venerdì 29 marzo 2024   
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Medio Oriente » Una testimonianza diretta da Gaza 6 parte  

(Leggi la 5° parte)

UNA TESTIMONIANZA DIRETTA DA GAZA
di Mirca Garuti
(6° parte)

 


L'esistenza di rifugiati palestinesi all’interno di un territorio palestinese, amministrato da palestinesi,  rimane un argomento non del tutto capito ed accettato. Il dibattito, dunque, continua la mattina successiva all’incontro con i rappresentanti dei Comitati popolari,  con Michele Giorgio, giornalista del quotidiano “Il Manifesto” e di Nena News Agency, che risiede a Gerusalemme.
Le condizioni di vita dei palestinesi che vivono all’interno dei campi rispetto a quelli che si trovano fuori in quartieri o zone decisamente più dignitose sono talmente diverse da suscitare in noi molta sofferenza e moltissime domande. Ma è proprio necessario mantenere ancora in piedi i campi profughi in un territorio come Gaza? Sono uno strumento di lotta? Servono, forse, per far pressione sui vari organismi internazionali? O si tratta, invece, di una dimenticanza dell’amministrazione locale o, semplicemente, di una mancanza di volontà di migliorarli? Oppure, ancora:  se si esce dal campo si perde lo “status quo” di profugo, perdendo così la possibilità di chiedere aiuti all’Onu?
Le domande sono tante, ma, Michele non dimostra meraviglia e cerca di spiegarci un po’ di cose, anche solo per alleviare quel senso di malessere che è dentro in ognuno di noi.


Accendo il registratore. La voce di Michele mi riporta indietro nel tempo. Chiudo gli occhi e mi vedo seduta, insieme agli altri componenti del Comitato, nella hall del Adam Hotel a Gaza porto. Il tempo passa molto velocemente, troppo. Non riesco a concentrarmi, penso a  Gaza in quella mattina di sole del 6 gennaio. Oggi 10 luglio, invece, Gaza è di nuovo sotto assedio da parte dell'esercito israeliano. E noi qui nelle nostre comode case ad assistere inermi a questa ennesima catastrofe umana messa in atto solo per il diritto di difesa del popolo israeliano! Basta! E' giunta l'ora di guardare in faccia la realtà e di riconoscere i crimini che Israele continua a commettere, protetto dal silenzio del resto del mondo.

 

Tutto è iniziato il 12 giugno scorso (vedi speciale Alkemia) con la scomparsa di tre giovani coloni israeliani, Eyal Yifrah-Gilad Shaar e Naftali Fraenkel nei pressi di Hebron, in Cisgiordania. Da quel momento l’esercito d’occupazione israeliano ha sferrato una violenta offensiva militare contro il popolo palestinese. Invasioni, assalti in varie città ed ai campi profughi. Più di 1000 case hanno subito devastazioni, come è successo anche a scuole, università ed ambulatori medici. Più di 500 cittadini palestinesi sono stati sequestrati e portati in carcere, 8 sono stati uccisi. La scomparsa di questi giovani non è mai stata rivendicata da nessuno. Hamas ha sempre negato il suo coinvolgimento, non avendo, in questo preciso momento,  nessun interesse a far scoppiare una rivolta. Le due forze politiche palestinesi più importanti, Fatah e Hamas, avevano, infatti, trovato un’unità nazionale con la prospettiva di nuove elezioni. La scomparsa dei tre giovani coloni (ancora avvolta da un mistero)  offre l'occasione al governo israeliano di porre in atto il suo piano  di  allontanare ogni prospettiva di pace che metterebbe in discussione sia l'esistenza degli insediamenti illegali e sia il blocco verso Gaza.  Benjamin Netanyahu accusa Hamas, senza avere nessuna prova certa,  di essere l’unico responsabile. Dopo il ritrovamento dei tre corpi senza vita (30 giugno 2014), il premier Netanyahu si è rivolto a chi avrebbe commesso l’uccisione, definendolo una “bestia” e promettendo di farla pagare ad Hamas, ritenuto sempre unico e solo responsabile. Iniziano le aggressioni, i raid, le bombe su Gaza e le vendette. Mohamed Abu Khdeir, ragazzo palestinese di 16 anni, residente nel campo profughi di Shuffat, è stato trovato cadavere, in un bosco di Gerusalemme. Bruciato vivo da estremisti israeliani. La tensione è altissima. Le incursioni non cessano, anzi, si fanno sempre più violente. Gaza sotto attacco. Si teme anche un’invasione di terra. Questa nuova  operazione si chiama “Barriera Protettiva” (8 luglio) non per gli abitanti di Gaza, ma solo per quelli israeliani. Dalla Striscia partono razzi in direzione delle prime città d’Israele, di Gerusalemme e Tel Aviv. Il cessate il fuoco, secondo le dichiarazioni d’Israele, sostenute da quasi tutta la comunità internazionale, deve venire da Hamas, come se tutto il problema fosse incentrato dentro questo movimento politico,  mentre, invece, l’occupazione della terra palestinese sarebbe del tutto influente. Quest'ultima aggressione è durata 51 giorni. Il bilancio delle vittime palestinesi: 2141 morti (80% civili, 577 bambini), 11.000 feriti ( oltre 3000 sono bambini, di cui 1000 con disabilità permanenti). Vittime israeliane: 64 militari e 5 civili. Israele inoltre dichiara di aver ucciso  900 terroristi. L'attacco israeliano che non si può definire  “guerra” in quanto non è stata una lotta tra due eserciti di uguale forza ed anche perché Israele sta occupando le terre della Palestina da più di 60anni, è passato tra varie fasi di tregua rifiutate da una parte o dall'altra: 15 luglio, Hamas rifiuta una tregua proposta dall'Egitto esigendo la revoca del blocco della Striscia, 17 luglio parte l'operazione di terra per distruggere i tunnel, 26 luglio prima tregua umanitaria di 12 ore, 1 agosto la tregua accettata da ambo le parti si rompe dopo solo poche ore con un bagno di sangue, 5 agosto l'esercito israeliano si ritira dalla Striscia – Israele e Hamas accettano un cessate il fuoco di 72 ore, 8 agosto falliscono i negoziati indiretti al Cairo e riprendono le ostilità, 11 agosto nuova tregua, 19 agosto si rompe un'altra tregua – un raid aereo uccide la moglie e due figli di un capo del braccio armato di Hamas, 22 agosto viene ucciso un bambino israeliano – Benyamin Netanyahu avverte che Hamas pagherà caro quest'attacco, 26 agosto raggiunta la tregua definitiva.


Cercando notizie in internet sul conflitto in corso a Gaza, , si trovano tantissime informazioni da valutare attentamente perché si corre il rischio di leggere la storia in un modo distorto. E' il caso di un articolo riportato dal sito di rainews.it "Gaza-ultimo-capitolo-del-lungo-conflitto-tra-israeliani-e-palestinesi”. Si legge che: “All’origine dei conflitti odierni c’è la costituzione dello Stato ebraico al termine della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1948 Israele fu attaccata da Egitto, Libia, Siria, Iraq e Transgiordania: la prima Guerra arabo-israeliana si concluse con la sconfitta dei Paesi arabi. L’esercito israeliano uscì vincitore anche dalle guerre del 1956, 1967 e 1973”.

Scrivendo “Israele fu attaccata” si dà già un giudizio su questa prima guerra arabo-israeliana, si avvalla il concetto che questa per Israele è la guerra di liberazione, mentre per i palestinesi è la Nakba, la catastrofe. Non spiega cosa è successo prima di questa guerra, non dice che l'origine di questa era data dalla spartizione del territorio della Palestina, secondo il piano proposto dal  Comitato Speciale per la Palestina (UNSCOP), raccomandata dall'Assemblea Generale dell'ONU con la Risoluzione n.181 del 29 novembre 1947,  in due Stati. Al movimento sionista fu dato uno stato che comprendeva più della metà del paese, il 56% della terra ( i sionisti avevano richiesto l'80% compresa Gerusalemme), mentre Gerusalemme fu dichiarata città internazionale. Questa Risoluzione fu la causa del deterioramento del paese ed aumentò le tensioni, specialmente quando gli inglesi si ritirarono dalla Palestina. Iniziarono vari attacchi di forza nei confronti di molti villaggi palestinesi, uccidendo donne, bambini,uomini.  Da ricordare l'attentato all'Hotel Semiramis a Gerusalemme il 5 gennaio 1948 che causò 18 morti e 16 feriti palestinesi e la strage del 9 aprile al villaggio di Deir Yassin alle porte di Gerusalemme con oltre 200 morti. Oggi questo villaggio è un elegante sobborgo di Gerusalemme abitato esclusivamente da ebrei. La Lega Araba resasi conto di come la situazione si stava sviluppando, decise d'intervenire militarmente,  ma dopo la fine del Mandato britannico. Gli inglesi se ne andarono il 15 maggio 1948,  l'agenzia ebraica, il giorno prima, dichiarò subito la nascita dello Stato ebraico e, quello stesso giorno, le forze regolari arabe entrarono in Palestina per il recupero del territorio palestinese. A chi scrive non sembra proprio che fu Israele ad essere attaccata! L'obiettivo sionista era quello di ottenere quanta più terra della Palestina fosse possibile con il minor numero possibile di palestinesi. La vera storia è scritta molto bene nel libro di Ilan Pappè “La Pulizia etnica della Palestina”. Pappè, infatti, riporta che la leadership sionista di quel momento, Ben Gurion, nell'ottobre del 1947, voleva creare una forza militare che fosse in grado sia di respingere qualsiasi attacco da parte di Stati arabi confinanti e sia di occupare la maggior parte del paese. In quel momento, l'obiettivo di Ben Gurion era quello di definire il territorio del futuro Stato  secondo la posizione dell'insediamento ebraico più lontano: tutta la terra tra queste colonie, isolate ai limiti dello Stato mandatario, doveva diventare ebraica e circondata da altre zone di sicurezza, come aree cuscinetto tra loro e gli abitanti palestinesi.
Se si legge quindi la storia  in un modo corretto, non si può non essere che con il popolo palestinese a lottare per la sua indipendenza e per una giustizia che, purtroppo, è ancora molto lontana.


Raccontare di Gaza, del popolo palestinese è quindi sempre importante, doveroso e necessario.
Raccontare, dopo aver visto quei luoghi, conosciuto i suoi abitanti ed aver vissuto la loro angoscia, paura, rabbia, determinazione, speranza, assume un valore aggiuntivo. Dare voce a chi voce non ha. Questo è il nostro compito!

L'aggressione a Gaza, per il momento, è finita, l'assedio … continua. Cercherò di riprendere il filo interrotto due mesi fa.

Ci troviamo dunque all'Adam Hotel a Gaza. E' lunedì mattina del 6 gennaio. Qui la Befana non porta dolci ai bambini, qui la befana è cattiva, porta solo carbone e sofferenza.
Stiamo cercando di capire il perché dell'esistenza dei campi qui a Gaza, perché sono in questa tremenda situazione e quali sono gli interessi che li mantiene ancora vivi.
Michele esprime il suo parere personale affermando che non è facile dare delle risposte. Si tratta di un problema complesso, non solo politico ma anche sociale ed economico. I palestinesi sostengono da sempre e chiedono di base l'applicazione del Diritto al Ritorno, principio che vale per tutti i profughi del mondo, escluso il popolo palestinese. Diritto di tornare alle loro case, che non sono qui a Gaza, ma in altri villaggi o città della Palestina. L'eventuale integrazione nel tessuto urbano di Gaza, farebbe sparire i campi, facendo così un regalo ad Israele. Israele, infatti, sostiene da sempre  che dal momento che i palestinesi  se ne sono andati in altri stati arabi ormai da moltissimo tempo,  dovrebbero essere assorbiti da questi paesi (Siria, Libano, Giordania) diventando così loro cittadini. Per Israele, il paese naturale dei palestinesi è infatti la Giordania. Questi paesi però rifiutano questo invito, specialmente il Libano, perché considerano i palestinesi profughi di guerra e come tali devono ritornare alle loro case d'origine. Questo è l'aspetto politico-diplomatico al quale il popolo palestinese non intende giustamente rinunciarvi. La questione economica fotografa l'incapacità di Gaza, per mancanza di risorse, di sistemare i palestinesi che vivono nei campi. Prima del '48 a Gaza vivevano meno di duecento mila persone, era una terra incontaminata, tranquilla. Ma la Nakba ha cambiato il volto a questa piccola Striscia di terra: centinaia, migliaia di persone sono arrivate qui   cercando un rifugio dalla violenta occupazione israeliana. In un primo momento si sono sistemate come potevano, ma poi la neonata UNRWA ha iniziato a costruire stanze e case che, con il tempo, si sono moltiplicate fino a costruire veri e propri quartieri, gli attuali campi profughi. I campi sono infatti aree edificate in cui le costruzioni sono ammassate le une sulle altre. Edifici che non fanno passare aria, con tetti in lamiera e amianto compongono una rete di stretti passaggi, senza le infrastrutture fondamentali come raccolta della spazzatura, acqua corrente e sistema fognario.
Il tutto nell'estrema povertà. Per risolvere la questione dei profughi  (5.000.000) occorrono ingenti capitali, miliardi di dollari, perché oltre al riconoscimento del Diritto al ritorno hanno anche il diritto di ricevere  un risarcimento economico per quello che hanno subito. Michele ci racconta che venti anni fa la situazione era molto più drammatica di quanto ci appare oggi. A Jabaliya le stradine non erano asfaltate ed erano percorse dai rivoli  delle acque di scolo. Questo non giustifica di certo la situazione odierna, ma il problema spaventoso è che si sta parlando di un territorio piccolissimo in cui vivono  più di 1.700.000 persone. Il Qatar aveva iniziato un progetto di sistemazione con un finanziamento di 400.000.000 di dollari, pochi soldi rapportati alle necessità di Gaza, ma anche questo è stato bloccato. Non può entrare nulla! La forte inondazione del 14 dicembre scorso ha causato ingenti danni anche per l'inesistenza di un sistema  fognario e perché le pompe, per mancanza di carburante, non erano entrate in funzione. Per sistemare Gaza bisognerebbe distruggere tutto e ricostruire. (Oggi, dopo la distruzione dell'operazione Barriera Protettiva, siamo nella condizione ottimale per una sua rinascita! Ma non ci credo...) Il problema umanitario, sociale ed economico è immane, troppo grosso da poter risolvere, nessun palestinese, almeno noi lo crediamo, non può gioire nel sapere come sono costretti a vivere alcuni suoi fratelli qui in terra di Palestina. E se pensiamo ad alcuni campi in Libano, come ad esempio Ein El–Helwi a Sidone o  Chatila a Beirut, tutto diventa ancora più triste e fortemente drammatico, perché in Libano non c'è  possibilità d'espansione con nuove case, quindi bisogna salire. Tanti piccoli alveari che s'innalzano verso il cielo!

Gaza non è sempre stata quella che noi tutti oggi conosciamo. E' sempre stata una regione contesa, che ha sempre sofferto. Il suo popolo è sempre stato un popolo guerriero, molto coraggioso e leale che non si è mai completamente sottomesso agli  ebrei fin dall'era a.c. Gaza ha visto gli Assiri, i Babilonesi, i Persiani, Alessandro il Grande, i Romani, gli Egiziani, gli Ottomani, gli Inglesi e gli ebrei.  Era  importante per l'incenso ed il vino.  Prima della spartizione della Palestina, era abitata da beduini e da ricchi palestinesi che vivevano a Gerusalemme o a Ramallah, i suoi confini arrivavano fino a Beersheba. Era una regione con tante province. Oggi, invece, è una Striscia di terra abitata principalmente da profughi, una prigione a cielo aperto sotto la completa sorveglianza d'Israele. Non c'è discriminazione tra i cittadini di Gaza, esiste solo una situazione da un punto di vista pratico che non è risolvibile. La realtà è che una massa di persone dal '47 ad oggi si è rifugiata qui cercando una sistemazione come meglio poteva. Gli aiuti promessi non sono mai arrivati e la città è cresciuta in modo disordinato, senza nessuna infrastruttura. E' anche vero che girando da nord a sud e vedendo tanti monumenti ai martiri e moschee, uno si chiede il perché di tutto questo e che forse  sarebbe meglio pensare a costruire case o scuole. Ma questo non cambierebbe la  situazione in cui è costretta a vivere,  è solo una risposta politica. Il problema principale è il riconoscimento del Diritto al Ritorno. Israele  deve riconoscere questo Diritto fondamentale, poi saranno i profughi a decidere se metterlo in pratica. Si pensa, infatti, che molti non lo useranno perché si è già arrivati alla terza generazione.  Forse, gli unici ad essere interessati, visto le estreme condizioni a cui sono soggetti, potrebbero essere i palestinesi che vivono in Libano.


Mahmoud Abbas, come ricorda un nostro compagno, ha dichiarato la sua rinuncia al diritto a ritornare nella sua città natale (Safed) perché è terra d'Israele. Riconoscere Israele, però, non significa che si riconosce  Israele come un paese dalla stragrande maggioranza ebraica senza spazio per altri, perché questo, in verità, è proprio il punto di vista d'Israele: “Noi non possiamo permettere il ritorno dei profughi perché sono talmente tanti che non sarebbe più lo Stato a maggioranza ebraica.”  Tutto vero, ma la nostra lotta o la lotta di tutti deve essere indirizzata per avere un mondo di diritti, dove non devono essere assicurati diritti solo ad una parte e negati  invece totalmente all'altra. Israele non può più continuare a negare questo diritto al popolo palestinese. E' l'unico popolo a cui è vietato il ritorno alle proprie terre.  Una parte di colpa in tutto questo è da attribuire  alla creazione dell'UNRWA, voluta dalle Nazioni Unite, anche se ha aiutato moltissimi palestinesi. Il riconoscimento d'Israele da parte dell'ONU era condizionato anche dal diritto al ritorno, cosa che a distanza di 66 anni non è mai stato considerato. Si tratta quindi di una grande violazione del diritto internazionale e di un crimine di guerra se si considera che questi villaggi di un tempo lontano sono stati cancellati, non esistono più, proprio per non far tornare i vecchi abitanti. Questo è  il piano sionista e,  Gaza, Jenin, Ramallah fanno parte di questo piano.
Se un palestinese va a vivere fuori dal campo, per una sua decisione personale, rimane registrato come profugo  perdendo solo l'assistenza ed i servizi dell'UNRWA.
Il problema Gaza è legato solo ad una soluzione politica e la situazione può solo peggiorare, visto gli ultimi sviluppi egiziani. I Fratelli Musulmani sono stati dichiarati “Organizzazione terroristica” e questo mette in discussione il rapporto tra l'Egitto ed i palestinesi di Gaza governati da Hamas che sono parte dei Fratelli Musulmani. Come potranno dialogare? Ci sono inoltre voci che prospettano un ritorno degli egiziani sul valico perché non vogliono proprio continuare a parlare con Hamas (e noi l'abbiamo provato durante il passaggio sul Sinai) oppure un ritorno della Guardia presidenziale di Abu Mazen insieme agli europei ed egiziani, tornando così indietro alla situazione del 2005. Il governo di Hamas si trova dunque dal 2006, a vivere oggi,  il momento più critico.
Michele continua il suo raccontare, parlandoci di un articolo scritto da Amira Hass circa un anno fa, nel quale riporta le quantità dettagliate di beni di prima necessità che Israele decide, volta per volta, di far entrare a Gaza. In questo modo Israele non crea mai un'emergenza totale ma, solo una condizione di pressione sui cittadini di Gaza. Come nel resto del mondo, anche qui a Gaza c'è una minoranza di persone benestanti che si possono permettere macchine nuove ed altri oggetti e che non fanno certo beneficenza ai profughi. La vita a Gaza è costosa e gli affitti sono medio/alti. Il nostro viaggio a Gaza ci ha insegnato che dobbiamo essere più consapevoli della complessità della realtà politica, economica e sociale che c'è nei territori palestinesi. Non dobbiamo enfatizzare il popolo palestinese in quanto tale, perché tra loro, come del resto da per tutto,  ci sono anche persone poco rispettabili. Si deve essere più critici se vogliamo che il nostro aiuto sia veramente valido.


Per entrare a Gaza si può passare a nord, al confine con Israele, attraverso il valico di Erez. Valico di frontiera pedonale e terminal merci limitato ad arabi residenti sotto la giurisdizione dell'Autorità palestinese, per cittadini egiziani e per aiuti internazionali ufficiali.
A sud, invece, attraverso il valico di Rafah, frontiera tra l'Egitto e la Striscia. Nel 2005, prima del ritiro d'Israele dalla Striscia di Gaza, tra l'Unione Europea, gli Stati Uniti come garanti, Israele, Palestina ed Egitto era stato raggiunto un accordo per la gestione del valico: gli egiziani sul loro versante, i palestinesi dall'altro e gli israeliani che gestivano il valico vicino di Kerem Shalom, dal quale entrano le merci. Rafah è un passaggio solo per persone e solo per cittadini palestinesi ed egiziani. Israele ha però imposto di avere  una supervisione su questo valico sia da parte loro e sia dall'Unione Europea attraverso un contingente di assistenza alla frontiera chiamato EUBAM. La sede di questo ente, particolare interessante, non si trova né in Egitto e né a Gaza, ma in Israele ad Ashkelon. E' tutt'ora presente, ed anche se, da sette anni non lavora più,  continua ad essere pagato dai contribuenti europei. Questo contingente tutte le mattine partiva da Ashkelon per arrivare al valico di Kerem Shalom, dove gli israeliani li facevano passare per raggiungere  Rafah. Qui osservavano il passaggio delle persone e delle merci con l'obbligo di segnalare agli israeliani ed anche ai palestinesi i casi sospetti. Tutto questo ha permesso in definitiva ad Israele di poter chiudere il valico di Rafah a sua discrezione senza gestirlo direttamente, perché Rafah poteva funzionare solo con la presenza degli osservatori internazionali. Se Israele non alzava la sbarra di Kerem Shalom, gli osservatori non potevano raggiungere Rafah e di conseguenza il valico rimaneva chiuso. Quando il 25 giugno 2006 è stato rapito il caporale Gilad Shalit, gli israeliani per rappresaglia  hanno chiuso Kerem Shalom e gli osservatori non sono più potuti andare a Rafah. Dal 2006 il valico è sostanzialmente chiuso. I palestinesi e gli egiziani, a quell'epoca, erano riusciti a trovare una soluzione al problema: il governo egiziano, per motivo di studio, economico o sanitario, consentiva ai palestinesi il passaggio da Gaza all'Egitto. Questa situazione drammatica e penosa è proseguita per tutto il periodo del governo di Mubarak.  Poi tutto è cambiato, con la vittoria dei Fratelli musulmani e la nomina a nuovo Presidente di Morsi. Molti palestinesi, in un numero  maggiore di prima, potevano andare in Egitto anche solo per turismo e non necessariamente per seri motivi. La caduta poi dei Fratelli musulmani ha ricambiato i giochi e, all'improvviso, si è ritornati alla condizione del 2006. Il valico di Rafah praticamente rimane chiuso, non si sa mai quando verrà aperto, costringendo così le persone a lunghe ore o giorni  d'attesa, spesso inutili. Il nostro passaggio è stato veramente un'eccezione. Il contingente europeo, nonostante non serva più da molti anni, continua a rimanere presente ad Ashkelon. E' stato ridotto il numero dei suoi partecipanti, (ora 50 sui 200 di prima) ma comunque ci sono e sono pagati da tutti noi. La missione è rifinanziata ogni 6 mesi. L'Italia è stata molto presente con il supporto dei carabinieri all'interno di questo contingente.
Perché l'Europa sta in silenzio e paga qualcosa che non serve?
Gaza allora era in movimento, si stavano costruendo nuovi alberghi, si sistemavano quelli vecchi, c'erano progetti, si pensava che la situazione in Egitto non sarebbe cambiata, invece, non è stato così. A Gaza, inoltre, dove abitava Vittorio Arrigoni, c'è un centro italiano, realizzato con varie donazioni, molto spartano ma funzionante che può ospitare chi viene qui per progetti,   documentazioni o volontariato. Dal momento che né a Gaza, né in Cisgiordania e a Gerusalemme esiste un centro Culturale italiano, degno di questo nome, a differenza di altri paesi, il Consolato ha promesso di dare informalmente  aiuti a questo centro per poterlo migliorare.


La nostra chiacchierata con Michele è giunta quasi alla fine. Chiediamo di capire meglio la situazione dei migranti africani in Israele. Il giorno prima a questo incontro (5 gennaio), c'è stata infatti una grande manifestazione a Tel Aviv con la partecipazione di 30.000 africani, contro l'approvazione di nuove leggi relative alla loro presenza sul territorio d'Israele. Leggi che prevedono la facoltà di trattenere gli immigrati in centri di “raccolta” nel deserto, senza processo e senza verificare i loro dossier, fino ad un anno. In questi centri, gli immigrati possono entrare ed uscire ma con l'obbligo di firmare tre volte al giorno, non possono lavorare e se li trovano dopo un' assenza di oltre  48 ore,  sono arrestati e portati in un vicino carcere. Il governo attuale israeliano, come quello precedente, ha lanciato una grossa battaglia contro i clandestini, chiamati “aliens” (questo succede anche in Italia) in quanto delinquono e perché potrebbero anche modificare seriamente la composizione demografica e diventare così un pericolo per lo stato ebraico. In virtù di questa legge è proibito agli immigrati lavorare finché non sono registrati come richiedenti asilo, ma questo è impossibile, perché questo diritto  non viene mai praticamente riconosciuto (il tasso medio in Israele di riconoscimento è inferiore all'1%). Per impedire quindi il flusso migratorio è stato costruito un muro, una barriera tra l'Egitto ed Israele. Per la maggior parte sono sudanesi ed eritrei e, quindi costretti ad intraprendere un viaggio molto lungo. Dal Corno d'Africa devono risalire  verso l'Egitto pagando anche 3000/4000 dollari e, attraverso il Sinai, arrivano poi alla frontiera con Israele. Molti sono stati anche uccisi dagli egiziani quando avevano l'incarico di fermarli e sono stati sepolti in un'area di  un kibbuz. Ora non entrano quasi più. Il problema attuale è quello di riuscire a mandare fuori quelli che sono dentro, anche con incentivi economici promettendo 1500/2000 dollari. Chi non  può invece tornare indietro nel paese d'origine perché rischia la morte è costretto a rimanere in Israele che, non concedendo l'asilo politico e, considerandoli solo manovali illegali in cerca d'occupazione, li detiene in questi centri. Per tutto questo è iniziata una campagna di protesta da parte dei migranti, sostenuta anche da attivisti israeliani, gli stessi che si battono per la Palestina. I rifugiati in una petizione, rilanciata dall'associazione “Freedom4Refugees” chiedono “l'abrogazione della legge, la fine degli arresti, e la liberazione di tutti i richiedenti asilo e dei rifugiati imprigionati”.
L'ultima considerazione si concentra sull'attivismo che spesso vive al suo interno dinamiche di conflitto con posizioni diverse. Ci si chiede come coordinare le varie associazioni e poter così lottare insieme contro il potere politico sulla questione palestinese. Purtroppo è una questione forse irrisolvibile. "L'attivismo che c'è in Italia sulla Palestina è figlio dei nostri giorni – sostiene Michele  - si lavora da soli, non ci si fida mai dell'altro, si dubita sempre del  rigore morale, politico, etico dell'altra parte". E questo genera solo conflittualità. Bisognerebbe metterci insieme e mettere da parte le diversità, ma sarà molto difficile.
Con queste riflessioni dobbiamo lasciare Michele e proseguire con i nostri appuntamenti.

           Audio Michele Giorgio 

10/10/2014

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