Ventisei anni fa, la mafia assassinava il direttore de “I Siciliani”
Giuseppe Fava: un uomo contro, una vita per la libertà
di Ermanno Bugamelli
La sua vita, tante lotte in una
Lo scorso 5 Gennaio 2010 è ricorso il 26esimo anniversario dell’uccisione del giornalista scrittore Giuseppe Fava. Lo smisurato amore che nutriva per la sua terra lo portò ad essere un uomo contro, ma la sua fu soprattutto una vita spesa intensamente per la libertà dei siciliani. Una esistenza spezzata da quella cultura della violenza a cui si oppose sino all’ultimo. In una sola vita Fava combatté molteplici lotte: sognava una Sicilia libera dalla mafia, dallo sfruttamento, dalla sottomissione a politici ed imprenditori potenti e corrotti.
La lunga stagione di omicidi di mafia che insanguinò tutta l’isola, seminando la morte tra i servitori dello Stato nel periodo compreso tra il 1977 ed il 1983, sembrava all’alba del 1984 attraversare una pausa di riflessione. Una tregua solo apparente destinata di lì a breve ad infrangersi, per non risparmiare coloro che Cosa Nostra la combattevano tra le fila della società civile. La sera del 5 Gennaio di quell’anno, Catania è scossa dall’omicidio del direttore del quotidiano “I Siciliani”. Fava aveva 59 anni quando viene barbaramente ucciso davanti al Teatro Stabile, nel pieno centro della città. Era nato il 25 settembre del 1925 a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, da genitori entrambi insegnanti di scuola elementare. La cultura è di casa nella famiglia Fava. Una cultura che sin dall’infanzia, assume per Giuseppe la forma di una presenza fisica, come di una naturale compagna di giochi al cui fianco si cresce, dolcemente. Nel 1943 per proseguire gli studi si trasferisce a Catania, quindi la laurea in giurisprudenza e il giornalismo da professionista due anni più tardi. Dopo alcune collaborazioni con vari quotidiani, dal 1956 al 1978, lavorerà all’ “Espresso Sera”, divenendone il direttore. Sono gli anni in cui mieterà successi come sceneggiatore per il cinema ( “Palermo oder Wolsburg”, Orso d’Oro al Festival di Berlino), ed il teatro, quale scrittore di romanzi e nelle vesti di conduttore radiofonico (“Voi ed io” per la radio nazionale).
La popolarità di Giuseppe Fava supera anche i confini nazionali, e non sarà infatti casuale l’offerta che alcuni rampanti imprenditori catanesi sono pronti a lanciargli. Allo scopo di dare vita a Catania ad una nuova testata con fini di propaganda politico imprenditoriale, il cavaliere Gaetano Graci propone al giornalista la direzione de “Il Giornale del Sud”. E’ più corretto affermare che all’inizio saranno altri a condurre la trattativa. Graci si muove in posizione più defilata, e la ragione è insita nella stessa realtà che sta maturando a Catania. Il capoluogo etneo, un tempo descritto come un’isola felice in seno alla Sicilia, dove la mafia, la violenza sistematica, e la corruzione tipicamente palermitane non sembravano trovare dimora, sta cambiando volto. Una potente lobby politico affaristica sta sbaragliando la concorrenza per mettere le mani sull’intera città. La mafia del boss Nitto Santapaola ne è una componente. Il cavaliere Gaetano Graci è uno dei soggetti più intraprendenti di quella alleanza. Fava conosce bene questo contesto, e pone le proprie condizioni: l’autonomia e l’indipendenza della linea editoriale saranno i punti fermi per accettare l’incarico. Gli verranno garantiti, ma il futuro riserverà uno scenario ben diverso.
Una mente illuminata, un professionista libero e indipendente
Fava non è solo un bravo scrittore ed un grande giornalista che utilizza la scrittura quale strumento di lavoro. Egli è una mente illuminata. Da sempre. La passione per il mestiere di cronista traspare cristallina dai suoi pezzi. A differenza di altri colleghi cinquantenni, abulici, spenti, che sfornano articoli in modo quasi automatico, Giuseppe fonde ad uno stile narrativo ricco e coinvolgente, lo straordinario spessore umano di chi pone sempre al centro delle storie la vicenda umana. Le persone con la loro carne, il loro dolore, le lacrime, la rabbia, la speranza, urlano dalle sue pagine. Il direttore possiede un’altra qualità non comune: la capacità di trasmettere passione e nozioni a chi lavora al suo fianco. Ancora oggi i suoi ex allievi, serbano il ricordo di quei giorni. Fava sarà per loro un maestro di professione e di vita. Alla cura dei dettagli nella costruzione degli articoli, egli fondeva quella smisurata scienza priva di confini e di regole, in grado di rendere un giovane cronista, un uomo capace di interpretare la realtà che lo circonda. Attorno a lui crescerà una intera generazione di cronisti innamorati della medesima professione, destinata a firmare migliaia di pagine negli anni che verranno. L’età media è di ventitrè anni. I nomi di alcuni di loro sono Riccardo Orioles, Miki Gambino, Antonio Roccuzzo, Rosario Lanza, Elena Brancati, Roselina Salemi. A questo gruppo di lavoro, Fava diffonde il valore morale e sociale che la professione incarna. La redazione assimila velocemente l’onestà intellettuale di chi da cronista indipendente, deve puntare alla narrazione dei fatti, alla loro trasparente collocazione nel contesto di una realtà cittadina ed isolana alla deriva. Al centro delle storie e quali soggetti a cui indirizzare le stesse, le persone. Gli articoli e le inchieste devono essere chiari, completi, penetranti, di facile comprensione. Una missione che all’epoca dei fatti nessuno dei protagonisti sentirà come pericolosa. Fava trascinava quei giovani con l’entusiasmo della spontaneità.
Molto presto “il Giornale del Sud”, si troverà a denunciare ciò che a Catania e dintorni sta accadendo. Senza sconti. Il numero di morti assassinati tra il 1980 e il 1982, subisce un’impennata. Sono gli anni che introducono alla seconda guerra di mafia. Il braccio armato operante in provincia non si concede pause, ed in cabina di regia, siedono gli stessi nominativi di coloro che agiscono in combutta con chi detiene la maggioranza delle quote editoriali. Graci riteneva di possedere le giuste motivazioni per ammorbidire a tempo debito Giuseppe Fava, ma aveva commesso un grosso errore di valutazione. La tensione cresce. Fava ed i suoi cronisti denunciano le collusioni tra la mafia del boss Nitto Santapaola, che stringerà alleanze con i nuovi padroni della mafia, i corleonesi Riina e Provenzano, ed il potere di politici ed imprenditori. Articoli di fuoco. Inchieste dettagliate che pongono implacabilmente in rilievo fatti, episodi, nomi. La goccia che fa trascendere il livello dello scontro è del settembre 1981. Il boss catanese Alfio Ferlito viene arrestato alla periferia di Milano alla guida di un camion con a bordo una tonnellata di droga. La redazione prepara uno speciale per illustrare chi è Ferlito, le sue amicizie politiche catanesi, ponendo l’accento sulla ascendente pericolosità della mafia cittadina. Il pezzo verrà censurato dagli editori che approfittano della presenza fuori città di Fava. Ne vengono asportate le porzioni più incisive. Orioles al termine, lo definirà laconicamente “…annacquato”. La reazione dei cronisti e del direttore non sarà altrettanto concisa, ma questo non sarà l’ultimo intervento censorio e altri ne seguiranno, in particolare quando gli articoli riguardano Nitto Santapaola ed i suoi traffici. Un altro duro scontro lo si registra sul capitolo che vedrà l’installazione delle testate nucleari a Comiso. La decisione viene definita da un editoriale di Fava, unico giornalista del panorama a manifestare totale intransigenza sulla scelta presa, “…un golpe politico…”, e nelle vesti dei “golpisti” ritroviamo nomi ben noti alla proprietà del “Giornale del Sud”.
Quando all’inizio dell’autunno del 1981 il suo licenziamento sembra imminente, l’11 ottobre il direttore firmerà un articolo in grado di elevarsi ad universale testamento per la professione di giornalista: “Io ho un concetto etico del giornalismo…Un Giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non si fa carico di questo si fa carico anche di vite umane…Un giornalista incapace, per vigliaccheria o calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato mai capace di combattere”.
Il giorno seguente giunse il licenziamento via telegramma. Motivazioni ufficiali: la testata è in deficit, ed il direttore non avrebbe rispettato i principi di fedeltà del Patto Atlantico in relazione alla dura posizione presa nella vicenda dei missili a Comiso. Una palese menzogna travestita a pretesto.
Fava viene estromesso perché nonostante le pressioni, non erano stati in grado di metterlo sotto silenzio.
Arrivano “I Siciliani”
La rivincita di Fava si chiamerà “I Siciliani”. Con il nome di un saggio pubblicato dallo stesso scrittore nel 1980, in seguito adattato anche ad inchiesta televisiva di grande successo trasmessa dalla Rai in sei puntate, egli invece che lasciare, raddoppia il valore della sfida scegliendo di fondare una nuova cooperativa ed un giornale. Le trecento pagine del “I Siciliani” libro, trattavano in forma straordinaria il mutamento antropologico che negli anni ha attraversato la Sicilia. Dal fallimento della società industriale, all’epoca migratoria verso il centro e nord Europa, ai fenomeni di corruzione politica fusi nell’espansione degli affari mafiosi, il saggio costituisce un approfondito viaggio nel tempo dal punto di vista umanistico e sociale. Con taglio narrativo coinvolgente e trascinante, Fava compie una analisi su quali siano state le conseguenze di tali evoluzioni sulla collettività siciliana.
Ripartendo da quel lavoro che Giuseppe sentiva come un contributo ed un omaggio personale alla comprensione di un’isola da sempre ghettizzata e schiavizzata, con il nuovo “I Siciliani” egli intende proseguire la sua battaglia per raccontare le verità che ancora oggi rendono la Sicilia in balia del giogo di potere e malaffare. In questa nuova avventura lo seguiranno molti dei ragazzi forgiati al “Giornale del Sud”. Tra di loro anche il figlio, Claudio, che gli subentrerà dopo la morte alla guida del giornale, per poi proseguire la sua battaglia di denuncia in politica. In un primo momento la cooperativa punta ad un settimanale, ma i fondi per auto finanziarsi sono un problema e si opta per un meno oneroso periodico mensile formato tabloid. Nel dicembre del 1982, il primo numero de “I Siciliani” giunge nelle edicole. La prima delle centosessanta pagine di attualità, politica, cultura e costume, sfodera nel titolo dell’editoriale firmato dal direttore, il suo biglietto da visita: “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”. In copertina una foto dei cavalieri del lavoro catanesi che brindano festanti. La mafia sarà uno dei temi centrali delle inchieste de “I Siciliani”, perché intrisa delle sue sfumature politiche, affaristiche e finanziarie, ne è la porzione trainante della società di Catania, ma non solo. “La mafia…, scrive Fava,…è dovunque, in tutta la società italiana, a Palermo, a Catania, come a Milano, Napoli o Roma, annidata in tutte le strutture come un inguaribile cancro, per cui l’ordine di uccidere Dalla Chiesa può essere partito da un piccolo bunker mafioso di Catania, o da una delle imperscrutabili stanze politiche della capitale”.
Giuseppe Fava è sin da allora una delle poche voci della stampa italiana a sostenere che il fenomeno mafioso deve rientrare nelle preoccupazioni di tutti gli italiani. L’anno appena trascorso aveva lasciato dietro di se una lunga striscia di sangue con le uccisioni di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa a suggello. Considerare la mafia un problema squisitamente siciliano, rientra in quelle manovre di disinformazione a cui mirano i poteri forti a lei legata. Ma sarà comunque la battaglia quotidiana alla frangia catanese ad impegnarlo frontalmente nella nuova avventura. L’editoriale numero uno prosegue con “…nell’ultimo ventennio sono emersi questi cavalieri del lavoro (non soltanto questi quattro), rapaci, temerari, prepotenti, aggressivi, qualcuno anche grossolano o ignorante, però dotati di fantasia, di straordinarie capacità industriali e tecniche, e di talento, precisione, velocità. Hanno realizzato opere pubbliche a tempo di record, hanno creato aziende e tecnici di altissima specializzazione(…). La loro intraprendenza si spinge oramai su tutto il territorio nazionale, in Europa, in Africa, nel Sud America. La loro concorrenza è spietata. Molte grandi aziende del Nord non solo hanno perduto il loro tradizionale feudo meridionale, ma si vedono insidiate nel loro stesso territorio”.
A questo punto il direttore non lesina i chiarimenti su chi siano i cavalieri dell’apocalisse mafiosa: “Chi sono i quattro cavalieri di Catania? E’ una domanda importante e anche spettacolare poiché i quattro personaggi sembrano disegnati apposta per costruire spettacolo (…). Costanzo massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore (…). Il rapporto con la mafia è stato agnostico: noi facciamo i nostri affari, voi fate i vostri! Noi vogliamo costruire strade, palazzi, ponti, dighe, essere proprietari di banche e aziende agricole, ottenere gli appalti delle opere pubbliche. Questo è affar nostro! Voi volete gestire la droga! Affar vostro! E pretendete anche i subappalti per i lavori di scavo e trasporto! Che sia! Però non vogliamo bombe nei nostri cantieri, ne persecuzioni criminali, nemmeno estorsioni, nemmeno che i nostri figli, fratelli, parenti, amici, possano essere rapiti o sequestrati (…). Quello che la gente pensa è che i cavalieri di Catania, o taluni di loro, partecipano alla grande impresa mafiosa e furono loro a impartire l’ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il generale osò chiedere allo Stato gli strumenti legali per rovistare nei loro imperi economici”.
Inutile dire che un numero d’esordio di questo spessore, era destinato a riaprire quel conflitto con i poteri forti e mafiosi, alla base del licenziamento di un anno addietro.
Una dura battaglia per il diritto alla verità
Le tremila copie in stampa in quel dicembre del 1982, vennero esaurite nel giro di poche ore. Furono necessarie altre due ristampe per soddisfare le richieste giunte anche oltre i confini della Sicilia. Se la gente comune manifesta un entusiasmo raramente riscontrato in precedenza al cospetto di un debutto editoriale, molto diversa sarà la reazione della comunità intellettuale e delle autorità in genere. “I Siciliani” divengono un caso che divide l’opinione pubblica, ma purtroppo il fronte di coloro che si schierano tra gli oppositori, include neanche a dirlo i nominativi più influenti. Viene addirittura fondato un comitato “Pro Catania”, allo scopo di tutelare l’immagine della città che risulterebbe gravemente oltraggiata da simili insinuazioni. E a dire il vero, il neo comitato ha buone ragioni per ritenere danneggiata l’immagine di alcune figure di spicco dell’ambito etneo. Il quartetto dei cavalieri che per esteso risponde ai nomi di Carmelo Costanzo, Gaetano Graci (lo stesso coinvolto nella vicenda “Giornale del Sud”, legato a Michele Sindona e alla P2), Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, ha nelle loro mani la totalità degli affari cittadini. Appalti pubblici e privati, transazioni bancarie, operazioni finanziarie, creazione di aziende e attività commerciali.
Significativa in questo senso, la testimonianza di un primatista assoluto in ambito di negoziazioni tra politica e mafia: Angelo Siino. Arrestato nel 1991 e poi collaboratore di giustizia, Siino fu ribattezzato per lunghi anni il “ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”, in quanto regolava la gestione degli appalti assegnati all’organizzazione, nonché una figura strettamente legata ai corleonesi e a Nitto Santapaola. In merito alla battaglia di Giuseppe, al suo giornale e al contesto catanese, Siino ricorda: “Fava era un personaggio che guardavo con simpatia. Aveva quel suo foglio dove io attingevo delle notizie che non capivo come potesse avere. Evidentemente era un osservatore attento della situazione mafiosa, e politico-affaristico-mafiosa, della zona. Era molto attento a queste cose e per questo pagò. I politici riuscivano in quel momento a fare il bello e cattivo tempo e a un certo punto ci fu l’entrata in campo della mafia che non si accontentò più di gestire l’appalto per quanto riguardava le forniture o i sub appalti, ma volle essere persona che decideva sulla conduzione del lavoro. Io ero stato incaricato di distribuire i soldi degli appalti e di fare da mediatore. Dovevo ridurre le richieste della mafia e soprattutto contenere quelle dei politici, le quali - può sembrare strano - erano molto più esose di quelle dei mafiosi!”. (*)
Lo scenario nell’ultimo anno non è quindi mutato, anzi, e l’intera provincia è governata da violenza ed ingiustizia. La voce dei più deboli, degli operai, dei disoccupati, di ogni comune cittadino alle prese con il normale svolgimento di una società che si presume civile, è privata di libertà e diritti basilari. Corruzione e prevaricazione sono all’ordine del giorno. Nitto Santapaola è ancora al suo posto, più forte e potente che mai, pronto ad orchestrare il braccio armato di Cosa Nostra in funzione degli accordi stretti con la lobby dei cavalieri.
I numeri del mensile in edicola da dicembre 1982 a gennaio 1984 sono un susseguirsi di approfondimenti e denunce. Nel mirino, appalti, delibere, traffico di stupefacenti, intrallazzi tra politici ed imprenditori locali, la lotta mai arrestatasi di chi continuava a ritenere la questione di Comiso un insulto alle regole della democrazia popolare. Dalle pagine de “I Siciliani” anche un susseguirsi di calorosi ringraziamenti ad un pubblico di lettori sempre più nutrito, fedele e sparso in ogni realtà anche più isolata della Sicilia. Centinaia di testimonianze giungono in redazione. La gente esprime sincera gratitudine per essere finalmente informata in modo chiaro da una voce libera e indipendente. L’accresciuto seguito ha un rovescio della medaglia. “I Siciliani” iniziano a costituire una minaccia sempre più accreditata. Gli attacchi a 360 gradi verso imprenditoria, mafia, massoneria, poteri militari e politici, finiscono per colpire le medesime figure, sempre al centro della rete, e queste cominciano ad irritarsi. L’estate appena trascorsa e segnata dall’attentato a Rocco Chinnici, porta con se un vento carico di cattivi presagi. La morsa dell’isolamento si stringe attorno a Giuseppe Fava e al giornale. L’imprenditoria e il mondo bancario fanno terra bruciata attorno. Una testata in grado di raggiungere una tiratura di oltre trentaduemila copie nella sola Sicilia, non riesce a raccogliere la pubblicità necessaria a sanare i debiti accumulati anche per soddisfare le richieste. Una beffa. La redazione deve affidarsi ad una nuova tipografia a Roma, abbandonando a malincuore il centro stampa della cooperativa Radar. La moderna stamperia capitolina, dotata delle potenzialità tecniche necessarie ad una maggiore tiratura, comportò un aumento di costi e deficit. Un passivo che non beneficiava degli inserzionisti per sanarlo. Dopo una surreale proposta di acquisto del giornale, la lobby dei cavalieri mira a distruggerlo e avvalendosi del suo potere, impone un embargo ad ogni livello. Altri soggetti potenzialmente interessati a inserire la pubblicità ai propri marchi o prodotti, si defilano perché la testata è attorniata di troppi nemici, Nitto Santapaola in testa. Tutti temono vendette trasversali. A distanza di anni diversi pentiti affermarono che lo stesso boss catanese all’epoca latitante, era uno dei più assidui lettori del mensile. Nel corso di più di una riunione di mafia, lo sentirono affermare: “…Ma voi li leggete “I Siciliani”?...Lo leggete cosa scrive Fava sul mio conto e sul conto dei cavalieri ?”. Appena usciva in edicola, egli se ne procurava una copia, e terminata la lettura, non faceva che ribadire la necessità di azzittirlo quanto prima.
All’isolamento si somma la delegittimazione personale e Fava diviene oggetto delle più svariate e infamanti parole. Al riguardo ecco ciò che ancora rammenta il pentito Angelo Siino: “In quel periodo non c’era una voce a favore di Fava. Veniva denigrato in tutte le maniere, non solo all’interno del fatto mafioso, ma soprattutto della politica. Lo chiamavano “Puppo”, modo di dire che era un gay: per loro era la cosa più denigrante. Dissero che andava davanti alle scuole ad adescare ragazzini”. (*) Si ripropone una formula consolidata e collaudata, nel pieno rispetto delle strategie mafiose all’approssimarsi dell’atto conclusivo. Prima di procedere all’eliminazione fisica di una vittima, si mira a screditarne l’immagine in modo tale da renderla ancora più sola e vulnerabile.
L’ultimo grido
Grazie ad un fuoco di fila giornalistico senza precedenti nel territorio, il “Caso Catania” conquista l’attenzione nazionale. L’eco dell’intreccio mafia politica supera i confini della regione e Giuseppe Fava sarà ospite e protagonista di una trasmissione Rai di successo in quegli anni: “Filmstory”, curata e condotta dal grande Enzo Biagi. Nel corso della puntata che andrà in onda il 28 dicembre 1983, una settimana prima della sua uccisione, il direttore de “I Siciliani” rilascia un’intervista dai toni durissimi, il suo ultimo pubblico grido: “...Io vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi. I siciliani lottano da secoli contro la mafia. I mafiosi stanno in parlamento, i mafiosi sono ministri, i mafiosi sono banchieri, sono quelli che in questo momento sono al vertice della nazione. Nella mafia moderna non ci sono padrini, ci sono grandi vecchi i quali si servono della mafia per accrescere le loro ricchezze, dato questo che spesso viene trascurato. L’uomo politico non cerca attraverso la mafia solo il potere, ma anche la ricchezza personale, perché è dalla ricchezza personale che deriva il potere, che ti permette di avere sempre quei 150mila voti di preferenza. La struttura della nostra politica è questa: chi non ha soldi, 150mila voti di preferenza non riuscirà ad averli mai! I mafiosi non sono quelli che ammazzano, quelli sono gli esecutori. Ad esempio si dice che i fratelli Greco siano i padroni di Palermo, i governatori. Non è vero, sono solo degli esecutori, stanno al posto loro e fanno quello che devono fare. Io ho visto molti funerali di Stato: dico una cosa che credo io e che quindi può anche non essere vera, ma molto spesso gli assassini erano sul palco delle autorità…”.(*)
Giunge la fine
Nel corso degli ultimi mesi osservato dai suoi collaboratori è un uomo che non ha perso la sua spinta, ma che non riesce a nascondere preoccupazione e malinconia. Le difficoltà che di continuo insorgono nella quotidiana gestione economica del giornale, si fondono alla sempre più marcata percezione di una minaccia incombente. A famigliari ed amici, confida la sensazione di un qualcosa che potrebbe accadergli. Tuttavia non si ritiene in pericolo di vita: “Non credo che abbiano l’interesse a uccidermi, farebbero di me un martire, un eroe. Cercheranno di rovinarmi attraverso mezzi più subdoli”, confesserà loro.
La sentenza di morte a suo carico invece è già stata decretata. I tempi e le modalità dell’omicidio verranno analizzati in varie riunioni di mafia nel corso dell’estate del 1983. I dettagli operativi, i pedinamenti, gli orari degli spostamenti con la scelta del momento opportuno, saranno elaborati poco dopo, nei mesi di novembre e dicembre. Per le festività natalizie Fava riceve uno strano regalo firmato proprio da Gaetano Graci: dodici bottiglie di spumante insieme ad una grossa quantità di ricotta. A posteriori in molti decifreranno quel dono come un macabro avvertimento: verrai ridotto ad una ricotta e poi brinderemo.
La sera del 5 gennaio Giuseppe Fava si sta recando al Teatro Stabile. Deve andare a prendere la nipote che recitava come comparsa nel “Pensaci, Giacomino” di Luigi Pirandello. Alle ventidue giunge con la Renault 5 presa in prestito dal figlio Claudio, in via Stadio, e trova un posteggio a breve distanza dal teatro. Il commando è rapidissimo. Fava non ha il tempo di scendere dall’auto e con ogni probabilità, nemmeno lo spazio per accorgersi di cosa sta accadendo. Un killer spara con pistola munita di silenziatore al vetro anteriore sinistro dell’auto. In tutto saranno cinque i colpi che raggiungeranno Giuseppe al capo. La morte è istantanea.
Molte le forze che tenteranno di spostare l’ago delle indagini dalla sfera mafiosa a quella privata. Si cercherà di seguire una fantomatica pista passionale prima, ed un’altra legata ai grossi problemi finanziari del giornale poi. Le istituzioni cittadine con in testa il sindaco Angelo Munzone, cavalcando queste linee investigative, ritengono sconveniente onorare l’ultimo saluto a Fava con celebrazioni ufficiali. Addirittura l’On. Nino Drago, premerà perché le indagini vengano chiuse il più in fretta possibile. Occorre scongiurare il pericolo che i cavalieri del lavoro se ulteriormente irritati, trasferiscano le loro attività al Nord, danneggiando l’economia del territorio. Ai funerali, gli unici politici presenti circondati da giovani ed operai, saranno il questore, alcuni membri del PCI, ed il presidente della regione Santi Nicita. Come ci indica Angelo Siino,” La mafia uccide per due ragioni: prima di tutto quando si tratta di una persona pericolosa per il loro vivere e poi quando qualcuno glielo dice. Non può essere stato semplicemente un omicidio di mafia, di questo ne sono certo. Perché al di là degli articoli, Fava ai mafiosi faceva danno sì ma non straordinario. Ne faceva molto di più all’imprenditoria coinvolta e ai politici ”. (*)
Dopo anni bui, una parziale verità
Depistaggi tentati e riusciti, delegittimazioni martellanti sul giornalista e i familiari, riempiranno anni bui dove le indagini segnano il passo. Vengono fatte circolare ad arte, voci serpeggianti che descrivevano lo scomparso giornalista come un dongiovanni, un incallito giocatore di carte, perfino un ricattatore. Sul fronte investigativo saranno disposti accertamenti bancari sui conti della vittima, dei suoi familiari e colleghi. Nulla del genere verrà intrapreso però in direzione di chi per anni Fava ha denunciato. Il magistrato che conduceva le indagini, Giulio Cesare Di Natale, predisporrà addirittura una perizia calligrafica a tutti i giornalisti de “I Siciliani”. Sconcertante risulterà la nomina da parte del procuratore, del professor Domenico Compagnini quale perito balistico della Procura di Catania. Compagnini era da tutti riconosciuto come un amico di Nitto Santapaola, tanto che questi lo nominò come perito di parte nel procedimento a suo carico per il delitto Dalla Chiesa, nonché intimo frequentatore del cavaliere Carmelo Costanzo. Compagnini al termine del suo lavoro, stabilì che l’arma del delitto non era munita di silenziatore. Una tesi che verrà sconfessata molti anni dopo, ma che all’epoca contribuì a sottrarre forza a coloro che reputavano l’omicidio di matrice mafiosa. Un’arma semplice, nuda, priva di silenziatore, rendeva più agevole il compito a chi invece premeva perché il movente del delitto restasse lontano dagli ambienti di Cosa Nostra catanese. Ma questo non sarà che uno dei molti episodi che paiono suffragare una fondata ipotesi di depistaggio precostituito. Il colonnello dei carabinieri Francesco Guarrata, al tempo in servizio a Catania, nelle sue deposizioni affermerà che “…C’era quasi un desiderio di disorganizzare quella che all’inizio era stata l’attività organizzativa (…) Si cercava di riempirci di tutta una serie di input investigativi, che finivano solo per non farci andare avanti e farci perdere molto tempo”. Una strategia investigativa del tutto simile alle direttive che dall’alto vennero negli stessi anni suggerite anche al procuratore di Palermo Rocco Chinnici, che avrebbe dovuto seppellire Falcone e Borsellino di indagini secondarie per non consentirgli di colpire al cuore Cosa Nostra. Chinnici pagò di seguito con la vita la sordità a quei sussurri. La potenza dei cavalieri del lavoro farà quindi sentire il suo peso in tutto l’ambiente giudiziario etneo.
Occorreranno diversi anni affinché un nuovo e decisivo impulso venga inferto alle indagini, ed il contributo dei giornalisti ex allievi del direttore Fava, non sarà marginale. Articoli su articoli, i ragazzi cresciuti al “Giornale del Sud” e nei “Siciliani”, indagano e si sforzano di mantenere viva la pista mafiosa, anche dopo la fine dell’esperienza editoriale. Ci vorrà tempo, troppo tempo, ma alla fine quegli sforzi troveranno un riscontro. Al cospetto di una Procura di Catania completamente rinnovata nell’organico, ripulita anche dalle dimissioni del giudice Di Natale a seguito di uno scandalo, irrompe sulla scena la volontà di collaborare con la giustizia da parte di uno dei killer più feroci al servizio di Nitto Santapaola, Maurizio Avola. E’ circa la metà degli anni novanta quando l’uomo si auto accusa di oltre 50 omicidi dal 1983, e tra questi anche quello di Giuseppe Fava. I magistrati incaricati lo ritengono attendibile, e imboccata la nuova pista investigativa corredata dei necessari riscontri, gli crederanno. Si accerterà che del commando che agì la sera del 5 gennaio 1984, facevano parte oltre ad Avola, Aldo Ercolano, Vincenzo Santapaola, Marcello D’Agata e Franco Giammuso.
Nel 1998 dopo 14 anni dall’omicidio, a Catania giunge a conclusione il processo denominato “Orsa Maggiore 3”. Il procedimento stabilì che l’ordine di fare fuoco partì da Nitto Santapaola, che al momento del delitto si sposterà in una villa di Lentini di proprietà di un principe Borghese, cugino di quel Junio Valerio Borghese, fautore del tentato omonimo golpe del 1970. Il boss Santapaola verrà arrestato e condannato all’ergastolo in quanto mandante dell’assassinio. Un altro ergastolo verrà comminato ad Aldo Ercolano, mentre Avola consegue il patteggiamento e se la caverà con 7 anni di carcere.(*)
Tuttavia rimarrà sospeso nell’aria un ingombrante quesito: ad organizzare la morte del direttore, collaborarono altre figure risiedenti più in alto?
Il pentito Avola non ne cita alcuna. Nessuno dei nomi dei celeberrimi cavalieri catanesi viene legato al crimine da una prova inconfutabile.
Santapaola fu il mandante di un delitto per conto di altri, a fronte di un favore richiesto o spontaneo, o per soddisfare personali rancori?
Oltre le sentenze
Significativo appare comunque ciò che dirà in merito il Pm Amedeo Bertone: “Tra i cavalieri del lavoro, i più vicini alla famiglia mafiosa Santapaola erano Gaetano Graci e Carmelo Costanzo. In merito a questo delitto, non emerse responsabilità degli altri due cavalieri del lavoro. Su Graci e Costanzo non c’è alcuna prova storica sull’ordine dato per uccidere il giornalista; ne i collaboratori di giustizia hanno fornito alcuna specifica indicazione in tal senso. Tuttavia abbiamo elementi sufficienti per ritenere che determinati ambienti imprenditoriali non siano rimasti estranei alla ideazione del delitto”.
Tali elementi furono intralciati dal volere dei potenti. Se l’operato della magistratura fosse risultato cristallino ed efficiente sin dal 1984, con ogni probabilità sarebbe emerso quanto necessario per giungere ad una completa verità anche sui nomi di chi volle la morte di Fava. Nei confronti di Gaetano Graci venne imbastito un procedimento giudiziario destinato ad interrompersi per la morte dell’indiziato nel 1996. Le responsabilità presunte a carico di Carmelo Costanzo, risultarono anch’esse inutilizzabili perchè emersero in un periodo successivo alla sua scomparsa, avvenuta nel 1990.
L’eredità
Il giorno successivo l’omicidio, la redazione de “I Siciliani” sceglie di lavorare come se niente fosse accaduto. Con Claudio Fava quale nuovo direttore, per altri tre anni il giornale continuerà la sua lotta in prima linea a mafia e corruzione, poi strangolato dalle difficoltà economiche sarà costretto a chiudere. Prima di quel giorno, molti giovani cronisti illuminati dall’esempio di Giuseppe, chiederanno di poter collaborare con la redazione. Sulla scia dello stesso messaggio culturale e morale, in altre città della Sicilia sorgeranno altre iniziative editoriali o associazioni, in grado di infoltire la rete del movimento antimafia.
Alla carriera di cronista, il figlio Claudio fonderà un impegno politico nella sinistra italiana che lo condurrà al parlamento europeo. L’impegno civile per i diritti e la libertà gli consentiranno di portare alla luce il caso dell’imam di Milano sequestrato dalla Cia al cospetto del totale disinteresse manifestato dal governo italiano. Gli occhi dell’Europa intera si poseranno sulla sconcertante vicenda. Claudio Fava sarà l’unico eurodeputato italiano a ricevere da una giuria internazionale il premio come miglior europarlamentare dell’anno.
L’eredità che Giuseppe Fava ha lasciato a quella Sicilia per la cui libertà ha sacrificato la vita, si può sintetizzare in quel “dovete lottare” che non si stancava mai di ripetere, ma viene anche trasmessa al meglio da due ultimi ricordi che i figli Claudio ed Elena ci consegnano. Dalle parole di Claudio una frase che suo padre amava replicare di frequente, quale lascito spirituale alla professione di giornalista:”Ricordati che dietro ogni fatto, banale o terribile, c’è sempre la storia, banale o terribile di un uomo, che non va mai giudicata ma sempre rispettata”.
Dalla voce di Elena emerge tutta la forza che il coraggio e la dignità di uomini liberi sanno rivelare anche al cospetto delle tragedie, energia che papà è riuscito a tramandare loro:” Ci sono due possibilità: una è che ti ammanti di questa cosa e te la metti addosso come un cappotto chiedendo compassione e considerandoti vittima, oppure lasci questa vita alle spalle e inizi una vita nuova dimenticando il male ricevuto. La terza possibilità è quella che nella nostra famiglia ci siamo posti inconsciamente: di non lasciar trasparire il dolore, non considerarci vittime, ma raccontare la nostra rabbia e mantenere viva la memoria perché quando una persona muore in questa maniera non appartiene solo alla famiglia ma appartiene a tutti”. (*)
Quella via Stadio in cui il 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava venne assassinato, ora porta il suo nome.
Dal 2007 inoltre, è stato istituito un concorso nazionale intitolato al giornalista scomparso, per premiare chi nel corso dell’anno si è distinto quale autore di inchieste giornalistiche.
25 Gennaio 2010
Note
Fonte “Gli insabbiati” – Luciano Mirone – Edizioni Castelvecchi, 2° edizione maggio 2008 – capitolo “Giuseppe Fava”
(*), Fonte “www.lastoriasiamonoi.rai.it/giuseppefava