venerdì 29 marzo 2024   
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Medio Oriente » Una Testimonianza diretta da Gaza 7 parte  

(Leggi la 6° parte)

UNA TESTIMONIANZA DIRETTA DA GAZA
di Mirca Garuti
(7°  parte)


Dopo l'incontro con Michele Giorgio, usciamo dall'albergo per raggiungere la sede dell'Unione dei Disabili palestinesi (v.4°parte)
La giornata termina con la visita alla Casa della Musica.

 

  


Entriamo nel campo di Khan Younis in una casa qualsiasi  e, con stupore, ci troviamo praticamente dentro ad un piccolo museo che espone oggetti, costumi, arte della vita del popolo palestinese. L'accoglienza è calorosa. Ci guardiamo attorno. Una meraviglia! Ci dà il benvenuto un piccolo gruppo di musicisti e una donna vestita con abiti tradizionali che suona, balla e canta. Siamo di fronte al gruppo “The Peace center for culture and arts”. E' un gruppo nato a Gaza due anni fa. Per terra o su  piccoli mobili ci sono vari utensili utilizzati in cucina o nei lavori di campagna, strumenti musicali ed abiti tradizionali ricamati dalle donne palestinesi. Il pavimento ricoperto di tappeti, la luce soffusa, i suoni degli strumenti e gli oggetti intorno a noi creano un'atmosfera di altri tempi, un'atmosfera felice, gioiosa e serena.

  

 

Seduta a terra, lascio che la musica coinvolga il mio corpo, la mia mente, il mio cuore. Sono momenti magici per tutti noi. Il lavoro di queste persone è estremamente importante. Portano avanti la loro cultura nonostante le difficoltà di dover vivere in una gabbia. In questo modo continuano a vivere. Abbiamo avuto l'onere di ascoltare una buonissima musica suonata in un modesto contesto, non oso immaginare come sarebbe in un teatro. L'ultimo pezzo che ci fanno ascoltare è un omaggio, un regalo. Si tratta di un inno internazionale  alla pace, scritto in cinque lingue, ancora in fase di preparazione, ma che desiderano ugualmente farci ascoltare.
Unico dispiacere è il poco tempo che possiamo passare con loro.

La cosa più bella è stata quella di vedere la felicità sul volto di Bassam. Per lui, credo, è stato come tornare indietro nel tempo.

             Audio musica  
 

7 Gennaio - ultimo giorno a Gaza. L'inizio della mattinata è stato un po' più caotico del solito. La marina militare israeliana ha iniziato a sparare ad una piccola imbarcazione proprio di fronte al nostro albergo. (v. 2° parte) Per fortuna nessun ferito, ma tanta tensione! E' così tutti i giorni. Oggi ci siamo divisi in due gruppi: una parte di noi è andata con la Dott.ssa Nawal Solaiman El Dagma dell'Associazione Al-Najda (v.1° parte) a presenziare un sit-in di donne ed a visitare la sua organizzazione;  un'altra, invece, è rimasta in albergo con l'attivista dell'International Solidarity Movement, Silvia Todeschini per incontrare Mariam Abudaqqa, una donna combattente.

 

Ho lasciato a Silvia il compito di registrare l'incontro. Si presenta: “Sono Mariam Adudaqqa, sono di Gaza e sono nata nel 1952. Quando Israele ha occupato Gaza nel 1967 avevo 15 anni. Mia madre è egiziana, mio nonno turco e mio padre palestinese: sono quindi internazionale. Mio padre aveva quattro mogli ed è stato cacciato a Gaza durante l'occupazione del 1948.” Mariam  parla della sua determinazione, come donna, di rivendicare nella società un ruolo importante e paritario con quello degli  uomini  e, come da questo, sia iniziata la sua partecipazione alla lotta per la liberazione della Palestina.  Era l'unica femmina di cinque figli, era brava a scuola, intelligente, ma i suoi fratelli erano trattati meglio! Suo padre possedeva molta terra ma questa non le poteva essere trasferita, anche in minima parte, proprio in quanto donna. Mariam voleva dimostrare che non era debole e voleva fare cose importanti. Sentiva di dover difendere la sua terra. A scuola parlava sempre di Palestina e di resistenza. Ed ecco che scrive una lettera al Presidente dell'OLP  Ahmad al Shuqayri, chiedendogli di realizzare un gruppo militare per le donne perché anche loro hanno il diritto di difendersi dall'occupazione. La risposta non si fa attendere. Arriva direttamente a scuola. Mariam avrà il suo campo e sarà la prima a frequentarlo.
Aveva 15 anni quando è iniziata l'occupazione di Gaza, la Naqsah, (La Ricaduta) da 5 al 10 giugno 1967 e ricorda che era il secondo giorno dei suoi  esami e si trovava a Khan Younis. Qui, insieme ai suoi compagni di scuola, è rimasta nascosta in una casa per sette giorni senza cibo e acqua. La confusione era totale, non si capiva cosa stava succedendo, pensavano che si trattasse della liberazione della Palestina dei territori occupati. Non pensavano che potessero arrivare ad occupare Gaza. Mariam ha così conosciuto l'aggressione israeliana.
Israele, con l'appoggio USA e dopo aver sconfitto gli eserciti di Egitto, Giordania e Siria, si appropria a sud delle terre della Striscia di Gaza, del porto di Sharm El Sheikh e di tutto il Sinai, ad est di Gerusalemme e di tutta la Cisgiordania e a nord-est delle alture del Golan.
 Mariam, quindi,  si chiese: “cosa fare?” Prima aveva solo paura, ma ora pensa solo ad Israele che stava uccidendo il suo popolo. Di fronte alla proposta ricevuta di poter entrare in modo concreto nella resistenza, subito si è sentita intimorita, senza esperienza, ma è andata avanti. Le condizioni di questa scelta erano molto dure perché doveva agire in tutta segretezza con tutti, anche con la propria famiglia e, sopratutto, se veniva catturata non doveva mai fare il nome di nessun compagno. Ha scelto di far parte del Fronte Popolare, perché erano gli unici che non facevano differenze tra uomini e donne. Il suo gruppo si chiamava “Che Guevara in Gaza”. Tutti sapevano che era una rivoluzionaria. Ogni tanto la prendevano, suo padre pagava la cauzione e, ritornava in libertà. Suo padre le parlava della guerra del 1948. Sua madre invece della rivoluzione in Egitto contro gli inglesi.  Racconta ancora di quando i soldati israeliani un giorno arrivarono al villaggio e trovarono il suo gruppo. Suo padre, per proteggerla dal momento che i soldati cominciavano a far domande su di lei e la sua famiglia, la portò via, lontano dal villaggio, per un mese. Poi tornò, ma tornarono anche i soldati con carri armati ed armi e, Mariam fu arrestata. Il padre, non essendo al corrente di tutte le attività di Mariam, non era preoccupato, pensava che fosse la routine di sempre. Sua madre invece sapeva e, probabilmente per renderla più forte e decisa, le aveva detto che se avesse parlato, fatto qualche nome dei suoi compagni, non l'avrebbe più voluta in casa e che nessuno le avrebbe più rivolto la parola. Mariam ha subito 6 mesi di torture, di isolamento, di punizioni, ma non ha parlato. L'unica cosa che ha detto è che non avrebbe mai collaborato con gli occupanti e che non avrebbe mai chiesto pietà agli israeliani. In carcere ha partecipato ad uno sciopero della fame ed ha iniziato a scrivere. E' stata rilasciata dopo due anni, ma solo per un giorno, per stare a Gaza a salutare la sua famiglia. Era diventata troppo pericolosa e veniva esiliata. Mariam stava male, doveva abbandonare da sola la sua terra, la sua famiglia, gli amici, come avrebbe fatto? E' stata portata al confine tra la Cisgiordania e la Giordania senza nessun documento: Israele non la lasciava tornare e la Giordania non la faceva entrare. E' stata quindi in questa terra di nessuno per undici giorni. Questi sono stati sicuramente i giorni più brutti della sua vita. Un soldato giordano che era in contatto con il Fronte popolare ad Amman è riuscito, insieme ad altri compagni, a farle passare il confine e raggiungere Amman. In Giordania ha ripreso poi a lavorare nei gruppi della resistenza, ma il suo sogno è sempre rimasto quello di poter ritornare a Gaza. Ha partecipato a molte conferenze internazionali, parlato con donne palestinesi, era diventata una leader in Giordania ed ha viaggiato in Siria, Libano ed Iraq. Ha ripreso anche gli studi diventando dottoressa a Sofia in Bulgaria. E' tornata a Gaza dopo 30 anni.
Ha ripreso quindi a lavorare con la sua gente, con il suo partito per la liberazione della Palestina.
Ha fondato a Gaza un'associazione di donne ex prigioniere, per aiutare quelle che escono dalle carceri israeliane,  per difendere i loro diritti e per aiutarle ad emanciparsi socialmente, economicamente e politicamente. La donna ha avuto sempre un ruolo importante, non deve essere vista solo come una madre di famiglia e, per questo, occorre sapere le vere storie delle donne palestinesi. Questo è lo scopo del nuovo progetto che oggi Mariam sta portando avanti. Scrivere un libro che racconta la vita di donne che sono state in carcere.  Le storie da presentare sono attualmente 32. L'associazione cerca di offrire un supporto alle ragazze per poter  terminare  gli studi e di avviarle ad un lavoro che possa aiutarle a trovare una propria indipendenza. Sul loro sito internet si può trovare tutto quello che fanno ed anche del materiale contro le divisioni interne tra Fatah ed Hamas, ribadendo il concetto che quello che conta è solo la Palestina. Essere uniti contro Israele. Mariam propone anche di organizzare a Gaza, vista la difficoltà di poter uscire da questo territorio, un dibattito sul problema delle donne e chiede al nostro Comitato di essere un supporto per portare fuori nel mondo il problema delle donne palestinesi. L'incontro con Mariam si conclude parlando del problema dell'imperialismo e capitalismo mondiale. Israele è una propaggine di questo sistema. Lo spiega benissimo nell'intervista che Silvia ha inserito nel suo libro “Perchè amo questo popolo” da pagina 145 a 148. Le ingiustizie le viviamo tutti, ma qui sono molto più presenti e pesanti. Siamo diversi e ciascuno usa i metodi che sono più adatti alla situazione. Oggi, tutti loro sanno chi sono i sionisti e cosa vogliono, oggi loro non abbandonano più le loro case, nonostante le incursioni ed aggressioni. Per Mariam la cosa più importante è la liberazione della sua terra, la libertà è il primo dei valori. Ora la società palestinese non è libera. Mariam e tutto il popolo palestinese ha il diritto di essere libero, di scegliere la propria educazione, il lavoro, la casa, i propri affetti. Libero da ogni occupazione.

Audio Mariam Adudaqqa  



Il Comitato per non dimenticare il Diritto al ritorno, al termine di questi due incontri, è atteso al porto per la Conferenza stampa. E' una bellissima giornata di sole. All'apparenza tutto è bello e sereno: il cielo, il mare, i pescatori, i bambini. Sembra una gioiosa giornata di festa. Sono presenti una decina di televisioni e numerosi  fotografi. Vogliono semplicemente ringraziarci per essere riusciti ad arrivare a Gaza, ma siamo noi a dover chinare la testa davanti alla loro determinazione di continuare a resistere all'occupazione sionista israeliana.

  


Lasciati i microfoni dei giornalisti, girate le spalle al monumento delle vittime della Freedom Flotilla (v. 2°parte), andiamo sulla spiaggia a vedere l'Arca di Gaza. L'Arca è più di un semplice progetto, rappresenta la speranza di rompere il blocco imposto da Israele attraverso un'azione non violenta. Negli ultimi due anni i lavoratori di Gaza, con l'aiuto di amici in tutto il mondo, sono riusciti a trasformare una barca da pesca lunga 25 metri in un cargo. Doveva salpare in primavera, dopo pochi mesi la nostra visita, portando verso l'Europa prodotti palestinesi. Il 29 aprile alle 03:45 del mattino un'esplosione ha fatto saltare la barca procurando ingenti danni. Gli organizzatori non si sono persi d'animo ed hanno continuato a lavorare cercando di riparare il danno. La nuova data per la messa in mare era previsto per settembre scorso. Ma, a luglio è iniziata l'aggressione israeliana che ha causato la morte di oltre duemila persone, migliaia di feriti e distruzioni di massa con danni a case, fabbriche, ospedali ed altre infrastrutture. Il 10 luglio la marina militare israeliana stava sparando sul porto. Verso le due di notte l'Arca è stata centrata da un missile ed è stata subito avvolta dalle fiamme. Le squadre antincendio, per il bombardamento in corso, non sono riuscite ad entrare nel porto e l'Arca si è trasformata in uno scheletro vivente. L'Arca è stata distrutta durante un'offensiva, è stato un effetto collaterale, ha subito la sorte di altre imbarcazioni, quindi non crea una notizia particolare, ma sopratutto non danneggia l'immagine d'Israele di fronte ad una silente comunità internazionale.


Lasciamo il porto inconsapevoli di quanto sarebbe poi  successo alcuni mesi dopo. Questo è proprio l'ultimo nostro giorno a Gaza. Andiamo in due campi profughi, diversi tra di loro, ma territorialmente vicini. Si trovano entrambi al centro della Striscia, il primo è quello di Nuseirat. E' un campo fatiscente, molto affollato e noto perché qui le forze di sicurezza di Hamas hanno fatto un'incursione per catturare i responsabili dell'uccisione di Vittorio Arrigoni. Il suo nome proviene da una tribù beduina. Attualmente ospita più di 65.000 rifugiati, molti dei quali fuggiti dai quartieri meridionali della Palestina dopo la guerra arabo-israeliana del 1948. Prima della costruzione del campo, i rifugiati vivevano in un ex carcere militare britannico. A Nuseirat,  molte famiglie vivono ancora  nella stessa casa che occupavano nel 1948, senza nessun miglioramento.

  La nostra visita inizia dal cimitero per poi addentrarsi per le vie del campo.

  

  

Il tasso di disoccupazione è estremamente elevato. Il 90% dell'acqua non è idonea al consumo umano. I principali problemi sono infatti legati alla discontinuità dell'erogazione dell'energia elettrica, alla disoccupazione, all'alta densità di popolazione, all'acqua inquinata ed alla non disponibilità dei materiali da costruzione. E' ormai buio. Siamo letteralmente circondati da un'orda di bambini che saltano ovunque, che salutano, che urlano. E' del tutto normale, non vedono facce straniere da moltissimo tempo!
Risaliamo sul pulmino per andare all'altro campo, quello di Al Bureij camp. Questo è molto più piccolo ed è stato costruito nel 1950 per ospitare circa 13.000 rifugiati che vivevano nelle tende e nella caserma dell'esercito britannico. Oggi la popolazione di Bureij è composta da più di 34.000 persone. Secondo l'UNRWA,  dal momento che questo non è il loro territorio, i rifugiati palestinesi possono solo occupare le case in cui vivono, ma non ne possono essere i proprietari. Ma anche i rifugiati non vogliono restare qui, sono sempre in attesa del Diritto al ritorno alle loro case.  L'ONU inizialmente ha messo in piedi questi campi, ma poi nel tempo sono stati gli stessi profughi a cambiare le cose, dalla tenda, alla lamiera fino ad arrivare al cemento. Questo campo si presenta subito diverso da quello di Nuseirat. Le case sono ordinate, in cemento anche se con il tetto in amianto e le strade realizzate con autobloccante. Un'associazione danese ha contribuito alla costruzione  del sistema fognario. E' ormai notte. Intorno a noi buio completo. Immersi nella completa oscurità arriviamo in un giardino di 5000 metri quadrati attrezzato come parco giochi per bambini.

Siamo arrivati alla fine del nostro viaggio. Domani, 08 gennaio si parte. Dobbiamo lasciare Gaza.


Alle cinque del mattino siamo pronti per partire, ma il pulman arriva solo dopo un'ora d'attesa. Alle sette siamo di nuovo a Rafah. Qui inizia la lunga attesa per passare il confine tra Gaza e l'Egitto. Alle otto e venti consegniamo i passaporti per i controlli.


Ore 13,10 siamo ancora fermi in dogana, abbiamo il visto d'uscita da Rafah ma non quello d'entrata in Egitto.
Ore 13,53 si passa. E' arrivato il responsabile generale di tutti i valichi palestinesi che ha sbloccato la situazione.
Sosta al valico egiziano: controlli passaporti, pagato, per la seconda volta, la tassa d'entrata e, finalmente,  alle 16,05 iniziamo il percorso a ritroso verso Il Cairo attraverso il Sinai. Come per l'andata, passiamo attraverso 5 o 6 posti di blocco. Il rituale è il solito: controlli e cambio scorta. Militari ovunque, città blindate e cecchini. In una delle tante piccole soste forzate, mi ricordo ancora che ero rimasta a guardare, quasi meravigliata, alcuni bambini che erano riusciti ad inventarsi un gioco in un panorama al quanto del tutto particolare. Al ciglio della strada c'era un'enorme buca di sabbia e questi bambini si mettevano seduti sul bordo e si divertivano a scivolare giù fino in fondo alla buca e poi risalivano. Una, due, tre, quattro volte, sempre su e giù, qualche volta qualcuno ruzzolava giù un po' malamente, ma non importava, era il loro gioco. Sentivo le loro voci che ridevano! Beati loro, pensavo, che hanno ancora la capacità di trovare un momento di svago e di gioco all'interno di una situazione di guerra e di morte. Se i bambini riuscivano a divertirsi anche solo per un momento, i militari che controllavano le postazioni erano quasi sempre in ciabatte e non sempre in divisa. Anche nei bunker di difesa, erano senza l'elmetto, rilassati nonostante il pericolo giocavano mentre pulivano l'arma.  Curiosi nei nostri confronti, alternativamente salivano sul pullman, esercito e polizia per controllarci. Guardavano e quasi ridevano di noi. Arrivati ad Al Arish, città ad alto rischio, ci hanno scortato con autoblindo, sirena e le quattro frecce in funzione. Un bersaglio perfetto!
Siamo infine, arrivati al Cairo a mezzanotte: domani 09 gennaio, partenza per l'Italia alle 13,45.

Questo viaggio è' stato importante, un'esperienza unica che ha rafforzato la mia voglia di continuare ad essere sempre al fianco del popolo palestinese e di fare l'impossibile per portare avanti una giusta informazione. Dare voce a chi non ce l'ha.
Oggi è di nuovo calato il silenzio su Gaza. Non ci sono più bombe e nessuno parla più della tragedia dei suoi abitanti. I valichi sono di nuovo chiusi. Si continua a costruire insediamenti illegali e i palestinesi continuano ad essere uccisi. Ultimamente sono riemerse anche tensioni tra Hamas e Fatah, rischiando di mettere  in serio pericolo la difficile ed incerta ricostruzione di Gaza, a beneficio solo di chi ha un vero interesse a spezzare quella sottile speranza di unità nazionale palestinese da poco ritrovata.

31/10/2014

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