Discorso del Papa Aula Magna dell’ Università di Regensburg Martedì, 12 settembre 2006
Tratto dal sito del Vaticano
È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei
pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel
periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività
di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora
il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le
singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso
c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra
i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze
dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e
naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una
volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori
di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera
università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a
cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè
del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci
rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel
tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme
anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo
fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera
anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse,
interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che
necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se
non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la
ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo
della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la
notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era
una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva –
di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario
e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere
fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo,
nell'insieme dell'università, era una convinzione
indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente,
quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury
(Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo,
forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un
persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi
presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di
Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i
suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non
quelli del suo interlocutore persiano. Il dialogo si estende su tutto
l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si
sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente
anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o
tre "ordini di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Di ciò
non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento –
piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto
del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di
partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (d???e??? – controversia) edito dal prof.
Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihad, della guerra santa.
Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna
costrizione nelle cose di fede". È una
delle sure del periodo iniziale, dicono gli esperti, in cui Maometto stesso
era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore
conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel
Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la
differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli
"increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da
stupirci, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda
centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo:
"Mostrami pure ciò che Maometto
ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e
disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede
che egli predicava". L'imperatore,
dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le
ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa
irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura
dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo
ragione, „s?`? ????”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto
dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha
bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non
invece della violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole
non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire
né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di
morte…".
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la
conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario
alla natura di Dio. L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore,
come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è
evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente
trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie,
fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita
un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn
Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua
stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se
fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche
l'idolatria.
A questo puntosi apre, nella
comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un
dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire
contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un
pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si
manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e
ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo
versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra
Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In
principio era il ?????". È questa proprio la stessa parola che usa
l'imperatore: Dio agisce „s?`? ????”, con logos. Logos significa insieme
ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma,
appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul
concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e
tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro
sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista.
L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice
caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie
dell'Asia e che, insogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa
in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere
interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un
avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi
greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai
era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente,
che distacca questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi
affermando soltanto il suo "Io sono", il suo essere, è, nei confronti del
mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di
Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il
roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una nuova maturità
durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto,
si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una
semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa
nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si
esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero
soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la
durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con
la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico,
la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro
alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che
si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi
noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata
in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice (da valutare forse
in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti
una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo
della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in
un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto
un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede
e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo
veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla
natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non
agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo,
si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra
spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto
intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una
impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi
sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la
voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù
della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò
che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che,
senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare
fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e
al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del
bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali
rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue
decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre
attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito
creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come
dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze
sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto
da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per
il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro
ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato
come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro
favore.
Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per
questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia
esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui il ?at?e?a“ – un culto
che?culto cristiano è, come dice ancora Paolo „?????? concorda con il Verbo
eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto
tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco,
è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia
delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che
ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che
il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo
importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente
decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro,
al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha
creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può
chiamare Europa.
Alla tesi che il
patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della
fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del
cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo
crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre
onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse
tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente
distinte l'una dall'altra.
La
deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma
del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i
riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della
fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad
una determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare
che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente
parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un
sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale
della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica.
La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da
cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se
stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per
far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con
una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato
la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al
tutto della realtà.
La teologia liberale
del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della
deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack.
Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività
accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia
cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra
il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Nella mia
prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento e non
intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in
luce almeno brevemente la novità che caratterizzavaquesta seconda onda di
deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in
Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che
verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle
ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero
culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al
culto in favore della morale.
In definitiva, Egli viene rappresentato come
padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di
riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo,
appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio
la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso,
l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema
nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è
qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò
che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione
della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile
nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna
della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel
frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze
naturali.
Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve,
su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il
successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura
matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che
rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa:
questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento platonico nel
concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della
utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la
possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce
la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle
circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così
strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto
platonico.
Questo comporta due orientamenti
fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza
derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di
scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con
questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come
la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di
avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre
riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il
problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o
pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del
raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in
questione.
Tornerò ancora su questo
argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce
di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina
"scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma
dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora
è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli
interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso
dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare
posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in
questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto
decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente
sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica
istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro
forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità
personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo costatiamo
nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie
che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a
tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano
più.
Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle
regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è
semplicemente insufficiente.
Prima di
giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo
accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si
diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità
delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi
nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe
vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare
indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il
semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro
rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia
grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in
lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un
contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento.
Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che
non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo
che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della
ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne
sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a
grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non
include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a
prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello
che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto
senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha
aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati
donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato,
Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di
un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello
spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione;
si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e
dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità
dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e
dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e
fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione
autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e
dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la
teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come
teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede,
deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle
scienze.
Solo così diventiamo anche capaci
di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui
abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente
l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da
essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del
mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della
ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di
fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle
sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia,
la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo
elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un
interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa
stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la
corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella
natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma
la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata
dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e
alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia,
l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose
dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte
di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione
inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una
parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte
opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben
comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per
il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo
denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un
grande danno".
L'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione
contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe
subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della
ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui
una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella
disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il
logos, è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla
sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo
grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo
delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo,
è il grande compito dell'università.