La storia della Mafia Siciliana
Capitolo 13 - 1970 – 1982: Banchieri, faccendieri e massoni
Il crack di Michele Sindona
Un importante ramo delle inchieste di cui si occupò Falcone sul finire degli anni ‘ 70, e sul quale lavorò a stretto contatto con la Procura di Milano, riguardava l’intreccio tra politica, economia e mafia. Un reticolo che coinvolgeva personalità del paese talmente di spicco, da sospettare conseguenze in grado di minacciare le istituzioni democratiche. Figura centrale della vicenda era Michele Sindona, nativo di Patti (Messina), che negli anni sessanta si distinse come uno dei banchieri più irruenti del panorama finanziario mondiale. Sindona fu molto di più che un semplice squalo della finanza, perché riuscì a costruirsi un impero annodando tra loro gli intricati fili del potere politico (DC), della massoneria, del Vaticano e della mafia. Un curriculum poco onorevole secondo molti, ma illustri politici come Giulio Andreotti non sottilizzarono troppo e giunsero a definirlo “…Il salvatore della lira…”. 1
All’apice della sua carriera il banchiere siciliano controllava un impressionante numero di istituti bancari e svariati soggetti dell’elite del mondo finanziario, nonché circa la metà dei titoli quotati a Piazza Affari. Il suo raggio d’azione spaziava dalla gestione degli investimenti esteri del Vaticano attraverso la Banca dello IOR, e al finanziamento dei più potenti personaggi politici della DC del tempo.
Quando nel 1974, il suo impero vacilla a causa del fallimento di una delle banche più grandi degli Stai Uniti (la Franklin National Bank di Long Island) da lui diretta, il governo americano lo accusa di bancarotta. Nel 1979 per sfuggire alla giustizia statunitense, si rifugia in Sicilia ove vi rimane per circa 3 mesi. Una fuga che si condirà di mistero, perché fu inscenato un falso rapimento di Sindona da parte di un sedicente e sconosciuto gruppo terroristico di sinistra dal curioso nome di “Comitato Proletario Eversivo per una Vita Migliore“. Con l’aiuto dell’elite mafiosa dei due mondi Inzerillo-Gambino-Spatola-Bontate, si ritiene che organizzò il suo finto sequestro per estorcere al potere politico italiano un aiuto nel salvataggio del suo agonizzante impero economico. Un regno che includeva cospicui guadagni anche di Cosa Nostra. Nonostante la messa in scena venne arricchita da un reale colpo di pistola sparato alla coscia sinistra di Sindona probabilmente sotto anestesia, il piano fallì. (2)
Pressato anche dalla giustizia italiana che accusò il faccendiere quale mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, (avvenuto secondo i giudici per mano di un killer legato alla mafia), liquidatore di uno dei suoi istituti in fallimento, Sindona fu “liberato” dai suoi sequestratori e ricomparve negli Stati Uniti per consegnarsi all’FBI. Questa versione dei fatti venne sempre contestata dal banchiere che si dichiarò vittima di un complotto, ma fu soprattutto la linea del potere politico a rendere torbida una vicenda sulla quale non venne mai fatta completa luce.
Significativo fu il contenuto della richiesta di condanna per mano del Pubblico Ministero Guido Viola, che nella requisitoria di 221 pagine in cui si accusa Sindona di essere il mandante dell’omicidio Ambrosoli scrisse: “E’ una storia di intrighi, di minacce, di estorsioni, di violenze, di intimidazioni, di collusioni con ambienti politici, massonici e mafiosi...ne scaturisce uno spaccato estremamente inquietante della realtà italiana su cui occorrerebbe attentamente meditare… Di fronte agli sforzi e alle difficoltà di quanti erano impegnati a ricercare la verità per assicurare alla giustizia i responsabili di gravi reati, si sono sviluppate spesso manovre occulte, subdole, losche, a volte impalpabili… Finanzieri senza scrupoli, avventurieri della peggiore risma, faccendieri, magistrati poco corretti, mafiosi, esponenti massonici, delinquenti comuni, tutti spinti dalla potenza del denaro e dal germe della corruzione, si sono mossi freneticamente sullo sfondo di questa vicenda…”. 3
Ma quel che è ancora più grave è il ruolo forse esercitato o solo promesso, nel perfezionamento del piano di salvataggio di Sindona, da taluni esponenti politici di primo piano. Grazie al lavoro svolto da “padrini illustri“ come Giulio Andreotti e il gran maestro della P2 Licio Gelli, Sindona aveva il diritto di sentirsi protetto e sicuro dell’impunità. Un onesto servitore della giustizia quale Giorgio Ambrosoli fu lasciato solo, l’unico che con Mario Sarcinelli seppe dire di no ad un piano di salvataggio scandaloso. In un modo o nell’altro entrambi avrebbero pagato per la loro onesta fermezza: l’uno con la vita, l’altro con il coinvolgimento in una allucinante vicenda giudiziaria. 4
Il crack di Sindona nella sostanza, non rappresenta la semplice sventura di un affarista: è i il culmine di un certo modo di fare finanza, politica ed economia. Il PM Viola sempre su Sindona sentenzierà: “Per la sua fantasia criminale, per la sua abilità mistificatoria, per i modi contorti di agire, per la fredda determinazione con cui era solito portare a termine i suoi disegni, Sindona è indubbiamente uno dei criminali socialmente più pericolosi che la storia giudiziaria ricordi. Le componenti costanti che hanno animato le sue azioni, in tutti questi anni, sono state quelle della vendetta, della ritorsione, della menzogna. Fornito di un’intelligenza viva, ma dedita al male, Sindona è un uomo pronto a tutto, a truffare, a ricattare, a ingannare, a minacciare, a mistificare la realtà, a tramare, a uccidere. Un uomo che non si è fermato di fronte a niente, animato solo dalla voglia di rivincita, a tutti i costi, pronto a macchiarsi dei più terribili delitti pur di affermare se stesso. E’ giunto il tempo che egli risponda dei suoi crimini dinanzi alla giustizia”. 5
Michele Sindona venne condannato ed estradato in Italia e poi rinchiuso nel super carcere di Voghera. Il 20 marzo 1986 dopo aver consumato del caffé da un contenitore, cadde sul pavimento della cella in cui era detenuto. Le sue ultime parole sussurrate ai primi soccorritori furono “Mi hanno avvelenato!!!“. Nei residui di caffé vennero rinvenute consistenti tracce di cianuro, ma resistettero nel tempo le voci di chi sosteneva che Sindona si fosse suicidato.
Il banchiere di Patti morì dopo oltre 2 giorni di agonia. 6
Prigioniero vero o presunto, come suicida o assassinato, quei mesi trascorsi in Sicilia celano accordi tra mafia, massoneria e politica in grado di condizionare gli eventi degli anni a seguire, dai delitti politici degli anni ’80, alle stragi mafiose degli anni ’90, fino alle connessioni tra finanza, Cosa Nostra e potere politico che gravano ancora oggi.
Un “eroe borghese”
La storia di Giorgio Ambrosoli costituisce oggi più che in passato, una autentica lezione di onestà e coraggio. La figura che ci viene consegnata dal suo esempio è quella di un solitario baluardo della legalità, che aggrappato alla propria integrità morale, scelse di servire il proprio paese combattendo il vasto universo di corruzione criminale colluso a Cosa Nostra eretto da Michele Sindona. Egli fu fedele ad uno Stato che al contrario, si mostrò ambiguamente titubante nel sostenere con forza la sua battaglia, lasciando intendere come diversi suoi illustri esponenti risultassero coinvolti in quel intreccio.
Giorgio Ambrosoli nasce il 17 ottobre del 1933 a Milano. Primo di tre nascituri di una famiglia facoltosa, dal padre laureato in legge divenuto poi funzionario di banca, riceve una educazione fondata su rigidi principi e profondamente cattolica. Le simpatie monarchiche dell’epoca degli studi si consolidano in una cultura liberale anni dopo. Una maturazione che fusa alle origini borghesi e cattoliche, gli forgeranno una profonda diffidenza verso il mondo politico.
Un sentimento che lo scrittore Corrado Stajano non mancherà di sottolineare nel bellissimo libro dedicato alla vita di Ambrosoli, “Un eroe borghese”, (Einaudi, Torino 1991): “La politica, per lui, è ancora peggio dell’arte del possibile, è solo l’arte dell’intrigo, dell’imbroglio, della sopraffazione. La politica è la maledetta politica, i partiti sono i responsabili della degradazione nazionale, nemici dell’interesse collettivo, sempre dalla parte dell’interesse particolare, anche se inverecondo, anche se contrario a ogni codice naturale, morale, penale. Uomo dello Stato proverà su di sé che cosa significa avere nemiche le istituzioni e alleati solo uomini anomali e senza potere”.
Conseguita la laurea in legge all’Università Statale, non seguirà i consigli paterni che lo indirizzavano verso un sicuro futuro in ambito bancario, e si specializzerà in diritto fallimentare. La famiglia costituirà uno dei punti fermi della sua vita: sposerà Annalori e da lei avrà tra figli di cui sarà per sempre orgoglioso. Anche le soddisfazioni professionali non tardano ad arrivare, e riceverà il suo primo grosso incarico gestendo il fallimento della Società Finanziaria Italiana, un crack di circa settanta miliardi di lire.
Tutta la vita in un incarico
La serietà e la professionalità espressa in quella occasione, lo porranno in evidenza agli occhi di Guido Carli, l’allora Governatore della Banca d’Italia. Quando si profila in tutta la sua gravità e complessità, l’enorme groviglio finanziario orchestrato da Sindona, Ambrosoli riceve da Carli l’incarico ufficiale di farvi luce. E’ il 24 settembre del 1974, una data che segnerà il suo destino.
Servirà breve tempo affinché Ambrosoli realizzi dell’ampio margine di manovra di cui ha goduto il finanziere siciliano. Una libertà d’azione mascherata da impunità e complicità fornite direttamente da ambiti istituzionali. Il fascicolo Sindona è destinato ad ingrossarsi giorno dopo giorno, raccogliendo documenti che conducono a legami con figure politiche della DC (Andreotti, Piccoli, e Fanfani), della Chiesa (cardinale Marcinkus e la Banca dello IOR), della massoneria (Licio Gelli e la P2), della finanza (Cuccia), della mafia siciliana e persino della magistratura.
Dopo pochi mesi dall’incarico di liquidatore della Banca Privata Italiana, la moglie Annalori troverà per caso una lettera che il marito aveva a lei indirizzato: “E’ indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese…A quarant’anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito”. Trattasi di un autentico testamento nel nome dell’impegno civile al servizio della legalità per il bene del paese. Un gesto sincero e consapevole, privo di retorica e protagonismo. Parole da divulgare nelle scuole, da diffondere a profusione. Righe che esprimono un immenso carico di valori sempre più raro. Ambrosoli è perfettamente conscio di quale ginepraio di potere e malaffare lo circondi, del pericolo che su di lui incombe, ma senza timori o rimpianti, esprime tutto l’orgoglio di chi con fierezza lavora per il bene comune privo di ambizioni personali.
Fermezza, solitudine e morte
Nei cinque anni in cui sarà al timone della Banca Privata Italiana, le difficoltà, le pressioni ed i tentativi di corromperlo per frenarne l’azione del primo periodo, prenderanno la forma di un autentico muro istituzionale teso a contrastarlo con ogni mezzo. Sindona metterà in campo tutto il suo potere per scongiurare le potenziali conseguenze penali a suo carico frutto del lavoro di Ambrosoli, arruolando altri influenti sodali pronti a sostenerlo. Per comprendere al meglio l’impresa titanica che si prospettava ad Ambrosoli, occorre ricordare come Sindona in quel tempo risultasse una sorta di Re Mida della finanza. Attorno al suo nome ruotavano i maggiori centri di potere del paese. Ambrosoli invece contava un elenco di sostenitori assai meno numeroso e autorevole. Una delle poche figure che rimarranno al suo fianco senza tentennamenti sarà il maresciallo Silvio Novembre, un integerrimo sotto ufficiale della Guardia di Finanza. Attorno al curatore si esercita una azione a tenaglia, e la stessa direzione della Banca d’Italia sembra fare la sua parte nella manovra di isolamento quando due suoi dirigenti, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, verranno colpiti da una ombrosa inchiesta giudiziaria, per molti orchestrata con il fine di eliminare due collaboratori di Ambrosoli. Il distacco istituzionale sfuma in forme di autentiche minacce alla incolumità fisica del curatore e dei suoi familiari.
Nulla però lo fermerà dal portare a termine il suo incarico, e dopo cinque anni durissimi di intenso lavoro, Giorgio Ambrosoli si oppone al salvataggio della banca di Sindona, ma non solo. L’operato dell’avvocato milanese costituirà le fondamenta per le inchieste che condanneranno il banchiere di Patti sia in sede penale che civile. Collaborando con l’FBI e la giustizia statunitense, Ambrosoli assume un ruolo chiave anche nell’inchiesta sul fallimento della Franklin National Bank, la Waterloo d’oltre oceano per l’impero di Sindona. Il giorno precedente il suo assassinio, l’avvocato aveva deposto in qualità di teste al Palazzo di Giustizia di Milano, proprio in relazione ad una rogatoria internazionale impartita dalla magistratura americana.
Giunge l’11 luglio del 1979. Dopo aver trascorso una serata in compagnia di amici assistendo ad un match di pugilato in televisione, Ambrosoli sta rincasando poco dopo la mezzanotte. Egli è solo, vulnerabile, senza protezione alcuna. William Aricò, un killer italo americano gli si avvicina attirando l’attenzione con: “Mi scusi, signor Ambrosoli”. Sono le ultime parole che l’avvocato sentirà pronunciare. Un istante dopo, la magnum 357 dell’omicida verrà scaricata sulla vittima. Per questo delitto saranno condannati a vita Michele Sindona e Robert Venetucci, un uomo d’onore italo americano coinvolto nel traffico di droga. Una volta in carcere il destino di Sindona ebbe l’esito dalle matrici oscure che abbiamo visto. L’ultimo atto di una vita di intrighi e di potere.
Neppure il giorno delle esequie segnò una discontinuità con l’isolamento istituzionale di cui fu oggetto Giorgio Ambrosoli. La cerimonia funebre venne disertata dalle autorità, e nessun rappresentante dello Stato vi partecipò. L’avvocato di Milano aveva dedicato gli ultimi anni della sua vita fino a sacrificarla per servire il proprio paese, ma niente di tutto questo sembrò toccare la dignità di coloro che per l’identico servigio ma con doveri ben più onerosi e obblighi remunerati, avevano giurato sulla nostra Costituzione.
Un esempio troppo spesso dimenticato
Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, ha deciso di raccontare la storia del padre in un toccante libro il cui titolo prende spunto da una lettera testamento lasciatagli dal genitore: “Qualunque cosa succeda”, (Sironi Editore, Milano 2009). La narrazione è vivida, condita di particolari inediti che giungono da testimonianze dirette:”Toccare con mano la disinvoltura con la quale lo IOR ha operato insieme a Sindona genera in papà una sorta di imbarazzo, quasi una crisi della dimensione spirituale. Ma per noi continua a volere una formazione religiosa”.
Ad oltre trent’anni di distanza Giorgio Ambrosoli rappresenta un modello mai celebrato a sufficienza. Spesso nel rievocare quella stagione di banchieri corrotti, massoni deviati, religiosi criminali, politici collusi e mafiosi, si finisce per accennare al suo nome solamente quale vittima di un sistema delittuoso di potere. Marginale lo spazio che viene dedicato al valore inestimabile della sua condotta. Quasi secondario l’accento che viene posto alla sua purezza di spirito nel difendere la legalità per il bene di tutti, e alla risolutezza con cui venne manifestata. Lacune rievocative che proprio nel mondo politico hanno trovato massima espressione. Un atteggiamento forse non dettato dal caso, visto che a posteriori è proprio dalla politica che sono giunti esempi in serie non supportati dalle medesime virtù, da “Mani pulite” agli episodi di corruzione e pubblico malaffare contemporanei, scanditi con frequenza quasi quotidiana.
Il dovere di ognuno che invece nei valori di Ambrosoli si riconosce, è quello di esaltarne il ricordo, nella speranza che altri e sempre più numerosi, raccolgano il suo testimone.
Morte di un altro faccendiere: Roberto Calvi
Il 18 giugno del 1982 Roberto Calvi, un altro tra i più celebri banchieri del nostro paese, e come Sindona iscritto alla Loggia Massonica P2, viene ritrovato privo di vita impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra. Nato a Milano il 13 aprile del 1920, entra sin dal 1947 nel Banco Ambrosiano come impiegato. Il Banco Ambrosiano era una banca privata che operava a stretto contatto con l’Istituto per le Opere Religiose, più notoriamente conosciuto come IOR, la Banca di Stato del Vaticano e uno degli istituti finanziari più potenti del pianeta. 7 In quegli anni, a tenere le redini delle finanze vaticane, provvedeva monsignor Paul Casimir Marcinkus , americano dell’Illinois con origini Lituane. Dopo una carriera nell’arcidiocesi di Chicago, venne trasferito a Roma agli inizi degli anni ’50, per completare la sua ascesa divenendo negli anni ‘70 presidente della Banca Vaticana. Il nome di Marcinkus è stato collegato agli scandali mondiali più noti del periodo, e la sua fama di scaltro finanziere finì per sotterrare ampiamente il prestigio della carica ecclesiale. 8
All’interno dell’istituto milanese, anche Calvi compie una progressiva e fulgida scalata per divenirne direttore generale nel 1971 e presidente nel 1975. Una marcia trionfale che lo portò a ricoprire numerose cariche di rilievo nel panorama finanziario italiano ma non solo. Sotto la sua guida il Banco Ambrosiano beneficia dei legami con Vaticano, massoneria, malavita organizzata, per aumentare a dismisura il raggio dei suoi affari, con operazioni anche nell’ambito dell’editoria (Rizzoli - Corriere della Sera), o finanziamenti per conto del Vaticano al sindacato polacco Solidarnosc. Come nel caso di Sindona, la definizione di finanziere per Roberto Calvi sfuma in quella di faccendiere, e la banca milanese si troverà ad affrontare le conseguenze di una serie di oscure operazioni che la condurranno ad un inevitabile crack. Fallirono i tentativi di salvataggio a colpi di decine di miliardi di lire per opera di IOR, BNL e ENI, questi ultimi conseguiti mediante tangenti cospicue ad esponenti politici. 9
Nel 1981 a seguito del fallimento definitivo del Banco Ambrosiano (fu accertato un buco di circa 1,3 miliardi di dollari), Roberto Calvi viene arrestato per poi essere scarcerato in regime di libertà provvisoria. Tenterà di tornare alla guida della banca, ma lo IOR respingerà l’ultima richiesta di aiuto dinanzi ai crimini che emergevano di continuo, come quelli che legavano Calvi ad altri loschi finanzieri come Flavio Carboni, a sua volta in rapporti con esponenti malavitosi capitolini della Banda della Magliana.
Il 9 giugno 1982 Calvi si allontana da Milano per raggiungere via Roma la capitale londinese, forse per tentare un’azione di ricatto politico dall’estero, ma il ritrovamento del suo cadavere alcuni giorni dopo, testimoniò quanto il suo prestigio avesse esaurito ogni possibile credito.
La causa della sua morte è rimasta per 20 anni incerta, sospesa tra l’omicidio e il suicidio, e solo nell’aprile del 2002 una sentenza della giustizia italiana, sulla base dell’apporto fornito da pentiti ex affiliati alla mafia e da ulteriori perizie, affermò che Roberto Calvi era stato assassinato, o per meglio dire “suicidato“. Il procedimento sui presunti colpevoli del delitto che vedeva Pippo Calò (il cassiere della mafia), Flavio Carboni, Ernesto Diotallevi (figura legata alla Banda della Magliana), Silvano Vittor (contrabbandiere di jeans e caffé) sul banco degli imputati, si è concluso il 6 giugno del 2007 con la sentenza di assoluzione per insufficienza di prove da parte della seconda Corte d’Assise di Roma. Un giudizio di non colpevolezza nonostante i P.M. incaricati sostennero che :« Gli imputati, avvalendosi delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e Camorra, cagionavano la morte di Roberto Calvi al fine di: punirlo per essersi impadronito di notevoli quantitativi di denaro appartenenti alle predette organizzazioni; conseguire l'impunità, ottenere e conservare il profitto dei crimini commessi all'impiego e alla sostituzione di denaro di provenienza delittuosa; impedire a Calvi di esercitare il potere ricattatorio nei confronti dei referenti politico-istituzionali della massoneria, della Loggia P2 e dello IOR, con i quali avevano gestito investimenti e finanziamenti di cospicue somme di denaro ». 10
Nel 1987, anche monsignor Marcinkus sfugge al mandato di cattura emesso nell’indagine sul crack del Banco Ambrosiano. In questo caso sulla ciambella di salvataggio, si leggeva a chiare lettere il nome dei “Patti Lateranensi“, che obbligarono la Corte di Cassazione ad annullare il suo arresto in base all’immunità garantita dal suo passaporto di diplomatico vaticano. Marcinkus muore nel febbraio del 2006 a Sun City, in Arizona, dove viveva dal 1997. 11
Nonostante gli sforzi di molti onesti servitori dello Stato non vi furono colpevoli da assicurare alla autorità giudiziaria. Il tempo aveva raffreddato una pista scomoda, oscura, intrigata, e ancora una volta al comune cittadino non resta che constatare con amarezza, quanto la giustizia risulti debole al cospetto di poteri tanto forti e radicati.
Poteri occulti che in queste due vicende si intersecano e confluiscono in un unico soggetto, una sorta di esclusivo “club privato“ che annoverava iscritti “molto pubblici“, una associazione dal nome curioso ma dal profilo terribilmente inquietante: la Loggia Massonica P2.
La lista di “Propaganda 2”
La loggia regina della massoneria italiana, la P2, formula in sintesi della denominazione estesa Propaganda 2, venne fondata nel lontano 1877 e comprendeva anche allora banchieri, deputati, senatori del Regno d’Italia. L’evoluzione nominativa in Propaganda 2 è del dopo guerra per ordine del “Grande Oriente d’Italia“, l’organo di riferimento centrale per la massoneria italiana.
La scoperta delle liste con i suoi appartenenti avvenne il 17 marzo del 1981, al termine di una perquisizione ordinata dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nel corso dell’indagine sul presunto rapimento di Sindona.
Vennero perquisite da Polizia e Guardia di Finanza la villa di Licio Gelli ad Arezzo, “Villa Wanda“ e una fabbrica sempre di sua proprietà, la “Giole” di Castiglion Fibocchi anche questa vicina ad Arezzo, in cui si produceva la linea giovane della “Lebole“ abbigliamento.
Tra documenti contabili e di altra varia natura, si rinvenne un elenco di oltre 900 nomi, tra cui oltre ai già citati Calvi e Sindona, si annoveravano la dirigenza dei sevizi segreti di Stato, oltre 60 politici di cui una quarantina parlamentari, alti ufficiali delle forze armate e dell’ordine (oltre 200 in totale e tra questi lo stesso capo della Guardia di Finanza Orazio Giannini), decine di giornalisti, uomini dell’alta finanza, magistrati, amministratori pubblici e locali, personalità della cultura e dello spettacolo fino ad Vittorio Emanuele di Savoia. A completare la lista eminenti liberi professionisti come avvocati, medici, banchieri, commercialisti, imprenditori e tra questi un Silvio Berlusconi non ancora “sceso in campo”.
Una rete estesa capillarmente nel territorio, in grado di ricoprire quasi ogni regione d’Italia e di avere succursali in tutte le principali città. A capo di costoro emergeva la figura di Licio Gelli in qualità di “Venerabile Gran Maestro“. L’Italia intera venne scossa dalla scoperta di una rete di figure tanto illustri riunite in una associazione segreta. Gli ostacoli alle indagini che si susseguirono per far luce su quanto scoperto, incontrarono le resistenze di tutti costoro che occupando posti di potere, tentarono di impedire che venisse fatta chiarezza. Ciò nonostante,l’esecutivo di quel tempo condotto dal democristiano Arnaldo Forlani, fu costretto a dare le dimissioni nel giugno del 1981, succeduto da un governo guidato dal repubblicano Giovanni Spadolini, primo Presidente del Consiglio extra DC dal dopo guerra. Venne istituita una Commissione Parlamentare fortissimamente voluta dalla comunista Nilde Iotti (Presidente della Camera dei Deputati), e guidata dalla ex partigiana “bianca” l’On. Tina Anselmi (Democrazia Cristiana). Dopo anni di lavoro la relazione conclusiva, costituita da una immensa quantità di volumi e cartelle , stabilì che tale organizzazione aveva influito sul corso della vita democratica del paese, mettendo in pericolo la natura stessa dei principi di democrazia a cui la Costituzione si ispirava. Attraverso un opera di condizionamento sia della vita politica, che delle principali risorse del panorama economico e finanziario, ha tramato in modo strumentale per assoggettare gli eventi del paese agli scopi prefissi dall’organizzazione stessa. Nel frattempo, una specifica legge del gennaio 1982, aveva sciolto la P2 decretando illegale la formazione di qualsiasi altra analoga associazione di carattere militare con scopi politici. (12)
“Il Piano di Rinascita Democratica”
Le conclusioni a cui giunse la Commissione Anselmi, pur scattando una fotografia inquietante a tal punto da porre dei seri interrogativi sulla limpidezza della democrazia che aveva regolato l’Italia dal dopo guerra, non riuscirono mai a chiarire tutte le implicazioni in cui la P2 e Licio Gelli furono coinvolte.
Alla base degli intenti ispiratori della Propaganda 2 , una associazione “coperta” e quindi segreta, vi era il reclutamento di nuovi iniziati che insieme ai membri già presenti e inseriti nelle più alte sfere delle istituzioni, dovevano sovvertire l’assetto socio-politico della nazione. Il primo nemico da combattere a qualunque costo era il comunismo e scongiurare ogni eventualità che ne consentisse la salita al potere in Italia; un obbiettivo questo, per sempre rimasto a cavallo tra il reale e lo strumentale, a volte convinto motore di una spinta ideologica “anticomunista”, in altre quale specchio per attirare verso la loggia potenti aiuti sia economici che logistici da parte di soggetti esteri con lo stesso comune fine, CIA in primis.
I quasi mille componenti figurati nelle liste sequestrate, non costituivano probabilmente l’intero elenco dei “Piduisti”, visto che lo stesso Gelli in una intervista all’Espresso del 1976, aveva affermato che gli iscritti erano circa 2400. Tanti i nomi, anche molto illustri, che non vennero mai alla luce. Ciò che emerse fu invece “Il piano di rinascita democratica“, una sorta di documento ispiratore contenente indicatori di fattibilità, che scandiva le tappe da seguire per la conquista progressiva delle leve del potere da parte dei suoi affiliati.
I punti chiave prevedevano un “selezionato proselitismo“ per individuare figure adatte su cui fare affidamento, un preventivo dei costi per la collocazione degli uomini giusti in ruoli di controllo, la definizione di “obbiettivi“ (indicati in gergo militare) da raggiungere e blandire per convertirli alla causa. Occorreva “riordinare“ le istituzioni, ripristinare una impostazione selettiva e di classe dei percorsi sociali, “ripulire il paese dai teppisti ordinari e pseudo politici “, “abolire la validità legale dei titoli di studio per sfollare le università ” in attesa di una riforma del settore.
Altri punti indicavano l’esigenza di condurre il Consiglio Superiore della Magistratura sotto il controllo dell’esecutivo, di separare le carriere dei magistrati, di frammentare l’unità sindacale, di rompere il monopolio Rai. Nel settore dell’editoria si auspicava l’acquisizione da parte di iscritti alla lista di importanti testate giornalistiche (come avverrà nel caso della Rizzoli – Corriere della Sera), o il raggiungimento di posti di rilievo nella conduzione di altre. Ad incorniciare il tutto si progettava la scalata al successo di giornalisti ed editori compiacenti alla loggia e ai politici annessi, con la conseguente censura o limitazione per coloro che si opponevano al sistema. In riferimento a questo ultimo punto, l’ascesa prima imprenditoriale ed in seguito politica di un iscritto come Silvio Berlusconi, coincidente con la susseguente emarginazione di una figura storica del nostro giornalismo come Enzo Biagi, non può che suscitare perplessità. Ma aldilà di questo esemplificativo episodio, è sufficientemente inquietante constatare come una bella porzione dei punti indicati nel piano programmatico dei piduisti abbia trovato riscontro nel corso degli eventi, sino a disegnare in forma indelebile l’Italia del presente.
Per portare a termine questi e molti altri obbiettivi, erano stati individuati dei referenti politici in ogni partito. Uomini che dovevano ottenere testualmente “il predominio“, apparentemente senza fornire loro alcun limite operativo sugli strumenti con cui acquisire tale egemonia.
In ambito finanziario, quanto già descritto in relazione a Sindona, Calvi, IOR, Banco Ambrosiano, risulta sufficientemente descrittivo, senza dimenticare le decine e decine di operazioni avvenute a stretto giro, e addebitate anche solo parzialmente e mai ufficialmente agli iscritti.
Tutto questo incompleto elenco di intrighi e implicazioni potrebbe bastare, ma la piena comprensione delle oscure e malvagie prerogative antidemocratiche della loggia, si può acquisire attraverso l’esame delle molte dolorose vicende italiane e non solo, dove figure della P2 attraverso i servizi segreti e altri loschi individui, faccendieri, mafiosi, malavitosi, sono state coinvolte.
Una lista di morte e terrore che include le stragi di Italicus, della stazione di Bologna, di Piazza Fontana, di Ustica, del Rapido 904, il colpo di stato dei militari in Argentina che segnò la strage dei dissidenti con la scomparsa di decine di migliaia di “desaparecidos“. Un elenco di azioni di depistaggi, dalle indagini sul rapimento Moro ad altre su presunti tentativi di colpi di stato e inchieste italiane (Gladio); una mano che si allunga sugli omicidi di Calvi, del giornalista Pecorelli, dello statista svedese Olaf Palme, ai rapporti con la Banda della Magliana e il clan dei Marsigliesi, ai traffici di armi e riciclaggio denaro sporco, alla fuga del genocida nazista Herbert Kappler…solo per citare una minima parte del lungo elenco di vicende in cui la loggia venne implicata.
Vite spezzate, democrazie infrante, giustizia calpestata e deviata, tutto nel nome di una “Rinascita“, di un nuovo ordine delle cose. A tirare le fila di questa matassa inestricabile, con connessioni che valicavano gli oceani, la storia ci ha consegnato un uomo solo: Licio Gelli.
L’ennesimo depistaggio nei confronti della verità. (13)
Il Venerabile Gran Maestro
Risulta veramente poco credibile che una sola persona per quanto abile e scaltra, sia riuscita in una simile impresa. La stessa Commissione Anselmi nelle sue conclusioni si poneva questo interrogativo, avanzando l’ipotesi che anche lo stesso Gelli fosse uno strumento nelle mani di chi si è servito e nascosto dietro la P2.
Licio Gelli nasce a Pistoia il 21 aprile del 1919. Si iscrive da ragazzo alle camice nere fasciste e parte volontario per la Spagna insieme alle forze che Mussolini invia per sostenere Francisco Franco. Torna in Italia nel 1939 operando nelle fila della Federazione Fascista di Pistoia. Dopo l’8 settembre 1943 aderisce alla Repubblica di Salò, ma si distingue come “doppio giochista” in opere di favoreggiamento di figure partigiane. Al termine della 2° Guerra Mondiale si ipotizza venne avvicinato dalla CIA e dall’intelligence britannico. Dal ‘48 al ’58 è portaborse del deputato DC Romolo Diecidue. Viene accusato di aver partecipato all’Operazione Gladio, struttura clandestina promossa dalla Nato e finanziata anche dalla CIA. Una complessa struttura “Stay-behind“, esistente anche in altri paesi europei, con l’obbiettivo di contrastare la crescita del Comunismo nelle “democrazie“ a ovest del muro di Berlino. Venne coinvolto nel 1970 nel “Colpe Borghese“, con il compito di arrestare il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, ma al riguardo Gelli ha sempre smentito qualsiasi ruolo.
Numerosi tra gli affiliati alla P2 saranno i componenti della Giunta Militare Argentina responsabile dal 1976 al 1978, dei genocidi di massa degli oppositori al regime dittatoriale. Una celeberrima foto ritrae “il Venerabile“ con Giulio Andreotti nella “Casa Rosada“ del generale argentino Juan Domingo Peròn, la cui morte fu da preludio alla dittatura della giunta militare. Uno scatto che costrinse Andreotti, da molti definito l’oscuro padrino della P2, ad ammettere la conoscenza di Gelli, contraddicendo quanto sostenuto sino alla divulgazione della foto.
A seguito della scoperta della lista P2 del 17 marzo 1981, “il Gran Maestro“ fugge dall’Italia verso la Svizzera. Viene arrestato a Ginevra mentre ritirava svariati milioni di dollari, ma riesce ad evadere per fuggire in Sud America e poi costituirsi nel 1987.
Al netto delle voci e delle ipotesi, Licio Gelli verrà condannato in via definitiva per i seguenti reati: procacciamento di notizie contenenti segreti di Stato; calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola; tentativi di depistaggio delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna; bancarotta fraudolenta (Banco Ambrosiano). (14)
In una intervista relativamente recente rilasciata a Repubblica nel settembre del 2003, ci appare come un comune uomo di terza età che placidamente si gode la pensione, per nulla turbato dalle accuse addebitategli e dagli scandali che nella vita lo hanno coinvolto. Con fiero orgoglio al contrario, sottolinea come buona parte di quanto auspicato nei piani di rinascita massonici, si sia realizzato o sia in procinto di esserlo, ironizzando su di una presunta licenza di diritti d’autore sugli eventi nazionali, di cui dovrebbe beneficiare. Un uomo dalla coscienza in apparente quiete, che con pacata ma ferma soddisfazione, descrive senza mai entrare nei dettagli, il proprio operato come un contributo essenziale alla vita democratica del paese. Un protagonista della nostra storia moderna, ancora perno di clientelismo e raccomandazioni, dalle cui parole non traspare il benché minimo accenno a nessun senso di colpa per le vite innocenti spezzate negli eventi annessi al progetto massonico.
Ma è il segno dei tempi. Un paese che come il nostro manifesta una così dilagante e collettiva perdita di memoria, autorizza chiunque a ridipingere i passaggi storici che desidera delle sfumature più accomodanti. Può accadere che anche Licio Gelli corra il rischio di collezionare ammiratori. Restare colpiti da una personalità così scaltra e complessa, che fornisce una personale e convincente versione della storia del nostro paese, può risultare meno complicato di quanto si pensi, se si ignorano i fatti o una parte di essi, soprattutto quando il trascorrere degli anni tende di per sé ad ovattare la memoria. L’immagine quasi romantica, di questo anziano signore capace di sopravvivere ad una vita di soli intrighi, può porci al cospetto di un personaggio in apparenza virtuale, dimenticando quanto dolore e ingiustizia reale si siano celati dietro alle sue gesta.
Mafia e Massoneria
La profonda comprensione del fenomeno mafioso contemporaneo, richiede invece la conoscenza dei passaggi chiave che hanno segnato l’Italia per consegnarla al nostro presente. La parentesi compiuta sulla massoneria ha rappresentato la sintesi di una lunga pagina oscura, dalla quale in molti sostengono che il paese non sia ancora uscito. La riprova di quanto lo Stato e le sue istituzioni si siano intrecciate all’illegalità e al potere malavitoso, ci conduce ad un altro dato di fatto: la Mafia è una delle componenti di questo sistema.
La capacità di Cosa Nostra di infiltrarsi in questo meccanismo già così profondamente deviato, gli ha consentito di ampliare a dismisura il suo potere.
Il legame tra Mafia e massoneria non fu episodico, perché come spiegò un pentito “…è nella massoneria che si possono acquisire i contatti totali con imprenditori, istituzioni, e gli uomini che amministrano il potere…”.
Fu così che nel corso di tutti gli anni ’70 illustri uomini d’onore entrarono a far parte delle logge, e quasi sempre con un ruolo “dominante“, in quanto il flusso delle informazioni seguiva sempre una unica direzione: “…il mafioso può sapere del massone, mentre il massone non può sapere del mafioso…“.
Un esempio di tali infiltrazioni dai lucrosi immensi benefici, è rappresentato dai cugini Nino e Ignazio Salvo. Essi prestarono giuramento alla massoneria e alla mafia e dal 1959 fino all’inizio degli anni ’80, controllarono un cartello dedito alla riscossione delle tasse dirette e indirette, funzione pubblica che in Sicilia era assegnata in appalto ad aziende private. Grazie a l’intervento di Salvo Lima e di altri “Giovani Turchi“, la mafia dei cugini Salvo fece ricavi enormi mediante l’esattoria: decine e decine di milioni di dollari che si sommarono all’accaparramento di enormi cifre provenienti da contributi europei stanziati per le aziende agro industriali fondate con i ricavi esattoriali stessi.
La DC siciliana provvide a garantire la copertura politica necessaria a tale “circolo virtuoso“, operando in cambio di generose mazzette ma non solo. I membri delle giunte regionali e comunali infatti, nell’isola erano scelti in gran parte da Cosa Nostra e leader Democristiani in seduta congiunta, annullando di fatto il confine tra i due poteri. Risulta improprio parlare di semplici collusioni tra mafia e politica, perché in molti contesti siciliani, dinanzi alle scelte prioritarie in materia di politica economica, le decisioni vengono prese di comune accordo.
Un terno di smisurato potere quello esercitato da politici, massoni e mafiosi, in grado di sbancare le ruote italiane della legalità in ogni istituzione e campo.
Quando nel 1982 il giudice Giovanni Falcone puntò il mirino delle proprie inchieste contro i cugini Salvo, si apprestava a sferrare un attacco frontale a Cosa Nostra e all’intero panorama delle forze che la supportavano.
Tutto questo si verificò quando la Sicilia entrò nel vivo di quello scontro intestino noto come “La seconda guerra di mafia“. (15)
Note
1, Fonte “www.misteriditalia.com/michele sindona”
(2), (15), Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – capitolo “Le origini della seconda guerra di mafia 1970-1982” – pagine 382…386
3, 4, 5, Fonte “www.disinformazione.it/un sindona senza silenziatore”
6, Fonte “www.archivio900.it/documenti”
7, 9, 10, Fonte “www.wikipedia.org/Roberto Calvi”
8, 11, Fonte “www.wikipedia.org/Paul Marcinkus”
(12), Fonte “www.wikipedia.org/P2”
(13), Fonte “www.disinformazione.it/loggia propaganda 2”
(14), Fonte “www.wikipedia.org/Licio Gelli”