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Home1 » Le mafie » 1970-1982: Cosa Nostra attacca lo Stato  

La storia della Mafia Siciliana


Capitolo 15 - 1970 – 1982: Cosa Nostra e il suo attacco militare allo Stato

Il virus della corruzione dilaga nel paese
In Italia da tempo immemorabile si vive con la diffusa percezione di come le garanzie elementari di giustizia ed equità, presentino notevoli imperfezioni. I cittadini non appaiono tutti uguali dinanzi alla legge, come non beneficiano delle medesime opportunità di scalare i gradini sociali in ogni ambito. La meritocrazia è un valore offuscato da antiche lacune culturali, e in Italia nella vita, pesano più le conoscenze di amici o parenti influenti e potenti, che i meriti propri. Un fenomeno che ha reso tristemente noto il nostro paese anche all’estero, pur non essendo l’unico a soffrire degli stessi mali, e senza per questo sostenere che tutti gli italiani siano corrotti, o che i ruoli cardine della società siano per intero ricoperti da figure non competenti. Diciamo che più facilmente di altri, per usare una definizione dello scrittore americano John Dickie, gli italiani “tendono ad adattarsi per sopravvivere all’ambiente che li ospita”.
In un simile contesto, coloro che tra le istituzioni sceglieranno di vivere combattendo questo sistema, finiranno per elevarsi quali membri di una autentica “minoranza virtuosa”. Una schiera di uomini onesti fervidi credenti nella giustizia, nel corso degli anni ’80 finirà per trovarsi accerchiata dai tanti contagiati dal virus della corruzione. Si diffuse in forma estesa e radicata, quasi epidemica, l’abitudine di versare mazzette e tangenti ai partiti politici per ottenere qualsiasi diritto. Le evoluzioni del panorama nazionale acuiscono un appiattimento verso il basso dei valori etici e morali della classe politica. Il PCI ed il fronte della lotta operaia attraversano un lento declino. Il Partito Socialista è oramai una forza che da storica componente della sinistra riformista, si sta spostando al centro verso la DC e a lei si alleerà nel governare il paese. Il PSI diventa così complice nel diffondere il malcostume di una corruzione dilagante, che si instaura ad ogni livello del tessuto economico e politico. Una miriade di figure, dal semplice bidello ai consiglieri d’amministrazione di banche o enti, venivano scelti se in tasca potevano esibire la tessera di partito appropriata, mutevole da regione a regione. Per ottenere appalti o licenze, aziende private o pubbliche, erano costrette ad elargire tangenti ai partiti locali, in osservanza ad un cartello di regole non scritte ma oramai comunemente condiviso.
Tra le maglie di una illegalità diffusa, istituzioni criminali come Cosa Nostra sfodereranno una arroganza e audacia sino a quel tempo impensabili. (1)


Un servitore in “Terra infidelium”
In Sicilia dove si assistette all’affermazione estesa dei medesimi e deviati principi, emergerà una delle figure appartenenti a quella minoranza virtuosa a cui prima si accennava. Si tratta di un uomo che lascerà una traccia indelebile nella storia del nostro paese: Giovanni Falcone.
Egli si definiva “…un servitore dello Stato in terra Infidelium”. Poche parole in grado di abbracciare l’essenza di una vita spesa affinché giustizia e legalità divenissero inamovibili patrimoni della sua terra. Falcone era in possesso di un inaffondabile senso del dovere, associato alla matura consapevolezza di lavorare in una autentica zona di frontiera all’interno di un paese che in troppi si affannavano a definire come la  5° maggior potenza economica del pianeta.
La Sicilia era allora ancor più di oggi, una terra dove il valore attribuito alla legalità, pagava un retaggio culturale marchiato a fuoco da una secolare tradizione mafiosa. Imporla come egli fece con fermezza e trasparenza, richiedeva una energia smisuratamente superiore a quella richiesta in molte altre zone del paese e del mondo. Il giudice Falcone era di una onestà inflessibile, corretto, e l’apparente freddo distacco con il quale si presentava nelle sue vesti ufficiali, costituiva la prima arma per difendersi dagli innumerevoli subdoli tentativi di avvicinamento da parte di Cosa Nostra. Una viscida azione corruttiva tesa a contaminare e delegittimare l’efficace lavoro di colui che per un decennio divenne il nemico numero uno dell’onorata società. Ben cosciente di come la mafia potesse indossare le vesti anche di conoscenti pur di riuscire nel suo intento, Falcone si abituò a divenire diffidente nell’allacciare qualsiasi contatto che non rientrasse nel rigido novero dei suoi doveri istituzionali.
Al suo nome è legata una stagione che ha segnato da spartiacque nella lotta alla mafia in Italia, con ripercussioni anche in ambito internazionale. La morte violenta di cui fu vittima, era l’unica possibile in grado di arrestare il suo cammino. Insieme ad altri magistrati e uomini dello Stato, si rese protagonista di una indimenticabile serie di successi contro la criminalità organizzata. Falcone comparse sulla scena tra il 1978 e ’79 in uno dei momenti più difficili, se mai parlando di lotta alla mafia si può individuarne di non drammatici. L’organizzazione stava cadendo in mano ai corleonesi. Erano gli anni contraddistinti dal primo, sistematico, prolungato e sanguinoso attacco alle istituzioni, da parte di Cosa Nostra. (2)

Un radicale cambio di strategia
Se nel corso del suo primo secolo di vita, la mafia era ricorsa all’eliminazione dei suoi nemici pubblici, in forma più episodica (Emanuele Notarbartolo nel 1893 e Joe Petrosino nel 1909 i nomi più illustri), aggredendo le istituzioni senza un disegno preciso (strage di Ciaculli nel 1963), l’ascesa dei Corleonesi ai vertici di Cosa Nostra portò un radicale cambio di strategia. Anche verso gli esterni all’organizzazione, si applicarono i metodi di natura militare utilizzati negli scontri intestini alla 2° guerra di mafia. Dalla fine degli anni ’70, qualsiasi personalità anche se di spicco, che manifestasse la sua avversione a Cosa Nostra, fu oggetto di aggressione armata. Decine i caduti tra gli esponenti della magistratura, delle forze dell’ordine, del giornalismo, del mondo economico e sindacale.
Un lungo elenco di “cadaveri eccellenti”, che crebbe in modo direttamente proporzionale al crescendo dei successi senza precedenti ottenuti dalla minoranza virtuosa guidata da Falcone. (3)

Alcuni passi indietro nel tempo
Guardandosi indietro, si può forse annoverare come primo caduto di questa epoca, il redattore dell’Ora di Palermo Mauro De Mauro, rapito il 16/9/1970 e il cui corpo non fu mai ritrovato. Le inchieste del giornalista toccavano alcuni dei casi più scottanti del momento, e tra questi il coinvolgimento della mafia nell’omicidio del presidente dell’Eni Enrico Mattei e nel Golpe Borghese, con tutte le possibili implicazioni internazionali di natura politico economica. Se De Mauro pagò ciò che stava per scoprire in quelle intrigate vicende, o per il suo costante impegno verso l’affermazione della verità con la denuncia delle attività mafiose, non fu mai stabilito ufficialmente. Dichiarazioni di pentiti dello spessore di Tommaso Buscetta, affermarono che venne rapito ed eliminato su ordine di Stefano Bontate, perché stava per avvicinarsi troppo alla verità sulla morte di Mattei e al ruolo giocato da Cosa Nostra. Altri come Gaspare Mutolo dissero più genericamente perché “…si accaniva a scrivere contro la mafia…”. 4
De Mauro come abbiamo già visto in conclusione del nono capitolo della nostra “Storia della Mafia Siciliana”, che affrontava il caso Mattei, puntava al premio Pulitzer, convinto come era che le informazioni in suo possesso coinvolgenti mafia, massoneria, Cia, e servizi segreti italiani, avrebbero scosso l’opinione pubblica. Secondo altre testimonianze di collaboratori di giustizia raccolte negli anni, il cronista venne sequestrato, interrogato e ucciso. Il corpo pare venne prima seppellito in un cimitero della mafia, per poi essere sciolto tempo dopo nell’acido. Il sostituto procuratore di Palermo Giacomo Conte, che nell’aprile del ’91 ha riaperto il caso De Mauro confermò questa tesi dichiarando: ”…dalle carte che ho letto…nella scomparsa di De Mauro si può configurare la presenza di mafia, servizi segreti, Gladio e massoneria deviata…”. 5
Nessun colpevole fu mai condannato per la sua scomparsa.

La morte di Mauro De Mauro è la seconda in ordine di tempo tra i giornalisti uccisi dalla mafia. Dieci anni prima il 5/5/1960, venne ritrovato morto sui binari della ferrovia a Termini Imerese, Cosimo Di Cristina, corrispondente 25enne anch’egli dell’Ora di Palermo. Assassinato per le sue indagini che intrecciavano il traffico di droga e armi di mafiosi della zona, con esponenti locali del mondo politico, subì gli effetti di una ingiuriosa campagna diffamatoria che si abbatté prima e dopo la sua morte, tesa a delegittimarne la figura di giornalista e la credibilità delle notizie che aveva divulgato. Persino il prete locale si rifiutò di celebrargli il funerale. Le frettolose e superficiali indagini si chiusero con una morte accertata per suicidio: un insano gesto che ufficialmente non consentiva a Cosimo di beneficiare di una cerimonia cristiana. In realtà i suoi familiari denunciarono sin da subito come il loro caro venne rapito e ucciso. Far rinvenire il cadavere sui binari e mediante la rete di potenti collusi che operavano nella regione, e depistare le indagini per convogliarle sulla pista del suicidio, rientrava in quello che loro ritenevano un piano architettato. Nessuno si espose per sottrarre la giovane vittima al pubblico e strumentale ludibrio. Di Cristina venne assassinato due volte: fisicamente e moralmente. Il 13 ottobre del 1971, con oltre 11 anni di ritardo, si chiuse il processo d’appello su una serie di fatti criminosi commessi a Termini Imerese e dintorni, tra cui l’omicidio di Cosimo. Tutti gli imputati vennero assolti. (6)

Alcuni mesi prima, il 5 maggio del 1971, mentre stava rientrando a casa dopo una visita alla tomba della moglie, il procuratore della repubblica di Palermo Pietro Scaglione, viene trucidato insieme all’autista Antonino Lo Russo. E’ un delitto le cui proporzioni verranno comprese appieno non nell’immediato. Si trattava del primo magistrato ucciso dalla mafia dal dopoguerra, ma all’epoca dei fatti, attorno al nome di Scaglione gravavano forti sospetti di collusione con la malavita organizzata. Qualcuno arrivò a gettare fango in tal misura sulla figura del magistrato, che l’episodio venne definito un regolamento di conti interno alla mafia. Nel tempo i sospetti si rivelarono infondati e il nome di Scaglione venne riabilitato. Riemerse tutto il suo impegno di onesto uomo di giustizia in una vita spesa a combattere la mafia. (7)
Ancora una volta si riscontrava il successo della tattica infamante di Cosa Nostra, che utilizzando la sua fitta rete di affiliati inseriti in ogni anfratto del tessuto sociale, diffonde calunnie per annullare la reputazione privata e la credibilità professionale delle sue prossime vittime. Un efficace modo per attenuare l’impatto della morte di chiunque sull’opinione pubblica. “Voci autorevoli” finivano per far passare il messaggio che “se lo era meritato”, perchè “chissà in quali loschi affari si era lasciato trascinare”. Spesso la riabilitazione giunge tardiva, quando ormai il delitto è stato commesso da tempo e le indagini stesse, in una terra complicata come la Sicilia, rischiano a volte di essere influenzate dal clima indotto dalle diffamazioni. L’inchiesta per l’omicidio di Pietro Scaglione eluse queste trappole, e condusse alla colpevolezza di Luciano Liggio, il leader dei corleonesi in quegli anni.
Ed è proprio da Corleone, che questi fili grondanti di sangue sono destinati a riannodarsi con gli analoghi refi, che ha distanza di anni gli eredi di Liggio, Riina e Provenzano, muoveranno in quello che assumerà i contorni del più massiccio attacco frontale allo Stato per opera di Cosa Nostra.
Alcuni passi indietro nel tempo, per consentire una visione più ampia di quale sanguinaria epoca si stava inaugurando.
Alcuni passi indietro nel tempo, per rendere omaggio alla memoria di uomini che alla lotta alla mafia dedicarono la vita.
Perdendola.

Un lungo elenco di caduti
Quando nel 1977, il 20 di agosto, proprio a Corleone venne assassinato il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo insieme all’insegnante Filippo Costa, ancora si credeva di assistere ad omicidi isolati, non inseriti in un contesto più vasto. 8
Nel 1979 però la nuova strategia appare evidente agli occhi di tutti. In un solo anno a Palermo, Cosa Nostra uccide il cronista del “Giornale di Sicilia” Mario Francese (ucciso per le denunce sul filo che univa i corleonesi di Riina agli scandali dell’esattoria tributaria dei cugini Salvo, e alla ricostruzione del Belice affidata ad imprese sempre controllate da u ’curtu); (9)  il capo della Squadra Mobile Boris Giorgio Giuliano (il mandante Leoluca Bagarella non apprezzò le sue indagini sul giro di capitali siculo americani); il segretario della DC del capoluogo Michele Reina, ed il giudice istruttore Cesare Terranova insieme all’autista, il maresciallo di polizia Lenin Mancuso 10. Terranova era uno dei magistrati più esposti, per aver condotto una buona parte delle inchieste scaturite dalla 1° Guerra di Mafia. Deputato per due legislature, eletto tra le liste del PCI come indipendente, fu anche membro della Commissione Antimafia. Era non da molto rientrato in magistratura, ed il suo omicidio secondo alcuni fu quasi preventivo. L’istinto investigativo lo stava guidando sui percorsi che i miliardi dei proventi del traffico di stupefacenti, compivano all’interno dei meandri di svariati istituti bancari. La mafia non eliminava solo chi già era in cima alla lista dei suoi antagonisti, ma anche chi si proponeva come un avversario in grado di creare problemi nel futuro prossimo. Un chiaro avvertimento per chiunque intendesse seguire le sue orme. Cesare Terranova fu lasciato solo. Gli esponenti politici di spicco locali non lo affiancarono, e anche all’interno della magistratura stessa, si formò un vuoto attorno al suo fervente attivismo. Un denominatore comune per molti che scelsero di affrontare Cosa Nostra a viso aperto in quegli anni.
Per il duplice omicidio sono stati condannati all’ergastolo Salvatore Riina, Michele Greco, Antonino Geraci, Francesco Madonia e Giuseppe Calò . 11
La città fu sconvolta da questa sequela di omicidi brutali e temerari verso uomini delle istituzioni. Delitti compiuti seguendo il medesimo modus operanti utilizzato nelle faide interne all’organizzazione: in pieno giorno, in luoghi affollati, spesso con l’impudenza di chi agisce a viso scoperto. I corleonesi hanno lanciato un guanto di sfida inequivocabile: qualunque pubblica figura si interponga al loro cammino deve essere eliminata.
Lo Stato non appare in grado di fornire una reattiva risposta, ed il 1980 si apre con il delitto compiuto il giorno della befana, in auto, sotto gli occhi della moglie seduta al suo fianco, del Presidente della Regione Sicilia, il democristiano Piersanti Mattarella, giovane leader di quella corrente riformatrice che in seno alla DC, si batteva affinché il partito svolgesse una più trasparente e incisiva lotta alla criminalità organizzata. La sua morte costituiva un limpido messaggio di Cosa Nostra verso chi, all’interno della maggiore forza politica di governo della regione e del paese, aspirava come Mattarella ad una politica moderna, meno schiava del clientelarismo, del voto di scambio e delle raccomandazioni. 12
All’inizio di maggio è il turno del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, comandante della stazione di Monreale. 13
E’ in piena estate però, il 6 di agosto, che la mafia sferra il colpo che per luogo, circostanze e obbiettivo, susciterà maggiore rabbia, paura, sconcerto. Il procuratore generale di Palermo Gaetano Costa, viene assassinato mentre compie la sua consueta e oramai imprudente passeggiata per le vie del centro del capoluogo. Il suo corpo crivellato rimane a terra nei pressi del Teatro Massimo. Uno dei nemici più acerrimi, eliminato in uno dei luoghi simbolo della città, tra una folla di passanti, nel cuore mondano e culturale di Palermo, pari a Piccadilly Circus di Londra o Time Square di New York. 14  Costa era professionalmente un duro, un integerrimo uomo di legge: aveva appena firmato 60 ordini di cattura per altrettanti mafiosi, provvedimento che i suoi sostituti si erano rifiutati di eseguire. 15

Una città “grondante di cadaveri” è il contorno alla morte di Pio La Torre
Quando nell’aprile del 1981 ebbe inizio la mattanza con l’esecuzione di Stefano Bontate, agli omicidi degli oppositori Riina e i suoi sommarono i morti della 2° guerra di mafia. I decessi per morte violenta erano a Palermo il pane quotidiano. I cronisti dell’epoca raccontavano di una “città grondante di cadaveri”, che spuntavano ad ogni angolo di strada. Si diffuse la percezione di una città in stato d’assedio. Questi attacchi armati a 360°, comportavano la morte delle guardie del corpo, degli amici, dei familiari dei bersagli, e di chiunque si trovasse per caso a transitare nelle vicinanze.
Cosa Nostra non abbassa il livello dello scontro militare verso le istituzioni, e il mattino del 30 aprile del 1982 la Fiat 132 guidata da Rosario Di Salvo, con a bordo il segretario del PCI siciliano Pio La Torre, viene costretta a frenare la sua corsa dalla manovra spericolata di una motocicletta. Da questa partono decine di colpi che uccidono entrambi gli occupanti della Fiat. Di Salvo avrà il tempo di estrarre la pistola e di far fuoco a vuoto. Altri killer spuntarono da un’auto per finire il lavoro con i colpi di grazia. Con la scomparsa di La Torre viene a mancare molto più di una figura politica di altissimo spessore, ma un esponente di quella generazione del PCI siciliano autenticamente impegnato a costruire un futuro diverso per la propria terra. Uomo dalle origini contadine, schietto e attivo, egli fu in prima linea nella storica opposizione popolare all’istallazione dei missili nucleari a Comiso. Quale membro della Commissione Antimafia, divenne il sottoscrittore insieme a Virginio Rognoni di una proposta di legge che rafforzava le disposizioni per una più efficace prevenzione patrimoniale e soprattutto, introduceva nel nostro codice penale il reato allora inesistente di associazione a delinquere di stampo mafioso, quello che oggi è l’articolo 416 bis; disegno di legge che si arenò lungamente nel suo iter procedurale in Parlamento. Vaste aree del popolo siculo vissero il delitto di La Torre in modo traumatico. Per molti che sognavano una alternativa alla torbida politica della DC, il leader PCI rappresentava una speranza fatta di gesti concreti spesi al fianco della sua gente. Al suo funerale, in oltre centomila presenziarono al toccante e potente comizio di Enrico Berlinguer.
L’ex magistrato Giuseppe Ayala, componente dello storico pool antimafia con Falcone e Borsellino che istituì il maxi processo, nonché parlamentare per quattro legislazioni e sottosegretario alla giustizia dal 1996 al 2000, ha raccolto nel suo libro “Chi ha paura muore ogni giorno” (Mondadori, maggio 2008), la storia degli anni da lui spesi a combattere la mafia, nonché i ricordi delle esperienze umane al fianco degli altri colleghi. In un passaggio relativo ai giorni seguenti la morte di Pio La Torre, Ayala racconta: “…Ci incontrammo senza appuntamento…nella stanza di Rocco Chinnici. C’erano Falcone, Borsellino, e gli altri. Non parlammo molto…le frasi erano brevi…più eloquenti erano gli sguardi…In realtà ciascuno aveva qualcosa da dire, ma a se stesso: succederà ancora.” (16)

I “cento giorni” di Carlo Alberto Dalla Chiesa
Lo Stato cercò di alzare la testa. Occorreva fornire segnali vigorosi per calmierare un’opinione pubblica allarmata, ma soprattutto si richiedeva un inasprimento delle misure antimafia a tutti i livelli. In Sicilia era in corso una vera guerra, spesso contro un nemico non solo invisibile, ma che beneficiava della protezione di una porzione delle istituzioni stesse. La risposta si concretizzò con la decisione del Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, primo esterno alla  DC da tempo immemore, e del Ministro degli Interni Rognoni: venne scelto di inviare a Palermo in veste di prefetto, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Egli aveva trascorsi di pregio nella lotta alla mafia, in quanto aveva operato a Corleone ai tempi dell’inizio carriera di Luciano Liggio. La sua popolarità era recentemente salita alle stelle, per aver guidato con successo la lotta dello Stato contro il terrorismo di estrema sinistra e delle Brigate Rosse. Il suo approccio al difficile e delicato compito che lo attendeva fu chiaro: non era disposto ad intavolare nessun genere di compromesso con qualsiasi forza politica che si rivelasse indulgente verso la mafia. Il trasferimento a Palermo con decorrenza immediata, conduce Dalla Chiesa a ricoprire il ruolo dai primissimi giorni di maggio del 1982. Sin da allora, il generale attende che lo Stato gli fornisca quei poteri esecutivi speciali per disporre di margini operativi ampi, scollegati dagli iter procedurali standard che rallentavano le scelte in un momento così drammatico. Sarà per il prefetto una attesa vana. Nel frattempo polizia e carabinieri raggiungono finalmente un buon livello di simbiosi: presentano in forma congiunta un rapporto giudiziario con 162 nomi di spicco, e tra questi compare per la prima volta quello del “papa” Michele Greco. Viene inoltre redatta una mappa delle famiglie mafiose alla luce del conflitto interno, suddivise in “perdenti” e “vincenti”. Queste ultime appartenevano allo scacchiere legato ai corleonesi Riina e Provenzano. Traspare finalmente la loro strategia tesa ad eliminare deliberatamente ogni oppositore. L’elemento più incoraggiante è rappresentato dalla condivisa percezione di una breccia che sta aprendosi nel muro di omertà. Coloro che si spingono a giocare la carta del collaboratore di giustizia, una figura che prenderà consistenza maggiore anni dopo, sono rari e isolati, ma le informazioni che provengono dall’allora ancora ombroso alveo mafioso, creano scalpore come nel caso di Giuseppe Di Cristina. Tra le file degli investigatori sul campo inoltre, cresce il numero di coloro che passo dopo passo, acquisisce esperienza, metodo di lavoro, capacità d’interpretare i messaggi non scritti che i codici di comportamento mafiosi rilasciano sul territorio. Tra questi il giudice Falcone, che introdurrà svolte epocali ai metodi investigativi nella lotta alla criminalità organizzata. (17)

Il mese di giugno intanto, sarà purtroppo ricordato anche per quella che venne definita come “la strage della circonvallazione”. Durante il trasferimento da un carcere all’altro di Palermo del boss catanese Alfio Ferlito, un commando armato sempre di kalashnikov assalta il furgone della polizia penitenziaria. Oltre a Ferlito, rimangono uccisi l’autista del mezzo e i tre agenti di scorta.
Trascorrono le settimane e Dalla Chiesa sente attorno a se la stretta di una morsa che lentamente si chiude. Una silente azione di isolamento, che in modo graduale sottrae ossigeno e vigore all’efficacia dei suoi intenti. Nemmeno il mese delle vacanze per eccellenza conduce ad una tregua, e l’11 di agosto Cosa Nostra consuma un’altra tragedia.
A cadere vittima è in questo caso un medico, un uomo di scienza, il professor Paolo Giaccone. Una figura apparentemente lontana da questo mondo, ma Giaccone è ordinario di medicina legale, e si è rifiutato di inquinare una perizia balistica che inchiodava i killer di una strage avvenuta sul finire dell’anno precedente. La sua morte certifica la serietà del professionista, l’onesta dell’uomo. La mafia è un treno di morte, i cui binari impazziti scorrono imprevedibili e attraversano senza preavviso l’esistenza di chiunque. Nessuno può sentirsi al riparo. (18)

 I “cento giorni a Palermodel generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, terminano la sera del 3 settembre 1982, in via Carini. Quelli che in termini tecnici si definiscono “due gruppi di fuoco”, composti da almeno una decina di killer a bordo di una Fiat 131 e di una BMW, bloccano la strada all’auto del generale e della moglie Emanuela Setti Carraro. I due coniugi moriranno all’istante. L’autista Domenico Russo che quella sera li seguiva con l’auto di servizio, spirerà in ospedale alcuni giorni dopo.
I giorni in cui il generale Dalla Chiesa rimase prefetto di Palermo furono in realtà 126, ma con il titolo di “Cento giorni a Palermo”, il regista Giuseppe Ferrara diresse nel 1984 un discusso film che narrava della vicenda.

“Stato di abbandono”
Sulla morte del generale scrive Michele Pantaleone: “… Dalla Chiesa è stato assassinato l'indomani che era riuscito a creare nuove strategie e nuove alleanze: è stato ucciso immediatamente dopo il suo incontro con il Ministro delle Finanze da cui aveva ottenuto la mobilitazione della Guardia di Finanza per «gli accertamenti fiscali e paralleli a quelli della polizia» a carico di molti politici boss. La raffica che ha stroncato l'Alto Commissario per la lotta alla mafia è stata, sì, una punizione per il funzionario dello Stato che aveva osato uscire dai vecchi schemi affrontando la mafia sul terreno politico-finanziario, ma è stato anche un avvertimento per i partiti che minacciano di scoprire i nomi dei politici collusi e complici con la mafia…”. 19

La sentenza di primo grado del delitto Dalla Chiesa, emessa nel 1989 al termine del processo istituito da Falcone e Borsellino, terminò con la condanna all’ergastolo quali mandanti per  Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Nitto Santapaola, Bernardo Brusca, Michele Greco e Nene' Geraci. Un verdetto che si appoggiava su quello che era il “teorema Buscetta”, ovvero la responsabilità riconosciuta della Commissione quale vertice direttivo di Cosa Nostra, in tutti gli omicidi eccellenti. La sentenza venne annullata in appello, ma la Cassazione nel 1992, impose un nuovo procedimento che si concluse con la conferma di tutte le sentenze salvo quella di Nitto Santapaola che venne assolto.
La corte d’Assise di Palermo nel 2003, sempre per gli omicidi di via Carini, ha stabilito l’ergastolo per Giuseppe Lucchese, boss di Brancaccio, e Raffaele Ganci, capomafia del quartiere Noce. Nel 1995 i giudici avevano condannato sempre a vita, Antonino Madonia e Vincenzo Galatolo, quali esecutori materiali dei delitti. Per aver collaborato con la giustizia, avevano goduto di una riduzione di pena a 14 anni di carcere, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Grazie alla loro testimonianza, fu possibile ricostruire la dinamica dell’attentato. Una Bmw 518 con a bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci affiancò e superò l’A112 del generale e della moglie. Madonia sparò sui coniugi con un kalashnikov, mentre una seconda vettura guidata da Anzelmo era pronta ad intervenire per arrestare una eventuale reazione dell’agente di scorta Russo. Questi fu ucciso da Pino Greco “Scarpuzzedda” che a bordo di una moto completava il commando. Questa versione conferma che Greco giunse sulla A112 quando il lavoro è già terminato, e secondo la versione fornita dai pentiti Ganci e Anzelmo, egli avrebbe reagito con disappunto per non aver sparato per primo. “Me li avete fatti trovare morti”, sarebbe stata la protesta di “Scarpuzzedda”.
Nella requisitoria del 2002, il Pm Nico Gozzo disse: “…Un delitto maturato in un clima di solitudine…Carlo Alberto Dalla Chiesa fu catapultato in terra di Sicilia nelle condizioni meno idonee per apparire l’espressione effettiva e corale volontà dello Stato di porre fine al fenomeno mafioso…Cosa Nostra ritenne di poterlo colpire impunemente perché impersonava soltanto se stesso e non già, come avrebbe dovuto essere, l’autorità dello Stato”.  (20)

Rabbia e  indignazione
Le immagini con i corpi martoriati di Emanuela e Carlo Alberto all’interno della A 112 bianca crivellata di proiettili, faranno il giro del mondo. I funerali di Stato si celebrarono due giorni dopo, il 5 di settembre. In queste 48 ore, la moltitudine di cittadini onesti di Palermo e della Sicilia tutta, catalizzatori di un sentimento unico, espressione dell’intera parte sana del paese, accumula rabbia e indignazione fortissime. La folla snervata ed in collera, sfogò la sua frustrazione contestando aspramente tutte le personalità politiche che presenziarono le esequie. La diretta televisiva dei funerali consentì a tutta l’Italia di assistere ad un qualcosa di mai visto. Le immagini trasfusero in mezzo mondo le sequenze di un popolo esasperato che urlava “vergogna” ai suoi governanti. I parenti rigettarono la corona offerta dalla regione Sicilia, e accolsero l’abbraccio del solo Presidente della Repubblica Sandro Pertini continuamente in lacrime. Persino l’autorità ecclesiale si scagliò contro il potere politico. Il cardinale Pappalardo pronunciando in latino “…mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata…”, affermava che anche per i canoni della chiesa siciliana, spesso in passato connivente e mai limpidamente schierata contro la mafia, tutto questo era troppo. Un segnale importante, ma che rimarrà isolato.
Sul luogo dell’eccidio alcune ore dopo, oltre ai fiori e alle tante lacrime, comparirà un messaggio deposto da gente comune destinato ad entrare nella storia: “Qui è morta la speranza dei siciliani onesti”.
Una frase che descriveva meglio di ogni discorso, la sfiducia di chi da sempre è costretto ad assistere alla periodica morte di ogni rigurgito di legalità nella propria terra.
Lo Stato reagirà, non sapremo mai quanto spontaneamente, ma reagirà.
La risposta più luminosa giungerà da un manipolo di uomini, una esigua guarnigione di stanza in una zona di frontiera, le fila dei cui caduti, sarà destinata purtroppo ad allungarsi. (21)

                 
Note

(1), (2),  (3), (7), 14, Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – capitolo “Terra Infidelium” – pagine 401…407

4, 5,  Fonte “Gli insabbiati” – Luciano Mirone – Edizioni Castelvecchi – 2° edizione maggio 2008 – capitolo “Mauro De Mauro” pagine 100, 101

(6), Fonte “Gli insabbiati” – Luciano Mirone – Edizioni Castelvecchi – 2° edizione maggio 2008 – capitolo “Cosimo Di Cristina” pagine 23…52

8, 10, 13, 15, Fonte “digilander.libero.it/delitti_della_mafia”

(9), Fonte “Gli insabbiati” – Luciano Mirone – Edizioni Castelvecchi – 2° edizione maggio 2008 – capitolo “Mario Francese” pagine 225…252

11, Fonte www.ecodisicilia.com del 25/09/2009

12, Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Voglia di schierarmi” – pagine 7…17

16, (17), (18), Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Bisogna non essere soli” – pagine 18…36

19, Fonte “www.rifondazione-cinecittà.org”

(20), Fonte www.lastoriasiamonoi.rai.it

(21), Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Saguntum expugnatur” – pagine 37…49

 

 


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