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Visti per Voi » Shame  
SHAME
di Andrea Pradella

Regia: Steve McQueen
Regno Unito, 2011
Voto: 7


Brandon è un affascinante scapolo newyorkese di successo, in grado di reggere con disarmante distacco lo sguardo di qualsiasi sconosciuta incontrata accidentalmente in metropolitana, in un locale o per le strade della grande metropoli.
Eppure il suo primo sguardo è fin da subito di tutt’altra natura, come si evince dalla lunghissima scena iniziale di lui disteso e volto a fissare il nulla,  bloccato nel proprio letto.
Shame è un film in cui la prigionia dell’anima viene brillantemente sottolineata da una colonna sonora potente che contrasta con la lentezza delle immagini, talvolta fredde e di artefatto stampo pubblicitario. Le parole sono misurate. Pochi i dialoghi. Il lessico, quando non volgare, risulta frammentato, interrotto, come incapace di scaturire liberamente. I piani sequenza (esageratamente lunghi) sottolineano a fatica “qualcos’altro” oltre l’elevato stato di forma dell’attore, in grado di correre  quattro isolati in circa tre minuti di ripresa senza stacchi. L’abuso che la regia compie nell’utilizzo di questa tecnica non “tiene il passo” di Fassbender, banalizzandone l’ottima e per nulla scontata caratterizzazione del suo personaggio.
Le riprese della sua nudità (molte e integrali) sono superflue rispetto all’intensità dello sguardo carico di angoscia e mai erotico. Il fastidio, verso una meccanica sterilità della sfera sessuale, mantiene a distanza anche chi guarda dall’idea di un piacere puro e sano. Solo la sincera maestria attraverso cui l’attore inscena il malessere di un uomo perso di fronte all’incapacità di amare (e farsi amare), sa colpire emozioni e turbamenti insiti in chi guarda.
Uno spettatore disincantato arriva a confondersi e a desiderare, insieme al protagonista, che avvenga l’interruzione di un climax la cui fine è il nulla: la perdita totale di se stessi. Ma affrontare paure ormai ammorbate può essere una sfida troppo ardua. Neanche l’infamia (“vergogna”) gridata dalla sorella, unico appiglio del protagonista ad un sentimento puro, sembra scalfire un dolore immobile e stantio.
Il film non regala una facile lettura di tutte le sfumature del degrado umano, ma fa sorridere il negativo e unanime verdetto della critica che stronca questa seconda pellicola del regista.
Evidentemente solo al cognome “Coppola” è concesso sbizzarrirsi in estenuanti tecnicismi fini a sè stessi.
Coppa Volpi a Fassbender a Venezia.



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