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Medio Oriente » Una testimonianza diretta da Gaza 4° parte  

(Leggi la 3° parte)

UNA TESTIMONIANZA DIRETTA DA GAZA
di Mirca Garuti
(4° parte)


Il sole splende su Gaza. La temperatura è mite. E’ sabato mattina 4 gennaio 2014. Dalla finestra dell’hotel, il mio sguardo vaga sul porto, sui palazzi che s’innalzano di fronte a me, quasi come una barriera di difesa per le piccole imbarcazioni che giacciono sulla spiaggia.  Questa dolce sensazione svanisce, come neve al sole, nel momento in cui la mia memoria corre indietro di cinque anni: 4 gennaio 2009. Il sole, allora, era oscurato dalle bombe di “Piombo Fuso”. L’offensiva è durata 22 giorni. Ha ucciso più di 1380 palestinesi, compresi più di 330 bambini e centinaia di altri civili, e ferito circa 5000 persone, molte delle quali in modo grave (oltre 1800 dei feriti erano bambini).  Interi quartieri rasi al suolo. Migliaia di abitazioni civili, edifici commerciali e pubblici sono andati distrutti. Danneggiati i sistemi fognari, dell’acqua, dell’elettricità e di altre infrastrutture essenziali. Tredici israeliani sono rimasti uccisi nei combattimenti, compresi tre civili uccisi da razzi e mortai sparati da gruppi armati palestinesi nel sud d’Israele. (dal Rapporto di Amnesty International)

 Vittorio Arrigoni il 5 gennaio 2009 scriveva queste parole: (dal libro “Gaza – Restiamo Umani” ed. Il Manifesto – pag. 40-41-42-43-44) “Per la prima volta dall’inizio dell’attacco israeliano ho visto negli ospedali cadaveri di combattenti della resistenza palestinese. In numero modesto, di fronte alle centinaia di vittime civili, che dopo l’invasione di terra sono aumentate vertiginosamente…... I crimini di cui si sta macchiando Israele in queste ore vanno oltre i confini dell’immaginabile. I soldati non ci permettono di soccorrere i superstiti di quest’immensa catastrofe innaturale…. Questa, infatti, non è una guerra, perché non ci sono due eserciti che si danno battaglia su un fronte: è un assedio unilaterale condotto da forze armate (aviazione, marina ed esercito) fra le più potenti del mondo, sicuramente le più avanzate in fatto di tecnologia militare, che hanno attaccato una misera striscia di terra di 360 kmq, dove la popolazione si muove ancora sui muli e dove c’è una resistenza male armata la cui unica forza è quella di essere pronta al martirio…. L’esercito israeliano continua a prendere di mira le ambulanze…Moltissime le donne incinta terrorizzate che in queste ore stanno dando alla luce figli prematuri… Queste madri-coraggio mettono al mondo creature che assorbono come prima luce nei loro occhi nient’altro oltre il verde militare dei tank e delle jeep e i lampi intermittenti delle esplosioni. Questi bimbi che adulti saranno?”

 

  


Per ricordare l’operazione “Piombo Fuso” andiamo a Zaytoun, un quartiere che si trova ad una decina di chilometri da Jabalia, ad est di Gaza City.  Lungo il percorso notiamo su un muro un murales che raffigura Arafat.  Un palazzo che porta ancora i segni di un bombardamento, indica che siamo arrivati all’ingresso di Zaytoun. Siamo accolti da uno dei superstiti del massacro della famiglia Al Samouni. E’ stato un episodio così devastante che lo troviamo citato sia nel libro di Vittorio Arrigoni, a pagina 47 e sia in quello di Silvia Todeschini “Perché amo questo popolo”, a pagina 108: “I testimoni di questa ennesima carneficina raccontano come i soldati israeliani, penetrati nel quartiere, hanno radunato le decine di membri della famiglia Al Samouni in un solo edificio e poi lo hanno ripetutamente bombardato”.



  Il 3 gennaio – Salah Samouni inizia così il suo racconto – l’esercito israeliano è entrato nel quartiere.  Ha radunato le 5 famiglie Samouni dentro un‘unica casa: 97 persone, la maggioranza donne e bambini. Questo, hanno spiegato i soldati,  per rassicurarci.  Noi speravamo così di avere il latte per i bambini e qualcosa da mangiare perché non si poteva cucinare. L’ultima cosa che ho sentito dire da mio padre, era che i soldati israeliani chiedevano informazioni su chi abitava in quelle case, erano interessati specialmente agli uomini. Ad un certo punto, dal momento che il cibo non arrivava, siamo usciti fuori della casa per fare il pane. Subito dopo aver acceso il fuoco è arrivato il primo proiettile. Sono stato ferito alla testa, alle spalle, alle mani, insieme a tre bambini. Siamo subito rientrati in casa per metterci al riparo e curare le ferite, quando invece, si sono abbattuti sulla casa altri grossi proiettili lanciati dagli elicotteri Apache. A causa delle esplosioni sono stato buttato a terra da un’altezza di un metro. Ero immerso in una nuvola di polvere, detriti, sostanze non ben definite e da un forte odore. Ho solo visto, da una parte, mia madre senza metà del viso e dall’altra, mio padre, le zie ecc. a terra, uno spettacolo che non dimenticherò mai. In quella casa sono morti 21 famigliari. Subito urlai, a chi era ancora vivo, di uscire dalla casa. Siamo usciti, feriti, insanguinati, chiedendo aiuto. L’esercito israeliano era vicino. Abbiamo gridato: ”Siamo civili, siamo disarmati, voi ci avete messo dentro quella casa” ma, loro hanno risposto: “Tornate alla morte!”. Abbiamo inviato appelli a tutti affinché ci portassero fuori di lì. Dopo 4 giorni è arrivata la Croce Rossa Internazionale. Ha portato fuori 9 cadaveri. Quella era una zona di guerra e nessuno poteva passare. Ho perso mio fratello, mio figlio, mia nonna e tante cugine. Il bombardamento sulla casa è avvenuto il 5 gennaio. Sono tornato il 18. La casa non c’era più. Era crollata sopra a tutti i cadaveri. Quando i mass media internazionali hanno fatto un’inchiesta sugli avvenimenti, siamo stati accusati di terrorismo. Ma, tutti questi bambini erano forse terroristi? Mio nonno di 80 anni contadino era terrorista? Mio padre e due zie che hanno lavorato per 30 anni in Israele, erano terroristi? Se lo fossero stati, li avrebbero presi prima !
Abbiamo risposto che dovevano solo riconoscere la verità, che è stato fatto un massacro nei confronti della famiglia Samouni. E’ stata un’accusa infame!


  Israele aveva vietato a tutti i mezzi di soccorso di arrivare sia per recuperare i cadaveri e sia per curare i feriti ( i bambini sono rimasti a terra senza cibo e senza acqua per tre giorni vicino ai corpi morti dei loro parenti). Questa zona è stata tutta distrutta. Le case, a destra e a sinistra di questo viale, sono state tutte rase al suolo. Le abbiamo ricostruite negli ultimi anni. La Croce Rossa è entrata senza le ambulanze, ma con carretti trainati da asini. Sono passati cinque anni e non abbiamo avuto giustizia. L’ufficiale israeliano che ha ordinato il massacro è stato promosso ad un grado più elevato, E’ questa l’umanità? E’ questa la giustizia internazionale? Vogliamo solo una risposta.”

Il ricordo di questa grande tragedia per molti purtroppo è un ricordo lontano, rimasto, come tanti altri, in sospeso, mai condannato. Tutti questi bambini che ci circondano, dai 4 ai 10-12-15 anni hanno vissuto questa distruzione, conoscono cosa significhi vivere sotto occupazione, ma, nonostante questo, rimangono nel loro intimo ancora bambini con il loro sorriso e la gioia di vivere.

                                                    

Gli occhi dei bambini riflettono i loro sentimenti. Sfidano la morte tutti i giorni. Sono consapevoli della loro situazione, ma hanno ancora la capacità di sognare e di sperare. I più piccoli sono timorosi, meravigliati dalla presenza di tante persone e restano vicini ai ragazzi un po’ più grandi, che curiosi, parlano con noi in inglese, contenti di mostrarci quello che hanno imparato a scuola. Ci lasciano i loro indirizzi per rimanere in contatto. E’ un modo per non sentirsi soli ed isolati dal resto del mondo. Quei grandi occhi sorridenti, desiderosi solo di avere una vita normale, mi accompagneranno per sempre. Nostro malgrado, però li dobbiamo lasciare. La parte negativa di questi incontri è proprio quella del distacco. Noi possiamo andare via. Loro invece restano. E non è giusto!

    

    Audio Piombo Fuso 

   

 

   

 

Attraversiamo una parte della città  per raggiungere la sede di PNGOOrganizzazione non governativa palestinese. Sono le dieci di mattina. Quest’organizzazione è formata da un gruppo di 133 Ong che si trovano in Cisgiordania e a Gaza. L’obiettivo è quello di costituire uno Stato palestinese indipendente e democratico basato sullo stato di diritto, della giustizia sociale ed il rispetto dei diritti umani. PNGO è stata fondata nel 1993 in seguito agli accordi di Oslo per coordinare e rafforzare la società civile palestinese ed i principi di democrazia che si applicano agli individui ed alla comunità. Tutto ciò è portato avanti sia nel contesto difficile di un’occupazione e di un assedio e sia all’interno di un conflitto interno e di una divisione tra il governo laico di Fatah in Cisgiordania ed il governo religioso di Hamas a Gaza. Gli sforzi di mediazione di PNGO sono riusciti a portare dei miglioramenti nella vita quotidiana degli abitanti di Gaza. Il lavoro di quest’organizzazione è dovuto ad un grande senso di responsabilità per alleviare, anche se di poco, le sofferenze della loro gente.

Incontriamo il Presidente di PNGO, Mohsen Abu Ramadan ed il Direttore, Amjad Y.Shawa.
  Grazie al vostro impegno, al vostro entusiasmo date un aiuto alla resistenza palestinese e al lavoro che facciamo qui – con queste parole il Presidente inizia il discorso di benvenuto - Non c’è pace senza giustizia. Il Segretario di Stato americano Kerry è venuto in Palestina ad imporre il suo piano di pace. Ma noi diciamo che non c’è pace senza il riconoscimento del Diritto al Ritorno, all’autodeterminazione e l’indipendenza palestinese. Si vede nei vostri occhi la sofferenza di questa occupazione. Avete visto i pescatori di Gaza che non possono andare oltre le tre miglia, con la conseguenza di peggiorare notevolmente l’economia locale. Gli israeliani rapiscono i pescatori, mentre cercano di procurarsi il cibo, distruggono le imbarcazioni. Avete visto i blocchi e le zone di sicurezza sia al nord e sia al sud che impediscono a 20.000 contadini di raggiungere le proprie terre. Avete visto il campo di Jabalia, il più grande sotto il profilo demografico ed il simbolo della rivoluzione. Qui è iniziata la prima Intifada. Siamo sicuri che sarete ottimi ambasciatori, che porterete la nostra voce nei vostri paesi e che farete pressione sui vostri governi, grazie anche all’azione del boicottaggio, per imporre ad Israele il rispetto delle leggi internazionali violate da molto tempo. Quello che noi vogliamo è che da questa visita si costruiscano relazioni tra le nostre organizzazioni non governative (+ di 80) ed i vostri comitati. Vorremmo un seguito. Proponiamo: scambi giovanili, inviti a figure importanti, quali professori, intellettuali, membri del parlamento, affinché nelle vostre assemblee pubbliche si produca un cambiamento a favore degli interessi palestinesi. Dobbiamo condividere la stessa strategia. Il punto centrale è il Diritto al Ritorno, la situazione dei profughi e la terra. Nonostante parliamo di Palestina, la nostra battaglia internazionalista è rivolta verso la globalizzazione, l’imperialismo e il colonialismo”.

  Maurizio Musolino ringrazia per l’organizzazione di questi due giorni che risponde in pieno alle nostre aspettative. Giorni molto intensi che hanno colpito tutti i componenti del Comitato. “Un conto è leggere la storia sui libri, un altro è trovarsi sul posto e, vedere – continua Maurizio – Abbiamo potuto constatare quanto è pesante l’occupazione, un’occupazione criminale, e nello stesso tempo, quanta dignità esiste in ogni palestinese. Vogliamo continuare queste relazioni anche perché rafforzano la nostra solidarietà in Italia e la nostra lotta per il Diritto al Ritorno. Continueremo a sostenere che l’unità nazionale del popolo palestinese è un elemento determinante per raggiungere gli obiettivi che riguardano l’indipendenza, i diritti e la pace".

 

 

 


“Per la società civile, il vostro viaggio è solo l’inizio – prosegue il Direttore di PNGO - Quello che avete visto in due giorni è una piccolissima parte di quello che succede a Gaza tutti i giorni. Avete visto cosa significa vivere sotto occupazione. A Gerusalemme la situazione è anche peggiore. Per me la questione dell’occupazione è il problema più grande per i palestinesi. L’assedio è solo una parte del problema, quello centrale, è l’occupazione. Gli israeliani ci tolgono l’elettricità, l’acqua, il cibo, ma noi insegniamo ai nostri figli che cos’è l’occupazione. Israele ci vuole isolare il più possibile, ma la vostra visita è un grandissimo messaggio, perché significa che siamo meno soli. Vogliamo il vostro aiuto per arrivare all’unità nazionale, e lo potete fare attraverso le vostre parole e le vostre iniziative in Italia. Noi non dimentichiamo. Non ci sarà mai pace senza giustizia e la giustizia, viene prima di tutto”.

 

 

 

 

   

 Audio PNGO 

 

 

 

 

 

  

  


In teoria, la nostra permanenza sarebbe già finita. Nel primo pomeriggio del 4 gennaio lasciamo, infatti, Gaza per raggiungere il valico di Rafah. Mi trovo incollata al finestrino per riuscire ad imprimere nei miei occhi più immagini possibili della vita di Gaza. Osservo i lavori di ripristino delle strade danneggiate dall’alluvione del dicembre scorso, il mare, la spiaggia, i bambini, le case, i vicoli, tutto quello che è possibile. Scatto alcune fotografie, non tanto per non dimenticare, perché le immagini importanti resteranno per sempre stampate nella mia memoria, ma, per fissare un punto fermo nel tempo.

 

   



Ci fermiamo lungo il percorso per comprare un po’ di frutta in uno spazio aperto dove ci sono alcune persone che aspettano un mezzo di trasporto.

  

Arriviamo a Rafah verso le 13,30. Il valico è chiuso. Inizia l’attesa. Mandiamo messaggi in Italia per informare cosa sta succedendo. Cominciano le preoccupazioni per il volo prenotato per il 5 gennaio. Le due frontiere, quella palestinese e quell’egiziana, non comunicano tra loro. L’Egitto non apre le porte. Dobbiamo ritornare indietro. Sono le ore 16 del pomeriggio. Il valico potrebbe rimanere chiuso anche per 15 giorni. Riprendiamo il pulman per tornare a Gaza.

  

Riprendo a guardare dal finestrino.

  

Ora siamo diretti verso il luogo dove andava spesso Vittorio Arrigoni: in campagna, per proteggere i contadini dagli attacchi israeliani durante il loro lavoro nei campi. Dopo aver zig zagato attraverso strette stradine, arriviamo a destinazione.

     

Entriamo in una casa di un contadino in fondo ad una strada sterrata. Nel cortile troviamo una tomba di marmo bianco con una grande foto di Vittorio. E’ il modo con il quale questo palestinese ha voluto rendere omaggio ad un amico, un amico che ha dato la sua vita per aver creduto in questa causa. E’ qui che Vittorio veniva spesso per difendere, proteggere questo popolo. Uscita dalla casa, mi dirigo verso la campagna e, fatti pochi passi, riesco a vedere una postazione israeliana con una torretta con mitragliatrice puntata verso i campi. Qui, Vittorio, insieme ad altri internazionali volontari delle organizzazioni ISM e Unadikum, si metteva tra i contadini e gli israeliani, come scudo per permettere ai contadini di terminare il loro lavoro nei campi. Penso che ogni commento, di fronte a queste situazioni, sia veramente superfluo ed inutile. La verità è davanti ai nostri occhi e noi non siamo ciechi.

  “Nei mesi che seguirono la fine di “Piombo Fuso” non vi fu mai vera pace, un momento in cui poter dire “forse le cose stanno cambiando”. Tutto continuava esattamente come prima e peggio di prima, con le già povere infrastrutture di Gaza del tutto distrutte. Continuava la lotta quotidiana per la sopravvivenza e recarsi nei campi, uscire in mare, era tanto pericoloso quanto necessario. Vittorio, con i pochi rimasti, continuava la sua opera di interposizione. Aveva intenzione di scrivere un nuovo libro, raccontando la vita dei vivi, dei sopravvissuti. Il materiale già raccolto era probabilmente nel portatile che non fu più ritrovato dopo la sua morte… Molti giovani gazawi , soprattutto universitari, si ritrovarono intorno al movimento GYBO (Gaza Youth Breaks Out) che contestava nello stesso modo la politica di Hamas, la corruzione di Al Fatah e l’occupazione israeliana. Il 15 marzo 2011 organizzarono una manifestazione nella piazza principale di Gaza City, repressa duramente dalla polizia. Vittorio era lì, non poteva essere altrimenti, partecipò anche al campo improvvisato , la sera, all’interno dell’università, anch’esso rapidamente sgomberato…
Venne aprile… La sera del 14 ci catapultò in un girone infernale. Vittorio rapito, Vittorio ferito, Vittorio ucciso”. [Dal libro “Il viaggio di Vittorio” di Egidia Beretta Arrigoni pag. 148-150]

 

  

Le ultime notizie che riceviamo dall’Ambasciata italiana non sono buone: ci sono disordini, combattimenti sul Sinai, ad Al Arish. Questo significa che il valico di Rafah resterà ancora chiuso.
Domenica 5 gennaio. Per la mattinata, resteremo in albergo, per capire come la situazione si possa evolvere. Nel primo pomeriggio, dato il nostro soggiorno forzato, incontriamo il Presidente dell’Unione Disabili palestinesi di Gaza, Mr. Awn Matar.

L’Unione Disabili è un’associazione, inserita in una società in stato di guerra, dove ci sono naturalmente molti disabili per le ferite riportate dalle tante incursioni e guerre da parte dell’esercito israeliano. E’ un’organizzazione sociale che ha il compito di curarli e di presentarli alla società come soggetti vivi, capaci e produttivi. Bassam Saleh, nostro interprete, aggiunge che non è riuscito ad invitarli in Italia, a causa delle tante costose richieste burocratiche. L’Unione Disabili, invece, è stata in molti altri Stati europei, per esempio, in Francia, Germania, Romania, Gran Bretagna, dove ha presentato anche una mostra dei lavori sia manuali e sia intellettuali. Ci raggiunge anche la Segretaria dell’Unione, una giovane simpatica donna che ha avuto vari premi internazionali per alcuni brevetti inventati. La Segretaria, dopo il benvenuto, afferma che sperava in una nostra visita al loro centro per conoscere anche gli altri disabili e vedere il loro lavoro quotidiano, ed aggiunge che; “Abbiamo rappresentato l’Unione in vari paesi europei con i quali abbiamo costruito anche una rete d’amicizia, abbiamo trovato molta solidarietà. I disabili in Europa hanno tutti i diritti, mentre quelli palestinesi sono imprigionati su una sedia”.


  “Siete benvenuti nella vostra seconda patria, la Palestina – prosegue invece il Presidente – c’è una legge, l’art. 4 del 1999 che riconosce il diritto al lavoro ai disabili. Una legge non deve però rimanere solo sulla carta, ma deve essere applicata e deve diventare un servizio. Noi lottiamo per questo, abbiamo manifestato all’estero i nostri disagi perché anche noi siamo una parte del popolo palestinese. Speriamo che tutte le associazioni che si occupano di disabili vogliano contribuire ad offrirci un sostegno materiale ed economico per permetterci di continuare il nostro lavoro come cittadini ancora produttivi. I disabili hanno gli stessi bisogni delle persone ‘normali’ con l’aggravante che non sono in grado di compiere totalmente tutti gli stessi atti. Chiediamo di essere trattati come esseri umani che hanno più bisogno di altri proprio per questi handicap. Come Unione Disabili trattiamo tutti i disabili nello stesso modo. Per prima cosa, studiamo il rapporto medico di ognuno di loro per capire dove e come poterli inserire. Cerchiamo, inoltre, anche se questo non ci fa onore, di farli entrare nella lista del Ministero degli Affari Sociali ma, serve per farli sopravvivere, attraverso un sussidio. I soldi del Ministero provengono per la massima parte dall’Europa. Per esempio, lei (si riferisce alla segretaria) riceve 700 shekel ogni tre mesi, è un aiutino, il vero aiuto è dato invece dal lavoro che potrebbe trovare. Il nostro desiderio è che tutti i disabili possano vivere del loro lavoro. Bisognerebbe attivare le leggi che esistono da 14 anni, ma che non sono mai state applicate. I disabili in tutta la Palestina rappresentano il 7% della popolazione, a Gaza sono 60/70 mila e la percentuale tra i bambini è la più alta tra tutti i disabili, per lo più per problemi motori legati alla situazione di guerra. Le altre cause più frequenti che determinano la disabilità sono date dalle unioni in matrimonio tra gli stessi gruppi familiari e da errori da parte di medici. Le attività dove maggiormente sono impegnate le donne sono i disegni sul vetro, incisioni sul legno, ricamo e cucito. Organizziamo anche mostre di tutto il lavoro svolto. Quello che ci manca è una copertura finanziaria per fare progetti e andare avanti. Nella Striscia di Gaza abbiamo 5 sedi e tutti quelli che ci lavorano sono volontari. La maggior parte dei disabili è laureata. Spero solo che portiate le nostre sofferenze con voi in Italia”.

  Audio Disabili

 

 

 

Il nostro incontro con l’Unione dei Disabili palestinesi non finisce qui. Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, poiché siamo ancora bloccati dentro la Striscia, li raggiungiamo nella loro sede a Gaza.  I nostri referenti cercano in tutti i modi di farci conoscere il più possibile la realtà di Gaza, approfittando della nostra sosta forzata.

  

  



Camminare a piedi attraverso i quartieri di Gaza è molto piacevole ed interessante. Non siamo mai soli, c’è sempre una piccola scorta di sicurezza che con discrezione, ci segue. Mi guardo attorno, osservo con piacere ogni più piccolo dettaglio della vita quotidiana di questo popolo. I muri che delimitano le vie, non sono mai anonimi, insignificanti, ma portano messaggi. Vogliono ricordare che qui c’è un popolo che vuole la propria libertà, che vuole ritornare ai propri villaggi, dai quali sono stati cacciati dagli israeliani oltre sessanta anni fa. Non c’è mai stata pace, un attimo di respiro a Gaza. E’ un continuo stillicidio, più o meno cruento. La grande mano d’Israele che controlla mare, cielo e terra non la lascia respirare, è sempre lì che prontamente si abbatte su quella piccola striscia di terra. Eppure, la gente ti saluta con il sorriso, ti ringrazia perché sei qui con loro, ma purtroppo noi rappresentiamo solo una piccolissima parte di quelle persone che soffrono con e per loro, senza riuscire a modificare la situazione. Noi, però, come il popolo palestinese, resistiamo.
Abbandono per un attimo questi miei pensieri. Sono arrivata alla sede dell’Unione Generale dei Disabili palestinesi.
Siamo accolti da tanti giovani ragazzi e donne in carrozzina, sorridenti e felici per la nostra presenza.
La struttura dell’Unione comprende tutti i tipi di disabilità ed è nata per difendere i disabili. In tutta la Striscia di Gaza ci sono 5 sezioni, tutte autonome nel loro lavoro ed una direzione centrale, il cui presidente è Mr. Awni Matar. Matar è anche il vice segretario generale a livello nazionale palestinese. L’Unione è parte integrante dell’OLP, come l’Unione delle donne e dei lavoratori palestinesi.
“L’obiettivo – afferma Matarè quello che i disabili devono vivere una vita normale come tutti e, per questo, bisogna attuare le relative leggi, specialmente la n. 4 del 1999. Una delle maggiori difficoltà è data dal costo delle batterie dei mezzi di locomozione usati dai disabili. L’ammontare del sussidio che ricevono è di 700 shekel ogni tre mesi, una batteria costa più di 1000 shekel. Come possono fare? La maggior parte dei disabili ha la capacità di lavorare, quindi, potrebbe far fronte a tutte le proprie necessità. Ogni giorno un disabile affronta una sfida verso la società solo nell’atto di uscire da casa e raggiungere il posto di lavoro o la scuola. Quello che c’interessa è trovare solo un lavoro per loro. Abbiamo anche una squadra sportiva di disabili. Inoltre, mancano medicine per curare tante malattie. Lavoriamo insieme con altre organizzazioni per superare tutti gli ostacoli per poter proseguire verso i nostri programmi – così conclude il suo discorso, Matar”.


  “La vostra visita ci fa felici ed onorati – così dichiara, un giovane disabile – sono Mohammed, ho 26 anni, sono disabile per una mancanza d’ossigeno alla mia nascita, ho un diploma universitario in amministrazione finanziaria e nella gestione delle ONG e lavoro all’Unione da più di cinque anni. Secondo la mia esperienza, nella società manca ancora una maggior conoscenza di noi stessi, per poter essere considerati “persone normali”, come siamo nella realtà dei fatti. Anche le persone normali soffrono, hanno dei problemi di rapporto con gli altri, è la società stessa che non ci guarda come esseri normali. Il disabile, prima di tutto, deve essere considerato normale dalla sua famiglia, non deve essere tenuto nascosto e lontano dagli altri, deve essere trattato come gli altri, solo così potrà entrare nella società sereno e tranquillo. L’Unione ha iniziato una campagna d’informazione, seguendo una mia idea, per cercare di creare una coscienza tra la gente comune e normale. Sono impegnato in prima persona, vado nelle scuole a presentarmi agli studenti ed a rispondere direttamente a tutte le loro curiosità. Bisogna conoscere prima di dare dei giudizi e la scuola è la tappa più importante. La strada della conoscenza inizia dalla scuola, poi passa alla famiglia ed alla società. Occorre sviluppare una coscienza collettiva intorno alla situazione dei disabili ed è la prima volta che in Palestina è attuata quest’esperienza che ha ottenuto ottimi risultati”.
Mohammed ci fa un esempio: all’inizio delle sue lezioni rivolgeva agli studenti, specialmente alle ragazze, una domanda: Sei disposta/o a sposare una persona con un handicap? La risposta era sempre negativa, ma, al termine della lezione e della chiacchierata con gli studenti,  si trasformava in positiva.

  


Maurizio ringrazia tutti i presenti per la loro accoglienza e fa presente che il problema dei disabili non è solo un problema di Gaza, ma è anche un problema della nostra società. I pregiudizi sono tanti e sono sempre dovuti alla non conoscenza. Anche in Italia, la lotta per considerare persone normali, chi soffre di problemi legati alla disabilità e dare a loro le stesse opportunità di tutti, è una lotta molto difficile, che va dal superamento delle barriere architettoniche, all’inserimento scolastico ed alla vita lavorativa. Maurizio, inoltre, con Lucio e Gustavo, consegna, al Presidente dell’Unione un piccolo aiuto in denaro, come riconoscimento del gran lavoro che stanno facendo. Non è molto, ma può servire sempre a qualcosa.
Matar ringrazia per questo gesto, ma, per lui la cosa più importante è essere riuscito a farci  conoscere la sua organizzazione e, - afferma che: “c’è un altro disabile non vedente che sta facendo una campagna, chiamata “L’alba del sole” per far conoscere le varie difficoltà che trovano i disabili. La cosa più importante, non è dare una stampella o qualcosa di simile, ma quella di dare un lavoro a tutte queste persone. Ci sono anche famiglie che hanno sette disabili all’interno della stessa famiglia. I problemi sono sempre gli stessi, ma diventano enormi se legati alla disabilità. Non possono vivere solo con il sussidio, ma hanno bisogno di avere un lavoro per non sentirsi un peso per la società. La disabilità non è una vergogna. Noi crediamo molto nell’informazione che deve circolare ed arrivare a tutti per spiegare la nostra situazione dal nostro punto di vista. Abbiamo anche un sogno: creare una nostra televisione. Questo porterebbe ad una crescita ed a creare nuovi posti di lavoro”.
Prima di concludere la nostra visita, parliamo della legge relativa ai disabili che prevede tutto, dalle barriere architettoniche, alle costruzioni di bagni all’interno delle scuole e all’inserimento al lavoro. L’obbligo di legge esiste. Occorre però anche metterla in pratica. Spetta alla fine ai comuni verificare che siano stati fatti tutti i passaggi indispensabili. I bambini disabili sono inseriti nelle scuole normali, ad eccezione di quelli soggetti alla sindrome di down che frequentano invece classi differenziali. Per ultima cosa, Matar afferma che hanno fatto un censimento, indicando nome e cognome della persona, il tipo di disabilità e la professione che può svolgere, da presentare al Ministero del Lavoro e al Consiglio Legislativo, per comunicare le loro necessità. Questo è un primo passo. Successivamente, secondo la risposta che avranno, penseranno a come sviluppare la loro lotta.

  


Rimaniamo ancora un po’ con loro, con i ragazzi che vogliono farsi riprendere con noi.
In una società martoriata come quella palestinese, vedere come riescono ad affrontare un problema così ampio come quello della disabilità, è un esempio per tutti noi che viviamo in una società così detta “civile”. A questo punto, non so chi è più civile dei due, se loro o noi. Le nostre aziende hanno l’obbligo di assumere un certo numero di disabili in proporzione alla grandezza dell’azienda stessa, ma come sono trattati? mi chiedo. E i bambini? In pratica, non esiste quasi più la figura degli insegnanti di sostegno all’interno delle classi per favorire e promuovere un processo d’integrazione degli alunni con disabilità.  Per tutte le società, le leggi ci sono, ma bisogna anche applicarle e, questo fa la differenza tra una società civile ed una No.
Affrontare questo problema attraverso una campagna di sensibilizzazione come quella ideata dall’Unione dei disabili palestinesi, nelle scuole, con la partecipazione diretta dei disabili disponibili a rispondere a tutte le domande e curiosità dei ragazzi, è certamente molto valida. Il problema va affrontato alla radice. La non conoscenza è solo terreno fertile per i tanti pregiudizi che ci troviamo di fronte ogni giorno e porta solo a tenere separate le persone in tante scatole chiuse e ben distintamente etichettate.

 

 

AUDIO sede Disabili  

 

 

Continua…

31/03/2014

Leggi la 5° parte

 

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