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RIMPATRIO DEGLI IMMIGRATI  

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SPECIALE ALKEMIA SULLA DIRETTIVA DEL RIMPATRIO DEGLI IMMIGRATI

Gli argomenti:

  • IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI BOLIVIA EVO MORALES AYMA SCRIVE…
  • LO STERMINIO DEGLI ZINGARI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE
  • CINQUANTAMILA I NEOFASCISTI IN ITALIA
  • APPELLO CONTRO IL RAZZISMO


IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI BOLIVIA EVO MORALES AYMA SCRIVE…

Fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Europa fu un continente d’emigranti. Decine di milioni di europei partirono verso l’America per colonizzare, per sfuggire alla miseria, alle crisi finanziarie, alle guerre, ai totalitarismi europei ad alle persecuzioni inflitte alle minoranze etniche.

Oggi, sto seguendo con molta preoccupazione il processo d’approvazione della cosi detta “direttiva rimpatrio”. Il testo varato lo scorso 5 giugno dai Ministri degli Interni dei 27 paesi dell’Unione Europea, dovrà essere sottoposto al voto del Parlamento Europeo il 18 giugno corrente. Ho l’impressione che questa direttiva indurisca in maniera drastica le condizioni di detenzione e d’espulsione degli immigrati senza documenti, indipendentemente dal loro tempo di permanenza nei paesi europei, dalla loro condizione lavorativa, dai loro legami familiari, dalla loro volontà d’integrazione e dal raggiungimento della stessa.

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Gli Europei giunsero in massa nei paesi latino americani ed in America settentrionale, senza visto e senza alcuna condizione imposta dalle autorità. Furono sempre i benvenuti e continuano ad esserlo, all’ interno dei nostri paesi del Continente Americano, che assorbirono la miseria economica dell’ Europa e le sue crisi politiche.

Ancor prima vennero nel nostro Continente a sfruttarne le ricchezze e trasferirle in Europa, con altissimo costo per le popolazioni originarie d’America. Come nel caso del nostro “Cerro Rico” di Potosi e delle sue favolose miniere d’argento che permisero di dare massa monetaria al Continente Europeo dal secolo XVI fino al XIX. Le persone, i beni ed i diritti dei migranti europei furono sempre rispettati.

Oggi, l’Unione Europea é la destinazione principale degli emigranti di tutto il mondo, e ciò è conseguenza della sua positiva immagine di luogo di prosperità e di libertà pubbliche. La stragrande maggioranza dei migranti giunge nell’Unione Europea per contribuire a questa prosperità, non per approfittarsene.

Lavorano ad opere pubbliche, nell’edilizia, nei servizi alle persone e negli ospedali; lavori che non possono o non vogliono svolgere gli europei. Contribuiscono al dinamismo demografico del continente europeo, a mantenere il rapporto tra attivi e inattivi che rende possibili i suoi generosi sistemi di assistenza sociale e dinamizzano il mercato interno e la coesione sociale. Gli immigrati offrono una soluzione ai problemi demografici e finanziari dell’UE.

Per noi, i nostri emigranti rappresentano l’aiuto allo sviluppo che gli Europei non ci concedono, dato che ben pochi Paesi raggiungono realmente il minimo obiettivo dello 0,7% del loro PIL nell’aiuto allo sviluppo. L’America Latina ha ricevuto, nel 2006, 68.000 milioni di dollari in rimesse, in altre parole più del totale degli investimenti stranieri nei nostri Paesi. A livello mondiale raggiungono i 300.000 milioni di dollari, che superano i 104.000 milioni di dollari elargiti per la cooperazione allo sviluppo. Il mio Paese, la Bolivia, ha ricevuto un importo superiore al 10% del proprio PIL in rimesse (1.100 milioni di dollari), e pari a un terzo delle sue esportazioni annuali di gas naturale.

Questo significa che i flussi migratori sono benèfici tanto per gli Europei quanto per noi del Terzo Mondo, seppur in maniera marginale, dal momento che allo stesso tempo perdiamo contingenti di milioni di unità di mano d’opera qualificata nelle quali, comunque, i nostri Stati, benché poveri, hanno investito risorse umane e finanziarie. Purtroppo, il progetto “direttiva rimpatrio” complica terribilmente questa realtà. Se comprendiamo che ogni Stato o gruppo di Stati possa definire le sue politiche migratorie in piena sovranità, non possiamo accettare che i diritti fondamentali della persona siano negati ai nostri compatrioti e fratelli latinoamericani. La “direttiva ritorno” prevede la possibilità d’una carcerazione dei migranti indocumentati fino a 18 mesi prima della loro espulsione o “allontanamento”, secondo il termine della direttiva. 18 mesi! Senza processo nè giustizia! Così come proposto oggi, il progetto di testo della Direttiva viola chiaramente gli articoli 2, 3, 5, 6,7,8 e 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948.

In particolare, l’articolo 13 della Dichiarazione recita: 1. “Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.

2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.”

E, peggio di tutto, esiste la possibilità che in questi centri d’internamento, dove, come sappiamo, si verificano depressioni, scioperi della fame, suicidi, siano incarcerati madri di famiglia e minori d’età, senza prendere in considerazione la loro situazione familiare o scolastica. Come possiamo accettare, senza reagire, che siano concentrati in tali campi i compatrioti e fratelli latinoamericani senza documenti, la cui grande maggioranza sta da anni lavorando ed integrandosi? Dov’è più il dovere di ingerenza umanitaria? Che n’è della libertà di circolare e della protezione contro le detenzioni arbitrarie?

Allo stesso tempo, l’Unione Europea cerca di convincere la Comunità Andina delle Nazioni (Bolivia, Colombia, Ecuador e Peru) a firmare un “Accordo d’Associazione” che contiene come suo terzo pilastro un Trattato di Libero Commercio, la cui natura ed il cui contenuto sono uguali a quelli imposti dagli Stati Uniti. Siamo sottoposti ad una grande pressione da parte della Commissione Europea affinché vengano da noi accettate condizioni di profonda liberalizzazione del commercio, dei servizi finanziari, della proprietà intellettuale e dei nostri servizi pubblici. Inoltre, a motivo della “protezione giuridica” siamo sottoposti a continue pressioni a causa del processo di nazionalizzazioni dell’acqua, del gas e delle telecomunicazioni realizzate nella giornata mondiale dei lavoratori. Chiedo allora: dove risiede la “sicurezza giuridica” per le nostre donne, gli adolescenti, i bambini ed i lavoratori che cercano orizzonti migliori in Europa?

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Promuovere la libertà di circolazione finanziaria e di merci mentre ci troviamo di fronte a incarceramenti senza processo per i nostri fratelli che cercano di circolare liberamente...... Questo è negare i fondamenti della libertà e dei diritti democratici.

A queste condizioni, nel caso in cui la “direttiva rimpatrio” venga approvata, ci troveremmo nell’impossibilità etica di approfondire le negoziazioni con l’Unione Europea e ci riserviamo il diritto di applicare nei confronti dei cittadini europei gli stessi obblighi in materia di visti che vengono imposti a noi boliviani dal primo di aprile 2007, sulla base del principio diplomatico della reciprocità. Non lo abbiamo esercitato fino ad ora, proprio nell’attesa di segnali positivi da parte dell’Unione Europea.

Il mondo, i suoi continenti, i suoi oceani ed i suoi poli conoscono importanti difficoltà globali: il riscaldamento climatico, l’inquinamento, la sparizione lenta ma sicura delle risorse energetiche e delle biodiversità, mentre allo stesso tempo aumentano la fame e la povertà in tutti i paesi, rendendo più fragili le nostre società. Fare degli emigranti, con o senza documenti, i capri espiatori di questi problemi globali non é una soluzione. Non corrisponde a nessuna realtà. I problemi di coesione sociale dei quali soffre l’Europa non sono imputabili agli emigranti ma sono il frutto del modello di sviluppo imposto dal Nord, che distrugge il pianeta e smembra le società degli uomini.

A nome del popolo Boliviano, di tutti i miei fratelli del continente e delle regioni del mondo quali il Maghreb ed i paesi africani, mi appello alla coscienza dei leaders e dei deputati europei, dei popoli, dei cittadini e degli attivisti d’Europa, affinché il testo della “direttiva rimpatrio” non venga approvato. La direttiva, così come la conosciamo oggi, é una direttiva della vergogna. Invito anche l’Unione Europea a elaborare nei prossimi mesi una politica sull’immigrazione rispettosa dei diritti umani, che permetta il mantenimento di questo dinamismo vantaggioso per entrambi i continenti e che onori, una volta per tutte, il tremendo debito storico, economico ed ecologico che i paesi europei hanno con la maggior parte del terzo mondo, affinché chiuda, una buona volta, le vene ancora aperte dell’America Latina. Oggi, non potete fallire nelle vostre “politiche di integrazione” così come avete fallito nella vostra pretesa “missione civilizzatrice” al tempo delle colonie.

Ricevete tutti Voi, autorità, europarlamentari, compagne e compagni , fraterni saluti dalla Bolivia. E, specialmente, la nostra solidarietà a tutti i “clandestini”.

(dal sito www.peacereporter.net) (17.06.2008)


LO STERMINIO DEGLI ZINGARI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE

di Mirella Tarpati*

La “giornata della memoria” fissata il 27 gennaio, anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche, vede unite nel ricordo delle sofferenze subite le vittime di una persecuzione che colpì non solo gli avversari politici dei regimi dittatoriali, in primo luogo i comunisti, ma anche quanti venivano considerati “corpi estranei” minaccianti l’integrità nazionale, in primo luogo gli ebrei e gli zingari.

L’intrecciarsi del destino degli zingari con quello degli ebrei non è un fatto recente. Cinque secoli fa, ed esattamente il 4 marzo 1499, i re cattolici Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia, bandirono dalla Spagna gli zingari, dopo aver bandito nel 1492 i mori e gli ebrei. Questo nell’intento di creare uno Stato unitario, in cui una coscienza nazionale sostenesse il potere, premessa fondamentale per l’instaurarsi delle monarchie assolute. L’esempio della Spagna fu seguito dagli altri Stati dell’Europa occidentale in un crescendo che giunse sino ad assicurare l’immunità a chi uccideva uno zingaro, come stabiliva la Dieta dell’Impero tenuta ad Augusta nell’anno 1500, o addirittura a premiare l’assassino, come nella Repubblica di Venezia. Né mancò la condanna delle Chiese cristiane verso questi propagatori di superstizioni, sui quali pesava il sospetto di appartenere all’Islam; e se gli ebrei erano i “deicidi”, nella mentalità popolare gli zingari erano i forgiatori dei chiodi della crocifissione di Gesù. Quanto le misure repressive fossero efficaci, lo dimostra un semplice dato statistico: se nei paesi dell’Europa orientale si stima che gli zingari siano circa otto milioni, nell’Europa occidentale essi non raggiungono i due milioni.

In questa lunga storia di persecuzioni la “novità” del nazismo fu la volontà esplicita, puntualmente programmata e metodicamente eseguita, di sterminare ebrei e zingari come popolo, una volontà di genocidio.

Si è molto discusso se la persecuzione degli zingari sotto il regime nazista e sotto i regimi fascisti degli Stati satelliti sia stata motivata dalla prevenzione e repressione della criminalità oppure da motivi razziali. La prima tesi, sostenuta anche a lungo dal governo della Repubblica Federale Tedesca per negare loro ogni riconoscimento e risarcimento, trova il suo fondamento nella qualifica di “asociali” attribuita agli zingari ancor prima dell’avvento di Hitler. Già nel 1899 era stato istituito a Monaco di Baviera un apposito ufficio (Zigeunerpolizeiste lle) con compiti di controllo e di schedatura, la cui competenza fu estesa nel 1926 a tutto il territorio nazionale; nel 1938 l’ufficio fu trasferito a Berlino presso la polizia criminale del Reich alle dirette dipendenze di Himmler.

Ma è possibile che 500.000 vittime, fra cui quasi la metà bambini, fossero tutte dei criminali? In realtà già fin dal 1935, in ottemperanza delle leggi di Norimberga “per la tutela del sangue e dell’onore tedeschi”, i teorici della razza includevano nelle misure razziali anche gli zingari. La questione, che si presentava controversa data la loro origine indiana e la lingua ariana parlata, fu affidata nel 1936 ad un apposito ufficio, il Centro di ricerche scientifiche sull’ereditarietà , diretto dal dott. Robert Ritter. Le conclusioni del dott. Ritter e della sua assistente Eva Justin segnarono il destino definitivo degli zingari: erano da considerarsi come un meticciato di diversi elementi razziali e pertanto pericolosi per la purezza del sangue tedesco: dovevano quindi essere sterilizzati e/o deportati nei campi di concentramento.

Le prime deportazioni degli zingari ebbero luogo già nel 1936 nel “campo di lavoro” di Dachau, destinato agli “asociali”, categoria in cui erano inclusi, oltre agli zingari, i detenuti politici, gli omosessuali e i Testimoni di Geova. Il 1° luglio giunse un primo trasporto di 170 zingari, seguito da altri tre. Nello stesso anno per “ripulire” Berlino in occasione delle Olimpiadi i Sinti della zona furono rinchiusi nel campo di Marzahn, da cui dovevano uscire solo per essere deportati ad Auschwitz. Nel 1937 crescente fu il numero dei deportati a Sachsenhausen, Sachsenburg, Lichtenberg, Dachau e, dopo l’annessione dell’Austria, a Mauthausen.

Il 27 settembre 1939 fu decisa da Heydrich la “soluzione finale” per ebrei e zingari: la detenzione in campi di concentramento non doveva essere che la premessa della loro estinzione. Un primo passo fu la deportazione dei 30.000 zingari viventi in Germania nella Polonia occupata, il cosiddetto Governatorato generale, rinchiudendoli dapprima nei ghetti di Lodz, Varsavia, Siedle, Radom e Belsec e poi nei Lager di Treblinka, Majdanek, Sobibor. Il Liquidierungsbefehl (ordine di liquidazione) del maggio 1941 dispose “l’uccisione di tutti gli indesiderabili dal punto di vista razziale e politico in quanto pericolosi per la sicurezza”, indicando quattro categorie principali: funzionari comunisti, asiatici inferiori, ebrei e zingari. Infine lo Auschwitzerlass (decreto di Auschwitz) del 16 dicembre 1942 dispose l’internamento di tutti gli zingari anche dai territori occupati. Nel febbraio 1943 fu predisposto ad Auschwitz-Birkenau il cosiddetto “campo per famiglie zingare” nel settore II E con 32 baracche, dove furono accolti in condizioni spaventose, come attestato dallo stesso comandante del campo Rudolf Hoess, i 20.946 Zingari regolarmente registrati. Nella notte del 2 agosto 1944 gli ultimi 2.897 sopravvissuti furono passati nelle camere a gas. Ma altri già li avevano preceduti: si sa di trasporti interi uccisi al loro arrivo per sospetto di epidemie. E molti altri trovarono la morte negli altri Lager: Flossenburg, Ravensbrück, Buchenwald, Bergen Belsen, Majdanek, Sobibor, Kulmhof…

L’Austria non aveva atteso queste disposizioni, ma fin dal 1939 aveva creato dei Lager appositi per gli zingari austriaci a Salisburgo e a Lackenbach, mentre quelli stranieri venivano detenuti a Mauthausen. In seguito molti furono avviati nei campi di sterminio. Dei 16.493 cittadini austriaci morti nei campi di concentramento, 4.097 erano ebrei e circa 6.000 zingari. Nel solo campo di Auschwitz fra il 31 marzo 1943 e il 22 gennaio 1944 furono internati 3.923 zingari austriaci, di cui il 42% era costituito da bambini.

Solo gli zingari polacchi non venivano deportati; temendo che potessero evadere, venivano massacrati sul posto: bambini scaraventati contro gli alberi per sfracellarne il cranio o gettati in aria per infilzarli con le baionette, donne incinte sventrate, altre con i seni recisi, fucilazioni in massa con sepoltura in fosse comuni anche dei feriti. Analoga sorte ebbero gli zingari nei territori occupati all’Est ad opera non solo delle SS, ma anche della Wehrmacht. In Boemia e in Moravia la popolazione zingara fu quasi completamente sterminata. In Ukraina la stessa polizia locale si fece parte attiva nell’individuare gli zingari e ucciderli. Del resto gli ukraini si distinsero anche per la loro ferocia come Kapo nei campi di sterminio. Nelle Repubbliche Baltiche la persecuzione ebbe inizio il 5 dicembre 1941 per ordine del comandate della Sicherheitspolizei Lohse: agli zingari, in quanti inaffidabili e propagatori di epidemie, doveva essere riservato lo stesso trattamento che agli ebrei. Singolare la testimonianza del vescovo di Riga, Mons. Springovics, il quale in una lettera diretta al papa Pio XII del 12 dicembre 1942 raccontava come i lettoni avessero accolto i tedeschi come liberatori dal dominio sovietico, ma ben presto avessero dovuto ricredersi: “L’atrocità della dottrina nazista si è mostrata in Lettonia in tutta la sua durezza e abominazione” . Sterminati “in modo crudelissimo” ebrei, zingari e malati mentali.

In generale nei territori sovietici occupati agivano le Einsatzgruppen (gruppi di assalto), unità adibite alla repressione. Particolarmente dura l’azione condotta in Crimea, dove gli zingari erano molto numerosi. Fra il 16 novembre e il 15 dicembre 1941 ne furono massacrati 824. Il quartiere zingaro di Sinferopol fu minato e fatto saltare in aria. Secondo una testimonianza, al processo di Norimberga “la pila dei cadaveri superava i bordi delle fosse e rimase così a lungo allo scoperto”.

In Slovacchia, Stato satellite del Reich, in un primo tempo solo gli uomini furono inglobati in squadre speciali di lavoro forzato. Quando la lotta partigiana si fece più forte e organizzata, gli zingari furono sospettati di connivenza e le “Guardie di Hlinka”, i fascisti slovacchi, compirono massacri orrendi, sterminando intere famiglie, spesso chiudendole nelle loro capanne per bruciare vivi bambini, donne, anziani. 

In Romania si ebbe la deportazione di quanti abitavano nei dintorni di Bucarest nella Transnistria, il territorio compreso fra il Dniester e il Bug, una terra bruciata dalla guerra dove, privati di ogni loro bene compresi i cavalli e i carrozzoni, perirono praticamente di fame. In Ungheria le “Croci stellate”, i miliziani fascisti, si fecero parte attiva nella deportazione degli zingari nei Lager polacchi. Invece in Bulgaria, pur occupata da truppe tedesche, il primo ministro Dimitar Pečev si oppose decisamente all’emanazione di leggi razziste e costrinse il re Boris a ritirare il decreto che già aveva firmato sotto la pressione degli occupanti.

Anche nei paesi occidentali ci furono gravi persecuzioni, soprattutto in Francia, dove già nel 1940, cioè prima dell’occupazione tedesca, il governo aveva creato numerosi campi di concentramento, vere e proprie anticamere di Auschwitz. Nell’agosto di quello stesso anno ne esistevano ventisei nel Sud e sedici nel Nord della Francia.

Dal Belgio si ebbe un solo trasporto, il convoglio Z del 1944, con cui furono deportati ad Auschwitz 351 Zingari e solo cinque tornarono indietro.

Nella Jugoslavia occupata il governatore tedesco Thurner poteva dichiarare nel 1942 che quello era l’unico paese dove si era riusciti a risolvere totalmente la questione ebrea e quella zingara. Nel dopoguerra la Commissione di Stato della Repubblica Federale e Popolare della Jugoslavia faceva ammontare a 600.000 le vittime e aveva individuato 289 fosse comuni. Da Belgrado fu deportato a Dachau anche il vescovo ortodosso Nikolaj Velimirović, l’unico vescovo rinchiuso nei Lager nazisti, a motivo che era zingaro. La Chiesa serba ortodossa lo ha dichiarato santo nel 1984. Ma forse il paese dove ci furono gli stermini più atroci fu la Croazia, proclamata Stato indipendente il 10 aprile 1941 sotto la guida di Ante Pavelić, capo degli ustaša, i fascisti croati. Subito il ministro dell’interno Andrja Artukovic proclamò lo sterminio degli avversari politici, degli ebrei, degli zingari e dei serbi, creando ben 71 campi di concentramento. La documentazione fu distrutta alla fine della guerra e ora si stanno faticosamente ricostruendo gli elenchi dei deportati. Fra gli zingari le vittime accertate fino al 1998 sono 2.406, di cui 840 bambini. Il campo più terribile era quello di Jasenovac, dove si uccidevano le persone con metodi barbari. Né mancarono campi destinati ai bambini, come quello di “rieducazione” a Jastrebarsko, dove fra l’aprile 1941 e il giugno 1942 morirono 3.336 bambini di varie etnie di età fra gli uno e i quattordici anni a causa degli stenti, ma anche degli “esperimenti medici” finiti poi con una pugnalata al cuore o una mazzata in testa. Nel campo per le donne di Stara Gradiska perirono oltre trecento bambini zingari. Direttrice del campo era Nada Luburic, moglie di Dinko Sakic, comandante del campo di Jasenovac. Alla fine della guerra i due si rifugiarono in Argentina per sfuggire al mandato di cattura emanato contro di loro nel 1945 dalla Commissione per i crimini di guerra. Solo nell’autunno 1998 sono stati estradati a Zagabria e sottoposti a processo. Nada Luburic è stata assolta, perché sarebbero mancati i testimoni. Dinko Sakic è stato riconosciuto colpevole delle torture e della morte di oltre 2.000 detenuti serbi, ebrei, zingari e antifascisti croati e condannato a vent’anni di reclusione.

In Italia non ci furono provvedimenti razziali contro gli zingari. Le leggi razziali, emanate nel 1938, riguardavano solo gli ebrei e i mulatti, cioè i figli degli italiani in Africa, dove vigeva il costume del madamato, cioè di avere una concubina africana. Ai loro figli fu negato il diritto alla cittadinanza italiana.

Verso gli zingari furono introdotte invece misure speciali di polizia a cominciare dal 1938, quando le famiglie nomadi, che vivevano lungo i confini orientali, furono deportate in Sardegna e in Basilicata, dove però furono lasciate libere a patto che non abbandonassero quelle regioni.

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940 una circolare del Ministero dell’Interno ordinava ai Prefetti di predisporre il concentramento degli zingari nomadi in appositi campi. L’ordine fu eseguito solo parzialmente per l’opposizione dei Comuni di accoglierli sul loro territorio; ma anche là dove esistevano, la sorveglianza era minima. Per i Rom stranieri furono creati due appositi campi a Tossiccia sul Gran Sasso in provincia di Teramo e ad Agnone in provincia di Isernia. Vi furono rinchiuse le famiglie dei Rom della Slovenia, divenuta provincia italiana. Ad esse si aggiunsero molti altri, che si consegnavano spontaneamente ai soldati italiani per sfuggire ai massacri degli ustaša. I due campi durarono fino all’8 settembre 1943, quando i carabinieri, che li avevano in custodia, si rifiutarono di consegnarli ai tedeschi e li lasciarono liberi di fuggire. Molti si rifugiarono in montagna ed alcuni si aggregarono ai partigiani. Si ha notizia di singole persone rinchiuse in altri campi, come per esempio a Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza, il più grande campo di concentramento italiano.

Quando è finita la guerra, abbiamo detto “mai più”, invece purtroppo oggi dobbiamo dire “ancora”. Le guerre intestine scoppiate nella ex Jugoslavia e i conseguenti programmi di “pulizia etnica” hanno visto in primo luogo tra le vittime i Rom delle Krajne, della Bosnia, della Erzegovina e del Kosovo. Sono continui gli episodi di violenza, dovuti soprattutto a gruppi neonazisti in Slovacchia, in Repubblica Ceca, in Romania, in Bulgaria (villaggi bruciati, gente picchiata a morte o scaraventata dalle finestre o annegata nei fiumi) tanto che l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) ha istituito un apposito ufficio a Varsavia per la tutela dei Rom e il Consiglio d’Europa ha approvato nel maggio 1997 un documento che condanna il razzismo contro gli zingari.

Le persecuzioni e la crisi economica del paesi dell’est ha provocato un forte esodo verso l’occidente, dove questo flusso di profughi non è stato certo accolto benevolmente. Anche l’Italia non è immune da episodi di violenza. La cronaca riporta episodi di fucilate contro gli accampamenti o di mine poste al loro ingresso, di tentativi di bruciare le roulottes, di giocattoli esplosivi regalati ai bambini. E che dire dello stillicidio di morti bianche dei bambini che muoiono di freddo o bruciati vivi nelle fatiscenti baracche, in cui le famiglie vivono spesso ammassate nei cosiddetti campi nomadi (per loro che non sono nomadi) in condizioni indegne di un essere umano, campi che sono valsi per l’Italia il 18 marzo 1999 una dura condanna di razzismo da parte del Comitato per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali (CERD) dell’ONU.

Per la giornata del ricordo del 27 gennaio 1999 l’Associazione Presencia gitana di Madrid ha lanciato un manifesto con una ruota spezzata su uno sfondo di camini dei forni crematori e la scritta “ma bister” (in lingua zingara “non dimenticare”) . Credo che questo monito dovrebbe essere sempre tenuto vivo proprio per non veder ripetersi gli orrori del passato.

 (dalla Newsletter di Ecumenici)

* Studiosa della cultura zingara, direttrice della prestigiosa rivista scientifica "Lacio Drom".
Opere di Mirella Karpati: (a cura di), Zingari ieri e oggi, Centro StudiZingari, Roma;
(con B. Levak), Rom sim. La tradizione dei Rom kalderasha, Centro studi zingari, Roma;
(a cura di, con Ezio Marcolungo), Chi sono gli zingari?, Edizioni Gruppo Abele, Torino.
(Indirizzi utili: Centro studi zingari, via dei Barbieri 22, 00186 Roma.)

BIBLIOGRAFIA

Nella collana europea “Interface”:

AA.VV., Gli Zingari nella Seconda guerra mondiale. 1 - Dalla “ricerca razziale” ai campi nazisti.
Libreria Anicia – Via San Francesco a Ripa, 62 – 00153 Roma
AA.VV., The Gypsies during the Second World War. 2 – In the shadow of the Swastika
University of Hertfordshire Press – College Lane – Hatfield – Hertfordshire


In Italia i militanti neofascisti sono più di cinquantamila

Nicola Tommasoli, un disegnatore grafico di 29 anni aggredito la notte del primo maggio da cinque giovani neofascisti nel centro storico di Verona, è morto ieri all'ospedale Borgo Trento. Tre dei suoi aggressori sono già stati arrestati e hanno confessato di aver partecipato al pestaggio. Erano tutti ultrà del Verona, legati al Veneto Fronte Skinheads, ed erano già  stati indagati per altre aggressioni razziste. Secondo un'informativa dei servizi segreti, in Italia sono attivi 65 gruppi ultrà  di ispirazione neonazista e neofascista, che mobilitano circa 55mila militanti.

El Paìs, Spagna


APPELLO CONTRO IL RAZZISMO

Siamo persone “storici, giuristi, antropologi, sociologi, filosofi, operatori culturali“ che da tempo si occupano di razzismo. Il nostro vissuto, i nostri studi e la nostra esperienza professionale ci hanno condotto ad analizzare i processi di diffusione del pregiudizio razzista e i meccanismi di attivazione del razzismo di massa. Per questo destano in noi vive preoccupazioni gli avvenimenti di questi giorni, le aggressioni agli insediamenti rom, le deportazioni, i roghi degenerati in veri e propri pogrom e le gravi misure preannunciate dal governo col pretesto di rispondere alla domanda di sicurezza posta da una parte della cittadinanza. Avvertiamo il pericolo che possa accadere qualcosa di terribile: qualcosa di nuovo ma non di inedito.
La violenza razzista non nasce oggi in Italia. Come nel resto dell’Europa, essa è stata, tra Otto e Novecento, un corollario della modernizzazione del Paese. Negli ultimi decenni è stata alimentata dagli effetti sociali della globalizzazione, a cominciare dall’incremento dei flussi migratori e dalle conseguenze degli enormi differenziali salariali. Con ogni probabilità , nel corso di questi venti anni è stata sottovalutata la gravità  di taluni fenomeni. Nonostante ripetuti allarmi, è stato banalizzato il diffondersi di mitologie neo-etniche e si è voluto ignorare il ritorno di ideologie razziste di chiara matrice nazifascista. Ma oggi si rischia un salto di qualità  nella misura in cui tendono a saltare i dispositivi di interdizione che hanno sin qui impedito il riaffermarsi di un senso comune razzista e di pratiche razziste di massa.
Gli avvenimenti di questi giorni, spesso amplificati e distorti dalla stampa, rischiano di riabilitare il razzismo come reazione legittima a comportamenti devianti e a minacce reali o presunte. Ma qualora nell’immaginario collettivo il razzismo cessasse di apparire una pratica censurabile per assumere i connotati di un «nuovo diritto», allora davvero varcheremmo una soglia cruciale, al di là  della quale potrebbero innescarsi processi non più governabili.
Vorremmo che questo allarme venisse raccolto da tutti, a cominciare dalle più alte cariche dello Stato, dagli amministratori locali, dagli insegnanti e dagli operatori dell’informazione. Non ci interessa in questa sede la polemica politica. Il pericolo ci appare troppo grave, tale da porre a repentaglio le fondamenta stesse della convivenza civile, come già  accadde nel secolo scorso e anche allora i rom furono tra le vittime designate della violenza razzista. Mai come in questi giorni ci è apparso chiaro come avesse ragione Primo Levi nel paventare la possibilità  che quell’atroce passato tornasse.
 
Marco Aime, Rita Bernardini, Alberto Burgio, Carlo Cartocci, Tullia Catalan, Enzo Collotti, Alessandro Dal Lago, Giuseppe Di Lello, Angelo D’Orsi, Giuseppe, Faso, Mercedes Frias, Gianluca Gabrielli, Clara Gallini, Pupa Garribba, Francesco Germinario, Patrizio Gonnella, Gianfranco Laccone, Maria Immacolata Macioti, Brunello Mantelli, Giovanni Miccoli, Giuseppe Mosconi, Grazia Naletto, Michele Nani, Salvatore Palidda, Marco Perduca, Pier Paolo Poggio, Carlo Postiglione, Enrico Pugliese, Annamaria Rivera, Rossella Ropa, Emilio Santoro, Katia Scannavini, Renate Siebert, Gianfranco Spadaccia, Elena Spinelli, Diacono Todeschini, Nicola Tranfaglia, Fulvio Vassallo Paleologo, Barbara Valmorin, Danilo Zolo.
 
Le adesioni possono essere inviate a: razzismodimassa@gmail.com

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