi ha bisogno di un aiuto per una vita serena. Nella struttura  c’è anche un centro internet aperto a tutti i cittadini rifugiati in modo da poter offrire un luogo di aggregazione e comunicazione.
La Direzione dei centri viene eletta direttamente dai ragazzi.

 

4° PARTE  

 

 

 

 

 

                  



    

                                                               (apri l’occhio sui tuoi diritti)                                      


La visita ai centri dell’associazione Amel termina nella sua sede, nell’ufficio del dott. Kamel Mohanna che ci concede ancora alcuni minuti del suo tempo. Con molto orgoglio rimarca che la sua organizzazione non ha bisogno di nessun aiuto economico da parte di terzi, è completamente autosufficiente. Amel ha tre slogan che racchiudono la sua essenza:
1° - pensiero positivo e ottimismo permanente;
2°  - le 3 P: principio, posizione, pratica;
3°  - Israele è un paese nemico.
All’interno di una società ci sono gli amici, i neutrali ed i nemici. La politica di Amel è quella di rafforzare i rapporti con gli amici, di cambiare i neutrali in amici ed i nemici in neutrali.
Sul territorio, attraverso i servizi erogati, sono in grado di portare, una parte della società civile,  allo sviluppo e dallo sviluppo alla cultura dei diritti: diritto all’espressione, alla salute, all’istruzione, alla partecipazione della donna. Il dott. Kamel, inoltre, ha grande fiducia nelle giovani generazioni che sono quelle che hanno dato inizio alle rivolte arabe, un processo di trasformazione che avrà certamente uno sviluppo. L’altro grande problema è quello legato alla centralità della questione palestinese, la causa più giusta al mondo.

 

  5° PARTE

 

 





Il giorno dopo torniamo al campo di Chatila per intervistare alcuni familiari delle vittime della strage. Nonostante la situazione in cui si trova quel campo profughi, ci torno sempre volentieri, là ho lasciato un pezzo del mio cuore, anche se vorrei fare molto di più.                   

   

   


Quando arriviamo al campo troviamo sola una donna disponibile all’intervista, purtroppo le altre sono impegnate in altre attività.

Intervista alla Sig.ra Wadha Al-Sabik


 

 

    

 

 

 

                                                    

 

   


L’ultimo incontro di questo viaggio riguarda la visita al quartiere di Hezbollah ricostruito dopo la guerra israeliana del 2006. Arrivati all'appuntamento, siamo accolti da un dirigente Hezbollah che ha l'incarico di accompagnarci tra le vie del quartiere di Haret Hreik che si trova nella zona sud di Beirut. Sono colpita dal cambiamento, dalla trasformazione del quartiere, la mia mente ripercorre il tempo a ritroso fino ad arrivare a settembre 2006, quando la nostra delegazione con Stefano Chiarini, si trovava tra le macerie in quello stesso luogo. La guerra era finita da poche settimane e ciò che restava era il risultato di tutto l'orrore che solo gli uomini sono capaci di mettere in atto. Intorno a me c'erano solo macerie, palazzi di venti piani rasi al suolo, palazzi sventrati, neri, bruciati, un denso fumo mi riempiva la gola, gli occhi, dove prima c'erano case ora c'era solo un enorme grande buco. Una catastrofe. Distruzione totale e disperazione. Oggi, dopo sei anni, la ricostruzione è diventata una realtà. Sono meravigliata da quello che sono riusciti a fare in così poco tempo ma, specialmente, da come hanno rimesso in piedi un intero quartiere. Girando per le sue strade si nota un'attenzione particolare alla costruzione di palazzi, moderni, efficaci e di buon gusto.   L'attività commerciale è ripresa con tanti nuovi negozi ed uffici e notiamo anche la costruzione di una nuova moschea. La vita è ripresa a scorrere tra queste strade, è di nuovo un quartiere vissuto dai suoi abitanti. Non ho potuto documentare questo cambiamento, ma al nostro rientro in Italia, il partito Hezbollah ci ha inviato una foto.                                                                                                


La nostra visita non è passata inosservata. Molti guardano il nostro piccolo gruppo, si fermano, ascoltano, sono perplessi, cercano di capire chi siamo e cosa vogliamo.   Siamo anche seguiti da un uomo in moto, ma alla fine, dopo aver parlato con il nostro accompagnatore, si tranquillizza, capisce che siamo amici e tutto prosegue tranquillamente. La nostra guida ci racconta che la ricostruzione è avvenuta per le persone che erano presenti al momento dell’attacco israeliano utilizzando le risorse arrivate dopo la guerra da diversi stati arabi e islamici, compreso l'Iran. Una costruzione che è partita per prima cosa dalle case popolari, poi successivamente alle sedi pubbliche, agli uffici di Hezbollah, alle moschee e alla sede della Tv Al Manar. La maggioranza che vive in questo quartiere è sciita, ma non è da considerarsi una zona chiusa, limitata ad una sola confessione, continua a raccontare la nostra guida, portando come esempio la propria madre sunnita, qui possono, infatti, vivere tutte le confessioni. La  visita al quartiere termina dove è stato ricostruito il palazzo  della Tv Al Manar, ossia, nello stesso luogo dove era stata distrutta. La nostra guida, a questo punto,  si lascia andare ad una forte emozione perchè, ci spiega, ha lavorato per 16 anni alla Tv ed oggi è orgoglioso di farci vedere il nuovo palazzo totalmente ricostruito. La Tv Al Manar ha sempre  continuato a trasmettere anche durante tutta la guerra.

La visita al quartiere Hezbollah è terminata come è terminato il nostro viaggio. Riportiamo a casa, per raccontare, tutto quello che abbiamo visto e sentito: la fragilità di un paese, la forza della resistenza libanese e palestinese contro un nemico comune, la situazione dei profughi palestinesi costretti a vivere senza alcun diritto e senza perdere la speranza, la situazione politica incerta, la mano potente ma invisibile delle potenze straniere, il sorriso dei bambini e gli occhi tristi degli adulti.

Modena, 21/12/2012

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