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Medio Oriente » Dove va l’Egitto?  

DOVE VA L'EGITTO?

Intervista di Farooq Sulehnia a Gilbert Achcar


Per aiutare a spiegare gli interessanti sviluppi in Egitto, Farooq Sulehnia ha intervistato il 4 febbraio, il principale studioso e attivista arabo Gilbert Achcar.

Pensa che l'impegno di Mubarak del 1° febbraio di non ripresentarsi alle prossime elezioni abbia rappresentato una vittoria per il movimento  o fosse solo un trucco per calmare le masse dato, che il giorno dopo i dimostranti in piazza Al-Tahrir sono stati brutalmente attaccati dalle forze pro-Mubarak?

La ribellione egiziana popolare e anti-regime ha raggiunto un primo picco il 1° febbraio, spronando Mubarak ad annunciare concessioni in serata. Era un riconoscimento della forza della protesta popolare e una chiara ritirata da parte dell'autocrate, cominciata con l'annuncio della volontà del governo di negoziare con l'opposizione. Queste erano concessioni significative, soprattutto provenendo da un regime così autoritario e una testimonianza dell'importanza della mobilitazione popolare. Mubarak si è addirittura impegnato ad accelerare le azioni giudiziarie in corso contro la frode perpetrata durante le precedenti elezioni parlamentari.
Ha chiarito, però, che non aveva intenzione di andare oltre questo. Con l'esercito dalla sua parte, stava cercando di tranquillizzare il movimento di massa e i governi occidentali che lo incitavano a riformare il sistema politico. Senza dare le dimissioni, ha concesso alcune delle richieste chiave che il movimento di protesta egiziano aveva inizialmente formulato, quando ha lanciato la sua campagna il 25 gennaio. Il movimento, però, è diventato più radicale da quel giorno, al punto che nulla al di fuori delle dimissioni di Mubarak lo può soddisfare, con molti al suo interno che chiedono addirittura che Mubarak sia processato.
Inoltre, tutte le istituzioni chiave del regime sono ora denunciate dal movimento come illegittimeil potere esecutivo, quello legislativo e il parlamento. Il risultato di tutto questo è che parte dell'opposizione chiede che il capo della Corte costituzionale sia nominato presidente ad interim, per soprintendere alla elezione di un'assemblea costituente. Altri addirittura vogliono una commissione nazionale delle forze di opposizione per supervisionare la transizione. Certamente, queste richieste costituiscono una prospettiva radicalmente democratica. Per imporre un cambiamento così radicale, il movimento avrà bisogno di rompere o destabilizzare la spina dorsale del regime, cioè l'esercito egiziano.

Intende dire che l'esercito egiziano sta appoggiando Mubarak?

 

L'Egitto - anche più di Paesi come il Pakistan e la Turchia- è essenzialmente una dittatura militare con una facciata civile, che è essa stessa è piena di uomini provenienti dall'esercito. Il problema è che la maggioranza dell'opposizione egiziana, a partire dai Fratelli Musulmani, ha seminato illusioni sull'esercito e la sua presunta "neutralità", se non "benevolenza". L'esercito è  stato dipinto, da questa opposizione, come un mediatore onesto, mentre la verità è che l'esercito come istituzione non è assolutamente "neutrale". Se questo ancora non è stato usato per reprimere il movimento, è solo perchè Mubarak e lo stato-maggiore non hanno ritenuto conveniente fare ricorso a una mossa del genere, probabilmente perchè temono che i soldati sarebbero riluttanti ad attuare la repressione. Questo è il motivo per cui il regime ha preferito orchestrare contro-dimostrazioni e attacchi di teppisti contro il movimento di protesta. Il regime ha cercato di scatenare un’apparente guerra civile, volendo lasciare intendere che l'Egitto fosse diviso in due campi contrapposti, creando così una giustificazione per l'intervento dell'esercito come "arbitro" della situazione.
Se il regime fosse riuscito a mobilitare un significativo contro-movimento e a provocare scontri su larga scala, l'esercito avrebbe potuto farsi avanti dicendo: "La ricreazione è finita, ora tutti devono andare a casa" mentre promettevano che le promesse di Mubarak sarebbero state mantenute. Come molti osservatori, ho temuto negli ultimi due giorni che questo stratagemma potesse riuscire ad indebolire il movimento di protesta, ma la grande mobilitazione di oggi, “giorno della partenza” – il 4 febbraio – , è rassicurante. L'esercito dovrà fare sempre più significative concessioni alla ribellione popolare.

Quando parla di opposizione, a quali forze si riferisce? Ovviamente, abbiamo sentito parlare dei Fratelli Musulmani e di El Baradei. Esistono altre forze, per esempio di sinistra o i sindacati ecc.?

L'opposizione egiziana include un vasto schieramento di forze. Ci sono partiti come il Wafd, che sono partiti legali e costituiscono quella che può essere chiamata l'opposizione liberale. Poi c'è una zona grigia occupata dai Fratelli Musulmani. Non ha uno status legale ma è tollerato dal regime. La sua struttura è completamente visibile; non è una forza clandestina. I Fratelli Musulmani sono certamente la più grande forza nell'opposizione. Quando il regime di Mubarak, sotto pressione degli USA, ha garantito uno spazio all'opposizione al momento delle elezioni parlamentari del 2005, i Fratelli Musulmani - presentandosi come "indipendenti" – sono riusciti ad ottenere 88 seggi parlamentari, cioè il 20% dei seggi parlamentari, nonostante gli ostacoli. Alle ultime elezioni, tenutesi lo scorso novembre e dicembre, dopo che il regime di Mubarak ha deciso di chiudere lo spazio limitato che aveva aperto nel 2005, i Fratelli Musulmani sono quasi spariti dal parlamento, perdendo tutti i seggi tranne uno.
Tra le forze di sinistra, la più grande è il partito Tagammu, che ha uno status legale e 5 seggi. Fa riferimento all'eredità di Nasser. I comunisti sono stati importanti nelle sue schiere. E' essenzialmente un partito riformista di sinistra, che non è considerato una minaccia per il regime. Al contrario, è stato accondiscendente con esso in varie occasioni. In Egitto ci sono anche gruppi di sinistra nasseriani e della sinistra radicale – piccoli ma vivaci e molto coinvolti nel movimento di massa.
Poi ci sono i movimenti della “società civile", come Kefaya [«Basta!», Movimento egiziano per il cambiamento], una coalizione di attivisti provenienti da varie forze di opposizione formatasi in solidarietà con la Seconda Intifada palestinese nel 2000. Questa organizzazione si è opposta successivamente all'invasione dell'Iraq ed è diventata famosa come movimento promotore della campagna democratica contro il regime di Mubarak. Dal 2006 al 2009, l'Egitto ha conosciuto un'ondata di conflitti sociali, inclusi alcuni scioperi operai impressionanti. In Egitto non ci sono sindacati indipendenti, con una o due eccezioni recenti, che sono il risultato della radicalizzazione sociale. La maggior parte della classe lavoratrice non può avvalersi di rappresentanze o organizzazioni autonome. Il tentativo di convocare uno sciopero generale il 6 aprile 2008 in solidarietà con i lavoratori ha portato alla creazione del “Movimento Giovanile 6 aprile”. Associazioni come questa e Kefaya sono gruppi concentrati sulla campagna per la democrazia, non partiti politici e includono persone di diverse affiliazioni politiche insieme ad attivisti non affiliati.
Quando Mohamed El Baradei è tornato in Egitto nel 2009, dopo il suo terzo mandato a capo della IAEA e grazie al suo prestigio personale accresciuto dal Premio Nobel per la Pace del 2005, si è raccolta intorno a lui una coalizione liberale e di sinistra, con i Fratelli Musulmani che hanno adottato nei suoi riguardi una posizione tiepida e con delle riserve. Molti nell'opposizione hanno considerato El Baradei un candidato forte, che godendo di fama e contatti internazionali, poteva rappresentare, di conseguenza, una candidatura credibile alla presidenza contro Mubarak e suo figlio. El Baradei così è diventato una figura di collegamento per un largo settore dell'opposizione, che raggruppava sia forze politiche, sia personalità indipendenti. In questo modo è nata l'Associazione Nazionale per il Cambiamento.
Questo schieramento di forze è molto coinvolto nelle attuali sollevazioni. La stragrande maggioranza delle persone nelle strade è, tuttavia, senza alcuna affiliazione politica. E' un'enorme sfogo di massa per il risentimento di vivere sotto un regime dispotico, nutrita da condizioni economiche in peggioramento, dato che i prezzi dei beni di consumo di base, come cibo, carburante e elettricità, sono aumentati bruscamente insieme a una disastrosa disoccupazione. Per altro, questo è il caso non solo dell'Egitto ma anche nella maggior parte dei Paesi della regione ed è questo il motivo per cui il fuoco della rivolta, che è cominciata in Tunisia, si è esteso così velocemente in molti Paesi arabi.

El Baradei è veramente popolare o è in qualche modo il Mir-Hossein Mousavi [il leader dell’opposizione iraniana] del movimento egiziano, che cerca di preservare il regime cambiandone la facciata?

In primo luogo, non sono d'accordo con questa descrizione di Mousavi. Mir-Hossein Mousavi non voleva "cambiare il regime" se con questo si intende una rivoluzione sociale. Ma vi è stato sicuramente uno scontro tra le forze sociali autoritarie dirette dai Pasdaran e rappresentate da Ahmadinejad e dall’altra parte delle forze che si sono coalizzate intorno a una prospettiva liberale rappresentata da Mousavi. È stato uno scontro sulla natura del "regime", ossia sull’assetto politico del governo del Paese.
Mohamed El Baradei è un liberale autentico, che spera che il suo Paese passi dalla dittatura attuale a un regime liberale e democratico, con elezioni libere e libertà politiche. Se un così grande schieramento di forze politiche vuole cooperare con lui, è perchè lo considerano la più credibile alternativa liberale al regime esistente, un uomo che non dirige un suo collegio elettorale, ed è perciò una figura adatta ad un cambiamento democratico.
Tornando alla sua analogia, non può paragonare El Baradei a Mousavi che era un membro del regime iraniano, uno degli uomini che guidò la rivoluzione del 1979. Mousavi aveva dei seguaci in Iran, prima di emergere come leader del movimento di protesta del 2009. In Egitto, El Baradei non può avere, e non pretende di averlo, un ruolo simile. E' appoggiato da un grande arco di forze, ma nessuna di queste lo vede come proprio leader.
Le iniziali riserve dei Fratelli Musulmani nei confronti di El Baradei sono in parte collegate al fatto che lui non ha un'inclinazione religiosa ed è troppo laico per i loro gusti. In più, i Fratelli Musulmani hanno coltivato negli anni una relazione ambigua con il regime. Se avessero sostenuto pienamente El Baradei avrebbero ridotto i loro margini di negoziazione col regime di Mubarak, con cui hanno trattato per molto tempo. Il regime ha concesso loro molto nella sfera socio-culturale, un esempio è l'aumento della censura islamica in campo culturale. Questa era la cosa più semplice che il regime potesse fare per rabbonire i Fratelli Musulmani. Il risultato è stato che l'Egitto ha fatto grandi passi indietro rispetto alla laicizzazione consolidata sotto Gamal Abdul-Nasser negli anni ’50 e ’60.
Lo scopo dei Fratelli Musulmani è di assicurare un cambiamento democratico che garantisca loro di prendere parte a libere elezioni, sia parlamentari che presidenziali. Il modello che aspirano a riprodurre in Egitto è quello della Turchia, dove il processo di democratizzazione è stato controllato dai militari, con l’esercito che è rimasto pilastro del sistema politico. D'altra parte questo stesso processo ha creato uno spazio che ha permesso all'AKP, un partito conservatore islamico, di vincere le elezioni. Non intendono abbattere lo Stato e da queste ragioni deriva il loro corteggiare l'esercito e la loro attenzione ad evitare ogni mossa che possa renderlo ostile. Aderiscono a una strategia di graduale conquista del potere: sono dei gradualisti e non dei radicali.

I media occidentali accennano alla possibilità che la democrazia in Medioriente potrebbe portare ad un maggior controllo da parte dei fondamentalisti islamici. Abbiamo visto il ritorno trionfale di Rached Ghannouchi in Tunisia dopo un esilio di anni. E' probabile che i Fratelli Musulmani vincano libere elezioni in Egitto. Qual'è il suo commento?

Invertirei l'intera domanda. Direi che è la mancanza di democrazia che ha permesso alle forze fondamentaliste di occupare questo spazio. La repressione e la mancanza di libertà politica ha ridotto considerevolmente la possibilità di svilupparsi per i movimenti di sinistra, per quelli dei lavoratori e per quelli femministi, tutto questo in un contesto di crescente ingiustizia sociale e di degrado economico. In questa situazione, il luogo di incontro più adatto per organizzare una protesta di massa è quello raggiungibile attraverso le vie più rapidamente e facilmente accessibili. Per questo motivo l'opposizione è stata dominata da forze che aderivano a ideologie e programmi religiosi.
Aspiriamo a una società dove queste forze siano libere di difendere i propri punti di vista, ma in una competizione aperta e democratica tra tutte le correnti politiche. Per far sì che le società del Medioriente tornino sulle orme della laicità politica, all’atteggiamento popolare critico nei confronti dello sfruttamento politico della religione che prevalse negli anni ’50 e ’60, è neccessario che esse acquisiscano quel tipo di educazione politica che può essere raggiunta solo attraverso un lungo esercizio della democrazia.
Detto questo, il ruolo dei partiti religiosi è diverso nei diversi Paesi. È vero, Rached Ghannouchi è stato accolto da alcune migliaia di persone al suo arrivo all'aereoporto di Tunisi. Ma il suo movimento Ennahda ha molta meno influenza in Tunisia di quanta ne abbiano i Fratelli Musulmani in Egitto. Certamente, questo è dovuto in parte al fatto che il movimento Ennahda ha subito una dura repressione a partire dagli anni ’90. Ma è anche dovuto al fatto che la società tunisina è meno favorevole alle idee fondamentaliste religiose rispetto a quella egiziana, dato il suo alto grado di occidentalizzazione e vista la storia del Paese.
Ma non c'è dubbio che i partiti islamici siano diventati la maggiore forza nell'opposizione ai regimi esistenti nell'intera regione. Servirà una prolungata esperienza democratica per cambiare direzione rispetto a quella che ha prevalso per più di trent'anni. L'alternativa è uno scenario simile a quello algerino, dove un processo elettorale  è stato bloccato dall'esercito con un colpo di stato militare nel 1992, che ha portato a una devastante guerra civile di cui l'Algeria sta ancora pagando il prezzo.
L'ondata sorprendente di aspirazioni democratiche tra la popolazione araba di queste ultime settimane è molto incoraggiante. Né in Tunisia, né in Egitto, o in altri Paesi, le mobilitazioni popolari avevano come obiettivo la realizzazione di programmi religiosi, né sono state guidate principalmente da forze religiose. Questi sono movimenti democratici, che dimostrano un forte desiderio di democrazia. I sondaggi hanno mostrato da molti anni che la democrazia come valore è molto apprezzata nei Paesi del Medioriente, contro ogni pregiudizio "orientalistico" sulla presunta “incompatibilità” culturale tra Paesi musulmani e democrazia. Gli eventi attuali dimostrano ancora una volta che ogni popolazione privata della libertà può manifestare per la democrazia, a qualsiasi “sfera culturale” appartenga.

Chiunque partecipi e vinca le future elezioni libere nel Medioriente dovrà affrontare una società dove la richiesta di democrazia è diventata molto forte. Sarà difficile per qualsiasi partito - qualsiasi sia il suo programma - far cambiare direzione a queste aspirazioni. Non sto dicendo che sia impossibile. Ma, una delle conseguenze più importanti degli eventi attuali è che le aspirazioni popolari alla democrazia sono decisamente aumentate. Queste aspirazioni creano le condizioni ideali per la sinistra di ricostruirsi come alternativa.

Gilbert Achcar, cresciuto in Libano, è professore di sviluppo e relazioni internazionali preso il SOAS di Londra, e autore recentemente di The Arabs and the Holocaust: the Arab-Israeli War of Narratives, Metropolitan Books, New York, 2010.
09/02/2011 (Traduzione dall’inglese di Letizia Menziani)

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