La storia della Mafia Siciliana
Capitolo 18 - 1985-1987: Il maxi processo a Cosa Nostra
Un’amicizia saldatasi nei valori e nel dolore
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno tratteggiato un epoca in cui a combattere la mafia era una esigua, assediata, compatta e inossidabile minoranza. I due magistrati erano amici da anni all’epoca del loro trasferimento per ragioni di sicurezza all’Asinara nel agosto del 1985, durante la preparazione dell’istruttoria del maxi processo. Entrambi cresciuti nello stesso quartiere popolare di origine araba della Kalsa nel centro di Palermo, da genitori dello stesso ambiente borghese. Giovanni nasce il 18 maggio del 1939 in via Castrofilippo, da Arturo, direttore del laboratorio chimico provinciale, e da Luisa. Di qualche mese più giovane è Paolo, che viene alla luce il 19 gennaio del 1940 alla Magione da genitori farmacisti. Il Liceo classico, l’ “Umberto” per Giovanni, il “Meli” per Paolo, sarà il naturale viatico per la successiva iscrizione alla facoltà di giurisprudenza. Falcone conseguirà la laurea nel 1961, Borsellino nel giugno dell’anno successivo, ambedue poco più che 22enni. Attratti dal settore penale affronteranno il concorso per diventare magistrati, e una volta superatolo intraprenderanno i primi passi in diverse procure della Sicilia.
Paolo viene inviato nel 1965 al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Il suo primo incarico direttivo giunge nel 1967, con la pretura di Mazzara del Vallo. Il 23 dicembre del 1968, Borsellino si sposa con Agnese a Palermo. Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavorerà a fianco del Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. L’incontro con il futuro padre tutelare Rocco Chinnici avverrà nel luglio del 1975, dove Paolo entra a far parte dell’ufficio istruzione processi penali della procura di Palermo.
Dopo il superamento del concorso in magistratura, nel 1964 Giovanni fu nominato pretore a Lentini, per poi trasferirsi a Trapani e vestire per circa dodici anni il ruolo di sostituto procuratore. Nel luglio del 1978 egli si trasferisce nel capoluogo, quando all’indomani del drammatico attentato datato 25 settembre 1979, in cui perse la vita il giudice Cesare Terranova e Falcone iniziò a lavorare all’ufficio istruzione di Palermo, si compì il destino che congiunse la carriera professionale dei due magistrati.
Avevano in comune una fede autentica nella giustizia e una devozione incrollabile nell’applicarla. Un senso del dovere granitico che si fondeva ad un amore smisurato per la loro terra. La loro fu una amicizia destinata a saldarsi rapidamente, ma all’indomani della morte di Rocco Chinnici nell’estate del 1983, per entrambi punto di riferimento non solo lavorativo, il sodalizio si cementò fino alla fine dei loro giorni. L’autobomba con la quale venne assassinato il capo dell’ufficio istruttorio di Palermo, morte violenta dalla dinamica tragicamente profetica, generò la condivisione del dolore, della paura e forse della piena consapevolezza di un inevitabile destino. Le testimonianze di chi lavorò e visse al loro fianco in quegli anni, li descrisse stretti da un vincolo umano e professionale che rievocava i racconti dei reduci di guerra. Nonostante gli orrori, la perdita sul campo di amici e colleghi, gli intrighi e le congiure di cui furono oggetto, dalla trincea del Palazzo di Giustizia di Palermo essi non si defilarono. Respingendo la diffusa abitudine di tanti colleghi che nel passato avevano scelto di non affondare i denti nelle carni mafiose accampando ogni sorta di motivazione, Falcone e Borsellino vissero nell’unica maniera che sentivano propria la professione di giudice.
Dietro a due uomini nasce un movimento, anche se molti rimangono alla finestra
La politica cercò ripetutamente di arruolarli per intuibili ragioni di convenienza, ma essi respinsero con forza ogni tentativo. Borsellino fu da ragazzo un militante in movimenti di destra, mentre di inclinazioni politiche prossime alla sinistra era invece Falcone. Negli anni i due magistrati conservarono una diversa visione della città di Palermo in relazione all’atteggiamento verso il loro lavoro. Borsellino appariva sempre più ottimista e fiducioso e ripeteva di sovente “…fanno il tifo per noi…” 1; Falcone invece si esprimeva con maggiore scetticismo verso le capacità dei palermitani di sostenere la loro azione. Le circostanze lo obbligarono a vivere sotto scorta, spostandosi con un massiccio seguito di auto blindate, corredato da uomini armati di mitra con il giubbotto antiproiettile. Non si contarono le proteste da parte di cittadini e autorità del capoluogo, per il presunto disagio creato dal transito dei cortei di scorta del giudice Falcone, accusati di spericolatezza e inquinamento acustico. Polemiche strumentali sollevate ad arte, insinuazioni velenose iniettate nelle strade, tra i vicoli di una città che stava assistendo ad una metamorfosi innovativa: uomini dello Stato sfidavano compatti la mafia con l’intento di sconfiggerla.
Aldilà dei successi in ambito investigativo, l’immenso valore che circonderà l’opera di questi due uomini consegnandoli alla storia del nostro paese, risiede nel decisivo contributo alla formazione di una nuova cultura dell’antimafia. Un intero movimento si mobilitò e prese man mano sempre più forza, trascinato dal loro lavoro e dal messaggio culturale contenutovi. Decine e decine di attivisti e studenti organizzarono dimostrazioni e conferenze, e persino una nuova base di figure ecclesiali scelse di schierarsi apertamente contro la mafia, i politici collusi, soccorrendo i più deboli e tutti i cittadini vessati e sfruttati dalla malavita. Tra questi anche figure di spicco quale il Cardinale Pappalardo. Nel luglio del 1985 venne eletto sindaco di Palermo il democristiano Leoluca Orlando, e anch’egli prese posizione limpidamente contro la mafia. Orlando era un giovane esponente di punta di una ondata di fresca rinnovazione tra le schiere dell’amministrazione del capoluogo, rinominata anche come “Primavera di Palermo” 2. Un evento che tentava di marcare discontinuità con i passati governi cittadini contrassegnati in gran parte da secolari radici mafiose .
Ciò nonostante una gran parte dei cittadini rimase in attesa degli eventi, con fare di apparente e quasi distaccata neutralità, forse perché dinanzi alla profonda conoscenza del potere mafioso, in tanti ritenevano questo apparente risveglio di coscienze come un momentaneo fuoco di paglia destinato ad esaurirsi in fretta. Se molti non si esposero per paura di rappresaglie anche future, è altrettanto vero che tanti altri giudicarono con scetticismo l’eventualità di una Sicilia migliore se liberata dalla mafia, in quanto troppo attecchita nel tessuto culturale della società. Un giudizio che può apparire troppo severo, ma che va misurato con adeguata empatia, sforzandosi di non leggerlo per intero come una espressione di palese collusione. Si trattava di uno stato di rassegnazione da parte di un popolo da generazioni dominato da un sistema violento ed invincibile, e oramai incapace di immaginare e credere ad un futuro diverso dal passato. Mafia quale cancro sociale, e per garantirsi la sopravvivenza, l’organismo che lo ospita ne accetta le regole biologiche, finendo con l’assimilare libertà e legalità come privilegi e non diritti.
Al riguardo Falcone arrivò a dire: ”Mi sembra che questa città stia alla finestra a vedere come finisce la corrida”. 3
Verso il processo
Questo il clima che avvolgeva la città di Palermo quando nell’agosto del 1985, Falcone e Borsellino unitamente alle loro famiglie, furono costretti ad una “reclusione forzata” all’isola dell’Asinara, per consentire allo Stato di garantirgli una adeguata protezione nella fase di preparazione del maxi processo. La massiccia documentazione venne depositata l’8 novembre e da lì a qualche giorno tutti rientrarono nel capoluogo siculo. Quella che il giudice Ayala definì come “La Treccani”, era un’ordinanza di rinvio a giudizio di circa ottomila pagine, che saliranno ad un milione con quelle del processo. Gli imputati alla sbarra erano 475 e l’inizio del processo venne fissato per il 10 febbraio 1986. 4
Quei mesi registrarono una incalzante campagna di delegittimazione concertata da stampa e media, a danno dei pentiti, dei magistrati coinvolti e del processo quale istituzione. Quei centri di potere collusi a Cosa Nostra, misero in atto una potente manovra tesa ad abbattere la credibilità di un impianto processuale che volevano si ultimasse con un “tutti a casa”, perché l’intero teorema Buscetta ed il metodo Falcone, dovevano essere screditati per evitare future e recidive complicazioni. Il fronte politico espressione di Cosa Nostra aveva compattato i ranghi dopo un periodo di smarrimento, e i segnali giungevano da un largo coro che la stampa e i media non lesinavano a divulgare. Commenti, dubbi, supposizioni, insinuazioni, mezze voci, alcune solo sussurrate, altre riportate per bocca di terzi, indussero anche molti esponenti onesti a cadere vittima di una sofisticata campagna di disinformazione. La posta in palio del resto era altissima, ed in ballo non vi era “solamente” la condanna o l’assoluzione per centinaia di criminali accusati di reati gravissimi, dall’omicidio al traffico internazionale di stupefacenti, tutti accorpati e amplificati dall’associazione mafiosa. Si trattava di promuovere o bocciare un intero e rivoluzionario metodo di lavoro nella lotta alla più potente organizzazione criminale del mondo, ma non solo. Se lo Stato rappresentato dal pool antimafia avesse avuto la meglio, per la complessa e trasversale zona grigia in cui si annidavano mafiosi, fiancheggiatori, ed esponenti del medesimo Stato ma in organico a Cosa Nostra, in tutto il Paese avrebbe risuonato un allarme generale senza precedenti.
Altre difficoltà incorsero nella nomina del presidente della Corte. I canditati più autorevoli si sottrassero per svariati ed intuibili motivi, tutti salvo il giudice Alfonso Giordano, un noto civilista con poca esperienza in ambito penale, ma che assolse in maniera impeccabile il suo compito: infaticabile, metodico, preciso. Quale giudice a latere fu incaricato Piero Grasso, inesauribile magistrato di prim’ordine.
Nessun problema incorse nella designazione a sorteggio della giuria popolare. 5
Dentro e fuori l’arena
Arrivò il 10 febbraio del 1986, ed in un aula bunker affollata da oltre 200 avvocati, alla presenza di giornalisti inviati da ogni angolo del pianeta per seguire da vicino quello che universalmente fu definito “un evento storico”, lo Stato italiano portava alla sbarra la Mafia, e per la prima volta con tutte le premesse di infliggergli la più devastante sconfitta della sua storia. 6
Il luogo che sarà teatro del processo fu eretto a ridosso del carcere dell’Ucciardone. La struttura era a prova di missile, concepito attraverso rigidi canoni di sicurezza nel trasferimento e la custodia degli imputati dall’esterno alle gabbie, munito dei più sofisticati sistemi informatici del tempo per gestire la mole degli atti processuali. Il colpo d’occhio di questa moderna arena di combattimento di cemento armato era imponente. L’aula era dotata di 30 gabbie per contenere i 208 imputati più pericolosi. Sui 475 rinviati a giudizio però, 119 erano ancora latitanti e tra questi “le bestie” eredi di Luciano Liggio, “U curtu” Totò Riina e “U tratturi” Bernardo Provenzano. 7
Lo Stato era intenzionato a mostrare tutto il suo impegno nello sferrare agli occhi del mondo, un attacco frontale all’espressione della più ancestrale entità malefica del paese. A rappresentare in aula l’accusa non furono gli uomini che l’avevano istituito. Falcone e Borsellino, insieme a tutto il pool rimase dietro le quinte. In prima linea il giudice Giuseppe Ayala, che si definì una sorta di pioniere perché la sua esperienza in procedimenti di simili dimensioni, non aveva precedenti nazionali. 8
Tra la gente comune di Sicilia, tali muscolose esibizioni da parte delle istituzioni, non scalfirono un diffuso scetticismo sull’esito del procedimento. In pochi erano convinti che vi sarebbe stata giustizia. Erano i più coloro che ritenevano come in gabbia fossero rinchiusi solo i soldati, mentre i generali godevano di libertà ed i mandanti politici si libravano a quote inarrivabili. L’effetto delle campagne mediatiche che lo avevano preceduto e la malafede, indussero diversi esponenti politici a rilasciare dichiarazioni pesanti come macigni, arrivando a mettere in discussione persino l’utilità stessa del maxi processo. Si riteneva che in un simile “marasma giudiziario”, la vera giustizia sarebbe stata surrogata dalle sue espressioni più narcisiste, per opera di uomini protesi ad un clima giustizialista. Persino il cardinale Pappalardo si rimangiò parte delle affermazioni dei mesi precedenti.
Un passaggio delicato risiedeva nelle deposizioni dei pentiti, vero maglio perforante in mano all’accusa. Sarebbero risultate credibili ed efficaci oltre ogni ragionevole dubbio? E innanzitutto, quale l’effetto sulla corte, avrebbe sortito il teorema Buscetta, e la concezione innovativa di un mafia soggetta ad un'unica cupola?
Occorreva un collettivo balzo culturale e intellettuale nella comprensione del fenomeno mafioso, ancora radicato per la maggiore ad una fisionomia diversa. Secondo molti, singoli capi e sotto capi gestivano gli affari nelle aree di appartenenza, per unirsi solo in occasioni particolari.
Quanto emerso nell’istruttoria descriveva di una entità regolata da un codice proprio, frazionata territorialmente ma legata ad un solo vertice e soprattutto connessa da precisi canali alla politica territoriale e nazionale, per soddisfare al bisogno interessi reciproci. Una realtà che diversi intellettuali e storici mal digerivano, specie se siciliani. Non era insolito imbattersi nel retaggio culturale condizionato da decenni di esperienze, soprattutto nei non più giovanissimi, dove Mafia e Stato erano la stessa cosa. In quei casi, l’annullamento della prima, equivaleva alla perdita di diritti civili propri del secondo.
Falcone e Borsellino soffrirono di tutto questo, ma per fortuna dell’intero paese, in loro rimase ben chiaro quale fosse l’atteggiamento da tenere di un vero siciliano per il bene della propria terra. 9
Battaglia in aula
Il maxi processo si protrasse per 22 mesi fino al dicembre del 1987. Giornate campali si susseguirono ad altre di normale amministrazione. I collegi difensivi orchestrarono, soprattutto nelle prime settimane, ripetuti e fantasiosi tentativi per articolare una ostruzione al processo che ne avrebbe dilatato i tempi a caratteri biblici. Il fronte dell’accusa fu reattivo, compatto e brillante, disinnescò con prontezza tali manovre ricorrendo ad espedienti altrettanto creativi ma giuridicamente legittimi. Mano a mano, gli avvocati di Cosa Nostra rinunciarono a questi escamotage per la loro manifesta inefficacia.
Tommaso Buscetta fu accolto in aula ed ascoltato in un religioso silenzio, a riprova di un prestigio che aldilà degli sforzi per delegittimarlo, aveva ancora una radicata consistenza nei suoi ex picciotti. I difensori inoltrarono la richiesta per una serie di incontri faccia a faccia, mirati a sbugiardare il boss dei due mondi. L’accusa acconsentì, certa dell’esito a favore di Buscetta di questi match, e così fu: la ventina di confronti in calendario fu sospesa dopo che il primo, con protagonista Pippo Calò, cassiere della mafia, amico di vecchia data di don Tommasino, si concluse con esito disastroso per l’imputato. Calò vide la propria posizione aggravarsi ulteriormente.
Totuccio Contorno invece, nel giorno della deposizione fu subissato di fischi ed insulti dagli occupanti delle gabbie, ai quali rispose in ugual misura, trasformando quella giornata in una caotica esibizione. Aldilà del diverso contesto coreografico, entrambi i pentiti riuscirono a ribadire con efficacia la loro testimonianza.
Nel corso di uno di quei giorni Buscetta, alla presenza di Falcone ed Ayala, si lasciò andare a inquietanti predizioni qui riportate da questo ultimo:”Voi siete destinati ad essere ammazzati, ma non è detto. Durante il maxi processo non faranno niente del genere per timore della reazione dello Stato, che potrebbe portare ad un inasprimento delle condanne. Dovete guardarvi piuttosto dal mondo istituzionale…Gente come voi li non è ben accetta. Non vi toglieranno la vita, ma faranno di tutto per rendervi innocui con ogni mezzo. Tanti auguri comunque!”. (10)
L’arca giudiziaria
Per parola di Giuseppe Ayala, il maxi processo fu una esperienza indimenticabile sotto ogni profilo, anche dal punto di vista umano. Ancora oggi egli riflette su quale irripetibile convivenza fu costretto un così eterogeneo spaccato della nostra società. Per lunghe giornate imputati, giudici, avvocati, agenti di custodia, carabinieri, addetti alle pulizie e al bar, segretari, cancellieri e giornalisti, divennero abitanti forzati di questa arca giudiziaria. Osservandone comportamenti e reazioni, si acquisiva materiale sufficiente per numerosi testi umanistici. Ma fu imparando a decifrare il codice comportamentale degli imputati che se ne interpretò gerarchie e affiliazioni, acquisendo conferme viventi al lavoro investigativo. Già dalla posizione in prima file nelle gabbie o dal religioso silenzio che si osservava nel corso degli interrogatori, si evinceva chi fosse il capo riconosciuto, chi aldilà di ogni dichiarazione, era il boss temuto e rispettato. Quando uno di questi parlava, gli altri ascoltavano attenti e taciturni. Ogni leader preferiva conferire sempre con i suoi referenti, e ogni affiliato sedeva accanto a membri di famiglie lui vicine. Fu così possibile constatare la parabola discendente dell’ex boss dei Corleonesi Luciano Liggio, in carcere oramai da un decennio: i suoi interventi venivano accolti da una generale indifferenza. Egli rappresentava un passato sì glorioso, ma oramai scavalcato dal presente che portava da tempo i nomi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. (11)
La requisitoria
Con i primi giorni di Aprile del 1987, giunse il momento della requisitoria del Pubblico Ministero. A Giuseppe Ayala, lo Stato affidava il compito di sintetizzare il lavoro investigativo di anni. Serviva una esposizione persuasiva per la giuria, ma anche inattaccabile dalle difese e in grado per la solidità e meticolosità dei riscontri, di resistere ai successivi gradi di giudizio. Per ognuna delle otto udienze consecutive occupate dalle richieste della accusa, Ayala parlò per cinque o sei ore ininterrotte. Si trattò di uno sforzo intellettivo, fisico e nervoso assoluto, ma il professionista e l’uomo diedero il meglio di se.
Per la prima volta in un aula giudiziaria italiana venne rivelata la struttura ed il funzionamento di Cosa Nostra concepita come la conosciamo oggi, corredando il tutto di dati e prove minuziosamente documentati.
Si espose la pratica del giuramento e i dettagli del rituale di iniziazione con la puntura al dito del candidato. Questi mentre il sangue fuori esce tiene in mano una figura sacra, “la Santuzza”, che una volta macchiatasi del rosso liquido, viene incendiata al pronunciare di una frase ricorrente che può così riassumersi:”Le mie carni possano bruciare come questa immagine sacra se non manterrò fede al giuramento”. La sacralità del momento è certificata dalle simbologie coinvolte: il sangue, il fuoco e il santo. Nel codice mafioso il giuramento segna l’appartenenza a vita ad una nuova espressione di umanità. Una specie di individui che si distaccano moralmente e giuridicamente dal resto della società, animati da regole militari, morali, sociali e d’onore proprie. Onori e oneri dell’affiliazione confluiscono in scelte dalle conseguenze assolute e radicali. Il mafioso entra a far parte di un ordinamento giuridico che lo obbliga alla segretezza e alla fedeltà pena la morte, che gli impone il delitto per nemici, trasgressori o figure che per la loro debolezza espongono l’organizzazione a rischi potenziali. La morte non per diletto, ma per “necessità” è “l’asse portante della vita di Cosa Nostra”. Non esistono carceri, programmi rieducativi, o appelli per chi tradisce il giuramento.
Prima della definitiva accettazione, l’individuo è sottoposto ad un periodo di osservazione per valutare requisiti quali coraggio e sangue freddo nell’uccidere, nonché la presenza di “ombre” di natura comportamentale o familiare, come la presenza di “sbirri” o di “corna” nel ristretto ambito familiare.
L’organizzazione gerarchica della struttura è capace di assumere a ruolo di stato nello stato, di scorrere parallela e intersecata all’istituzione ufficiale. Un organismo libero da ideologie politiche, ma ipocritamente fondato nei valori della religiosità cristiana. La Cupola o Commissione costituisce il vertice dell’organo direttivo, che si dirama in appendici territoriali quali le “famiglie”, munite di eserciti composti da “uomini d’onore” o “soldati”. Essendo il suo unico fine, quello di rastrellare ricchezza con ogni mezzo, la Mafia è riuscita nell’oltre suo secolo di vita a camminare a braccetto di quelle porzioni di istituzioni che ad essa si sono vendute, in un mutuo rapporto di interessi politico economico.
Ma il radicamento così marcato di quello che Ayala definisce un “contropotere”, ha origini storico ambientali antiche. Il consenso di larghe fette del popolo è da sempre fondato su paura e intimidazione, ma anche dalla diffusione di una ideologia che si appoggia sulla strumentale mistificazione del senso della famiglia e dell’amicizia, nonché nella natura insulare degli abitanti. Un popolo che si è storicamente sentito lontano dal potere centrale, che questo fosse Roma in epoca recente, o Napoli, La Mecca e Atene, marciando a ritroso nella storia. La Mafia è divenuta una sorta di organo supplente del distante potere centrale, con sue regole fortemente radicate alla gente e alle tradizioni, capace di scambiare la soluzione dei suoi problemi quotidiani, con la fedeltà ad una organizzazione, che un secolo e oltre or sono, aveva connotati ben diversi dalla indiscriminata macchina di morte che si conosce oggi. Ella si è trasformata assecondando le ere, mutando ed estendendo la rete collettiva dei suoi affiliati e sostenitori, ma mai venendo meno alle prerogative di base:”…pi fari picciuli…”, per produrre denaro.
Ayala quale ciliegina sulla torta, disinnescò le trappole insite nella credibilità dei pentiti, ribaltando il concetto di fondo. Dimostrò come le loro dichiarazioni fornivano il riscontro ad accertamenti già compiuti, e non il punto di partenza per le indagini. In questo modo venne zittito il coro dei molti che sostenevano come molti giudici si fossero lasciati guidare dal pentito di turno.
Vennero richiesti diciannove ergastoli, tra cui Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, e decine di condanne minori per un complessivo di diverse migliaia di anni di carcere, ma anche alcune assoluzioni. Erano le posizioni di imputati non ritenute penalmente convincenti, che evitarono l’impressione di giustizialismo e rafforzarono le richieste di condanna.
La comune concezione odierna del fenomeno mafioso, parte dal considerare tutto questo come uno scontato dato di partenza, ma quando nell’aprile del 1987 si affermarono in aula concetti simili, molto di quanto letto in questo paragrafo non lo era affatto. Il giudice aveva per mesi preparato con cura un complesso elenco di riferimenti agli atti del processo per ciascun imputato. Alla fine risultarono oltre un migliaio. Un metodo di lavoro mai sperimentato su così larga scala.
“Mi ero dovuto inventare tutto, con il risultato che l’invenzione si era guadagnata il brevetto”, commentò in seguito Giuseppe Ayala. (12)
Giunse la sentenza
Le reazioni alla requisitoria furono nell’immediato positive, ma durante lo trascorrere dei mesi che videro la lunga rassegna di interventi delle difese, l’intero ambiente politico giudiziario subì l’azione di chi continuava a remare contro il maxi processo. Ad agevolare l’azione dei media contribuì il nostro sistema giudiziario, troppo articolato, complesso, lento, così facilmente vittima di azioni strumentali. L’Italia poi, unico caso tra i paesi cosi detti sviluppati, era sprovvista di una politica specifica contro la criminalità organizzata, come denuncerà due anni più tardi il giudice Falcone.
Quelle porzioni di politica volutamente pigre nel combattere la mafia, con complicità anche all’interno del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) ebbero vita facile nel marchiare i magistrati antimafia di Palermo e non solo, come scomodi, nell’isolarli, arrivando a tingerli di rosso in quanto definiti vicini al Partito Comunista.
L’11 Novembre sempre del 1987, la Corte d’Assise si ritirò in camera di consiglio finita l’udienza numero 349, dopo 1820 ore di dibattimento, 1314 interrogatori, per un totale di 666.000 fogli di atti processuali.
Alle ore 19,30 del 16 Dicembre, dopo 35 giorni di camera di consiglio, il presidente Giordano lesse ad un’aula gremita all’inverosimile la sentenza: 19 ergastoli, 2665 anni di carcere inflitti. La corte aveva creduto al teorema Buscetta e all’impianto dell’accusa. La mafia era stata condannata. 13
Su 474 imputati gli assolti furono 114 e tra questi anche nomi illustri come Luciano Liggio, in quanto non si riuscì a dimostrare il perpetrare di ordini pur rinchiuso in carcere. In quel momento erano presenti in aula oltre duecento imputati che ascoltarono sgomenti le decisioni della corte.
La stampa italiana raccontò di una mafia non più invincibile, ne sancì il crollo del mito, affermò come il male in lei radicato non era più inestirpabile dalla cultura siciliana. Enorme risonanza dell’esito del Maxi Processo si ebbe anche all’estero e la reputazione del nostro Stato subì un’impennata. 14
Sembrava l’inizio di una nuova era, l’alba di una vera stagione di libertà dalla schiavitù mafiosa, ma come vedremo questa speranza tramontò presto.
Negli anni che verranno lo Stato si apprestava ad esibire il peggio di se, mancando di tutelare gli uomini fautori della più grande vittoria contro Cosa Nostra.
Note
1, 2, 3, 7, 9, 14, Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – capitolo “Terra Infidelium” – pagine 413…419
4, 5, 6, 8, (10), Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “La mafia all sbarra” – pagine 134…144
(11), (12), 13, Fonte “Chi ha paura muore ogni giorno” – Giuseppe Ayala – Mondadori, I edizione maggio 2008 – capitolo “A ciascuno il suo” – pagine 145…160