La storia della Mafia Siciliana
Capitolo 16 - 1982-1983: Il metodo Falcone - Cosa Nostra non da tregua allo Stato - Nasce il pool antimafia
Il giudice Falcone ed il suo metodo
Giovanni Falcone si trasferisce a Palermo nell’estate del 1978. La sua carriera si era avviata come pretore a Lentini, e giudice a Trapani. Nel capoluogo venne inizialmente assegnato alla sezione fallimentare del tribunale, ma successivamente all’omicidio del giudice Terranova del 25 settembre 1979, fu accolta la sua domanda di passare all’ufficio istruzione. Il responsabile della sezione istruttoria era all’epoca Rocco Chinnici, da tutti definito una sorta di padre tutelare per una intera generazione di magistrati. Chinnici comprende all’istante la stoffa dell’ultimo arrivato, e gli affida il processo Spatola, originato da quella serie di ordini di cattura emessi dal procuratore Gaetano Costa prima di essere ucciso. Oltre ai nomi di alto rango mafioso coinvolti, vi erano elementi che legavano questi al traffico di stupefacenti tra la Sicilia e gli Stati Uniti. Esaminando i filoni d’inchiesta del procedimento Spatola e all’inizio quasi inconsapevolmente, Falcone elabora un metodo innovativo per l’istruzione dei processi di mafia. In realtà egli non inventa nulla di nuovo, ma l’acume lo porterà ad interpretare gli elementi affioranti, adattandoli ad una nuova visione del fenomeno mafioso. Ogni porzione d’indagine diviene così solo in apparenza scollegata con l’altra. Egli compie lo sforzo di applicare una visione d’insieme. Supera nella sostanza quella barriera che gli consentirà di legare varie parti al medesimo percorso, infrangendo quel muro concettuale contro il quale molte indagini per mafia si erano arenate. Un esempio illuminante di questa nuova procedura, troverà conferma nei filoni d’inchiesta che da Palermo conducono negli USA. Falcone decide di trasferire anche all’estero le diramazioni delle indagini. Si annullano così quei confini geografici che costituivano un altro ostacolo ove s’infrangevano le piste degli inquirenti. Le tracce da seguire divengono le orme che i dollari o il denaro in genere, legati agli affari di Cosa Nostra, lasciano dietro di se. Falcone ripeteva di frequente: “La nostra filosofia di giudici palermitani deve essere questa: se l’eroina finisce negli USA...e se questa viene pagata in dollari, a noi non resta che cercare dove finiscano quei dollari…La droga può anche non lasciare tracce, il denaro le lascia sicuramente…”.
La nuova frontiera delle indagini si spostò sugli accertamenti bancari, che spesso compievano percorsi tortuosi da e per l’Italia verso l’estero. Inutile dire come tale nuova direzione suscitò un vespaio da parte di quegli istituti di credito abituati a concepire il segreto bancario alla stregua del confessionale per un sacerdote. In molti dovettero adeguarsi al fatto che il segreto bancario si annullava al cospetto dell’autorità giudiziaria. Dall’alto si alzò un coro di voci che intimava a Chinnici di porre un freno ai suoi uomini, perché con la loro attività mettevano in pericolo “quella riservatezza necessaria allo sviluppo economico dell’isola”. (1)
Un iper attivismo contagioso per una svolta epocale
Chiunque oggi combatta, si occupi o solo si interessi di lotta alla criminalità organizzata, si è da tempo allineato alla logica di quegli impianti d’inchiesta. E’ normale pensare che quella sia la strada da perseguire per colpire al cuore la mafia, e sembra enunciare concetti scontati quando si parla di indagini coordinate, di piste che portano all’estero, di inseguire le linee internazionali del denaro sporco, o nei circuiti del riciclaggio. Quello che venne ribattezzato il metodo Falcone, costituiva invece per l’epoca un apparato di idee rivoluzionarie, che avrebbe per sempre condizionato la guerra alla criminalità organizzata e non solo mafiosa. La mafia esisteva da oltre un secolo, ma gran parte delle logiche investigative attuali nascono dall’era di Falcone, di Borsellino e del pool antimafia che nascerà tra breve. Per affermarli, il giudice dovette superare l’ostruzionismo che per primo si manifestò tra molti colleghi. A chi nel tempo gli chiese una opinione sulle difficoltà insorte nel persuadere magistrati anche esperti, ma recalcitranti a condividere i suoi principi investigativi, Falcone rispose con estrema eleganza e signorilità, adducendo e tre ragioni primarie: pigrizia, ricerca e conservazione di un quieto vivere, e arretratezza culturale nella comprensione degli automatismi mafiosi.
Ma le ragioni verosimilmente si fermavano a queste?
Forse ne esistevano altre, alcune oscure ma non generalizzabili. Di certo vi era anche una componente di rivalsa individuale verso una figura che poco dopo il suo arrivo impose la sua voce a chi occupava il ruolo da anni. Un uomo che lavorava instancabilmente, riservato e quindi inattaccabile anche su questo fronte. E furono proprio il suo iper attivismo e il vigore, uniti alla capacità di catalizzare le forze e l’entusiasmo degli altri colleghi che con lui vissero l’esperienza del pool antimafia, ad infrangere barriere all’epoca impensabili. Il concetto di lavoro di squadra fu alla base dei successi, perché come Falcone ripeté in più occasioni, quando un magistrato come un politico rimane solo ad affrontare al mafia, egli diviene un obbiettivo vulnerabile. Molti colleghi furono uccisi con troppa disinvoltura proprio perché lasciati soli, non in collegamento con gli altri. Non potendo contare sulla protezione della politica, i magistrati compresero che la forza dell’unione poteva partire dall’interno della magistratura stessa, e da lì muoversi per attecchire nelle radici del tessuto sociale, nella speranza di indurre quella metamorfosi culturale attraverso il sostegno della tanta gente onesta di Sicilia. 2
La reazione del paese alla morte di Dalla Chiesa
Il trauma per la barbara morte del generale Dalla Chiesa, generò una scossa a 360°. La rabbia della gente fu documentata in mondo visione dal lancio di monetine verso la quasi totalità della delegazione politica presente ai funerali. I familiari si scagliarono senza esitazioni contro la direzione della Democrazia Cristiana, accusandola di aver lasciato solo il neo prefetto di Palermo nel momento più delicato. Questa una dichiarazione del figlio Nando, rilasciata pochi giorni dopo la tragedia: “Durante la lotta al terrorismo, mio padre era stato abituato ad avere le spalle coperte, ad avere dietro di sé tutti i partiti dell’arco costituzionale, Democrazia Cristiana in testa. Questa volta appena arrivato a Palermo capì, sentì che una parte della DC non solo non lo copriva ma gli era contro”. 3
Lo stesso Dalla Chiesa, in una celebre intervista rilasciata a Giorgio Bocca pochi giorni prima di morire, nell’agosto del ’82, ribadiva: “…la mafia uccide quando si verifica una sorta di combinazione fatale, sei diventato pericoloso, ma sei isolato”. 4
Dalla Chiesa non ricevette mai i poteri speciali che aveva richiesto, e fu vittima di una campagna di stampa che acuì la percezione del suo isolamento. Un distacco così palese e ampio che costituì il viatico per Cosa Nostra a procedere alla sua eliminazione. Riina e i vertici dinanzi a questo scenario, ritennero moderato il rischio derivante da un simile attacco allo Stato. La ricchezza ed il potere acquisiti con i ricavi dalla droga, avevano portato Cosa Nostra a non temerlo, alzando il tiro dei suoi obbiettivi a livelli impensabili solo pochi anni prima.
La reazione del paese si concretizzò nell’immediato con l’uscita dal letargo del Parlamento, che in pochi istanti approvò il disegno di legge Rognoni-Pio La Torre, dormiente alle camere da una eternità. La normativa di contrasto al potere mafioso venne rafforzata, ma soprattutto dopo oltre 100 anni dall’unità d’Italia, per il paese divenne un reato penale l’associazione di stampo mafioso. La definizione prevista dalla legge parlava di “…un’organizzazione criminale improntata sull’intimidazione sistematica, sull’omertà e sull’infiltrazione nell’economia con i racket estorsivi su base territoriale”. La riforma legislativa conteneva inoltre la possibilità di confiscare beni ai mafiosi per accertarne la provenienza illecita. Erano frecce acuminate di cui ora il paese disponeva per scagliare alla mafia attacchi più efficaci, per condurla nei tribunali, ma non fu mai lo Stato nel senso più generale e collettivo a tendere la corda dell’arco. In prima linea, spesso con un ambiguo appoggio politico, rimasero una minoranza di poliziotti e magistrati, sostenuti da pochi esponenti politici, amministratori locali e comuni cittadini. 5
Ombre dietro al delitto
Nel corso delle stesse indagini relative all’omicidio Dalla Chiesa, diversi furono gli episodi allarmanti. Durante il primo sopraluogo nella casa del prefetto, poche ore dopo il delitto, non si riuscì ad aprire la cassaforte del generale perché non si ritrovarono le chiavi. Due giorni dopo le stesse vennero rinvenute in un cassetto di una scrivania quella sera risultato vuoto. Si aprì la cassaforte ma dentro non c’era niente: avevano già provveduto a svuotarla. Si ripeteva con regolare puntualità quanto già accaduto in altri omicidi eccellenti, dove qualcuno si preoccupa a far scomparire i documenti personali e di lavoro delle vittime, un attimo prima che questi cadessero nelle mani delle forze istruttorie. Era avvenuto con la borsa che Aldo Moro aveva nell’istante del sequestro, sparita; si ripeterà con il computer di Giovanni Falcone ripulito, e ancora con l’agenda rossa di Paolo Borsellino, svanita nel nulla il giorno del suo attentato. Occulte forze si presentano con tempismo quanto meno inquietante, a far sparire ciò che di più privato e utile per le indagini, conservavano queste personalità uccise di morte violenta.
Altro episodio. Venne smascherato dopo giorni di accertamenti un apparente mitomane, tale Giuseppe Spinoni, che affermava di essere un testimone della strage. Venne condotto dagli inquirenti sul presunto luogo dell’uccisione per un incidente probatorio, perché fornisse una ricostruzione di quanto asseriva di aver visto. Uno di loro fu colpito da un’intuizione geniale, e invece di condurlo in via Isidoro Carini teatro degli omicidi, fu portato in via Giacinto Carini, un’altra quasi omonima strada di Palermo, ma differente e distante dalla prima. Lo Spinoni non si accorse della differenza e descrisse nei dettagli quanto secondo lui aveva visto quella sera. Tornato in questura venne sbugiardato. Depistaggio articolato o frutto di un mitomane isolato? Non emerse nulla di concreto.
Come all’indomani degli omicidi Mattarella e La Torre, iniziò a diffondersi l’indiscrezione che voleva incanalare il delitto Dalla Chiesa sulla pista della vendetta terroristica. Qualcuno sosteneva che le Brigate Rosse avessero voluto far pagare al generale, il prezzo del suo vittorioso impegno contro il terrorismo. I magistrati palermitani erano fermamente convinti che le armi fossero state imbracciate da Cosa Nostra, e dovettero per dimostrarlo, compiere sofisticate prove balistiche che accomunavano agli stessi kalashnikov, i proiettili rinvenuti nei delitti Bontate, Inzerillo, della strage della circonvallazione e Dalla Chiesa. Pista chiusa, mafia unica responsabile.
Anche in questo caso si era dinanzi al legittimo puntiglio investigativo di alcuni, o all’ennesimo tentativo di spostare l’asse dei crimini lontani dall’orizzonte mafioso? (6)
L’8 marzo del 2003 la Corte d’Assise di Palermo ha condannato all’ergastolo per gli omicidi Dalla Chiesa, Setti Carraro e Russo, Giuseppe Lucchese e Raffaele Ganci, boss del quartiere Noce. Si trattava del terzo procedimento sulla strage. Con sentenza divenuta definitiva nel 1995, all’ergastolo erano già stati mandati Antonio Madonia e Vincenzo Galatolo, mentre Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci, beneficiarono di una riduzione della pena a 14 anni di carcere per collaborazione con la giustizia. Tra coloro condannati per la morte dell’autista Russo, vi era anche Pino Greco detto “Scarpuzzedda”, uno dei killer più spietati e operosi al servizio di Riina. Nel caso di “Scarpuzzedda”, il braccio armato interno a Cosa Nostra anticipò le forze dell’ordine dello Stato, e questi venne eliminato per “eccessiva intraprendenza”, un bizzarro capo d’imputazione formalmente non riconosciuto dalla nostra ordinazione giuridica, ma ritenuto inaccettabile secondo il codice d’onore.
Senza tregua
Mentre i cadaveri generati dalla mattanza continuavano ad emergere a decine da ogni angolo di Palermo e della Sicilia, quel tragico 1982 era destinato a chiudersi con un altro lutto tra le fila della polizia. Il 14 novembre l’agente Calogero Zucchetto viene freddato da 5 colpi di calibro 38 all’uscita di un bar. Zucchetto aveva 27 anni, aveva fatto parte della iniziale scorta di Falcone per poi passare sotto il comando del commissari Beppe Montana e Ninni Cassarà, alla ricerca dei latitanti. Era un agente brillante, e le sue doti professionali gli avevano consentito risultati eccellenti. Elementi meritocratici inaccettabili per i canoni mafiosi.
Il tragico bollettino di guerra registra nuovamente Monreale quale teatro di un nuovo eccidio: a distanza di tre anni, viene nuovamente assassinato il comandante della locale stazione dei carabinieri. Una strage che sconvolge tutto il paese per la sua efferatezza. Una ennesima dimostrazione di sanguinaria ferocia che il 13 giugno 1983 lascerà sul terreno il capitano Mario D’Aleo, insieme all’appuntato Bonmarito e al carabiniere Marici. D’Aleo era subentrato al defunto Emanuele Basile. 7
Sono anni terribili per le forze dell’ordine in Sicilia. “Ci si sente come in trincea” diranno in molti, ma a questo sentimento comune se ne associava un altro come scrive Giuseppe Ayala: “Non c’era tregua…ma quanto più avvertivamo che non ce n’era, tanto più sentivamo che la posizione andava tenuta oggi, e magari avanzata domani”. 8
A Trapani muore Gian Giacomo Ciaccio Montalto
Riavvolgendo il nastro della storia di alcuni mesi, quel 1983 era apparso sin dai suoi primi giorni come un anno destinato a restare impresso come tra i più tragici nella storia della lotta alla criminalità organizzata. Il giorno 25 gennaio a Trapani era caduto il sostituto procuratore della Repubblica Giangiacomo Ciaccio Montalto. Il magistrato venne assassinato barbaramente a colpi di pistola mentre in auto stava rientrando nella sua casa a Valderice. I criminali non dovettero preoccuparsi che di attenderlo in via Carollo, una stradina alla periferia del centro pedemontano, costringerlo a fermare la corsa della Golf a cui era alla guida, e freddarlo dinanzi alla sua villetta. Non gli venne lasciato il tempo di reagire, ne di scendere dalla vettura. Ciaccio Montalto era privo di scorta e di auto blindata: l’effetto delle insistenti e ripetute minacce alla sua vita, non avevano indotto le autorità a fornirgliela. Alcune voci autorevoli del fronte istituzionale, interrogate dai media sul tema dopo l’assassinio, accamperanno quale motivazione il non aver ritenuto tali intimidazioni attendibili. Rafforzeranno le proprie tesi in quanto privi di simili precedenti nella città di Trapani. Ciaccio Montalto era sì il primo esponente dello Stato che la mafia trapanese decideva di eliminare, ma quanto accaduto negli ultimi mesi in tutta la Sicilia, rendeva quanto meno ridicole, nonché irritanti ed inaccettabili simili giustificazioni.
Giangiacomo quindi muore isolato, e la sostanza del suo presunto abbandono da parte dello Stato, non darà origine a nessuna ammissione. Neppure da parte dei pochi colti da flebili azzardi autocritici, traspare il benché minimo accenno ad una colposa superficialità. L’amico Giovanni Falcone invece, la penserà per sempre in maniera diversa: “Si è ripetuto il medesimo canone…Ciaccio Montalto muore perché è rimasto solo”. Una solitudine acuita anche dalla lontananza degli affetti della moglie, delle tre figlie e della nipote, che vivevano altrove, e dalle circostanze subitanee al delitto: il corpo crivellato di proiettili del magistrato, rimarrà nell’auto per tutta la notte. Nonostante la via teatro dell’agguato fosse al centro di una zona residenziale densamente abitata, nessuno trovò il coraggio di soccorrere la vittima e nemmeno di chiamare le forze dell’ordine. Solo alla mattina del giorno seguente alla vista di un corpo riverso in un’auto perforata di proiettili, qualcuno diede l’allarme, ma l’ignoranza e la malafede non mancarono di prolungare i loro effetti anche sulla memoria del giudice. Si parlò per mesi di una morte dovuta ad un delitto passionale in quanto si mistificò all’uomo una condotta privata discutibile infarcita di donne e tradimenti. Voci che vennero smentite e senza ombre, ma nel tempo, consentendo così alla mafia di uccidere la propria vittima più di una volta.
Le forze dell’ordine che giunsero sul posto trovarono la vittima riversa sui sedili anteriori. Il lunotto dell’auto ed il parabrezza lato guidatore infranti. L’orologio della plancia era bloccato all’1,12, l’ora dell’agguato. Sul terreno vennero ritrovati diciotto bossoli calibro 30 Luger e altri cinque calibro 7,65 parabellum. Una autentica tempesta di fuoco aveva investito il giudice, una sparatoria impossibile da non udire.
Ciaccio Montalto entro poche settimane, avrebbe visto esaudire una sua volontà: il trasferimento in Toscana alla procura di Firenze. Una scelta dettata dal proprio istinto professionale, ed in attesa della quale non aveva lesinato l’impegno di sempre. Nato a Milano il 20 ottobre del 1941, entra in magistratura dal 1970, giungendo a Trapani l’anno successivo. Profondo conoscitore dei clan del trapanese, da anni indagava sui loro affari in ambito di droga, armi, sofisticazione di vini, sui proventi derivanti dalle frodi comunitarie e dagli appalti sulla ricostruzione del Belice, sulla cementificazione selvaggia di zone della bellissima costa locale, nonché sui legami con Cosa Nostra americana. Ciaccio Montalto veniva soprannominato la memoria storica della procura di Trapani. A differenza di molti suoi colleghi, riusciva ad estrapolare da reati comuni quali singoli omicidi o liti famigliari, il mutamento degli equilibri all’interno del panorama mafioso trapanese. Si mostrò straordinariamente capace, nel fiutare le tracce dei flussi di denaro all’interno dei percorsi bancari che collegavano la mafia alla imprenditoria e alla politica, con la partecipazione attiva della massoneria. Molte indagini che all’epoca sembravano azzardate, grazie ai faldoni d’inchiesta ereditati dal giudice milanese, si riveleranno in grado di leggere con l’anticipo di anni le evoluzioni criminali del trapanese e non solo.
Lo sguardo di Ciaccio Montalto infatti non si fermava dinanzi ai primi arresti, non si accontentava dei pesci piccoli. Egli si accaniva alla ricerca di chi si celava nell’ombra, di chi regolava il destino altrui dalle stanze ben arredate del potere. Il carattere rude e l’aspetto burbero, si fondevano all’intuito, alla rapidità delle scelte, a metodi sbrigativi in grado di rubare il tempo ai malviventi, consentendogli successi e soddisfazioni. Risultava amato dai suoi uomini in quanto amava affiancargli nel lavoro di strada, presenziando di persona arresti e perquisizioni. In poche e semplici parole era bravo. Un autentico e coraggioso professionista dell’anticrimine, arricchito dal talento e dalla passione per il proprio lavoro.
La richiesta di trasferimento a Firenze costituirà l’ennesima testimonianza della sua lungimiranza. In Toscana Ciaccio Montalto aveva individuato un canale di mafiosi e massoni provenienti da Alcamo e Palermo. Nel capoluogo toscano poi, i fratelli Nino e Ignazio Salvo di Salemi sodali del clan corleonese, avevano trasferito le sedi delle loro società di riscossione tributaria. Per fermare quello che sarebbe stato un inseguimento mirato, e quale saldo del conto accumulato in anni di successi, Ciaccio Montalto viene ucciso. Il processo istituito a Caltanissetta molti anni dopo la sua morte, condannerà all’ergastolo il corleonese Totò Riina ed il capo mafia di Mazara del Vallo Mario Agate. Ad omicidio avvenuto fu proprio Agate, già in carcere dal 1982, che un giorno disse ad un altro detenuto di Alcamo Giuseppe Ferro: “Ciaccinu arrivau a stazione”. Una terribile espressione pronunciata in siciliano con la quale si appropriava la paternità dell’aver condotto al “capolinea” la vita del magistrato.
Ciaccio Montalto conviveva da tempo con l’angoscia di chi teme per la sua vita. Poco tempo prima l’attentato, egli aveva confidato come durante una udienza processuale, uno degli imputati gli aveva lanciato un cenno significante la propria condanna a morte. Nulla lo fece recedere dal proseguire il proprio lavoro. Il coraggio ed il senso del dovere ebbero il sopravvento, virtù che nella Sicilia degli anni ’80, non gli salvarono la vita. Ma è proprio nella sua forza d'animo e fedeltà alla Costituzione che altri dopo di lui, troveranno la spinta per proseguire ciò che lui non è riuscito a portare a termine.
Nel 1983 quella Provincia di Trapani dove qualcuno si ostinava a sostenere che la mafia non esisteva, era in procinto di trasformarsi in terreno di conquista dei corleonesi. Riina e Provenzano stavano imponendo quel cambio di direzione che avrebbe condotto Cosa Nostra ad impadronirsi del cartello degli appalti. Un territorio da sempre nelle sue mani, teatro di una sistematica e corrotta spartizione degli affari. Un porto dal quale essa è salpata alla conquista dei continenti. E dalle inchieste mosse da Ciaccio Montalto, si può tirare un filo sino ai giorni nostri, perché nella sostanza le dinamiche mafiose da quei giorni, si sono evolute nella modernità ma conservando una tradizione di ancestrale violenza, in grado di sottomettere brutalmente le regole della vita sociale ed economica. Un meccanismo perverso che si è istituzionalizzato. Una macchina inarrestabile specializzata nel produrre denaro, macinare ricchezza, seminare morte, e lasciare dietro a sé, un mare di ulteriore povertà destinato a sommergere la semplice gente onesta. (14)
L’attentato a Rocco Chinnici: nuovo atto di una guerra senza regole
Sono le otto di mattina del 29 luglio sempre di questo maledetto 1983. Il giudice Rocco Chinnici stava uscendo dal portone del suo palazzo in via Pipitone Federico. In quel istante una Fiat 500 farcita di esplosivo viene fatta brillare con un comando a distanza. Oltre a Chinnici, la deflagrazione dilania i corpi di due uomini della sua scorta, i carabinieri Mario Trapassi e Edoardo Bartolotta, nonché del portiere del palazzo, Stefano Lisacchi. Riesce a salvarsi l’autista, Giovanni Paparcuri che per caso era rimasto all’interno dell’auto blindata. L’esplosione è di una tale potenza da udirsi in mezza Palermo, ed in tanti temono una scossa tellurica. Ai soccorritori la vista di palazzi sventrati, delle auto disintegrate, o di altre proiettate a decine di metri, rievoca scenari di guerra. 9
E di vera guerra si tratta. Un conflitto impari, senza regole, perché se da un lato i pochi organismi delle istituzioni erano impegnati a far rispettare la legalità secondo norme precise, dall’altro un esercito silenzioso nascosto nell’ombra e crudele, si avvaleva di mitra e tritolo protetto da uomini dello Stato stesso.
La “Colpevole indifferenza”
La città ricade in preda al terrore. La parte sana della magistratura assiste attonita alla perdita della sua figura di riferimento.
Rocco Chinnici fu il padre ispiratore del pool antimafia di Palermo, ma fu soprattutto colui che infranse quel muro di “colpevole indifferenza” che per anni stanziò tra gli uffici della procura del capoluogo siciliano. Lo stesso Borsellino biasimerà se stesso, per non aver reagito con forza, almeno sino ai quarant’anni, al cospetto di quel atteggiamento apatico mascherato da apolitico. Erano anni dove anche all’interno della magistratura la parola mafia veniva pronunciata collettivamente a denti stretti, come si parla di una entità che si teme ma di cui si prova vergogna, quasi di un male incurabile che ti marchia nell’istante in cui ti sfiora. Non si trattava di collusione e nemmeno di complicità, almeno in termini generali. Era una scelta conservatrice che mirava alla salvaguardia di agi e benefici, che non suscitava la necessità di scavare oltre un certo limite. Una ricerca del quieto vivere per un magistrato, in un contesto come quello siciliano, equivaleva però a non combattere il suo cancro sociale per antonomasia: la mafia.
Chinnici ignorò chi come l’allora procuratore generale Giovanni Pizzillo, in occasione del processo Spatola, non perse occasione per rimproverarlo duramente:”…Chinnici, ma che credete di fare all’ufficio istruzione? La devi smettere di indagare nelle banche…A quel Falcone caricalo di processi, così farà quello che deve fare un giudice istruttore. Niente. Hai capito Chinnici?”. Dinanzi agli ordini di continuare a svolgere una ordinaria amministrazione, Chinnici alzò le spalle e per questo morì. Un atteggiamento che aprì una nuova era, la più gloriosa di successi contro Cosa Nostra. (10)
Nessun cedimento
Ai funerali di Rocco Chinnici il sentimento che prevalse fu la stanchezza e questo costituiva un segnale preoccupante. Giuseppe Ayala racconta che se paura e dolore assunsero una consistenza fisica, nessuno mostrò cenni di cedimento. Ognuno restò al proprio posto fornendo con il suo contributo quotidiano al lavoro sostegno agli altri colleghi. Dolore e paura furono alla base di quel sodalizio umano che si saldò definitivamente tra chi era amico da tempo come Falcone e Borsellino, e i nuovi aggregati come Ayala. Ma nonostante quel clima che avrebbe dovuto compattare attorno alla procura di Palermo, la solidarietà di un intero paese se provvisto di sane radici, crebbe l’ostilità verso Falcone e i suoi nuovi metodi di lavoro. Nel caso delle rogatorie ad esempio, che impegnavano i magistrati a trasferte all’estero per verificare prove ed elementi istruttori in relazione a rami d’indagini che partivano dalla Sicilia, furono molti gli episodi denigratori. Falcone venne definito da una parte della stampa e da serpeggianti voci all’interno del palazzo di giustizia, “giudice sceriffo” o “giudice planetario”. Lo si accusò di spendere denaro dei contribuenti in questi frequenti viaggi all’estero, maliziando su coincidenti svaghi di varia natura. Le rogatorie rispondevano ad uno strumento d’inchiesta per niente nuovo, ma che fino ad allora quasi nessuno aveva utilizzato. Richiedevano una visione professionale aperta, lavoro e fatica nel prepararle con cura, ma soprattutto in un contesto di una sempre maggiore globalizzazione della criminalità organizzata, risultava impensabile combatterla rimanendo seduti nel proprio ufficio. Grazie alle rogatorie negli Usa, come in Egitto, Turchia, Svizzera, Francia e in altri paesi, una lista lunghissima di criminali vennero assicurati alla giustizia; fu possibile ricostruire percorsi sui quali droga e denaro intavolavano tratte intercontinentali. La cooperazione con le magistrature straniere, andava coltivata recandosi nel paese dove una traccia umana, bancaria o di materiale illecito conduceva. Nella gran parte dei casi poi, le illazioni di “turismo giudiziario” cadevano nel vuoto perché a viaggiare erano i documenti. (11)
Con l’arrivo di Caponnetto nasce ufficialmente il pool antimafia
Quale successore di Rocco Chinnici venne candidato Antonio Caponnetto, definito dal giudice Piero Vigna suo allievo a Firenze, “Il maestro di tutti noi”. Vigna, interrogato da Falcone sullo spessore della figura destinata alla direzione della procura più sotto tiro del paese, tranquillizzò i magistrati di Palermo con un fermo “…di meglio non poteva capitarvi…”. 12
Caponnetto era un uomo mite di origini siciliane con l’hobby dei canarini. Aveva 63 anni quando nel novembre del 1983 abbandonò una tranquilla posizione di prestigio alla procura di Firenze, per accettare l’incarico di Palermo. Fu una scelta di straordinario eroismo, un gesto d’amore infinito verso la sua terra. Un senso del dovere unito al coraggio di chi, in memoria delle sue radici, tornava in Sicilia a combattere la mafia in prima linea. Sin dalle prime battute si mostrò autorevole ed essenziale. Manifestò da subito l’intenzione di dare continuità al lavoro svolto da Chinnici, ma voleva spingersi ben oltre. Mise insieme un gruppo di giudici istruttori che si sarebbe occupato solo d’inchieste di mafia: nasceva il pool antimafia. Una scelta storica, non innovativa in assoluto perché già attuata da alcune procure del nord nella lotta al terrorismo di sinistra, ma che diede un impulso decisivo alla guerra contro Cosa Nostra. Terrorismo e mafia non avevano nulla in comune se non l’essere entrambe due espressioni di criminalità organizzata. Una squadra compatta avrebbe ridotto al minimo il rischio di depistaggi, infiltrazioni, manipolazioni e rappresaglie. Si voleva evitare ciò che era capitato sino ad ora: che decine d’incartamenti invecchiassero sulle scrivanie di vari giudici non in collegamento tra loro, alle prese con indagini diverse che invece si intrecciavano in più punti. Il pool doveva svolgere un altro compito importante, soprattutto verso l’esterno del palazzo di giustizia: spersonalizzare le inchieste. Come ricorda Ayala “…tutti dovevano firmare tutto…”. In questo modo non si poteva più associare un’inchiesta ad un solo giudice, abbassando l’esposizione del singolo ad attacchi di ogni tipo. Un aspetto questo, che richiedeva da parte di ognuno una cieca fiducia nei colleghi. Nessuno mancò mai all’impegno.
I nominati a comporre quella straordinaria squadra furono oltre a Falcone e Borsellino, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello, altri due giudici preparati e determinati. Successivamente entreranno a far parte del pool anche Gioacchino Natoli, Ignazio De Francisci e Giacomo Conte. (13)
Note
(1), 2, Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Bisogna non essere soli” – pagine 18…36
3, 5, Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – capitolo “Terra Infidelium” – pagina 407
4, 8, Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Una scorta per l’ultimo arrivato” – pagine 50…
(6), Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Saguntum expugnatur” – pagine 37…49
7, Fonte “digilander.libero.it/delitti_della_mafia”
9, (11), 12, Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Diventare grandi” – pagine 64…79
(10), Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Voglia di schierarmi” – pagine 7…17
(13), Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Gioco di squadra” – pagine 80…91
(14), Fonte Rino Giacalone, “Informazione Libera” del 25 gennaio 2010 e www.antimafiaduemila.com