La storia della Mafia Siciliana
Capitolo 17 - 1984-1985: I successi del pool, le confessioni di Buscetta, la rovente vigilia del maxi processo
Un boccone indigesto
La nascita del pool antimafia scosse dalle fondamenta il Palazzo di giustizia di Palermo e non solo. Consisteva in un mutamento che riscriveva meccanismi consolidati in una istituzione dalla natura ultra conservatrice quale la magistratura. In un mondo dove l’anzianità di servizio costituiva da sempre il parametro largamente prioritario per mirare al sogno malcelato di molti, il CSM (Consiglio Superiore della Magistratura), e dove il merito sul campo passava spesso in sub ordine, una simile novità divenne un boccone indigesto per tanti. Cresceva la inquietudine di chi per invidia, gelosia, codardia, temeva di perdere gli agi e i benefici della sua condizione presente. Larghe aree della base dell’Associazione Nazionale Magistrati esercitò pressioni sui propri rappresentanti al vertice, perché si aprissero discussioni e dibattiti sulla questione. Su Caponnetto piovvero critiche di ogni genere: in netta minoranza frontali ed in buona fede, affrontavano temi di natura giuridica; moltissime e più subdole, si arrampicarono su qualsiasi specchio pur di attaccarlo strumentalmente. Per tanti si delineava un pericolo insostenibile: accaparrarsi un posto nella corrente vincente tra le intestine al Palazzo, servendo l’opportuno referente per il tempo necessario, poteva non bastare più per meritare avanzamenti di carica e di stipendio. Un opprimente problema esistenziale per coloro che ritenevano una placida vita spesa in magistratura, quale onesto compenso dei sacrifici spesi nel lungo iter di studi per conseguire la laurea.
La stampa controllata dai centri di potere maggiormente insidiati da tale rivoluzione svolse un ruolo di rilievo. Venne alimentata una surreale campagna mediatica secondo la quale i giudici non dovevano vestire il ruolo di attori primari delle vicende legate alle inchieste. Ad essi incombeva la semplice amministrazione della giustizia da terze figure imparziali, armati di sguardo attento ma quasi distaccato.
Caponnetto e i suoi uomini non si scomposero. Le critiche scagliategli per cavalcare meri interessi di parte, s’infransero contro il muro eretto da chi era consapevolmente nel giusto. Giuseppe Ayala scrive in “Chi ha paura muore ogni giorno” ritornando su quel periodo: “Presi atto che chi come noi, stava provando a cambiare sul serio le cose, mettendo in gioco la propria qualità della vita, se non peggio, non era disprezzato…più semplicemente non era gradito…perché di rischiava di creare…troppi problemi…ad un assetto di potere le cui regole erano ben definite, e dovevano essere difese da ogni interferenza…e carica innovativa”. (1)
Il “blitz di San Michele”
Caponnetto riuscì ugualmente a guadagnare la fiducia ed il rispetto di molti che sedevano ai vertici del Palazzo. La sua era un leadership impostata al coordinamento, autoritaria ma senza imposizioni. Egli creò le migliori condizioni perché ognuno dei suoi uomini lavorasse al meglio. Protesse l’ufficio istruzione dai frequenti attacchi esterni, senza conferire mai ordini specifici. In breve tempo la mole dei procedimenti imbastiti dal pool, si riversò sulle scrivanie della procura diretta dal giudice Pajno, ove operava tra gli altri Giuseppe Ayala. I due uffici affinarono la simbiosi, e questa macchina operativa contro la mafia entrò presto a massimo regime. La risonanza del suo operato era destinata ad una esplosiva impennata il 29 settembre del 1984. Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi, stava da alcuni mesi collaborando con la giustizia. A seguito delle indagini avviate dalle sue dichiarazioni, previo adeguati riscontri, vennero emessi 366 mandati di cattura, ognuno dei quali documentati ampiamente. Al termine degli arresti i latitanti risultarono solo una piccola percentuale. La più importante operazione antimafia del XX secolo, venne ribattezzata il “blitz di San Michele”.
Il pool riuscì a garantirne la fase più delicata, impedendo la frequente fuga di notizie per avvalersi di quel effetto sorpresa che avrebbe lasciato di stucco intere famiglie mafiose, trasferite direttamente dalla propria casa in sette carceri di massima sicurezza in varie zone del paese. Non una virgola era trapelata prima del dovuto, evento rarissimo, che assumeva dell’incredibile al cospetto della vastità dell’azione. Nessuno dei catturati venne incarcerato a Palermo, “nell’hotel Ucciardone”, chiamato così per le troppo agevoli condizioni ambientali che godevano gli esponenti di spicco di Cosa Nostra. All’ultimo istante a dire il vero, qualcuno all’interno del pool ebbe il fondato timore che informazioni inerenti all’inchiesta fossero trapelate all’esterno. Per scongiurare il pericolo che i destinatari dei provvedimenti venissero avvertiti, Falcone decise di anticipare di alcuni giorni la serie di arresti. In piena notte i magistrati alimentarono una catena di montaggio in grado di sfornare centinaia di ordini di cattura, che le squadre di polizia si affrettarono ad eseguire. Anche in questi particolari s’intravedeva una diversa impronta rispetto al passato. Pur trattandosi di una operazione di proporzioni storiche, a fare la differenza fu la qualità degli uomini che la condussero. Essi avevano messo la loro intelligenza e professionalità interamente al servizio dello Stato, senza ambiguità o compromessi. Il piatto forte poi, era fornito dal prestigio degli arrestati, nomi altisonanti del calibro di Vito Ciancimino e dei cugini Nino e Ignazio Salvo.
Ma la bomba destinata a lasciare una traccia indelebile nella storia alla lotta alla mafia, detonò dalle parole di Antonino Caponnetto quando nel corso di una conferenza stampa, annunciò che Tommaso Buscetta aveva deciso di avviare la sua collaborazione. (2) (3)
La scelta di “don Tommasino”
Tommaso Buscetta era stato arrestato dalla polizia brasiliana ad inizio estate del 1984, in base ad un mandato di cattura internazionale emesso dall’Italia un paio di anni prima. Giovanni Falcone si recò a Brasilia per interrogarlo, ma invece di ricevere il tipico atteggiamento omertoso del mafioso intento a negare l’assoluto, quando chiese a Buscetta di parlare della mafia, con sorpresa si sentì rispondere: “Ci vorrebbe una notte intera signor giudice…mi scusi, ma sono stanco”. Uno degli uomini d’onore storicamente più celebri di Cosa Nostra, lasciava trapelare la disponibilità a collaborare. Una utopia destinata a trasformarsi in realtà. Alcune settimane più tardi venne estradato in Italia, e durante un movimentato viaggio venne sventato un suo tentativo di suicidio. Gli interrogatori si tennero da luglio a settembre di quello stesso anno, tutti verbalizzati a mano in modo impeccabile, senza errori o cancellazioni dal giudice Falcone. Per quale motivo una figura di tale spicco decise di attraversare il fiume, di compiere la scelta in assoluto più infamante per un uomo d’onore?
Egli si trovava alle strette. Riina e i corleonesi avevano emesso una sentenza di morte a suo carico, ma non riuscendo ad eseguirla perché fuggito in Sud America, uccisero per rappresaglia due suoi figli maschi, il marito della figlia, un cognato, il fratello e un nipote. Un massacro. Tutti i suoi alleati erano stati eliminati nel corso della “mattanza” e non poteva contare sull’aiuto di nessuno per organizzare la vendetta che desiderava. Optò di farsi giustizia attraverso i giudici, ma quasi certamente avrebbe rinunciato se non avesse incontrato una persona degna della sua fiducia a cui consegnare segreti inconfessabili. Giovanni Falcone fu quella persona. Buscetta puntualizzò che non si trattava di un pentito, in quanto non rinnegò mai l’adesione a quel codice d’onore vitae che i mafiosi sottoscrivono con l’iniziazione. Era un uomo d’onore che aveva scelto di parlare, perché riteneva che quello stesso codice fosse stato infranto dai suoi ex compagni, realizzando un indiscriminato e barbaro bagno di sangue ben aldilà di ogni regola.
In molti cercarono a posteriori d’interpretare la mossa di Buscetta come l’estrema rabbiosa reazione di un uomo messo all’angolo, senza alternative. Una chiave di lettura non corretta. Poteva optare per il silenzio e nessuno sarebbe mai riuscito ad estorcergli una virgola. “Don Tommasino” non si era lasciato sfuggire che il proprio nome dinanzi ad una polizia brasiliana che gli strappò le unghie, minacciò di buttarlo giù da un aereo in volo, lo torturò con le scariche elettriche. Ed è anche in questa direzione che l’immensa statura di Giovanni Falcone deve essere celebrata. Un uomo di enorme sensibilità e intelligenza, dotato di una raffinata capacità di comprensione dell’animo umano, prima che un grande giudice istruttore. (4)
Una esclusiva terrazza sull’universo mafioso
La collaborazione di Buscetta, segna una sorta di linea spartiacque tra la passata e la moderna concezione e chiave di lettura della mafia. Nella sostanza, il contenuto delle sue dichiarazioni seguivano due indirizzi prioritari: un racconto che ripercorreva gli eventi partendo dalla strage di Ciaculli del 1963, e una dettagliata ricostruzione della struttura mafiosa, con le regole e i rituali di comportamento scritti e non, su cui si appoggiava. Per la prima volta, magistrati e uomini dello Stato, avevano accesso ad una terrazza esclusiva sull’intero universo mafioso, godendo di un punto di vista potenzialmente inarrivabile, per voce di uno dei suoi storici leader. Un viaggio terribile e angosciante in un mondo di crimini comuni e uccisioni eccellenti, di cerimonie d’iniziazione e giuramenti insolvibili. Diveniva possibile effettuare una mappatura di Cosa Nostra (termine usato dagli affiliati per nominare l’organizzazione dall’interno, e da ora nuovo sinonimo della mafia siciliana), conoscerne la struttura piramidale al cui vertice vi è un cervello chiamato “Commissione” o “Cupola”, al di sotto del quale si estende una fitta rete territoriale suddivisa per famiglie, a cui è affidata la gestione degli affari e reati ordinari. Falcone ed il pool trovarono la fonte a cui attingere per completare quella sorta di puzzle che avevano imbastito. Riscontri su indagini avviate, impulsi che si diramavano in svariate direzioni per nuove inchieste e soprattutto nomi e cognomi legati a fatti, date, luoghi.
Tanto lavoro da svolgere in fretta e bene perché si presentava una occasione irripetibile. Efficienza e precisione per bruciare le tappe e posizionare le tessere mancanti al posto giusto, fino a quando era possibile conservare quella segretezza che poneva mai come ora la giustizia nelle condizioni di giocare d’anticipo.
L’esito del “blitz di San Michele” fu il trionfale riscontro a tanto lavoro così ben eseguito. (5)
Le reazioni al blitz
Le reazioni più entusiaste al successo dell’operazione, vennero manco a dirlo dall’estero più che dall’Italia. Tra i paesi stranieri che ne dedicarono maggiore risonanza gli Stati Uniti. Quel paese divenne negli anni una autentica seconda patria professionale per il giudice Falcone. Il suo lavoro fu apprezzato a tal punto che una sua statua fu eretta nel vestibolo della scuola del FBI di Quantico, in modo che tutti i venturi agenti vi scorressero dinanzi almeno per un paio di volte al giorno. Dal futuro sindaco di New York Rudolph Giuliani, al futuro numero uno dell’FBI Charles Rose, tante le personalità del mondo politico e giudiziario americano che intavolarono un lungo e sincero rapporto professionale e umano con il nostro magistrato e tutto il pool. Si pensi che successivamente alla morte di Falcone, il Congresso americano votò una risoluzione che rivendicava la sua uccisione come “Un delitto commesso anche in danno degli Stati Uniti d’America”. Vedremo più avanti quanto distante fu il trattamento riservato a Giovanni dal nostro paese. Per ora serve dire che decisamente più tiepide furono le reazioni in patria a questa ondata di arresti, e anche qui Roma, molto più benevola di Palermo. Cosa Nostra e la sua sfera d’influenza accusò il colpo, ma attivò in tempi brevi una lunga campagna per delegittimare la fonte, adducendo a Buscetta problemi di salute, e sminuendo il significato della sua collaborazione. Cercarono di minare la credibilità del boss in quanto pentito, ritenendolo da troppo tempo lontano dall’Italia per poter essere affidabile. Porzioni della stampa nazionale seguita da gran parte di quella siciliana seguirono la stessa corrente. L’habitat mafioso cercava di giocare tutte le sue carte per colpire la credibilità di un maxi processo che era nell’aria.
La collaborazione di Buscetta ebbe un altro effetto collaterale, l’insorgere di uno spirito emulativo da parte di altre figure che dopo il golpe corleonese, vivevano nella medesima condizione di braccati. Fu il caso di “Totuccio” Contorno, che previo autorizzazione di Buscetta, iniziò a sua volta a parlare senza sosta. Il risultato delle sue confessioni, condusse ad una nuova ondata di 127 mandati di cattura. Altri blitz, altri arresti, nuovi nomi tra le sbarre e una Cosa Nostra sempre più nervosa e preoccupata. (6)
Vito Ciancimino e i cugini Salvo cadono nella rete
Vi era un solo argomento che le rivelazioni del padrino Buscetta deliberatamente non toccavano: i legami mafia-politica. Egli non solo ne affermava l’esistenza, ma proprio perché così marcata da generare una sorta di effetto “chi tocca muore”, aveva optato per non parlarne ritenendo “…lo Stato non è in condizione di sopportare le reazioni che deriverebbero da eventuali mie dichiarazioni su questo argomento…”. Un lato di questo poliedrico fronte fu però costretto ad affrontarlo, in parte per non perdere credibilità al cospetto di Falcone, ma soprattutto perché questi fu abile a porlo dinanzi ad un sistema di indizi non eludibile. Buscetta fu obbligato a confermare e completare il “quadro probatorio” verso Vito Ciancimino e i cugini Nino e Ignazio Salvo.
Ciancimino ex sindaco DC di Palermo nel 1970, costretto alle dimissioni dopo soli tre mesi dalle elezioni per la massiccia documentazione raccolta dalla Commissione parlamentare antimafia, era da tempo relegato al soggiorno obbligato. La sua carriera politica si era avviata in veste di assessore ai lavori pubblici nel comune di Palermo sul finire degli anni ’50, quando sindaco del capoluogo era Salvo Lima. Fu l’epoca del “Sacco di Palermo”, la speculazione edilizia e urbanistica più indiscriminata che la Sicilia di quegli anni ricordi. Nel proseguo ha conservato la sua figura di manovratore dei legami tra politica e mafia. Buscetta lo elencava tra gli uomini d’onore più influenti legato a doppio filo a Riina e Provenzano, ma al momento stretto nella loro morsa. La polizia aveva da poco verificato la sua responsabilità quale riciclatore di denaro sporco verso il Canada.
I cugini Salvo non erano direttamente affiliati ma per anni costituirono l’anello primario dei collegamenti mafia politica. La loro società di riscossione tributaria per conto della regione Sicilia li poneva in una posizione privilegiata. Enormi flussi di denaro scorrevano tra le loro mani ed i quattrini consentivano potere clientelare, moneta di scambio per ottenere che gli uomini giusti sedessero sulle opportune poltrone, il tutto sotto l’egida della regia mafiosa.
Tre pezzi da 90, tre nuovi inquilini del carcere romano di Rebibbia. Tre grossi pesci caduti nella rete sempre grazie alla riservatezza. Nel corso degli interrogatori, Falcone, Borsellino e Ayala, compresero come soprattutto i cugini Salvo fossero a conoscenza di particolari relativi ad altri procedimenti in corso, in teoria ultra riservati. La fuga di notizie era reale, ma questa volta tamponata grazie anche all’uso di accorgimenti procedurali inconsueti ma leciti. Strumenti che il fronte degli avversari nel Palazzo si affrettò a definire con irosa ma inutile arroganza, “illeciti disciplinari”.
Nino Salvo morirà di cancro all’inizio del 1986. Ignazio di morte violenta nel 1992. (7)
Giuseppe Fava: nella sua vita, tante lotte in una
La lunga stagione di omicidi di mafia che insanguinò tutta l’isola seminando la morte tra i servitori dello Stato nel periodo compreso tra il 1977 ed il 1983, sembrava all’alba del 1984 attraversare una pausa di riflessione. Una tregua solo apparente destinata di lì a breve ad infrangersi, colpendo anche coloro che Cosa Nostra la combattevano tra le fila della società civile. La sera del 5 Gennaio di quell’anno, Catania è scossa dall’omicidio del direttore del quotidiano “I Siciliani”. Giuseppe Fava aveva 59 anni quando viene barbaramente ucciso davanti al Teatro Stabile, nel pieno centro della città. Era nato il 25 settembre del 1925 a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, da genitori entrambi insegnanti di scuola elementare. La cultura è di casa nella famiglia Fava. Una cultura che sin dall’infanzia, assume per Giuseppe la forma di una presenza fisica, come di una naturale compagna di giochi al cui fianco si cresce, dolcemente. Nel 1943 per proseguire gli studi si trasferisce a Catania, quindi la laurea in giurisprudenza e il giornalismo da professionista due anni più tardi. Dopo alcune collaborazioni con vari quotidiani, dal 1956 al 1978 lavorerà all’ “Espresso Sera”, divenendone il direttore. Sono gli anni in cui mieterà successi come sceneggiatore per il cinema (“Palermo oder Wolsburg”, Orso d’Oro al Festival di Berlino), ed il teatro, quale scrittore di romanzi e nelle vesti di conduttore radiofonico (“Voi ed io” per la radio nazionale).
La popolarità di Giuseppe Fava supera anche i confini nazionali, e non sarà infatti casuale l’offerta che alcuni rampanti imprenditori catanesi sono pronti a lanciargli. Allo scopo di dare vita a Catania ad una nuova testata con fini di propaganda politico imprenditoriale, il cavaliere Gaetano Graci propone al giornalista la direzione de “Il Giornale del Sud”. E’ più corretto affermare che all’inizio saranno altri a condurre la trattativa. Graci si muove in posizione più defilata, e la ragione è insita nella stessa realtà che sta maturando a Catania. Il capoluogo etneo, un tempo descritto come un’isola felice in seno alla Sicilia, dove la mafia, la violenza sistematica, e la corruzione tipicamente palermitane non sembravano trovare dimora, sta cambiando volto. Una potente lobby politico affaristica sta sbaragliando la concorrenza per mettere le mani sull’intera città. La mafia del boss Nitto Santapaola ne è una componente. Il cavaliere Gaetano Graci è uno dei soggetti più intraprendenti di quella alleanza. Fava conosce bene questo contesto, e pone le proprie condizioni: l’autonomia e l’indipendenza della linea editoriale saranno i punti fermi per accettare l’incarico. Gli verranno garantiti, ma il futuro riserverà uno scenario ben diverso. (8)
Una mente illuminata, un professionista libero e indipendente
Fava non è solo un bravo scrittore ed un grande giornalista che utilizza la scrittura quale strumento di lavoro. Egli è una mente illuminata. Da sempre. La passione per il mestiere di cronista traspare cristallina dai suoi pezzi. A differenza di altri colleghi cinquantenni, abulici, spenti, che sfornano articoli in modo quasi automatico, Giuseppe fonde ad uno stile narrativo ricco e coinvolgente, lo straordinario spessore umano di chi pone sempre al centro delle storie la vicenda umana. Le persone con la loro carne, il loro dolore, le lacrime, la rabbia, la speranza, urlano dalle sue pagine. Il direttore possiede un’altra qualità non comune: la capacità di trasmettere passione e nozioni a chi lavora al suo fianco. Ancora oggi i suoi ex allievi serbano il ricordo di quei giorni. Fava sarà per loro un maestro di professione e di vita. Alla cura dei dettagli nella costruzione degli articoli, egli fondeva quella smisurata scienza priva di confini e di regole, in grado di rendere un giovane cronista, un uomo capace di interpretare la realtà che lo circonda. Attorno a lui crescerà una intera generazione di cronisti innamorati della medesima professione, destinata a firmare migliaia di pagine negli anni che verranno. L’età media è di ventitrè anni. I nomi di alcuni di loro sono Riccardo Orioles, Miki Gambino, Antonio Roccuzzo, Rosario Lanza, Elena Brancati, Roselina Salemi. A questo gruppo di lavoro, Fava diffonde il valore morale e sociale che la professione incarna. La redazione assimila velocemente l’onestà intellettuale di chi da cronista indipendente, deve puntare alla narrazione dei fatti, alla loro trasparente collocazione nel contesto di una realtà cittadina ed isolana alla deriva. Al centro delle storie e quali soggetti a cui indirizzare le stesse, le persone. Gli articoli e le inchieste devono essere chiari, completi, penetranti, di facile comprensione. Una missione che all’epoca dei fatti nessuno dei protagonisti sentirà come pericolosa. Fava trascinava quei giovani con l’entusiasmo della spontaneità.
Molto presto “il Giornale del Sud” si troverà a denunciare ciò che a Catania e dintorni sta accadendo. Senza sconti. Il numero di morti assassinati tra il 1980 e il 1982, subisce un’impennata. Sono gli anni che introducono alla seconda guerra di mafia. Il braccio armato operante in provincia non si concede pause, ed in cabina di regia siedono gli stessi nominativi di coloro che agiscono in combutta con chi detiene la maggioranza delle quote editoriali. Graci riteneva di possedere le giuste motivazioni per ammorbidire a tempo debito Giuseppe Fava, ma aveva commesso un grosso errore di valutazione. La tensione cresce. Fava ed i suoi cronisti denunciano le collusioni tra la mafia del boss Nitto Santapaola che stringerà alleanze con i nuovi padroni della mafia, i corleonesi Riina e Provenzano, ed il potere di politici ed imprenditori. Articoli di fuoco. Inchieste dettagliate che pongono implacabilmente in rilievo fatti, episodi, nomi. La goccia che fa trascendere il livello dello scontro è del settembre 1981. Il boss catanese Alfio Ferlito viene arrestato alla periferia di Milano alla guida di un camion con a bordo una tonnellata di droga. La redazione prepara uno speciale per illustrare chi è Ferlito, le sue amicizie politiche catanesi, ponendo l’accento sulla ascendente pericolosità della mafia cittadina. Il pezzo verrà censurato dagli editori che approfittano della presenza fuori città di Fava. Dall’inchiesta vengono asportate le porzioni più incisive. Orioles al termine, lo definirà laconicamente “…annacquato”. La reazione dei cronisti e del direttore non sarà altrettanto concisa, ma questo non sarà l’ultimo intervento censorio e altri ne seguiranno, in particolare quando gli articoli riguardano Nitto Santapaola ed i suoi traffici. Un altro duro scontro lo si registra sul capitolo che vedrà l’installazione delle testate nucleari a Comiso. La decisione viene definita da un editoriale di Fava, unico giornalista del panorama a manifestare totale intransigenza sulla scelta presa, “…un golpe politico…”, e nelle vesti dei “golpisti” ritroviamo nomi ben noti alla proprietà del “Giornale del Sud”.
Quando all’inizio dell’autunno del 1981 il suo licenziamento sembra imminente, l’11 ottobre il direttore firmerà un articolo in grado di elevarsi ad universale testamento per la professione di giornalista: “Io ho un concetto etico del giornalismo…Un Giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non si fa carico di questo si fa carico anche di vite umane…Un giornalista incapace, per vigliaccheria o calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato mai capace di combattere”.
Il giorno seguente giunse il licenziamento via telegramma. Motivazioni ufficiali: la testata è in deficit, ed il direttore non avrebbe rispettato i principi di fedeltà del Patto Atlantico in relazione alla dura posizione presa nella vicenda dei missili a Comiso.
Una palese menzogna travestita a pretesto.
Fava viene estromesso perché nonostante le pressioni, non erano stati in grado di metterlo sotto silenzio. (9)
Arrivano “I Siciliani”
La rivincita di Fava si chiamerà “I Siciliani”. Con il nome di un saggio pubblicato dallo stesso scrittore nel 1980, in seguito adattato anche ad inchiesta televisiva di grande successo trasmessa dalla Rai in sei puntate, egli invece che lasciare raddoppia il valore della sfida scegliendo di fondare una nuova cooperativa ed un giornale. Le trecento pagine del “I Siciliani” libro, trattavano in forma straordinaria il mutamento antropologico che negli anni ha attraversato la Sicilia. Dal fallimento della società industriale, all’epoca migratoria verso il centro e nord Europa, ai fenomeni di corruzione politica fusi nell’espansione degli affari mafiosi, il saggio costituisce un approfondito viaggio nel tempo dal punto di vista umanistico e sociale. Con taglio narrativo coinvolgente e trascinante, Fava compie una analisi su quali siano state le conseguenze di tali evoluzioni sulla collettività siciliana.
Ripartendo da quel lavoro che Giuseppe sentiva come un contributo ed un omaggio personale alla comprensione di un’isola da sempre ghettizzata e schiavizzata, con il nuovo “I Siciliani” egli intende proseguire la sua battaglia per raccontare le verità che ancora oggi rendono la Sicilia in balia del giogo di potere e malaffare. In questa nuova avventura lo seguiranno molti dei ragazzi forgiati al “Giornale del Sud”. Tra di loro anche il figlio, Claudio, che gli subentrerà dopo la morte alla guida del giornale, per poi proseguire la sua battaglia di denuncia in politica. In un primo momento la cooperativa punta ad un settimanale, ma i fondi per auto finanziarsi sono un problema e si opta per un meno oneroso periodico mensile formato tabloid. Nel dicembre del 1982, il primo numero de “I Siciliani” giunge nelle edicole. La prima delle centosessanta pagine di attualità, politica, cultura e costume, sfodera nel titolo dell’editoriale firmato dal direttore, il suo biglietto da visita: “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”. In copertina una foto dei cavalieri del lavoro catanesi che brindano festanti. La mafia sarà uno dei temi centrali delle inchieste de “I Siciliani”, perché intrisa delle sue sfumature politiche, affaristiche e finanziarie, ne è la porzione trainante della società di Catania, ma non solo. “La mafia…, scrive Fava,…è dovunque, in tutta la società italiana, a Palermo, a Catania, come a Milano, Napoli o Roma, annidata in tutte le strutture come un inguaribile cancro, per cui l’ordine di uccidere Dalla Chiesa può essere partito da un piccolo bunker mafioso di Catania, o da una delle imperscrutabili stanze politiche della capitale”.
Giuseppe Fava è sin da allora una delle poche voci della stampa italiana a sostenere che il fenomeno mafioso deve rientrare nelle preoccupazioni di tutti gli italiani. L’anno appena trascorso aveva lasciato dietro di se una lunga striscia di sangue con le uccisioni di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa a suggello. Considerare la mafia un problema squisitamente siciliano, rientra in quelle manovre di disinformazione a cui mirano i poteri forti a lei legata. Ma sarà comunque la battaglia quotidiana alla frangia catanese ad impegnarlo frontalmente nella nuova avventura. L’editoriale numero uno prosegue con “…nell’ultimo ventennio sono emersi questi cavalieri del lavoro (non soltanto questi quattro), rapaci, temerari, prepotenti, aggressivi, qualcuno anche grossolano o ignorante, però dotati di fantasia, di straordinarie capacità industriali e tecniche, e di talento, precisione, velocità. Hanno realizzato opere pubbliche a tempo di record, hanno creato aziende e tecnici di altissima specializzazione(…). La loro intraprendenza si spinge oramai su tutto il territorio nazionale, in Europa, in Africa, nel Sud America. La loro concorrenza è spietata. Molte grandi aziende del Nord non solo hanno perduto il loro tradizionale feudo meridionale, ma si vedono insidiate nel loro stesso territorio”.
A questo punto il direttore non lesina i chiarimenti su chi siano i cavalieri dell’apocalisse mafiosa: “Chi sono i quattro cavalieri di Catania? E’ una domanda importante e anche spettacolare poiché i quattro personaggi sembrano disegnati apposta per costruire spettacolo (…). Costanzo massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore (…). Il rapporto con la mafia è stato agnostico: noi facciamo i nostri affari, voi fate i vostri! Noi vogliamo costruire strade, palazzi, ponti, dighe, essere proprietari di banche e aziende agricole, ottenere gli appalti delle opere pubbliche. Questo è affar nostro! Voi volete gestire la droga! Affar vostro! E pretendete anche i subappalti per i lavori di scavo e trasporto! Che sia! Però non vogliamo bombe nei nostri cantieri, ne persecuzioni criminali, nemmeno estorsioni, nemmeno che i nostri figli, fratelli, parenti, amici, possano essere rapiti o sequestrati (…). Quello che la gente pensa è che i cavalieri di Catania, o taluni di loro, partecipano alla grande impresa mafiosa e furono loro a impartire l’ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il generale osò chiedere allo Stato gli strumenti legali per rovistare nei loro imperi economici”.
Inutile dire che un numero d’esordio di questo spessore, era destinato a riaprire quel conflitto con i poteri forti e mafiosi, alla base del licenziamento di un anno addietro. (10)
Una dura battaglia per il diritto alla verità
Le tremila copie in stampa in quel dicembre del 1982, vennero esaurite nel giro di poche ore. Furono necessarie altre due ristampe per soddisfare le richieste giunte anche oltre i confini della Sicilia. Se la gente comune manifesta un entusiasmo raramente riscontrato in precedenza al cospetto di un debutto editoriale, molto diversa sarà la reazione della comunità intellettuale e delle autorità in genere. “I Siciliani” divengono un caso che divide l’opinione pubblica, ma purtroppo il fronte di coloro che si schierano tra gli oppositori, include neanche a dirlo i nominativi più influenti. Viene addirittura fondato un comitato “Pro Catania”, allo scopo di tutelare l’immagine della città che risulterebbe gravemente oltraggiata da simili insinuazioni. E a dire il vero, il neo comitato ha buone ragioni per ritenere danneggiata l’immagine di alcune figure di spicco dell’ambito etneo. Il quartetto dei cavalieri che per esteso risponde ai nomi di Carmelo Costanzo, Gaetano Graci (lo stesso coinvolto nella vicenda “Giornale del Sud”, legato a Michele Sindona e alla P2), Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, ha nelle loro mani la totalità degli affari cittadini. Appalti pubblici e privati, transazioni bancarie, operazioni finanziarie, creazione di aziende e attività commerciali.
Significativa in questo senso, la testimonianza di un primatista assoluto in ambito di negoziazioni tra politica e mafia: Angelo Siino. Arrestato nel 1991 e poi collaboratore di giustizia, Siino fu ribattezzato per lunghi anni il “ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”, in quanto regolava la gestione degli appalti assegnati all’organizzazione, nonché una figura strettamente legata ai corleonesi e a Nitto Santapaola. In merito alla battaglia di Giuseppe, al suo giornale e al contesto catanese, Siino ricorda: “Fava era un personaggio che guardavo con simpatia. Aveva quel suo foglio dove io attingevo delle notizie che non capivo come potesse avere. Evidentemente era un osservatore attento della situazione mafiosa, e politico-affaristico-mafiosa, della zona. Era molto attento a queste cose e per questo pagò. I politici riuscivano in quel momento a fare il bello e cattivo tempo e a un certo punto ci fu l’entrata in campo della mafia che non si accontentò più di gestire l’appalto per quanto riguardava le forniture o i sub appalti, ma volle essere persona che decideva sulla conduzione del lavoro. Io ero stato incaricato di distribuire i soldi degli appalti e di fare da mediatore. Dovevo ridurre le richieste della mafia e soprattutto contenere quelle dei politici, le quali - può sembrare strano - erano molto più esose di quelle dei mafiosi!”. (11)
Lo scenario nell’ultimo anno ha subito una ulteriore criminale degenerazione. Oggi è l’intera provincia ad essere governata da violenza ed ingiustizia. La voce dei più deboli, degli operai, dei disoccupati, di ogni comune cittadino alle prese con il normale svolgimento di una società che si presume civile, è privata di libertà e diritti basilari. Corruzione e prevaricazione sono all’ordine del giorno. Nitto Santapaola è ancora al suo posto, più forte e potente che mai, pronto ad orchestrare il braccio armato di Cosa Nostra in funzione degli accordi stretti con la lobby dei cavalieri.
I numeri del mensile in edicola da dicembre 1982 a gennaio 1984 sono un susseguirsi di approfondimenti e denunce. Nel mirino, appalti, delibere, traffico di stupefacenti, intrallazzi tra politici ed imprenditori locali, la lotta mai arrestatasi di chi continuava a ritenere la questione di Comiso un insulto alle regole della democrazia popolare. Dalle pagine de “I Siciliani” anche un susseguirsi di calorosi ringraziamenti ad un pubblico di lettori sempre più nutrito, fedele e sparso in ogni realtà anche più isolata della Sicilia. Centinaia di testimonianze giungono in redazione. La gente esprime sincera gratitudine per essere finalmente informata in modo chiaro da una voce libera e indipendente. L’accresciuto seguito ha un rovescio della medaglia. “I Siciliani” iniziano a costituire una minaccia sempre più accreditata. Gli attacchi a 360 gradi verso imprenditoria, mafia, massoneria, poteri militari e politici, finiscono per colpire le medesime figure, sempre al centro della rete, e queste cominciano ad irritarsi. L’estate appena trascorsa e segnata dall’attentato a Rocco Chinnici, porta con se un vento carico di cattivi presagi. La morsa dell’isolamento si stringe attorno a Giuseppe Fava e al giornale. L’imprenditoria e il mondo bancario fanno terra bruciata attorno. Una testata in grado di raggiungere una tiratura di oltre trentaduemila copie nella sola Sicilia, non riesce a raccogliere la pubblicità necessaria a sanare i debiti accumulati anche per soddisfare le richieste. Una beffa. La redazione deve affidarsi ad una nuova tipografia a Roma, abbandonando a malincuore il centro stampa della cooperativa Radar. La moderna stamperia capitolina, dotata delle potenzialità tecniche necessarie ad una maggiore tiratura, comportò un aumento di costi e deficit. Un passivo che non beneficiava degli inserzionisti per sanarlo. Dopo una surreale proposta di acquisto del giornale, la lobby dei cavalieri mira a distruggerlo e avvalendosi del suo potere, impone un embargo ad ogni livello. Altri soggetti potenzialmente interessati a inserire la pubblicità ai propri marchi o prodotti, si defilano perché la testata è attorniata di troppi nemici, Nitto Santapaola in testa. Tutti temono vendette trasversali. A distanza di anni diversi pentiti affermarono che lo stesso boss catanese all’epoca latitante, era uno dei più assidui lettori del mensile. Nel corso di più di una riunione di mafia, lo sentirono affermare: “…Ma voi li leggete “I Siciliani”?...Lo leggete cosa scrive Fava sul mio conto e sul conto dei cavalieri?”. Appena usciva in edicola, egli se ne procurava una copia, e terminata la lettura, non faceva che ribadire la necessità di azzittirlo quanto prima.
All’isolamento si somma la delegittimazione personale e Fava diviene oggetto delle più svariate e infamanti parole. Al riguardo ecco ciò che ancora rammenta il pentito Angelo Siino: “In quel periodo non c’era una voce a favore di Fava. Veniva denigrato in tutte le maniere, non solo all’interno del fatto mafioso, ma soprattutto della politica. Lo chiamavano “Puppo”, modo di dire che era un gay: per loro era la cosa più denigrante. Dissero che andava davanti alle scuole ad adescare ragazzini”. (*) Si ripropone una formula consolidata e collaudata, nel pieno rispetto delle strategie mafiose all’approssimarsi dell’atto conclusivo. Prima di procedere all’eliminazione fisica di una vittima, si mira a screditarne l’immagine in modo da renderla ancora più sola e vulnerabile. (12)
L’ultimo grido
Grazie ad un fuoco di fila giornalistico senza precedenti nel territorio, il “Caso Catania” conquista l’attenzione nazionale. L’eco dell’intreccio mafia politica supera i confini della regione e Giuseppe Fava sarà ospite e protagonista di una trasmissione Rai di successo in quegli anni: “Filmstory”, curata e condotta dal grande Enzo Biagi. Nel corso della puntata che andrà in onda il 28 dicembre 1983, una settimana prima della sua uccisione, il direttore de “I Siciliani” rilascia un’intervista dai toni durissimi, il suo ultimo pubblico grido: “...Io vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi. I siciliani lottano da secoli contro la mafia. I mafiosi stanno in parlamento, i mafiosi sono ministri, i mafiosi sono banchieri, sono quelli che in questo momento sono al vertice della nazione. Nella mafia moderna non ci sono padrini, ci sono grandi vecchi i quali si servono della mafia per accrescere le loro ricchezze, dato questo, che spesso viene trascurato. L’uomo politico non cerca attraverso la mafia solo il potere, ma anche la ricchezza personale, perché è dalla ricchezza personale che deriva il potere, che ti permette di avere sempre quei 150mila voti di preferenza. La struttura della nostra politica è questa: chi non ha soldi, 150mila voti di preferenza non riuscirà ad averli mai! I mafiosi non sono quelli che ammazzano, quelli sono gli esecutori. Ad esempio si dice che i fratelli Greco siano i padroni di Palermo, i governatori. Non è vero, sono solo degli esecutori, stanno al posto loro e fanno quello che devono fare. Io ho visto molti funerali di Stato: dico una cosa che credo io e che quindi può anche non essere vera, ma molto spesso gli assassini erano sul palco delle autorità…”. (13)
Giunge la fine
Nel corso degli ultimi mesi, i suoi collaboratori raccontano di un Giuseppe Fava che non ha perso la sua spinta, ma impossibilitato a nascondere preoccupazione e malinconia. Le difficoltà che di continuo insorgono nella quotidiana gestione economica del giornale, si fondono alla sempre più marcata percezione di una minaccia incombente. A famigliari ed amici, confida la sensazione di un qualcosa che potrebbe accadergli. Tuttavia non si ritiene in pericolo di vita: “Non credo che abbiano l’interesse a uccidermi, farebbero di me un martire, un eroe. Cercheranno di rovinarmi attraverso mezzi più subdoli”, confesserà loro.
La sentenza di morte a suo carico invece è già stata decretata. I tempi e le modalità dell’omicidio verranno analizzati in varie riunioni di mafia nel corso dell’estate del 1983. I dettagli operativi, i pedinamenti, gli orari degli spostamenti con la scelta del momento opportuno, saranno elaborati poco dopo, nei mesi di novembre e dicembre. Per le festività natalizie Fava riceve uno strano regalo firmato proprio da Gaetano Graci: dodici bottiglie di spumante insieme ad una grossa quantità di ricotta. A posteriori in molti decifreranno quel dono come un macabro avvertimento: verrai ridotto ad una ricotta e poi brinderemo.
La sera del 5 gennaio Giuseppe Fava si sta recando al Teatro Stabile. Il giornalista ha appuntamento con la nipote all’uscita del teatro, la ragazza recitava come comparsa nel “Pensaci, Giacomino” di Luigi Pirandello. Alle ventidue giunge con la Renault 5 presa in prestito dal figlio Claudio in via Stadio, e trova un posteggio a breve distanza dal teatro. Il commando omicida è rapidissimo. Fava non ha il tempo di scendere dall’auto e con ogni probabilità, nemmeno lo spazio per accorgersi di cosa sta accadendo. Un killer spara con pistola munita di silenziatore al vetro anteriore sinistro dell’auto. In tutto saranno cinque i colpi che raggiungeranno Giuseppe al capo. La morte è istantanea. (14)
Molte le forze che tenteranno di spostare l’ago delle indagini dalla sfera mafiosa a quella privata. Si cercherà di seguire una fantomatica pista passionale prima, ed un’altra legata ai grossi problemi finanziari del giornale poi. Le istituzioni cittadine con in testa il sindaco Angelo Munzone, cavalcando queste linee investigative, ritengono sconveniente onorare l’ultimo saluto a Fava con celebrazioni ufficiali. Addirittura l’On. Nino Drago, premerà perché le indagini vengano chiuse il più in fretta possibile. Occorre scongiurare il pericolo che i cavalieri del lavoro se ulteriormente irritati, trasferiscano le loro attività al Nord, danneggiando l’economia del territorio. Ai funerali, gli unici politici presenti circondati da giovani ed operai, saranno il questore, alcuni membri del PCI, ed il presidente della regione Santi Nicita. Come ci indica Angelo Siino,” La mafia uccide per due ragioni: prima di tutto quando si tratta di una persona pericolosa per il loro vivere e poi quando qualcuno glielo dice. Non può essere stato semplicemente un omicidio di mafia, di questo ne sono certo. Perché al di là degli articoli, Fava ai mafiosi faceva danno sì ma non straordinario. Ne faceva molto di più all’imprenditoria coinvolta e ai politici ”. (15)
Dopo anni bui, una parziale verità
Depistaggi tentati e riusciti, delegittimazioni martellanti sul giornalista e i familiari, riempiranno anni bui dove le indagini segnano il passo. Vengono fatte circolare ad arte voci serpeggianti che descrivevano lo scomparso giornalista come un dongiovanni, un incallito giocatore di carte, perfino un ricattatore. Sul fronte investigativo saranno disposti accertamenti bancari sui conti della vittima, dei suoi familiari e colleghi. Nulla del genere verrà intrapreso però in direzione di chi per anni Fava ha denunciato. Il magistrato che conduceva le indagini, Giulio Cesare Di Natale, predisporrà addirittura una perizia calligrafica a tutti i giornalisti de “I Siciliani”. Sconcertante risulterà la nomina da parte del procuratore, del professor Domenico Compagnini quale perito balistico della Procura di Catania. Compagnini era da tutti riconosciuto come un amico di Nitto Santapaola, tanto che questi lo nominò come perito di parte nel procedimento a suo carico per il delitto Dalla Chiesa, nonché intimo frequentatore del cavaliere Carmelo Costanzo. Compagnini al termine del suo lavoro, stabilì che l’arma del delitto non era munita di silenziatore. Una tesi che verrà sconfessata molti anni dopo, ma che all’epoca contribuì a sottrarre forza a coloro che reputavano l’omicidio di matrice mafiosa. Un’arma semplice, nuda, priva di silenziatore, rendeva più agevole il compito a chi invece premeva perché il movente del delitto restasse lontano dagli ambienti di Cosa Nostra catanese. Ma questo non sarà che uno dei molti episodi che paiono suffragare una fondata ipotesi di depistaggio precostituito. Il colonnello dei carabinieri Francesco Guarrata, al tempo in servizio a Catania, nelle sue deposizioni affermerà che “…C’era quasi un desiderio di disorganizzare quella che all’inizio era stata l’attività organizzativa (…) Si cercava di riempirci di tutta una serie di input investigativi, che finivano solo per non farci andare avanti e farci perdere molto tempo”. Una strategia investigativa del tutto simile alle direttive che dall’alto vennero negli stessi anni suggerite anche al procuratore di Palermo Rocco Chinnici, che avrebbe dovuto seppellire Falcone e Borsellino di indagini secondarie per non consentirgli di colpire al cuore Cosa Nostra. Chinnici pagò di seguito con la vita la sordità a quei sussurri. La potenza dei cavalieri del lavoro farà quindi sentire il suo peso in tutto l’ambiente giudiziario etneo.
Occorreranno diversi anni affinché un nuovo e decisivo impulso venga inferto alle indagini, ed il contributo dei giornalisti ex allievi del direttore Fava, non sarà marginale. Articoli su articoli, i ragazzi cresciuti al “Giornale del Sud” e nei “Siciliani”, indagano e si sforzano di mantenere viva la pista mafiosa, anche dopo la fine dell’esperienza editoriale. Ci vorrà tempo, troppo tempo, ma alla fine quegli sforzi troveranno un riscontro. Al cospetto di una Procura di Catania completamente rinnovata nell’organico, ripulita anche dalle dimissioni del giudice Di Natale a seguito di uno scandalo, irrompe sulla scena la volontà di collaborare con la giustizia da parte di uno dei killer più feroci al servizio di Nitto Santapaola, Maurizio Avola. E’ circa la metà degli anni novanta quando l’uomo si auto accusa di oltre 50 omicidi dal 1983, e tra questi anche quello di Giuseppe Fava. I magistrati incaricati lo ritengono attendibile, e imboccata la nuova pista investigativa corredata dei necessari riscontri, gli crederanno. Si accerterà che del commando che agì la sera del 5 gennaio 1984, facevano parte oltre ad Avola, Aldo Ercolano, Vincenzo Santapaola, Marcello D’Agata e Franco Giammuso. (16)
Nel 1998 dopo 14 anni dall’omicidio, a Catania giunge a conclusione il processo denominato “Orsa Maggiore 3”. Il procedimento stabilì che l’ordine di fare fuoco partì da Nitto Santapaola, che al momento del delitto si sposterà in una villa di Lentini di proprietà di un principe Borghese, cugino di quel Junio Valerio Borghese, fautore del tentato omonimo golpe del 1970. Il boss Santapaola verrà arrestato e condannato all’ergastolo in quanto mandante dell’assassinio. Un altro ergastolo verrà comminato ad Aldo Ercolano, mentre Avola consegue il patteggiamento e se la caverà con 7 anni di carcere. (17)
Tuttavia rimarrà sospeso nell’aria un ingombrante quesito: ad organizzare la morte del direttore, collaborarono altre figure risiedenti più in alto?
Il pentito Avola non ne cita alcuna. Nessuno dei nomi dei celeberrimi cavalieri catanesi viene legato al crimine da una prova inconfutabile.
Santapaola fu il mandante di un delitto per conto di altri, a fronte di un favore richiesto o spontaneo, o per soddisfare personali rancori?
Oltre le sentenze
Significativo appare comunque ciò che dirà in merito il Pm Amedeo Bertone: “Tra i cavalieri del lavoro, i più vicini alla famiglia mafiosa Santapaola erano Gaetano Graci e Carmelo Costanzo. In merito a questo delitto, non emerse responsabilità degli altri due cavalieri del lavoro. Su Graci e Costanzo non c’è alcuna prova storica sull’ordine dato per uccidere il giornalista; ne i collaboratori di giustizia hanno fornito alcuna specifica indicazione in tal senso. Tuttavia abbiamo elementi sufficienti per ritenere che determinati ambienti imprenditoriali non siano rimasti estranei alla ideazione del delitto”.
Tali elementi furono intralciati dal volere dei potenti. Se l’operato della magistratura fosse risultato cristallino ed efficiente sin dal 1984, con ogni probabilità sarebbe emerso quanto necessario per giungere ad una completa verità anche sui nomi di chi volle la morte di Fava. Nei confronti di Gaetano Graci venne imbastito un procedimento giudiziario destinato ad interrompersi per la morte dell’indiziato nel 1996. Le responsabilità presunte a carico di Carmelo Costanzo, risultarono anch’esse inutilizzabili perchè emersero in un periodo successivo alla sua scomparsa, avvenuta nel 1990. (18)
L’eredità
Il giorno successivo l’omicidio, la redazione de “I Siciliani” sceglie di lavorare come se niente fosse accaduto. Con Claudio Fava quale nuovo direttore, per altri tre anni il giornale continuerà la sua lotta in prima linea a mafia e corruzione. Il destino della testata è comunque segnato e strangolato dalle difficoltà economiche sarà costretto a chiudere. Prima di quel giorno, molti giovani cronisti illuminati dall’esempio di Giuseppe, chiederanno di poter collaborare con la redazione. Sulla scia dello stesso messaggio culturale e morale, in altre città della Sicilia sorgeranno altre iniziative editoriali o associazioni, in grado di infoltire la rete del movimento antimafia.
Alla carriera di cronista, il figlio Claudio fonderà un impegno politico nella sinistra italiana che lo condurrà al parlamento europeo. L’impegno civile per i diritti e la libertà gli consentiranno di portare alla luce il caso dell’Imam di Milano sequestrato dalla Cia al cospetto del totale disinteresse manifestato dal governo italiano. Gli occhi dell’Europa intera si poseranno sulla sconcertante vicenda. Claudio Fava sarà l’unico eurodeputato italiano a ricevere da una giuria internazionale il premio come miglior europarlamentare dell’anno.
L’eredità che Giuseppe Fava ha lasciato a quella Sicilia per la cui libertà ha sacrificato la vita, si può sintetizzare in quel “dovete lottare” che non si stancava mai di ripetere, ma viene anche trasmessa al meglio da due ultimi ricordi che i figli Claudio ed Elena ci consegnano. Dalle parole di Claudio una frase che suo padre amava replicare di frequente, quale lascito spirituale alla professione di giornalista:”Ricordati che dietro ogni fatto, banale o terribile, c’è sempre la storia, banale o terribile di un uomo, che non va mai giudicata ma sempre rispettata”.
Dalla voce di Elena emerge tutta la forza che il coraggio e la dignità di uomini liberi sanno rivelare anche al cospetto delle tragedie, energia che papà è riuscito a tramandare loro:” Ci sono due possibilità: una è che ti ammanti di questa cosa e te la metti addosso come un cappotto chiedendo compassione e considerandoti vittima, oppure lasci questa vita alle spalle e inizi una vita nuova dimenticando il male ricevuto. La terza possibilità è quella che nella nostra famiglia ci siamo posti inconsciamente: di non lasciar trasparire il dolore, non considerarci vittime, ma raccontare la nostra rabbia e mantenere viva la memoria perché quando una persona muore in questa maniera non appartiene solo alla famiglia ma appartiene a tutti”. (19)
Quella via Stadio in cui il 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava venne assassinato, ora porta il suo nome.
Dal 2007 inoltre, è stato istituito un concorso nazionale intitolato al giornalista scomparso, per premiare chi nel corso dell’anno si è distinto quale autore di inchieste giornalistiche.
In attesa del maxi processo
Nei primi mesi del 1985, la macchina giudiziaria era nel pieno della fervente preparazione del maxi processo. Venne stilata una documentazione di oltre quattromila pagine, un colosso istruttorio che parte della stampa riteneva non gestibile da un unico processo. Si respirava già quasi un’atmosfera di attesa per l’esito di quel procedimento. Riina aveva vinto la 2° guerra di mafia. I vertici di Cosa Nostra si assestavano secondo l’ordine stabilito dal conflitto interno, riallineando anche i collegamenti con il potere politico ed economico. L’incombente maxi processo generava incertezza, in quanto le sue conseguenze sfuggivano a dinamiche consolidate. Cosa Nostra non era in grado di gestire o almeno di conoscere in anticipo come in altre occasioni, indiscrezioni sull’esito di un processo così vasto. Lo Stato appariva mai come ora compatto e determinato, e la sua pressione su di un numero così ampio di esponenti di spicco, anche e soprattutto alla luce delle scelte di Buscetta e Contorno, apriva a scenari imprevedibili. Coloro che finivano in carcere rischiavano una dura condanna, in condizioni di reale isolamento e senza la speranza di ricevere sconti di pena. Troppe domande senza risposta per chi era da sempre abituato a conoscere le mosse del nemico con puntuale e rassicurante anticipo. L’unica certezza era che il maxi processo non poteva essere evitato, e il suo esito avrebbe condizionato le strategie mafiose del futuro. Venne costruita in pochi mesi a Palermo, una sede unicamente creata per ospitare il procedimento. Una vera aula bunker realizzata seguendo criteri di sicurezza fino ad allora mai utilizzati in ambito di sedi processuali. (20)
L’attesa fremente per quel appuntamento giudiziario venne però scossa da un altro sconvolgente episodio.
La vicenda del giudice Carlo Palermo, dalle Dolomiti alla “Città dei due mari”
Oltre due anni si sono consumati dal 25 gennaio del 1983, giorno in cui a Trapani venne assassinato il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, ma l’atmosfera nella “Città tra i due mari” non accenna a mutare. Dopo aver eliminato un servitore della giustizia di quello spessore, Cosa Nostra si sente forte, pressoché inattaccabile. D’altro canto la controffensiva al momento senza esiti delle istituzioni, lascia sorgere in molti il sospetto che lo Stato abbia realmente alzato bandiera bianca. Nei primi mesi del 1985 però qualcosa sta cambiando. Diverse indagini un tempo sul tavolo di Ciaccio Montalto, finiscono sulla scrivania di un collega giunto da poco in Sicilia, Carlo Palermo. Un nome che nell’ambito giudiziario nazionale si era guadagnato suo malgrado fresca notorietà. Prima di Trapani, il giudice Palermo aveva prestato servizio alla procura di Trento, occupandosi tra la fine del 1983 ed il 1984 di una delicata indagine destinata ad irreversibili conseguenze per la sua vita e carriera. Dal Trentino Palermo mette le mani su di un ingente quantitativo di morfina destinato a raggiungere la Sicilia per finire nelle raffinerie di Cosa Nostra a Trabia, Carini e Alcamo. La pista mafiosa ben presto si apre su inaspettati fronti non tanto per la specificità dei reati aggiunti, il traffico d’armi, ma per le figure che ne risulterebbero coinvolte: i servizi segreti ed alti esponenti del PSI, il partito dell’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi 22. Nel particolare al centro dell’inchiesta veniva chiamato in causa il giovane e rampante finanziere Ferdinando Mach di Palmstein, figura emergente del panorama finanziario dell’epoca, ambizioso manager vicinissimo al leader socialista. Secondo la Procura di Trento, droga ed armi viaggiavano lungo canali agevolati dall’intervento di esponenti politici che in cambio avrebbero richiesto finanziamenti illeciti. Oltre a Bettino Craxi, veniva coinvolto il banchiere socialista (con trascorsi anche in Rifondazione Comunista e PDCI), Mario Nesi 23.
La reazione degli interessati fu veemente. Craxi presentò un esposto contro il giudice accusandolo di atteggiamenti “palesemente e oggettivamente persecutori” 24. Le conseguenze per il magistrato furono pesanti: il CSM aprì una inchiesta a suo carico per aver condotto indagini su alcuni parlamentari senza la richiesta di autorizzazione. Procedimento che Bettino Craxi, come scrisse in una lettera ad un quotidiano dell’epoca, si augurava terminasse con la condanna del giudice Palermo. Come già accaduto e come si ripeterà più volte nella storia del nostro paese, chi tra le fila della magistratura e nel semplice svolgimento del proprio ruolo inciampa nel groviglio del potere politico, termina al centro di roventi polemiche. Carlo Palermo fu costretto a chiudere frettolosamente l’inchiesta che si archiviò con un nulla di fatto.
A distanza di molti anni, il magistrato ritorna su quel episodio intervistato da Oliviero Beha nella trasmissione “Brontolo” di Rai Tre, in onda il 15 aprile del 2010: “…Il 15 dicembre del 1983 alle 8,30 di mattina mi trovavo nell’anticamera del ministro degli esteri Andreotti per un suo esame testimoniale. Incontrai nell’anticamera il personale della Guardia di Finanza che, seguendo le impostazioni e i risultati della mia inchiesta trentina, attraverso il nucleo polizia tribunale di Roma mi aveva preparato dei provvedimenti di perquisizione e sequestro di documentazione in certe società. Io firmai questi provvedimenti, ascoltai il ministro Andreotti e alle 13,30 partii per Brindisi per un convegno. Quando alle 21 arrivai alla sede del convegno in hotel, trovai due messaggi. Di mio padre e del Presidente del tribunale di Trento. Entrambi mi riferirono che era intervenuto il Procuratore Generale della Cassazione perché avrei compiuto degli atti contro parlamentari e vi era quindi una minaccia di mia sospensione del servizio. Quei provvedimenti non sono mai stati eseguiti.”
Nell’arco di poche ore quindi, si scrisse il destino professionale di Carlo Palermo e degli altri innocenti che alle sue sorti saranno legati.
Alla ricerca della verità
Il senso dello Stato e della giustizia di un uomo, lo si misura al cospetto delle difficoltà ambientali in cui è costretto ad operare. Con alle spalle una vicenda conclusasi in modo così amaro e frustrante, altri professionisti si sarebbero abbandonati all’oblio del fatalismo, schiacciati dal senso di impotenza che li assaliva nello svolgere il mestiere per cui si era speso una vita.
Carlo Palermo non si perse d’animo e ricorda: “…Quando nel novembre del 1984 si verificò nei miei confronti ciò che non è mai avvenuto nella storia giudiziaria - e cioè che a un magistrato vengano tolti tutti i processi che aveva in corso -, dall’oggi al domani mi ritrovai per volontà della suprema Corte di cassazione e su richiesta del Procuratore generale della Cassazione la scrivania vuota. Allora mi posi unicamente un problema: cercare una sede che mi potesse dare la possibilità di continuare a cercare la verità. Trovai la sede di Trapani disponibile, perché era libero il posto a seguito dell’uccisione di Ciaccio Montalto e dell’arresto del suo collega Costa. Nessuno voleva andare in quella sede, feci domanda e chiesi personalmente anticipato possesso all’allora ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli. Per me il tempo era prezioso, sentivo che era un momento cruciale della mia vita poiché vivevo in un ingranaggio di acquisizione e comprensione della verità. Così cercai di affrettare il più possibile. Evidentemente anche altri affrettavano le loro contro-misure.” 25.
Secondo il magistrato infatti, perdurava uno stretto legame tra diverse figure legate all’inchiesta trentina e Trapani. Palermo già prima dell’uccisione di Ciaccio Montalto, aveva riscontrato congiuntamente al collega elementi che sul territorio trapanese interessavano entrambi. La scelta di continuare la propria ricerca della verità sostituendo il collega caduto ne diveniva una conseguenza. Purtroppo come avvertiva il magistrato, vi erano anche “altri” pronti a reagire al trasferimento avvenuto.
La tragedia di Pizzolungo
Sono trascorsi soli 50 giorni da quando il giudice Carlo Palermo ha preso possesso della scrivania che fu di Ciaccio Montalto alla Procura di Trapani. Un lasso di tempo sufficiente perché colleghi e collaboratori ne apprezzassero la tempra, l’efficienza, e la risolutezza. Palermo sapeva dove indagare come se a Trapani lavorasse da una vita. Il boss Vincenzo Virga invece, tentacolo di Riina nel trapanese, al cospetto delle medesime virtù realizzò la fonte di grave pericolo che il suo operato costituiva per le attività delle cosche nel territorio, e ben presto all’indirizzo del giudice fioccarono le minacce. Intimidazioni destinate a rimanere sulla carta per un periodo brevissimo.
Il 2 aprile del 1985 alle ore 8:30 del mattino, come quasi ogni giorno ad attenderlo dinanzi al cancello della sua abitazione di Bonagia giungono una Fiat Argenta blindata e la Ritmo della sua scorta. Il giudice sale come di consueto sui sedili posteriori della prima auto, ma invece che prendere posto sul lato destro, quella volta decise di sedersi dietro al guidatore. Le due automobili dirette a Trapani imboccano la litoranea che passa per Pizzolungo. Una strada statale che per chi deve spostarsi da Bonagia al capoluogo, costituisce un tragitto quasi obbligato, privo di possibili varianti, quindi ad alto rischio. La tensione tra gli agenti di scorta è palpabile. Le ripetute minacce già pervenute al magistrato, nonostante le poche settimane di permanenza alla Procura di Trapani, destano forte preoccupazione. Alle 8:50 le auto si lanciano veloci nel rettilineo di Pizzolungo. Di lì ad un attimo, raggiungono una Volkswagen Scirocco che li precede, e qualche decina di metri più avanti, gli uomini di Palermo inquadrano una Golf parcheggiata a lato della strada sempre nel loro senso di marcia. Un auto senza nessuno a bordo ferma sul ciglio della strada, non rappresenta nulla di rilevante per gran parte delle persone, ma per chi vive proteggendo in Sicilia la vita di un magistrato antimafia, è tutta un’altra storia. Dopo un istante di esitazione, l’auto blindata del giudice e quella della scorta accelerano ulteriormente e decidono di superare la Scirocco, ma proprio nell’attimo in cui durante il sorpasso scorrono a fianco della Golf, questa rivela la sua natura esplodendo in una deflagrazione terrificante.
Nel fatale istante la Scirocco si troverà interposta tra la Golf imbottita di tritolo e l’auto blindata con a bordo il giudice Carlo Palermo. Alla guida dell’utilitaria si trovava Barbara Rizzo, una giovane mamma di 34 anni, che stava accompagnando a scuola i figli Salvatore e Giuseppe Asta, gemellini di 6 anni. La loro auto disintegrandosi diverrà lo scudo che salverà la vita al magistrato e alla sua scorta. Per la mamma ed i suoi bimbi invece non vi è scampo. In una frazione di secondo l’esistenza di una famiglia è cancellata. Il corpo dilaniato della donna viene proiettato ad un centinaio di metri, mentre i resti dei piccoli saranno sparpagliati in un raggio ancora più ampio. Il piede di uno dei suoi bimbi verrà ritrovato nel cortile di una casa; il lobo di un orecchio si fermerà sul comodino della camera da letto di una signora che aveva spalancato le finestre all’aria del mattino. Sul muro di una casa a quasi duecento metri, resterà impressa una grossa macchia nel punto in cui si è arrestato il volo di uno dei corpicini.
Insieme ai soccorritori giungerà sul luogo anche Nunzio Asta, marito di Barbara e padre dei gemelli. La Scirocco si è disintegrata a tal punto che nell’immediato non ne viene trovata traccia. Il signor Asta ritorna quindi a casa per recarsi poi al lavoro. Poco più tardi la terribile notizia si farà spazio con una telefonata della polizia che al marito chiederà conferme a riguardo della targa dell’auto della moglie.
Il giudice Carlo Palermo risultò miracolosamente illeso. Trovandosi seduto nel lato opposto a quello più esposto all’esplosione, fu scaraventato fuori dall’auto dallo spostamento d’aria ma senza riportare ferite di rilievo. Gli agenti della sua scorta Salvatore La Porta, Antonio Ruggirello, Rosario di Maggio e Raffaele Di Mercurio subirono lesioni di varia entità ma tutti sopravvissero all’attentato. Alcuni anni più tardi nel 1993, Raffaele Di Mercurio 36enne al momento della strage, morirà per disturbi di natura cardiaca. Lo stesso anno, anche Nunzio Asta decede sempre per una malattia cardiaca le cui avvisaglie erano pregresse alla tragedia. L’unica sopravvissuta della famiglia Asta è Margherita, sorella maggiore dei gemelli che all’epoca aveva 11 anni. (26) (27)
Quando ci si sforza di idealizzare il concetto di mafia per trasporlo in termini pratici, ed illustrarne le conseguenze sul quotidiano delle persone, per lo più si è indotti ad aggrapparsi a concetti generali, sforzandosi di elaborare un linguaggio ricercato, di fornire un dettagliato rapporto elencando dati e statistiche. Molto e troppo spesso, non ci si sofferma sui devastanti effetti che la morte per mano mafiosa imprime sui sensi umani. Cicatrici indelebili marchiate a fuoco nell’anima. Come l’odore della carne bruciata di chi è stato dilaniato da un esplosione. Oppure la vista di brandelli umani impietosamente esposti, un attimo prima animati di vita, emozioni, sentimenti. Ferite permanenti a cui sono soggetti i parenti delle vittime, testimoni, soccorritori, e forze dell’ordine, che meglio di qualsiasi tesi o relazione possono comunicare cosa sia la mafia per chi la deve subire o combattere.
Immagini a cui riferirsi, ogni qualvolta quello stesso concetto di mafia, ci appaia distante o cosa d’altri, o venga strumentalmente proposto come una questione unicamente affaristica e politica dai connotati quasi asettici.
Sentenze e confessioni
A venticinque anni da quel giorno, quanto ricostruito dalla magistratura ha condotto alla condanna all’ergastolo quali mandanti Totò Riina, Vincenzo Virga, Balduccio Di Maggio e Nino Madonia. Una sentenza giunta dopo molti anni e solo grazie alla collaborazione dei pentiti. Il processo istituito “a caldo”, quello che riguardava gli esecutori, nei giudizi di primo e secondo grado aveva visto la condanna di Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo e Filippo Melodia. Delibere destinate ad essere ribaltate nel 1991, quando la Cassazione tra i cui membri sedeva “l’ammazzasentenze Corrado Carnevale”, assolse gli imputati perché il fatto non sussisteva. 28
Cosa Nostra ha rivestito sicuramente un ruolo centrale, ma addebitargli l’esclusiva responsabilità di quanto accadde a Pizzolungo, costituirebbe un errore. Come si è ripetuto nella storia italiana più volte, il braccio armato mafioso ha probabilmente goduto di una intelligence dalla oscura matrice. Le sentenze affermano che l’ordine venne impartito dalla cupola di Riina, ma gli esponenti coinvolti nella preparazione come il castellamarese Gino Calabrò (condannato per la ricettazione della Golf imbottita di esplosivo), o l’alcamese Vincenzo Milazzo (ucciso nel 1992 insieme alla convivente Antonella Bonomo), erano noti per i loro contatti con l’ambiente massonico della Iside 2 di Trapani e dei servizi segreti deviati.
Alcuni anni dopo la strage, emerse una relazione di servizio secondo la quale in un posto di blocco dei carabinieri il 1 aprile 1985 giorno antecedente l’attentato, venne fermato Vincenzo Virga in persona, in compagnia di un imprenditore, Francesco Genna. All’epoca i due uomini risultavano insospettabili, ma a posteriori acquisì peso la testimonianza di uno degli agenti che scorse una cartina stradale di Pizzolungo tra le mani del Virga. A lasciare perplessi fu il grave ritardo con cui questi dettagli e altri ancora, riemersero dall’ombra.
Anche a riguardo del movente rimangono vuoti da colmare. Una voce definita attendibile fu quella del pentito palermitano Francesco Di Carlo. Egli affermò che “…la mafia doveva dimostrare di essere più forte dello Stato, si era fatto un gran parlare di questo magistrato che arrivava da Trento a Trapani, e divenne obiettivo per questa ragione...” 29
A premere il pulsante del comando a distanza secondo Nino Cascio collaboratore di giustizia di Alcamo, riportando una confidenza sussurratagli del capo cosca Vincenzo Milazzo, fu Nino Melodia, oggi in carcere per altri reati mafiosi. Una decisione che non trovò ostacoli neppure nella imprevista comparsa della Scirocco di Barbara e dei suoi bimbi: i criminali mafiosi decisero di far esplodere l’autobomba comunque, convinti che la quantità di tritolo sarebbe stata sufficiente a cancellare tutte le auto. Giovan Battista Ferrante un altro ex uomo d’onore palermitano, ricorda come alcuni giorni dopo l’attentato, fu spettatore di un incontro tra il capo mandamento di San Lorenzo Pippo Gambino e l’architetto affiliato alla cosca di Mazara Calcedonio Bruno. Gambino andò incontro a Bruno con gesti che intendevano: “Che cosa avete fatto?”. Il Bruno allargò le braccia con aria fatalista e rispose: “E’ successo…” 30
Un incidente di percorso, un maldestro errore di valutazione, un deprecabile contrattempo professionale.
L’esplosivo utilizzato come venne accertato dalle indagini, proveniva da una cava di Camporeale, ed era dello stesso tipo di quello usato nel fallito attentato a Falcone all’Addaura.
Anche le dita di chi confezionò l’ordigno secondo Giovanni Brusca di San Giuseppe Jato, il killer di Falcone a Capaci, appartenevano alle esperte mani di un uomo dal curriculum affermato come Nino Madonia, un ex studente di chimica che si appassionò a tal punto agli esplosivi, da divenire colui che preparò i congegni posti sempre all’Addaura e nell’auto bomba che uccise Rocco Chinnici.
Il dolore della memoria
Quanto è ad oggi emerso a riguardo di quel 2 aprile del 1985 costituisce una verità parziale. Vuoti da colmare che si spalancano sui baratri scavati nelle esistenze dei sopravissuti.
La carriera di magistrato di Carlo Palermo in pratica terminerà quel giorno. Distrutto dal dolore e dal senso di colpa per quelle vite innocenti, prese coscienza della impossibilità a soli 38 anni di proseguire il proprio lavoro. Ecco come ricorda quel periodo: “…Sono stati gli anni più terribili della mia vita. Nell’85, qualche mese dopo l’attentato, fui costretto ad abbandonare l’attività giudiziaria a seguito delle ulteriori minacce giunte non solo a me ma indirizzate anche nei confronti delle mie figlie. Dal successivo novembre mi trasferii al ministero di Grazia e Giustizia e quindi si verifico in me una trasformazione totale nella vita. Non c'era più quella che era stata negli ultimi 5 anni nei quali avevo dedicato tutto me stesso in un impegno di ricerca processuale delle verità a Trento e a Trapani che erano in qualche modo poste in congiunzione. Dopo l’attentato e dopo aver lasciato Trapani subentrò in me il vuoto più totale. Da una parte un vuoto operativo e dall’altra compressione smisurata nei miei confronti per le minacce ossessive di nuovi attentati, raccolte nei miei confronti a Roma nell’86 e negli anni successivi. Minacce così pesanti che, è poco noto, venne proposto nei miei confronti una sorta di mia soppressione formale, cioè un cambiamento di identità così come da qualche anno avviene nei confronti dei collaboratori di giustizia. Sarei dovuto sparire e mi sarebbe data una nuova identità in un altro paese, in Canada, dove oltre ad essere sistemato sotto ogni profilo non sarei più esistito come Carlo Palermo.
Da una parte mi trovai con scorte e protezioni che comprimevano la mia vita; dall’altra nell’impossibilità di svolgere una qualsiasi attività per la ricerca della verità. E’ stato il momento più difficile..." 31
Gli ultimi cinque anni prima a Trento poi a Trapani, venivano quindi cancellati dalla incapacità dello Stato di proteggere un suo servitore. Lacune certificate dalla mancanza di una procedura di protezione adeguata: nessuna bonifica del tragitto casa-lavoro del magistrato era mai stata effettuata, nonostante il percorso risultasse ripetitivo e vulnerabile. Tutte riflessioni che lasciarono nell’uomo e nel giudice un profondo vuoto anche esistenziale.
Nell’aprile del 2008 Palermo è ritornato a Trapani dopo 23 anni. L’amministrazione di Erice ha voluto celebrare l’anniversario della strage con la decisione di istituire nel luogo dell’attentato un “Parco della memoria”. Un ritorno carico di emozione: “ E’ la prima volta che sono tornato e dico la verità è stata una grossa emozione e una grossa sorpresa in quanto non ritenevo vi fosse ancora una sensibilità così grossa da parte dei trapanesi. Quando io arrivai a Trapani ero uno sconosciuto e così trattato. Oggi non trovo più diffidenza e non sono più un estraneo”. 32
Quello stesso giorno Palermo ha riabbracciato Margherita Asta, figlia e sorella maggiore delle vittime di Pizzolungo. La giovane donna ha trovato la forza di trasformare il dolore della memoria in impegno civile al servizio della stessa, affinché la strage di Pizzolungo non solo non venga dimenticata, ma si rinnovi in patrimonio storico di tutta Trapani. Margherita è una delle attivista dell’associazione “Libera contro le Mafie” preseduta da Don Ciotti: “Oggi c’è il sole che ci incoraggia…forse è il segnale che mandano i miei, contenti di essere stati così ricordati…C’è in corso una rinascita ed una voglia di riscatto che vengono fuori da questa terra…Oggi è un giorno di primavera, di primavera per l’impegno che nascerà…” 33
Attualmente Carlo Palermo è un avvocato e confessa di non essere mai guarito dal male che affligge un uomo impossibilitato a svolgere il lavoro che amava. Tuttavia lo scorrere degli anni ha da tempo risvegliato nell’ex giudice la voglia di combattere e di collaborare con chiunque abbia ancora il desiderio di scoprire tutta la verità su Pizzolungo. “La speranza, dice Palermo, è che le domande trovino risposte. Voglio pensare che non è un caso che abbia avuto la fortuna di sopravvivere, conseguentemente c’è la utilizzazione di questo tempo per continuare a cercare. Mi è stata data questa fortuna e intendo sfruttarla sino a quando ne avrò la possibilità”. 34
Una lunga e rovente estate
All’indomani della strage di Pizzolungo, Cosa Nostra sembrava aver imposto ai suoi attacchi verso lo Stato una sorta di tregua. Si trattò di una finestra destinata ad infrangersi dopo breve tempo nell’estate del 1985. Alcuni la definirono come un rabbioso ed estremo tentativo di influenzare l’istituzione del maxi processo. Secondo i più, fu una rappresaglia verso quegli uomini della prima linea che condussero le operazioni sulla strada finalizzando le inchieste del pool. La sera del 28 luglio a Porticello un piccolo centro marittimo vicino a Palermo, viene ucciso il commissario Beppe Montana mentre stava passeggiando sul molo insieme alla fidanzata. Montana era responsabile della “squadra catturandi”. Grazie al suo appassionante contributo, aveva consentito l’arresto di un ampio numero di latitanti. Spesso utilizzava il suo motoscafo per sorvegliare le residenze marittime estive dei mafiosi, anche mentre si trovava fuori servizio. Solo tre giorni prima aveva interrotto una riunione al vertice di Cosa Nostra, proprio inseguendo le tracce di un pericoloso latitante, tale Tommaso Cannella, molto legato ai corleonesi. Cannella in quella occasione finì per essere arrestato. Forse fu quella impresa a spingere Riina a rompere la pausa delle armi. In seguito alle tracce lasciate dai due killer in fuga, venne fermato un sospettato, tale Marino, un giovane calciatore figlio di una povera famiglia di pescatori. Il clima di tensione e paura accumulato tra gli agenti dopo anni segnati dai tanti morti tra le loro fila, degenerò in rabbia cieca. Convinti di avere tra le mani l’ennesimo omertoso fiancheggiatore, agli uomini addetti all’interrogatorio sfuggì di mano la situazione: Marino muore in circostanze misteriose mentre è sotto custodia. La questura finisce nel centro del mirino mediatico. Gli animi di molti palermitani s’incendia quando al grido di “poliziotti assassini”, familiari ed amici del defunto portarono la bara del proprio caro estinto per diversi quartieri della città. La reazione mafiosa non si fece attendere, ed il 6 di agosto nel pieno di un caldo pomeriggio estivo, il commissario Ninni Cassarà viene trucidato mentre sta percorrendo a piedi il breve tragitto tra la propria auto e l’androne di casa. Un numeroso gruppo di fuoco di circa una dozzina di killer, inonda di proiettili il povero Cassarà e l’agente Roberto Antiochia, che si era offerto di guardare le spalle al proprio superiore in quel delicato momento. Cassarà era il diretto superiore di Montana. Con un rapido uno due, Cosa Nostra aveva decapitato la squadra mobile dei suoi uomini più esperti ed efficienti. Due punti di riferimento affidabili a disposizione dell’intero pool antimafia, protagonisti di quasi tutte le operazioni sul campo di quella trionfante stagione di successi sulla mafia. Obbiettivi simbolici e strategici inequivocabili.
Ai funerali di Cassarà molti agenti in preda ad una rabbiosa frustrazione, lanciarono insulti e sputi sui politici presenti. L’accusa mossa verso il potere era chiara: lo Stato era al fianco degli uomini che in prima linea combattevano da soli la mafia, solo in occasione dei loro funerali. Un diffuso senso di isolamento si sparse contagioso.
La tensione è destinata a salire quando pochi giorni dopo, confidenti attendibili informano Caponnetto che dal carcere
è partito l’ordine di eliminare Borsellino e Falcone. L’informazione è ritenuta altamente credibile e immediatamente si dispone che i due magistrati con le rispettive famiglie, vengano trasferiti all’Asinara per preparare il maxi processo in un luogo protetto.
Dopo aver sferrato il più massiccio ed importante attacco a Cosa Nostra della sua storia, lo Stato si ritrova costretto in questa lunga e rovente estate dell’85, a battere in ritirata per proteggere la vita dei suoi uomini simbolo. (21)
Note
(1), (2), Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Gioco di squadra” – pagine 80…91
(3), (4), (5), (6), (7), (20), (21), Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “Mi chiamo Tommaso Buscetta” – pagine 110…131
(8), (9), (10), (12), (14), (16), (18), Fonte “Gli insabbiati” – Luciano Mirone – Edizioni Castelvecchi, 2° edizione maggio 2008 – capitolo “Giuseppe Fava” – pagine 253…323
(*), (11), (13), (15), (17), (19), Fonte “www.lastoriasiamonoi.rai.it/giuseppefava
22, (27), Fonte www.senzamemoria.wordpress.com/carlo-palermo-la-strage-di-pizzolungo
23, (26), 28, Fonte “www.wikipedia/Carlo Palermo”
24, Fonte “www.Corriere della Sera”, del 21 febbraio 1993
25, 31, Fonte www.rai.it/brontolo del 15 aprile 2010
29, 30, Fonte www.castelvetranoselinunte.it , “La strage di Pizzolungo, ventitré anni dopo”, di Rino Giacalone del 22/12/2008
32, 33, 34, Fonte “Mille giorni, Mille voci” , Libera Informazione, intervista a Carlo Palermo e Margherita Asta di Rino Giacalone del 7 aprile 2008.