La storia della Mafia Siciliana
Capitolo 11 - 1970- 1982 : I “ Corleonesi “ alla ribalta – Il terrorismo "Nero" e "Rosso" – La storia di Peppino Impastato.
Corleone e i “Corleonesi”
Vi sono luoghi in Sicilia, più rilevanti di altri per chi intende riannodare i fili delle vicende che raccontano la storia della mafia. La città di Corleone e le terre che la circondano, ne sono un esempio. Questi territori hanno visto la nascita di alcuni dei personaggi più terribili che l’organizzazione abbia annoverato come suoi boss. Qui vedono la luce i primi omicidi di Luciano Leggio detto “Liggio“, iniziali passi di una carriera costellata di sanguinarie imprese, nonché caposcuola di quella generazione di mafiosi nota come i “Corleonesi“, composta anche dai celeberrimi Totò Riina e Bernardo Provenzano. Il primo di questi, detto “‘U Curtu“ (soprannome dovuto alla sua bassa statura), avrebbe condotto tra il 1981 e il 983 una strage di concorrenti che salirà agli onori come la Seconda Guerra di Mafia. Una dittatura talmente efferata da mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’organizzazione. Leggio era un vero personaggio e venne accostato al personaggio cinematografico del “Padrino“, interpretato da Marlon Brando negli anni ’70, clichè sul quale il terribile criminale giocò ad arte. “Liggio” e i suoi seguaci diventarono tanto potenti in seno a Cosa Nostra, non solo perché più feroci dei rivali, ma perché capaci di riadattare i metodi tradizionali al clima dell’era dell’antimafia, in quella fase cioè dove l’attenzione generale verso la mafia si era alzata. In qualche modo i Corleonesi diventarono in seno a Cosa Nostra, ciò che l’organizzazione era in seno alla Sicilia: un “occulto letale parassita“, in grado si crescere silenziosamente, per poi sferrare il suo attacco mortale, quando troppo forte per essere contrastato. (1)
La carriera di “Liggio“
Luciano Leggio nasce nel 1925 da una famiglia poverissima e fu affiliato alla mafia da Michele Navarra nel 1943, in qualità di campiere di una tenuta. Navarra era il medico di Corleone e boss locale dell’epoca, nonché direttore dell’ospedale dopo la morte misteriosa del suo predecessore. Il 10 marzo 1948 Leggio compie il suo primo omicidio, forse per ordine di Navarra stesso: il sindacalista ed ex partigiano Placido Rizzotto, viene rapito e ucciso con 3 colpi di pistola a bruciapelo. Nonostante la testimonianza di chi lo aiutò a rapire Rizzotto, “Liggio“ non venne mai condannato. Il corpo del sindacalista rimase per sempre senza una tomba e solo nel 1996 venne eretto in suo onore un busto a Corleone.
Gli anni passano e l’indole di Leggio è poco propensa alla sottomissione altrui. Finisce per ingaggiare una lotta con lo stesso Navarra e dopo essere sopravvissuto ad un suo attentato, ripaga il suo ex mentore con la stessa moneta assassinandolo nel 1958. Il grave atto temerario costitutiva un gesto che per garantire la sopravvivenza dell’esecutore, doveva prevedere il proseguo della stessa azione violenta sul restante dei suoi rivali. Navarra era un personaggio amato e rispettato, tanto che i contadini del posto lo chiamavano “‘ u padri nostru“. Egli controllava un folto pacchetto di voti per la DC, nutriva del sostegno degli altri boss della regione e contava su strette relazioni con le famiglie americane. Corleone di lì a poco venne ribattezzata “Tombstone“, per la frequenza degli scontri a fuoco stile western che dal 1958 segnarono la scalata al potere dei Corleonesi. Fino alla strage di Ciaculli del 1963, furono 5 anni di lotta sanguinosa. Nel 1964 Leggio venne arrestato, processato a Catanzaro nel 1968 per poi finire assolto nel 1969. Durante la sua detenzione, pare abbia provveduto a far distruggere prove materiali e intimidito testimoni a suo carico. Una volta scarcerato, ebbe un ruolo chiave nella ricostituzione della Commissione, e ne fu un componente insieme a Gaetano (Tano) Badalamenti, trafficante di droga con legami in USA, e Stefano Bontate (detto il Principe di Villagrazia), il boss più importante di Palermo. La ricomposizione di questo organo che cambierà le sue regole, e a dispetto della sua prima edizione fornirà enorme potere ai capi famiglia, si completerà nel 1974. Da allora la sua fisionomia sino ad oggi non è cambiata e verrà per la prima volta illustrata al giudice Falcone da Tommaso Buscetta.
Dalla poverissima Corleone, Luciano Leggio si era insediato insieme al suo vice Totò Riina “nell’Elite Palermitana“, alla conquista di quello che sarà il “premio in palio“ della 2° Guerra di Mafia: la città di Palermo. (2) (3)
La tragica storia di Leonardo Vitale
La storia della mafia è soprattutto una lunga sequela di vicende di dolore e afflizioni, che segnano e stravolgono le vite di quegli uomini che con le loro famiglie, vengono colpiti a 360 gradi dalla sua azione violenta fisica e psicologica.
Una di queste racconta di Leonardo Vitale, e narra di un uomo fragile, scosso, emotivamente instabile, che un giorno decise di dare una svolta al suo passato di omicida e affiliato alla mafia, costituendosi alle autorità per esporre la sua storia. Era il 30 marzo del 1973, ed in preda ad una profonda crisi d’identità di carattere religioso, disse che voleva ricominciare una nuova vita. Si accusò di aver commesso 4 omicidi, ma pur essendo un esponente di basso rilievo nella scala gerarchica di Cosa Nostra, elencò i nomi di uno stuolo di affiliati alle famiglie di Palermo e non solo, tra cui Totò Riina, Pippo Calò, Vito Ciancimino e altri ancora, legando questi nomi a fatti, crimini e circostanze. Descrisse per primo i dettagli delle cerimonie di iniziazione alla mafia. Naturalmente questo bastò per attirare l’attenzione immediata di stampa e media. Dal suo racconto emergeva la figura di uno zio che l’aveva risucchiato nella organizzazione, per aiutarlo a fugare turbamenti giovanili di carattere omosessuale: “uccidi un uomo per essere un uomo“, era l’essenza dell’impronta familiare. Non riuscì a superare la prima prova d’ammissione che consisteva nel uccidere un cavallo. Superò la seconda: ammazzò un campiere di nome Mannino. I suoi parenti erano probabilmente eredi di un killer che aveva prestato opera al servizio di Raffaele Palizzolo a fine ‘800.
La sua instabilità emotiva unita alle difficoltà di espressione figlie di una scarsa istruzione, composero un mix che indusse gli psichiatri a dichiararlo in possesso di una memoria attendibile, ma seminfermo di mente. Vitale non fu ritenuto abbastanza credibile e il processo istituito per le sue rivelazioni nel 1977, portò alla condanna solo sua e dello zio su un totale di 28 imputati. Il contenuto delle sue testimonianze venne in gran parte confermato anni dopo da Buscetta: oltre alle informazioni già citate, si poneva per la prima volta e in modo esplicito, il marchio mafioso sul delitto del giornalista dell’ “Ora” di Palermo Mauro De Mauro avvenuto nel 1970. Condannato a 25 anni di prigione, Leonardo Vitale fu scarcerato nel giugno del 1984 dopo una detenzione trascorsa in diversi manicomi giudiziari. Il 2 dicembre dello stesso anno, mentre rientrava dalla funzione domenicale insieme alla mamma e alla sorella, Cosa Nostra venne a saldare il conto in sospeso con un fragile uomo caduto vittima delle sue debolezze e della malvagità di un sistema, nonchè mosso dal desiderio di riconquistarsi una nuova vita libera dalle catene mafiose. Vitale fu assassinato da un uomo non identificato con 2 colpi di pistola al capo.
Quando sul finire del 1985, i giudici Falcone e Borsellino presentarono la documentazione in vista del Maxi Processo che si sosteneva sul “teorema Buscetta“, aprirono il loro documento narrando la vicenda di Vitale. Quelle pagine terminavano con le seguenti parole: “E’ augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e merita”. (4)
Le stragi neofasciste
Gli anni ’70 verranno ricordati come uno dei periodi più bui della democrazia italiana dalla caduta del fascismo. Mentre la mafia torna a non rientrare tra le priorità da affrontare, nel momento in cui invece registrava un fervido risveglio dopo la parentesi della metà degli anni ’60, l’Italia entra in una dolorosa e delicata fase della sua storia. Una serie di attentati e azioni terroristiche di matrice neo fascista, che miravano a creare un clima di destabilizzazione e paura, scandirà gli anni tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’80. Un periodo che gli storici ribattezzarono con il nome di “strategia della tensione”.
Ad aprire questa stagione sanguinosa, fu una bomba che deflagrò il 12 dicembre 1969 nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana, nel centro della città di Milano: l’esplosione provocò 16 morti e 88 feriti. Il 1974 registrò nell’arco di poche settimane due nuove terribili pagine. Il 28 maggio a Brescia, mentre in Piazza della Loggia si sta tenendo un comizio al termine di una manifestazione antifascista, esplode una carica di tritolo nascosta in un cestino metallico della spazzatura: i morti saranno 8 e oltre 90 i feriti. Nella stessa estate, la notte del 4 agosto, un ordigno dilaniò la carrozza numero 5 dell’espresso Roma-Brennero. Nella strage del treno Italicus morirono 12 persone, e oltre 50 furono i feriti, ma le vittime sarebbero state molte di più se lo scoppio fosse avvenuto sotto la galleria di San Benedetto Val di Sambro.
Il 2 agosto del 1980, la sala d’aspetto della stazione di Bologna fu ridotta in macerie dall’esplosione di una bomba. In una calda e assolata giornata d’estate in pieno esodo vacanziero, 85 persone rimasero uccise e oltre 200 ferite.
La linea ferroviaria tra Firenze e Bologna, sarà ancora il teatro di una strage la sera del 23 dicembre 1984. A bordo del Rapido 904 partito da Napoli e diretto a Milano, l’ordigno scoppia proprio quando il treno transita nella galleria di San Benedetto Val di Sambro. I terroristi riescono a centrare le modalità fallite 10 anni prima con l’Italicus. I soccorritori estrarranno 15 morti e 267 feriti.
Una pagina oscura che ancora reclama trasparenza e integrale giustizia, dove diversi elementi emersi negli anni successivi, legheranno figure dei servizi segreti e quindi dello Stato, a questi nuclei eversivi e a oscure associazioni (Massoneria e P2). Se questo collegamento costituisse il tassello di un disegno più ampio e complesso teso a sovvertire la democrazia in Italia, o una risposta alla minaccia che proveniva dai movimenti studenteschi di sinistra, non venne mai chiarito con assoluta certezza. Negli occhi di milioni di italiani si fisseranno per sempre le immagini di quelle salme straziate che erano cittadini nelle loro città, uomini e donne in piazza a manifestare il loro dissenso alla violenza, o bambini in viaggio per le vacanze. Nel cuore di tanti cresce l’angoscia di vivere in un paese, dove porzioni dello Stato stringono occulte alleanze che determinano la morte di chi invece per dovere erano tenuti a proteggere.
La mafia, come confesseranno alcuni pentiti, conservava dinanzi a questi eventi una posizione di attesa: da sempre libera da ideologie restava in agguato, pronta ad insinuarsi per estorcere favori in cambio come la revisione di sentenze giudiziarie. Accertato fu però il suo coinvolgimento nella strage del Rapido 904, dove aiutò i terroristi neo fascisti a sistemare l’esplosivo: il cassiere della mafia Pippo Calò e il suo braccio destro Guido Cercola furono condannati all’ergastolo. Una mafia quindi non al servizio di una causa sovversiva, ma da sempre pronta ad ambire a tangibili contropartite.
Pippo “la salamandra”
Il nome di Giuseppe Calò rappresenta un tipico esempio dell’estremo vertice del potere mafioso connesso a 360° con ogni possibile attività criminosa. Calò nasce a Palermo il 30 settembre del 1921. In giovane età fu educato al lavoro alternando le professioni dei genitori, macellaio e barista. Non ancora 18enne però, si segnalò per aver inseguito e ferito a colpi di pistola l’assassino del padre. Venne reclutato dalla famiglia di Porta Nuova e le sue spiccate peculiarità caratteriali gli consentirono di distinguersi tra i “soldati” più promettenti. Scaltro, deciso, dotato di un eccezionale sangue freddo nei momenti più delicati, Giuseppe Calò si guadagna il soprannome di “salamandra”, proprio perché come l’anfibio è in grado di sgusciare indenne dalle situazioni più complicate. Nel 1969 viene nominato reggente dell’importante mandamento di Porta Nuova e tra i suoi uomini annovera anche Tommaso Buscetta. L’inizio degli anni settanta lo vedranno trasferirsi a Roma, dove sotto le mentite spoglie di Mario Agliarolo, di professione antiquario, provvederà ad investire e riciclare una quantità enorme del denaro delle cosche, tanto da guadagnarsi un altro degli appellativi con cui sarà per sempre noto: “il cassiere di Cosa Nostra”. Negli anni ottanta Giuseppe Calò sposerà la causa corleonese, schierandosi al fianco di Totò Riina e Bernardo Provenzano nella seconda guerra di mafia. Il soggiorno romano diverrà tappa fondamentale della sua carriera. Nella capitale entrerà in contatto con i membri della Banda della Magliana, un gruppo di delinquenti solo in apparenza comuni, che negli anni ‘70 e ’80 diverranno il braccio armato di svariati reati, alcuni dei quali connessi a misteri d’Italia ancora insoluti. Calò si serve di questi banditi senza scrupoli e spregiudicati, e allaccia stretti legami con frange dei servizi segreti, della massoneria, e della destra eversiva. Tutte entità che a loro volta arruoleranno gli uomini della Magliana per i propri servigi. Un intreccio criminoso in gran parte inesplicato di cui la mafia a volte è protagonista, o in altre semplice osservatrice, come sempre a seconda delle necessità.
Alcuni collaboratori di giustizia hanno raccontato della “salamandra” coinvolta anche nel caso Moro: nel corso di una riunione della Commissione, egli avrebbe bloccato una manovra di Stefano Bontate che intendeva salvare la vita al leader democristiano. L’intervento di Calò fu categorico, in quanto le sue altolocate conoscenze romane, lo portarono ad affermare che Moro doveva morire anche per il volere di influenti figure in seno alla Democrazia Cristiana stessa. Senza dubbio il boss fu uno degli organizzatori della strage del Rapido 904, attentato che secondo altri pentiti fu pianificato per distrarre l’opinione pubblica dalle rivelazioni sulla mafia per opera di Buscetta e non solo. Una sentenza all’ergastolo del 25 febbraio 1989, confermata in appello nel 1990, lo condannerà in relazione alla strage di natale del 23 dicembre 1984. Questa non sarà l’unica pena a vita inflitta a Calò. Altri tre ergastoli gli furono comminati per l’omicidio del commissario Boris Giuliano, per la strage di via Carini dove a Palermo perse la vita il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, e per l’attentato di Capaci dove venne assassinato il giudice Falcone, ma da questo ultimo fu assolto in appello nel 2002. Venne assolto anche con sentenza definitiva del giugno 2007, dalla accusa di coinvolgimento nel delitto del banchiere ex direttore del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, ritrovato cadavere a Londra sotto il ponte dei Frati Neri.
Al tempo di tutte queste condanne, Giuseppe Calò aveva già concluso da anni la sua carriera a piede libero. Il cassiere di Cosa Nostra venne arrestato il 30 marzo del 1985 in una villa di Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti. All’interno di quello che verrà definito un vero covo, gli inquirenti rinvennero un autentico arsenale da guerra.
Sul finire degli anni ’90 comparve su alcuni giornali la notizia di una sua dissociazione da Cosa Nostra. Annuncio che venne immediatamente smentito dall’interessato. (5) (6)
Il terrorismo “Rosso“
La violenza di stampo politico, non fu negli anni ’70 in mano al monopolio di frange destrorse e si assisterà alla formazione anche di vari gruppi eversivi di estrema sinistra. Questi organismi, alcuni dei quali agiranno come veri e propri nuclei armati, dinanzi alla consapevolezza che la società sognata sul finire del decennio precedente rimarrà una utopia, daranno vita ad una ulteriore pagina di terrore e sangue: “gli anni di piombo”. Tra tutte, l’organizzazione che effettuerà una vera e propria azione di guerra allo Stato, salirà alla storia con il nome di Brigate Rosse. Tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, cadranno sotto i colpi delle sue azioni terroristiche di stampo militare, esponenti della società di ogni campo. Vittime di vere e proprie esecuzioni in strada, saranno poliziotti, magistrati, imprenditori, giornalisti e perfino iscritti al PCI, accusati di “collaborare con lo Stato delle multinazionali“. La percezione comune di una democrazia in grave pericolo, raggiungerà il suo culmine quando il 16 marzo 1978, le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro (ex Presidente del Consiglio e leader della Democrazia Cristiana). L’operazione fu condotta dai terroristi nei termini di un vero attacco militare spietato e feroce, al termine del quale, 5 uomini della scorta di Moro rimasero uccisi. Il Presidente della DC fu tenuto prigioniero per 55 giorni, duranti i quali l’intero paese trattenne il respiro, e venne politicamente lacerato dagli scontri sulla strategia da adottare per il suo rilascio. Il 9 maggio si materializzò il timore di tanti, e il suo cadavere venne ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa, abbandonata in via Caetani a Roma.
Ombre e silenzi
Furono anni terribili. Anni di morte e di paura. Le vittime, tra i dilaniati dal tritolo fascista o i caduti e gambizzati dal fuoco dei terroristi di estrema sinistra, si contarono a decine. Centinaia furono i feriti. Mogli, mariti, figli, furono costretti a proseguire la loro esistenza orfani di un caro strappato alla vita. Innocenti e inconsapevoli martiri di una violenza cieca e vile, che negli attentati stragisti optò in modo premeditato di colpire a caso nel mucchio; o uomini che a vario titolo divennero il bersaglio di menti degenerate, convinte con le loro sentenze di morte di poter instaurare un nuovo ordine delle cose.
I parenti dei caduti di questa guerra ufficiosa, hanno deciso negli anni di riunirsi in una associazione, ma non è stata una scelta spontanea o mossa da fini speculativi. E’ divenuta una amara, dolorosa e triste necessità. In un duro ma bellissimo libro, “I silenzi degli innocenti”, di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo (BUR 2006), alcuni dei familiari delle vittime di stragi e terrorismo, prendono la parola a nome di tutti per invocare una giustizia negata, per affermare una verità occultata e messa sotto silenzio. Parole cariche di rabbia, delusione, disgusto. A chi domanda loro se sono pronti a perdonare gli assassini, molti rispondono che prima dovrebbero conoscere i nomi di chi dovrebbero perdonare. Pretendono di poter chiudere una ferita che ancora sanguina, perché la maggioranza di loro a distanza di decenni, non conosce i colpevoli dei crimini che gli sconvolsero l’esistenza. Altri hanno assistito alla prematura scarcerazione dei condannati, a loro sospette evasioni, a estradizioni mancate da paesi vicini. Alcuni di questi personaggi ha occupato nel tempo incarichi di prestigio in ambito politico, culturale, economico, apparendo di frequente sui media, senza manifestare nessuna richiesta di perdono o traccia di pentimento, lontani da qualsivoglia cenno che lasciasse trapelare un giudizio critico al riguardo delle azioni commesse in quegli anni.
I racconti dei familiari o dei sopravissuti, narrano dei tanti procedimenti penali sospesi, poi ripresi, infine annullati. Sentenze di colpevolezza in primo grado, ribaltate in assoluzione piena al termine dei successivi gradi di giudizio. Episodi oscuri nella conduzione delle indagini. Opere di palesi insabbiamenti, di occultamento della verità, di lacune investigative troppo evidenti per non apparire intenzionali. Di tutto questo, i membri dell’associazione incolpano in primis lo Stato, le Istituzioni, gli uomini che le hanno rappresentate. Dai parenti di chi ha perso la vita in Piazza Fontana, sull’Italicus, a Bologna, in servizio tra le forze dell’ordine, nella magistratura, nelle file di politici, giornalisti, sindacalisti, o di chi era dietro al bancone della propria macelleria, una unica voce ricorrente: lo Stato ha contribuito che la verità su quanto accadde in quegli anni non emergesse, perché troppe le figure coinvolte che ancora oggi vestono ruoli di potere. Una enorme pietra tombale sul passato con inciso a chiare lettere la dicitura “Segreto di Stato”.
Stragi, omicidi, ferimenti, inseriti in un contesto più ampio, dove terrorismo nero e rosso, furono il braccio di una occulta politica collusa a servizi segreti, massoni, mafiosi, forze straniere, tutti impegnati a deviare il corso naturale della democrazia. Ne sono tutti convinti, perché loro più di chiunque altro, sono stati testimoni di quanto nel silenzio è avvenuto dietro le quinte. Silenzio si, perché anche verso la stampa e gli organi d’informazione, lanciano un atto d’accusa pesante e diretto. Molto e troppo spesso, al guinzaglio delle lobby di potere o alla ricerca di quel consenso commerciale che poco si sposa con l’essere controcorrente, la categoria ha generalmente assecondato le teorie ufficiali senza scavare nel profondo. E’ venuta meno quella fondamentale azione di vigilanza e di ricerca della verità, che il giornalismo d’inchiesta doveva esercitare in modo esteso. L’arduo compito di scontrarsi con un muro di gomma, è invece ricaduto sulle spalle di un manipolo di coraggiosi professionisti.
Al posto di quella giustizia e verità indispensabili per voltare pagina, consentendo ad un paese quella necessaria resa dei conti con il suo passato per costruire con trasparenza il proprio futuro, solo ombre e silenzi.
Anche il “caso Moro“ rimane tuttora una delle tante pagine oscure della nostra storia democratica, sulla quale gravano ombre mai illuminate. La scelta dei tempi del suo rapimento (casualmente alla vigilia del possibile ingresso del PCI come forza di Governo), le incertezze investigative durante la sua prigionia (l’appartamento in cui Moro fu custodito per tanti giorni, venne più volte “solo sfiorato” dagli inquirenti), fino ad una inflessibilità nelle trattative mai ripetuta in seguito, costituiscono le tessere smarrite di un puzzle che ancora oggi per molti, non doveva prevedere la liberazione in vita dello statista democristiano. Una tesi audace, da alcuni ritenuta inaccettabile e addirittura pericolosa per la sua matrice destabilizzante, nonchè respinta con forza da chi quei giorni vestiva le cariche di potere, ma che se trovasse un giorno riscontro, relegherebbe le Brigate Rosse quale semplice braccio al servizio di menti operanti forse non solo nel nostro continente.
Una data quella del 9 maggio 1978, che registrò un altro triste evento. Un altro corpo o ciò che ne rimaneva, venne rinvenuto a Cinisi, un paese sulla costa occidentale della Sicilia. Un avvenimento di cronaca in apparenza marginale, sovrastato dal fragore suscitato dalla tragica conclusione del rapimento Moro. Eppure, dietro a quel ritrovamento, si celava una delle storie di lotta e resistenza alla mafia più toccanti e uniche, in grado negli anni che verranno, di elevarsi a simbolo per l’intero movimento antimafia.
I “ Cento Passi “ di Peppino Impastato
Nella vita di Giuseppe Impastato si cristallizza l’essenza di cosa significhi vivere in un luogo come la Sicilia, se si ama al di sopra di ogni altra cosa la libertà, la giustizia e la propria terra. Combattere e resistere alla mafia senza veli o paure nella provincia sicula degli anni ’70, conduceva spesso a due sole conclusioni: partire o morire.
Peppino non pensa nemmeno una volta di abbandonare la sua Sicilia, e la tragica morte che gli spezza la vita a soli 30 anni, pare l’epilogo di un destino segnato per chi come lui ha affrontato a viso aperto Cosa Nostra. A rendere straordinario il significato racchiuso nella sua condotta invece, sono proprio le origini della famiglia in cui cresce.
Giuseppe Impastato è il primo di due figli di un modesto uomo d’onore, affiliato alla mafia del posto. Sin da ragazzo, abbraccia con passione la causa del socialismo, verso la tutela dei più deboli e contro il capitalismo. Già a 15 anni prende la parola ai comizi, e la sua ideologia di sinistra si scontra con una mafia ancora in odore di repressione contadina. Un carattere e una personalità del genere, entrarono prestissimo in conflitto con il clima famigliare da sempre mafioso, conservatore, e fortemente religioso. Nel 1966 scrive un articolo su di un giornale locale dal titolo “ Mafia, una montagna di merda”. Uno dei parenti mafiosi non mancherà di suggerire al padre: “Se fosse figlio mio farei un fosso e ve lo seppellirei “.
La Cinisi dell’epoca era un centro tra i più importanti per lo smistamento della droga, ma gli affari mafiosi spaziavano a 360 gradi. Il boss locale portava nientemeno il nome di Gaetano Badalamenti, detto “ Tano “, legato alla mafia di Detroit, con solidissimi agganci a figure vicine ai servizi segreti americani, e ovviamente alle lobby politiche democristiane. Egli era uno dei più illustri esponenti di Cosa Nostra, potente trafficante di stupefacenti, e leader dal 1974 della Commissione da pochi anni ricostituitasi. Il temperamento rivoluzionario di Impastato, lacerò le posizioni all’interno della sua famiglia. Al suo fianco la sola madre, Felicia Bartolotta, che dopo una vita di vessazioni e maltrattamenti figlie della “cultura familiare”, cercava di frenare i toni del ragazzo temendo per la sua vita. Felicia a riguardo dei duri anni vissuti al fianco del marito ricorda : “Un martirio quello che ho passato…Quando lo sentivo arrivare mi pisciavo addosso, mai una parola dolce, mai uno svago, mai una festa, mai una lira, teneva tutto in mano, mi faceva uscire solo per andare a trovare il boss Tanino Badalamenti e parlare con sua moglie“.
Peppino non si fermò, e nonostante le minacce mafiose, attaccò Cosa Nostra in difesa dei contadini che venivano espropriati delle loro terre per la costruzione dell’aeroporto di Palermo, operazione che avrebbe garantito all’onorata società guadagni stellari. Lottò al fianco degli operai sfruttati da imprenditori mafiosi e nel 1977, fondò Radio Aut, piccolissima radio locale, dai cui microfoni lanciò trasmissioni di satira miscelata a musica. In una di queste rielaborò una versione del lontano Far West, dove Tano Badalamenti diventava “Tano Seduto“ e dove “Mafiopoli o Maficipio“, erano le definizioni che attribuiva alla sua città e comune. Il successo, nonostante la limitata potenza del segnale radio, fu straordinario. Gli intoccabili mammasantissima della zona furono il bersaglio di irriverenti epiteti e precise accuse. Badalamenti ed i suoi maturarono l’inevitabile, ancor più feriti nell’onore in quanto ridicolizzati in pubblico, che preoccupati dei risvolti giudiziari di denunce destinate a cadere nel vuoto, in un feudo ove ogni mossa non sfuggiva al loro controllo.
Giuseppe era consapevole dei rischi che correva e forse nell’intimo quasi certo della sua morte da quando, nel settembre del 1977, rimase privo di protezioni dopo la morte del padre investito e ucciso da un auto. Nonostante le sue origini, il babbo aveva tentato il possibile per proteggere la vita del figlio, fino a divenirne capro espiatorio in prima persona. Al funerale del genitore, il giovane Impastato si rifiutò di dare la mano ai parenti mafiosi, provocando una ulteriore offesa non più tollerabile.
Nella primavera del 1978, a pochi giorni dalla sua fine, allestisce una mostra fotografica per illustrare una serie di danni all’ambiente provocati dagli abusi edilizi di strade e case ad opera delle imprese controllate dalla mafia, candidandosi poi alle elezioni comunali. I timori della madre che da mesi ripeteva “spegnere una candela per loro è un gioco da ragazzi e non ci vuole niente“, troveranno conferma nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978.
Peppino fu sequestrato di ritorno dagli studi di Radio Aut, picchiato e torturato. Gli venne legata una cintura di candelotti di dinamite alla vita e fu gettato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani, vicino ad una casupola nei pressi della recinzione di quello stesso aeroporto contro la cui costruzione si era lungamente battuto. L’esplosione lanciò i resti del suo corpo per un raggio di 300 metri e parzialmente intatte rimasero solo le gambe, parte del viso e le mani. Una morte orribile e tragicamente identica a quella di cui fu vittima uno zio acquisito nel lontano 1963, tale Cesare Manzella che nel pieno rispetto della tradizione familiare, all’epoca era boss di Cinisi. Una morte che gli aveva sin da ragazzino affollato d’incubi i sogni, e suscitato una domanda senza risposte: “Ma che cosa ha potuto provare?”.
Un evento che segnò da spartiacque per l’intera sua esistenza, perché all’indomani della vista di un uomo ridotto a brandelli dal tritolo mafioso, tornò a casa nauseato e disse “Se questa è la mafia, dedicherò tutta la vita a combatterla“.
Le prime indagini sulla morte di Impastato furono un monumento alla superficialità, all’ottusità e ad una tale incapacità investigativa, che fu impossibile non sospettare una collusione tra forze dell’ordine e Cosa Nostra locale. Non venne eseguita nessuna perizia sul luogo del crimine, e nessuno diede rilievo al sangue ritrovato all’interno della casupola dove Giuseppe era stato seviziato. Secondo gli inquirenti, Peppino era morto ucciso dalla bomba che stava sistemando sui binari, e per dare seguito a questa teoria, perquisirono la sua casa, quella di amici e parenti, la sede della radio, ignorando il suo impegno alla lotta alla mafia, e la lunga serie di nemici che a Cinisi e dintorni desideravano in modo palese la sua morte. Venne dato credito per molti anni ad una vecchia lettera di Giuseppe ritrovata tra una montagna di appunti e documenti nella sua camera. Righe nelle quali Impastato, in un momento di sconforto della sua inarrestabile lotta alle ingiustizie, sfogava la propria rabbia e frustrazione. Quel testo venne strumentalmente interpretato ad arte per alimentare una surreale ipotesi terroristico-suicida. Ignorando il particolare che un uomo in procinto di un gesto così estremo, lascerebbe in evidenza un suo eventuale messaggio di addio, e non sepolto da decine di altri fogli, gli inquirenti si appoggiarono a quella tesi con cieca ostinazione. Aldilà di ogni sforzo interpretativo, per nutrire dubbi su questa fantasiosa ricostruzione, sarebbe bastato aprire gli occhi a ciò che si aveva dinanzi: tra i pochi resti del povero Peppino, le mani vennero recuperate quasi integre. Un ulteriore elemento trascurato che strideva con la teoria di una bomba esplosa in mano al presunto attentatore.
Ciò nonostante il trafiletto che sul Corriere della Sera descriveva il fatto, accennava a un “Ultrà di sinistra dilaniato dalla sua bomba“. Una linea seguita nei giorni successivi, dalla gran parte degli organi di informazione a conferma di quanto tutti fossero lontani dalla verità, più o meno in buona fede.
Furono gli amici nel corso di “una giornata di indicibile pena“, a raccogliere in buste i frammenti del corpo di Peppino ignorati dai carabinieri, a recuperare la pietra sporca del suo sangue con cui fu tramortito. I giorni che condussero al funerale furono trascorsi a Cinisi in un clima di grande tensione, tra illazioni su depistaggi e misteriose perquisizioni. I più di mille attivisti e amici che ne accompagnarono il corteo funebre, mostrarono cartelli che urlavano dolore e rabbia (“Peppino è stato assassinato dalla mafia“), ma anche la ferma intenzione a non rendere vano il sacrificio di un giovane che entrerà di diritto nelle figure simbolo della lotta a Cosa Nostra (“Con il coraggio e le idee di Peppino noi continuiamo“) . Dopo le esequie, gli stessi si fermarono dinanzi alla abitazione di “Tano Seduto“ per sfidarlo al grido di “Badalamenti Boia“. Il risultato di anni di impegno e lavoro instancabile nel raccogliere prove, perizie e testimonianze dei pentiti, ad opera del fratello, degli amici, e di tanti altri volontari unitisi a loro nel tempo, consentì alla costituzione di una Commissione Parlamentare d’Inchiesta che finalmente nel 2000 portò alla luce le omissioni e le lacune delle indagini. Il fratello di Giuseppe, Giovanni Impastato, nel corso della sua deposizione, raccontò di vari episodi dove i carabinieri si vedevano camminare a braccetto con Badalamenti per le vie di Cinisi, e di come fosse oramai impossibile credere alla giustizia dinanzi a simili testimonianze.
Nel 1999 intanto, don Tano (già in carcere da tempo nel New Jersey per traffico di stupefacenti), venne rinviato a giudizio, e nel 2002 fu condannato all’ergastolo quale mandante dell’omicidio di Giuseppe Impastato. Circa due anni più tardi, il 30 aprile del 2004, il destino emise una sentenza di altra natura e definitiva: Badalamenti morì in carcere dopo una lunga malattia. Proprio mentre il processo era in corso, venne presentato al Festival del Cinema di Venezia il film “I cento passi“, di Marco Tullio Giordana, che narrava della storia di Peppino. Un lavoro straordinario, duro, emozionante, dove un grande Luigi Lo Cascio (allora semisconosciuto al pubblico cinematografico), riportò in vita le gesta del giovane di Cinisi, ponendo in rilievo il coraggio di chi pur vivendo a 100 passi dall’abitazione di Gaetano Badalamenti, non si piegò alle regole della mafia. Il film che vincerà il Leone d’Oro alla rassegna cinematografica, ottenne da Felicia Bartolotta Impastato mamma di Giuseppe, il riconoscimento più importante, quando a commento del film ringraziò tutti per aver riportato in vita il vero Peppino.
L’esempio di questa donna costituisce un altro simbolo di coraggio e sacrificio per restituire la verità e la giustizia al ruolo che le competono. Essa ha resistito all’indifferenza e al pregiudizio per ridare dignità alla memoria del figlio, affinché questa divenisse un motivo di fiducia per le generazioni future. Una testimonianza che rivela il peso delle donne nella società mafiosa. A loro è spesso consegnato il ruolo di silenti veicoli del valore mafioso di generazione in generazione, donne spesso fiere di essere una componente di un sistema che trasmette ai figli gli stessi valori dei padri. Felicia Bartolotta oggi non è più tra noi, ma il suo impegno ha dimostrato al mondo che è possibile per amore dei figli spezzare questa catena e invertire la direzione, contribuendo alla linfa di quel movimento antimafia che può e deve essere un motore di speranza.
Giovanni Impastato, unitamente agli altri compagni di Giuseppe che con lui fondarono Radio Aut, oggi ha raccolto il testimone del fratello e da anni viaggia per l’Italia partecipando a conferenze, dibattiti, presentazioni di libri. Nel loro peregrinare verso ogni angolo del paese, essi proseguono instancabilmente la loro resistenza civile per contribuire alla vitalità della coscienza collettiva. Ad ascoltarli un pubblico di ogni età, ma è all’indirizzo dei ragazzi delle scuole medie e superiori, che rivolgono con maggiore incisività il racconto della vita di Peppino e del suo esempio, rivelando quanta resistenza ancora occorra mettere in campo affinché il nostro paese non finisca preda del potere criminoso, del malaffare e della ingiustizia, di cui le mafie sono una delle espressioni più violente e crudeli.
Un impegno condotto nella speranza che ad ogni nuovo incontro, la vita e le gesta di quel indomito ragazzo siciliano, alimentino nei giovani e non solo una insaziabile fame di giustizia e libertà.
Giovanni non immaginava che la sua esistenza avrebbe imboccato questo corso, trasformando le sue giornate in occasioni in cui “…conosco persone straordinarie, dove mi arricchisco continuamente, mi carico d’entusiasmo“. Lo stato d’animo muta radicalmente quando rientra nella sua Cinisi. “Quando ritorno a casa…”, prosegue il fratello di Peppino, “…mi cadono le braccia…”
A conferma di quali barriere culturali restino da abbattere, e di quanta strada rimanga ancora da percorrere, Giovanni ricorda ancora oggi segnato ed emozionato dal dolore che riaffiora, quanto accadde in occasione dei funerali della madre Felicia, scomparsa nel Dicembre del 2004:
“Quando morì mia madre, una persona modesta, umile, che ha avuto il solo torto di spiegare con semplicità la crudeltà di Cosa Nostra, al funerale viene un sacco di gente. Da fuori. Da Cinisi, tranne qualche amico intimo, neanche un cane. Qui Peppino non è stato capito da vivo e non viene capito neanche da morto. Da quando è uscito il film noto che l’ostilità è persino aumentata.”
Tutti noi dobbiamo interrogarci, se al cospetto di una realtà dove per ottenere giustizia si sia atteso oltre 25 anni, al prezzo di sacrifici indicibili e umiliazioni pesantissime, si possa parlare di autentica giustizia. (7) (8)
Dietro alle quinte della Giustizia qualcosa sta cambiando
Dietro a questi anni tumultuosi, e agli esempi forniti da una giustizia macchinosa e in affanno come le vicende di Vitale e Impastato ci mostrano ancora una volta, stava avvenendo una trasformazione poco vistosa ma importante. Tra le quinte del sistema giudiziario, era in corso un lento mutamento che sarà alla base del sorgere di una generazione di magistrati, in grado di dare il là ad una nuova era nella lotta a Cosa Nostra. La sfida alla criminalità organizzata, richiedeva un impulso che giudici troppo conservatori e privi di energia quali erano buona parte di quelli in carica, non era più in grado di fornire. Alla base della metamorfosi due ragioni essenziali: l’aumento di chi riesce ad accedere all’istruzione superiore, incrementò il numero di coloro in possesso dei requisiti per la carriera di magistrato. In secondo luogo, la creazione di un organismo di autogoverno per i magistrati quale fu “Magistratura Democratica“, contribuì al ringiovanimento dell’organico, e a fornire l’energia necessaria per raggiungere l’obbiettivo in grado di dare una svolta alla lotta alla mafia: condurre sul banco degli imputati anche i mafiosi in “colletto bianco“.
La pressione della politica sulla vita di questo nuovo organo, influenzerà parte degli obbiettivi innescando accese proteste, ma anche se i grandi successi su Cosa Nostra appaiono lontani a venire, l’immobilismo era stato infranto. (9)
Note
(1), (2), (4), (7), (9), Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – capitolo “Le origini della seconda guerra di mafia 1970-1982” – pagine 349…366
(3), (5) Fonte “digilander.libero.it/boss mafiosi”
(6), Fonte “www.wikipedia.org/Giuseppe Calò
(8), Fonte “Gli insabbiati” – Luciano Mirone – Edizioni Castelvecchi – 2° edizione maggio 2008 – capitolo “Giuseppe Impastato” pagine 183…224