Una riflessione sul caso Breivik
di Maurizio Montanari
Farà alquanto discutere la condanna a 21 anni inflitta a Breivik, il mostro del nord Europa, il serial killer che ha scambiato l’isola di Utoya per un parcheggio di un qualunque ‘Mall’ statunitense dove sparare sui passanti. Sano di mente e condannato ad una pena da molti ritenuta mite. Un pluriassassino cinico e feroce, con evidente struttura paranoica e una personalità che ritenere affetta da disturbo narcisisitico di personalità e quanto meno riduttivo.
Una macchina con una facilità impressionante di passaggio all’atto, privo di qualsiasi brandello di senso di colpa, con la delirante convinzione di essere depositario di un qualche ruolo messianico di ‘pulizia’ dell’Europa da ogni infiltrazione barbaro islamica. Questo per quel che attiene alla clinica personale, alla struttura del singolo.
Di queste ovvietà, sono e saranno pieni i telegiornali, zeppi di criminologi, sociologi, esperti del dolore.
Saremmo stupidi se ci limitassimo alla sola clinica del singolo, tenendo chiuso lo studio, specie in presenza di fatti così gravi e così eclatanti.
Breivik è un figlio di questa società attuale, paranoica, impoverita, infastidita della legge e avvezza al capriccio, incapace di indagare le cause profonde del disagio del proprio territorio, che preferisce delocalizzare e individuare nel diverso di turno il capro che le può permettere di rimandare i conti con quello che non va nel proprio corpo sociale. Breivk è un uomo nel bunker: rumina odio per il diverso, per il migrante, per colore e religioni diverse. Nemico di tutto quello che, nel suo malato sentire, non è controllabile e dunque è foriero di disordine.
Ma il ghignante nordico non è estraneo al nostro discorso sociale, e prima lo si metabolizza, meno ipocrisie racconteremo ai posteri.
I disabili ai quali noi fottiamo il parcheggio, i migranti eletti a causa di ogni possibile sventura (dalla crisi economica, alle malattie, agli stupri, al lavoro mancante), i vagoni dei treni disinfettati. I disperati ricacciati a morire nei campi libici, i bambini affetti dalla sindrome di down ai quali è negato l’accesso in alcuni bar. La capillare e pervicace campagna dei media nel tinteggiare ogni abitate del medio oriente come terrorista o amico di terroristi. Breivik ha semplicemente incanalato tutto questo liquame in un canale fognario più ampio, erigendo se stesso a bastione per difendere una presunta e incontaminata civiltà. Breivik ha semplicemente portato al di la quell’odio che scorre sotto soglia, alimentato dalla quotidiana banalità del male. E’ un figlio del nostro tempo sfuggito alla mano del tempo che lo ha generato e costituito, come il Golem della leggenda sfugge al Rabbino..
Nel film GostBusther, i quattro acchiappafantasmi mostrano bene come il mostro distruttore che si aggira per New York, sia in realtà il prodotto di quel fiume nero di odio e malumore che scorre sotto le fondamenta della città. Questo carnefice dal ghigno strafottente, riceve il plauso, le lettere di ammirazione, di tanti piccoli e oscuri carnefici potenziali chè, al riparo nelle loro oscure vite, covano e coltivano i medesimi semi di odio del loro paladino. Himmler era un commerciante di vini, Heicmann un uomo che sarebbe rimasto confuso nella folla per tutta la sua vita. I piccoli boia della guerra di Jugoslavia sono stati per anni banali cittadini malevoli gonfi di odio. Hanno seguito la scia di individui certamente paranoici e assassini, che hanno però incarnato alla lettera e ingrandito come con un pantografo i loro più bassi, veri e nascosti istinti di odio.
La verità dunque non è leggibile in maniera univoca.
Se da un lato la clinica ci dice che Breivik è effettivamente un paranoico delirante, dall’altro egli dice e reca il marchio di una verità. La verità di non essere fuori contesto, sganciato dal legame sociale. Ha un marchio di fabbrica chiaro e identificabile. La verità è quella di essersi fatto portavoce, senza che nessuno lo richiedesse, di un sentire comune che avanza da tempo in Europa. Un sentire violento e fobico, pensiamo all’Ungheria, libero di esprimersi laddove la Legge non ha prodotto quegli anticorpi necessari a mantenerlo isolato e represso. Rintuzzato in corpi sociali più sani, nei quali la Legge individua, incanala e circoscrive queste isole di follia e di odio.
Un odio che non è un elemento alienato dal corpo sociale, anzi ne costituisce un motore essenziale da millenni.
La corte ha detto: è capace di intendere e di volere. La richiesta insistente della ‘garanzia di follia’, dell’etichetta che mezzo mondo si attendeva, è mossa dalle angosce dell'uomo contemporaneo, cresciuto nel mito dell'eterna giovinezza garantita dall'avvento della chimica, e della morte e della vecchiaia come eventi procrastinabili. Si è chiesto vanamente alla psicologia e alla psichiatria di convalidare il tranquillizzante senso comune: quello che vuole il male (malattie, violenze, omicidi) delocalizzato nell’altro (il diverso che in quel momento si trova ad occupare la transitoria posizione del 'barbaro' inteso alla greca). E se la violenza omicida proviene da un nostro simile, deve per forza essere viziato da una ‘patologia’. Uccidere senza un ‘vizio’ di mente non può appartenere al senso comune senza spaventare. Si deve individuare una torsione dell'animo, una turba della psiche. Insomma, qualcosa che ci permetta di non scorgere nell’omicida quella normalità che fa parte di noi.
Un ultimo appunto a quel piccolo e superficiale mondo benpensante che ha subito gridato alla scandalo per la pena poco severa. Ci sono alcune considerazioni che, se analizzate, dovrebbero zittire questo starnazzare giustizialista fuori luogo.
La corte di quel paese ha ritenuto Breivik sano di mente. Ha applicato il massimo della pena che quel mondo prevede. Sono mondi a noi sconosciuti, nei quale il codice penale agisce con lo scopo di reinserire il reo nella società. Il legislatore forse non aveva conosciuto tali mostruosità, o forse si tratta più probabilmente di una società ancora capace di non abusare della diagnosi di infermità mentale.
I soloni che gridano all’ergastolo, dimenticano che con ogni probabilità Breivik sconterà l’intera pena, fatto pressochè sconosciuto in Italia.
La richiesta a più voci di ‘internamento’ (che fa molto populista e molto macho) viene sovente fatta da chi non conosce le conseguenze balzane e disastrose dell’applicazione della ‘clinica’ nel nostro paese. Un paese nel quale con il facile uso della ‘seminfermità’ mentale più di un assassino l’ha fatta franca, vedendo molto prima di Breivik il sole senza scacchi. Il medesimo paese che ancora non riesce, non vuole, non ha il coraggio o lo stomaco di accettare che ancora sono in via di smantellamento gli OPG, ospedali psichiatrici giudiziari, ultima grande vergogna d’Europa. Lazzaretti nei quali rottami umani sono rinchiusi e lasciati abbruttire e poi morire, in molti casi senza colpa alcuna, se non quella di essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, in una vita più sfigata e solitaria di quella che avrebbe dovuto essere. Dunque, mentre siamo nella nostre belle piazze a cercare un po’ di fresco, e ascoltiamo un solone locale gridare allo scandalo, chiedendo una pena più severa per il mostro del nord, quando non la pena di morte, provate ad interrogarlo su alcune questioni: cosa ne pensa dei diversi, dei migranti, dei disabili. Delle religioni che non hanno la croce. Di chi è la responsabilità della crisi economica attuale. Indagate se magari, costui non fa parte di quel nutrito gruppo che ritiene che l’Olocausto, in fondo, sia anche un po’ colpa degli ebrei. Se anche lui, chissà, ritiene che in fondo, i palestinesi sono tutti terroristi. Cosa ne pensa della violenza sulle donne, della soppressione dell’altro. Vedrete che, in buona parte dei casi, vi dirà a bassa voce le medesime cose che Breivik, l’assassino, ha pomposamente dichiarato alla corte. Quell’omuncolo col quale parlerete, è una milionesima parte del mostro del Nord.