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editoriale » La crisi: dov'è l'uscita?  
IL TERRITORIO REGGIANO DALLA CRISI ALLA RIPRESA
di Boris

 

Venerdì 17 aprile a Reggio Emilia in occasione della rassegna “Mondoinpiazza” si è tenuto un incontro pubblico dal titolo: “LA CRISI: DOV’E’ L’USCITA?“ , una tavola rotonda alla quale hanno partecipato diversi delegati delle aziende locali, Amabile Carretti del dipartimento immigrazione CGIL e un rappresentante dell’ass. prov. Egiziana e Nigeriana. Non mancavano anche i massimi rappresentanti o loro portavoce delle associazioni imprenditoriali. Dalla CNA all’API e dalla Confindustria alla Lega delle Cooperative.
Uno scenario che prometteva bene soprattutto per il conduttore Andrea Ginzburg,  docente dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Purtroppo però non è stato così.

I primi interventi sono stati quelli delle operaie Khedidja Sayah della TECNOGAS e Maria Lina Bigoni della ARES, che hanno reso giustamente evidente il tentativo di espulsione delle donne dal lavoro attraverso piani di ristrutturazione, cosa significa in concreto essere in mobilità senza chiare prospettive e della facile ricattabilità dei lavoratori immigrati.

Amabile Carretti del Dip. Immigrazione CGIL, ha sottolineato come la crisi stia incidendo profondamente nel tessuto della nostra provincia e l’impossibilità di uscirne con le stesse modalità con cui vi si è entrati. Secondo dati INCA aggiornati al 26 marzo le richieste di sussidio di disoccupazione sono state 5752 a fronte del 2008 che erano 2600. Vi sono inoltre 17.000 persone in cassa integrazione di cui 15.000 ordinaria. Conclude il suo intervento lamentando come i vari “tavoli per le intese“ intrapresi, abbiano dato solo risultati parziali.

Dalle associazioni di categoria, invece, sono emersi alcuni dati e riflessioni importanti:
Innanzitutto si sono lamentati in generale del mancato aiuto economico da parte dello stato per superare la crisi e rilanciare gli investimenti. Ciò che invece non è stato fatto per le banche.

Giorgio Allari Segr. Prov. CNA lamenta il fatto che 60 mila aziende stanno assorbendo questa difficoltà con le proprie risorse. Giuseppe Domenichini, Direttore Generale Industriali RE, esordisce affermando che non si conosce un sistema economico migliore dell’attuale, che il calo del fatturato è del 37% e che la crisi offre alcuni vantaggi dati dal fatto che le materie prime e il greggio sono più bassi. Conclude il tutto elogiando il nostro sistema ammortizzatore sociale che tutti ci invidiano. Peccato però che, se non fosse stato per il sindacato e la sinistra in questo paese, sarebbe già stata abolita da parecchi anni.

Il top l’ha raggiunto Elisabetta Grassi, comunicazione e studi API:
I dati parlano di 120 imprese su 500 in cassa integrazione di cui il 20% prevede una riduzione del personale nei prossimi tre mesi dell’anno.  
Stanno lavorando attivamente, dato che per alcuni proprietari la cassa integrazione è vissuta come una vergogna e i problemi dei dipendenti sono da sempre i problemi del loro datore (!), per: sbloccare la finanziarizzazione delle imprese e la possibilità per i lavoratori di poter trasformare le ore di cassa integrazione in ore di formazione e di poter accedere, con maggiore facilità, alla cessione del 5° dello stipendio per quei lavoratori seriamente in difficoltà.
Alla faccia dell’aiuto…

QUALE SCENARIO E’ ALLORA NECESSARIO EVIDENZIARE RISPETTO LA CRISI REALE?

Diventa assai difficile interpretare ed affrontare l'attuale crisi partendo da una singola realtà, soprattutto senza collocarla in un contesto nazionale ed internazionale vigente. Senza prendere in considerazione la repentina contrazione dei mercati che direttamente o indirettamente evidenziano in modo ineluttabile una vera e propria crisi di sistema, la più grave dalla seconda guerra mondiale, che nella globalizzazione dei mercati senza regole e interventi “controllori” degli Stati Sovrani, ha posto il valore economico finanziario di mercato non solo al di sopra della produzione stessa delle merci, principio basilare del sistema capitalista stesso, ma anche dei soggetti umani-sociali che di quelle merci ne hanno bisogno per la loro stessa sopravvivenza.

Per questo ritengo limitato e superficiale liquidare l'attuale crisi dei mercati, imputandola solo a mere speculazioni immobiliari (mutui surprise) o alle eccessive retribuzioni dei manager delle più importanti banche ed agenzie finanziarie.

Questa non è solo una crisi finanziaria ma anche una crisi di sovrapproduzione che pone le radici nell’insindacabile principio della crescita illimitata, della riduzione progressiva dei salari e della produzioni delle merci slegate dalle reali necessità sociali.

Anche la crisi finanziaria viene da lontano, all'inizio degli anni 90' quando i ricchi titoli tecnologici e i loro successivi crack finanziari, avevano evidenziato un agguerrito sistema economico emergente, strutturato non sulla reale capacità produttiva e tecnologicamente innovativa dei loro prodotti ma su mere speculazioni finanziarie. Il tutto con la complicità dei cosiddetti governi tecnici che si sono susseguiti. Basta guardare gli interventi amministrativi attuati dopo i fallimenti di Parmalat, dei bound argentini o della Enron, negli Stati Uniti. Primi veri inascoltati campanelli d'allarme.

Su medesima filosofia si pone, nella nostra provincia, la questione del gruppo ceramico IRIS.

In questo contesto, non possiamo e non dobbiamo però eludere la questione dell'aumento esponenziale del credito al consumo e la progressiva trasformazione organizzativa che la grande industria, base fondante dell'economia nazionale, ha attuato in questi ultimi 20 anni, parzializzando la produzione anche e soprattutto delocalizzandola in modo sistemico, verso paesi a regime fiscale, contrattuale e salariale più favorevoli.


DI COSA ALLORA NON SI E’ DISCUSSO VERAMENTE?
Dobbiamo allora davvero ripartire dalla semplice e giusta valutazione reale delle aziende presenti sul territorio? Della loro capacità progettuale e tecnologicamente innovativa per far ripartire il tutto?
Basta davvero dire alle aziende che “devono smettere di produrre cestini di vimini e puntare su tecnologia e ricerca” per aver fatto del tutto la nostra parte?

Questi credo sia i punti da cui dobbiamo partire per evitare il ripetersi di quello che oggi miriamo superare.

Occorre realmente attuare una politica di nuova finanziarizzazione delle imprese, ma basta con contributi distribuiti a pioggia. E' giunto il momento di selezionare e le organizzazioni imprenditoriali, sindacali e degli Enti pubblici, possono giocare un ruolo fondamentale.
Altro che commissione in Prefettura per controllare la giusta liberatoria di finanziamento delle banche nei confronti delle imprese.

Anche nel campo delle politiche degli incentivi statali andrebbe rivisto qualcosa.
Se da un lato hanno la caratteristica di rispondere a momenti di crisi dei consumi, dall’altro mirano a prosciugare con il mito del “miglior prezzo” il risparmio accumulato saturando in breve tempo un mercato che avrebbe potuto essere distribuito nell’arco di diversi anni e consentendo così una pianificazione dello sviluppo più consono ed equilibrato. Basta guardare quello che è avvenuto per quanto riguarda gli incentivi FIAT dove entrambi i governi hanno dissipato ingenti risorse, destinabili a modelli innovativi tecnologicamente, e contribuito a bloccare contemporaneamente le future vendite. Peccato che per i lavoratori il prezzo da pagare sarebbe ed è stato poi il medesimo.

Si dovrebbe inoltre lavorare affinché siano innanzitutto isolate quelle imprese che sfruttano il lavoro nero, l'evasione fiscale e gli ammortizzatori sociali come indiretto ed illecito finanziamento che crea sfruttamento e maggior instabilità al mercato sia contrattuale che capitalistico (concorrenza sleale). Colpire e superare le imprese che sottraggono utili dai propri bilanci per destinarli ad investimenti  immobiliari, in campo puramente azionario speculativo o altri settori facilmente eludibile al controllo fiscale puntando a una ridistribuzione della ricchezza, mai come oggi necessaria al rilancio vero dei consumi.  

Vanno invece privilegiate quelle imprese che hanno costruito il proprio sviluppo industriale puntando alla formazione ed alla stabilizzazione dell'occupazione, chi ha investito negli anni passati nella ricerca anche in collaborazione con enti universitari e centri di sviluppo tecnologico. Una politica questa indirizzata alla ricerca e alla nascita di nuovi brevetti, che manca sicuramente al nostro paese.

In questo contesto, anche le istituzioni locali devo avere la possibilità di disporre di risorse da destinare anche localmente al settore della ricerca. Risorse per ora praticamente inesistenti che possono essere recuperate attraverso una seria riforma dello stato in chiave  federalista, chiaramente espressa dalla nostra costituzione e non puramente localistica.

Qualsiasi politica protezionistica può solo provocare un ulteriore irrigidimento del mercato, ma prevedere una tassazione sulle produzioni importate e realizzate da imprese locali con attività produttive estere, destinate a un fondo di solidarietà per i lavoratori dell'impresa stessa, credo non sia del tutto sbagliata. Solo guardando all'Europa degli uomini e delle donne con pari diritti e dignità è possibile avere un mercato equamente concorrenziale, controllato e scevro da ogni sfruttamento ed elusione dei diritti dei lavoratori.

Questo è quello che si dovrebbe fare ma che in realtà non se ne vede neanche l’ombra.

Quello che ha impressionato maggiormente in quell'incontro, è stato il non sentire alcuna proposta concreta di cambiamento provenire dai rappresentanti delle associazioni imprenditoriali. La medesima ricetta senza reali sbocchi. Un distacco dalla realtà produttiva ed economica che spaventa e che non può essere che interpretata come la volontà di far pagare questa crisi sempre e comunque alla medesima parte. Quella dei lavoratori.

Solo Ildo Cigarini presidente della Lega Cooperative di RE, ha provato ad affrontare da questo punto di vista la questione, riassumendo il tutto i cinque punti fondamentali:
1° Constatazione del fallimento di un mercato senza regole
2° Errore nel gestire l’emergenza e non progettare il futuro che dovrebbe comprendere un salario sociale.
3° Rilanciare i consumi interni (Italia/Europa) sganciandoci e non considerando solo ed unico il mercato USA
4° Sfruttare la crisi per rilanciare una coesione e la qualità della vita economica sociale.
5° Non massimizzare il profitto nel minor tempo possibile che si è dimostrato un’errore. Rilanciare un mercato più equo e contemporaneamente concorrenziale. Il che significa rilancio dei salari e del ruolo della persona nella vita sociale e produttiva.

Spiace però constatare che questi cinque punti fondamentali non solo non facciano più parte di molti statuti delle cooperative. E se sono scritti, in realtà o non vengono applicati o elusi consentendo di trasformare le cooperative stesse, in particolare quelli di servizi, in vere e proprie forme di sfruttamento legalizzato del lavoro dipendente.

Il trattato di Maastricht prevedeva il solo libero movimento delle merci e delle ricchezze a discapito della diffusione dei diritti in tutti gli stati membri dell'Europa. Il Trattato di Lisbona qualcosa in questo senso lo ha evidenziato ma più come “specchietto per le allodole” che per reale intendimento. La strada è ancora molto tortuosa e non è un caso se oggi, per esempio i cittadini dell'Est Europa o extracomunitari, sono ancora considerati di second'ordine e/o giustamente sfruttabili dai nostri imprenditori locali o immigrati nel loro paese d'origine.


 
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