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Il “Lato sinistro” di Cosa Nostra
di Ermanno Bugamelli


Una prolungata “disattenzione a sinistra”
L’emorragia elettorale che ha da tempo colpito la sinistra italiana, confermata anche dall’esito elettorale delle recenti europee, è il segno di una lunga e profonda crisi che ha diverse origini, alcune antiche e non risolte, altre più recenti, figlie di un mondo e di una società che muta e che non sempre è riuscita a leggere ed inquadrare con tempismo ed efficacia. Di certo a monte vi è stato un graduale dissanguamento nei valori e tra questi la perdita di credibilità ha pesato tantissimo.
Persino nella incondizionata lotta alla criminalità organizzata, l’atteggiamento nel passato della sinistra non è stato sempre cristallino. Andiamo a ripercorrerne alcuni passaggi, forse non causa principale del fenomeno attuale, ma di certo grave sintomo di un morbo non curato con fermezza.
Corre l’anno 1991 e nel mese di febbraio il nuovo Ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli, politico che in passato non si era sempre schierato a favore dei magistrati antimafia, propone a Giovanni Falcone di vestire la carica di Direttore degli Affari Penali del Ministero, con delega di coordinatore nazionale della lotta alla criminalità organizzata. Falcone è titubante, ma il carattere dell’uomo e la spinta a camminare sempre guardando in avanti alla ricerca di nuove sfide del professionista, lo indussero ad accettare.
In poche settimane di lavoro, il nuovo direttore degli Affari Penali promosse l’istituzione di due nuovi organismi nazionali tuttora oggi colonne portanti della lotta alla criminalità organizzata: la DIA (Direzione Investigativa Antimafia), che unificò l’azione di Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza nella lotta ai crimini di stampo mafioso, un istituto del tutto simile al FBI americana; la DNA (Direzione Nazionale Antimafia), una procura nazionale che coordina 26 procure antimafia a livello distrettuale.
Il governo decise di andare sul sicuro e varò la Superprocura per decreto legge, ma fu sulla nomina di chi la doveva presiedere che si innescarono altre polemiche del tutto italiane. Come a Palermo in occasione dell’elezione del Capo dell’Ufficio Istruzione, Falcone era per criteri legati al merito l’unico candidato credibile. L’opposizione sconcertante anche di quel PCI ora PDS, che appoggiò un proprio candidato alternativo, indusse il CSM a temporeggiare nella designazione finale, tanto che il plenum non si era ancora pronunciato quando Falcone perse la vita nella strage di Capaci, il 23 maggio 1992.
Ritornando su quel periodo Luciano Violante, parlamentare di sinistra di lungo corso, definì come “gli anni della disattenzione”, quelli che precedettero l’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, riferendosi alle non sempre trasparenti ed univoche condotte del comunismo nazionale e siciliano nell’appoggiare l’antimafia.
Giuseppe Ayala nel suo libro “Chi ha paura muore ogni giorno”, non è disposto ad accettare che la natura di tali mancanze fossero da attribuire alla disattenzione. Non chiarisce quale risultasse a lui il termine più adatto, ma è certo che per una forza politica di costante opposizione ad un potere così palesemente colluso a Cosa Nostra come la DC siciliana, non risulta ne plausibile, ne riguardoso per l’intelligenza di chiunque, liquidare il tutto con una ultradecennale distrazione.
Lo stesso Falcone poche settimane prima della sua morte, riassumeva in una porzione di un suo intervento molto di ciò che serve sapere sulle peculiarità apolitiche delle connessioni mafiose: “…E se è vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di Cosa Nostra, è pur vero che in seno all’organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica. Insomma Cosa Nostra ha tale forza, compattezza e autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia mai però in posizioni di subalternità…”.
La storia ci ha consegnato personaggi e vicende, dove i “chicchessia” si muovevano anche dietro rossi stendardi con le effigi di falce e martello.

Genesi di una contaminazione
La Conca d’Oro che circonda  Palermo era nel primo dopoguerra una distesa di migliaia di limoni, aranci e mandarini da coltivare e raccogliere. Prima che le lingue d’asfalto e cemento del “Sacco di Palermo” della fine anni ’50 e inizio ’60 ne sconvolgessero la fisionomia prevalentemente agricola, le braccia umana che traevano da vivere tra quei filari di agrumi erano a migliaia. Contadini la cui povertà si misurava con la magrezza dei corpi e dei visi consunti dalla fatica. La fame e la miseria erano pane quotidiano, lo stesso pane che con le olive, qualche pomodoro e poche fette di formaggio, costituiva il menù a pranzo e cena di tante famiglie.
Tra loro in tanti erano comunisti. Non lo si era per scelta ma per necessità, perché era quasi impossibile non esserlo in una terra dove ogni giorno campieri e caporali decidevano chi poteva lavorare e chi no. Giornate fatte di 12 o 13 ore di lavoro e a volte anche di più; giornate dalle quali venivano escluse le teste calde, coloro che procuravano grane con quelle fantasie sindacali che pretendevano paghe non da fame, orari di lavoro stabiliti, che incoraggiavano i braccianti ad unirsi e a lottare per i loro diritti.
Le grandi manifestazioni operaie del dopoguerra, le occupazioni terriere, le uccisioni da parte della mafia di sindacalisti come Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale, portarono a quella tanto sospirata riforma agraria ma che in sostanza non li toccò. I latifondi furono frammentati per legge, ma a tanti contadini quel pezzetto di terra assegnatogli non bastò per vivere. Molti lasciarono i paesi d’origine per emigrare al nord; altri erano obbligati a proseguire una esistenza di braccianti nelle terre degli altri.
Quando in Sicilia sul finire degli anni sessanta la Fiat scelse di aprire uno dei suoi stabilimenti a Termini Imerese, le lotte per l’unità sindacale si spostarono anche nelle fabbriche. Alcuni comunisti si fecero strada nel sindacato, crebbero di popolarità e seguito, e si profilò loro l’opportunità di una carriera sindacale o nel partito.
Mafia e comunismo furono termini che al contatto generarono continui scontri, lasciando sul terreno sangue e morti tra chi i lavoratori li difese. Ma accadde anche che alcuni di questi esponenti allora emergenti della sinistra siciliana, alla guida dei braccianti tra i filari di agrumi, così come in prima linea tra gli operai nelle officine, scelsero di trattare anche con la mafia, regina e padrona di ogni contesto.

 

I soci “comunisti”
Lirio Abbate e Peter Gomez, autori del libro “I Complici” (Fazi Editore, 1° edizione Febbraio 2007), nel ripercorrere le connessioni e le protezioni a 360° che consentirono al boss Bernardo Provenzano una quarantennale latitanza nella terra natia, dedicano un capitolo a quelle che definiscono le “Coppole Rosse”.
Tra le tante figure coinvolte emergono i nomi di Antonino Fontana e Simone Castello. Entrambi figli di braccianti e contadini, crebbero con i valori del comunismo nel sangue, e le iniziative della CGIL come esempio. Negli anni ’70, “fattisi uomini”, entrano a far parte dei consigli direttivi delle cooperative agricole e ortofrutticole legate al partito comunista. Successivamente il sodalizio si cementa e Nino e Simone diventano soci in una società immobiliare di compravendita di terreni, la Salpa. Mano a mano il loro giro d’affari si allarga, esce dai confini siciliani per sbarcare negli USA, in Canada, in Romania. Investimenti fruttuosi e operazioni audaci che celano un retroscena: Simone Castello oltre che un comunista era un mafioso, legato alla famiglia di Villabate. Dopo il matrimonio con Marianna Mineo, cardiochirurgo di Bagheria, entra in contatto anche con l’area di Cosa Nostra che ospiterà “Zio Binu” dall’inizio degli anni ‘80, aspirando a divenire uno degli uomini d’onore che sarà tra gli eletti a prendersi cura della latitanza del padrino Provenzano.
Castello partecipa alle riunioni al vertice che il boss indiceva nella sede della ICRE di Bagheria, un deposito di metalli di proprietà del boss Leonardo Greco. La ICRE oltre che punto d’incontro e base d’azione per Provenzano, diverrà celebre quale macabra destinazione finale senza ritorno per tanti condannati a morte dalla mafia. Nemici da eliminare o esponenti interni a cui si riteneva esaurito il credito di fiducia, venivano lì condotti, ammazzati e sciolti nell’acido. Diversi pentiti che frequentavano quel luogo lo definiranno “il campo di sterminio”, narrando del continuo odore nauseabondo che aleggiava nei dintorni. Negli anni ’90 l’affabile e simpatico Simone Castello è oramai un uomo di mondo, e Provenzano gli affida il compito di garantire i contatti tra il boss e le altre famiglia della Sicilia. Viaggiando in auto tra le province, recapiterà i pizzini sui quali il padrino impartisce ordini e direttive.
Mentre Castello compie la sua scalata nelle gerarchie mafiose, il socio “comunista” Nino Fontana percorre invece la carriera politica. Le cooperative agricole che egli ha collaborato a fondare sono le sponsorizzatrici delle feste dell’Unita e del PCI. La fama di abile imprenditore gli consente una scalata di consensi nell’ambiente, entrando a far parte del consiglio d’amministrazione dello storico quotidiano di sinistra, “L’Ora” di Palermo, ma all’orizzonte del PCI siciliano si profila il nuovo segretario regionale, Pio La Torre.

La battaglia di Pio La Torre
Da alcuni mesi gli ambienti del comunismo siciliano sono attraversati da grida di allarme. Voci che sfuggono al controllo raccontano di esponenti del partito responsabili di comportamenti equivoci, troppo lassisti nei confronti della mafia. Pio La Torre raccoglie le lamentele in questo senso di diversi attivisti. Egli è preoccupato perché riscontra nel concreto l’esistenza in più episodi di un pericoloso rapporto di contiguità tra le attività delle cooperative e i poteri amministrativi controllati dalla mafia. In tutti gli anni ’70 così come sarà per gli ’80, quel sistema di consociativismo che aveva visto coop rosse e direzioni DC collaborare in diversi appalti, aveva creato malumore in molti militanti del PCI. Imprese costruttrici di Bologna, Ravenna, Reggio Emilia avevano accettato le offerte di lavoro in Sicilia, scendendo a compromessi con le condizioni imposte in loco dai boss. La Conscoop (il consorzio delle cooperative), aveva vinto gare di appalto unitamente alle aziende del gruppo di Arturo Cassina, che nella relazione di minoranza della Commissione Antimafia del 1976, per mano dello stesso La Torre, era definita come “un pilastro del sistema mafioso”. Anche al nord aziende rosse e di matrice sicula, si acquisirono a braccetto l’accesso a diversi redditizi appalti.
La Torre denuncia apertamente questi episodi, giudicandoli estremamente pericolosi perché “…Dobbiamo avere l’orgoglio di essere per davvero un partito diverso dagli altri, un partito che non si finanzia con le tangenti del sottogoverno”. Nel corso del 1981-82 il tema della pulizia interna al PCI è in vetta ai programmi di La Torre. In diversi appuntamenti e convegni ufficiali, egli denuncia episodi e circostanze verificatesi nelle sezioni di Villabate, Ficarazzi e Bagheria, in cui funzionari del partito e dirigenti di cooperative agricole si macchiarono di collusioni mafiose, di frode ai danni della CEE in quanto gonfiavano le quantità di agrumi distrutte, di sospette tangenti.
La Torre che verrà eletto nuovo segretario regionale nell’autunno del 1981, richiama alla fermezza morale e inoltra ufficialmente alla commissione provinciale del partito di Palermo, la richiesta di sottoporre ad indagini fino al limite dell’espulsione, i dirigenti cooperativistici coinvolti e tra questi compare anche il nome di Antonino Fontana.
Le parole di fuoco del segretario siciliano del PCI cadranno nel vuoto. Egli verrà assassinato dalla mafia il 30 aprile del 1982 da Salvatore Cocuzza insieme a Pino Greco.
“Quando il piombo di Cosa Nostra ammazza un politico…” scrivono Abbate e Gomez,”…nella bara col cadavere entrano anche i misteri”.
La Torre era impegnato su vari fronti: nelle lotte pacifiste contro l’installazione dei missili americani nella base NATO di Comiso; aveva sollecitato più di altri l’invio di Carlo Alberto Dalla Chiesa quale prefetto con ampi poteri a Palermo; aveva denunciato i legami mafia massoneria tra Cosa Nostra ed il gran maestro Giuseppe Mandatari; si era scagliato contro Salvo Lima e Vito Ciancimino, i due politici DC legati a doppio filo con Bernardo Provenzano e Totò Riina; aveva cercato di decifrare il ruolo degli istituti di credito siciliani nei miliardari flussi di denaro che, provenienti dal traffico di stupefacenti tra Usa e Sicilia, invadevano di ritorno l’isola con la necessità di essere riciclati e reinvestiti; si era battuto per l’approvazione in Parlamento di una legge speciale per la confisca dei beni ai mafiosi, legge che sarebbe stata approvata solo dopo la sua morte.
Molte quindi le ragioni per ucciderlo.
Quando la Procura nel 2001 aprì il processo ai suoi killer, essa affermò senza esitazioni che il contesto in cui era maturata la morte di La Torre, era stato segnato anche da molti esponenti politici collusi a Cosa Nostra, e tra questi non mancavano dirigenti del PCI siciliano che rimasero inerti dinanzi all’avanzare delle infiltrazioni mafiose. Parole che pesavano come macigni.
Militanti e funzionari del partito comunista siciliano, confermarono fatti e denunce. Queste partirono all’indirizzo degli organismi politici d’indagine interni centrali e regionali, ma nonostante il clima di forte tensione, la morte di La Torre, le proteste indignate di molti che desideravano chiarezza e verità, non successe nulla. Il partito non prese nessuna iniziativa verso i sospettati.

La nefasta illusione
Dopo la morte di Pio La Torre molti militanti opposti a dirigenti come Fontana lasciano il partito. Alcuni ne verranno addirittura espulsi. Antonino Fontana continuerà a fare carriera malgrado sia oggetto di indagini da parte della magistratura inerenti alle presunte truffe ai danni della CEE a cui prima si accennava, dal quale ne uscirà solo nel 1989, non con una assoluzione ma grazie ad un’amnistia. La sua elezione a suon di voti a vice sindaco di Villabate nel 1985, lo induce a tentare la candidatura nazionale per le elezioni politiche del 1987, ma qui riceve lo stop da Botteghe Oscure.
Se la segreteria nazionale pur non chiedendone la testa intuisce l’inopportunità di una sua candidatura, quella siciliana continua a non trovare obiezioni, anzi. I rappresentanti delle cooperative hanno raccolto negli anni estimatori di prestigio all’interno del mondo imprenditoriale ed economico, e come si può ben intuire, non sono tutte figure dalla cristallina rettitudine.
Il punto centrale è che il PCI siciliano fu soggetto ad una lacerante contraddizione: da un lato era il partito dell’antimafia, del sostegno a magistratura e forze dell’ordine; da un altro bramava a governare l’isola e per riuscirci gli serviva l’appoggio politico di almeno una sponda della Democrazia Cristiana siciliana. La manovra politica condurrà a nefasti esiti in quanto gli uomini con cui la sinistra siciliana si troverà a interagire saranno i referenti della corrente “Andreottiana” e risponderanno al nome di Salvo Lima, Nino Drago e Vito Ciancimino. Ma non  finisce qui. Una porzione dei dirigenti comunisti della Sicilia vive nell’illusione di poter ricevere finanziamenti per cooperative ed imprese e al contempo non cadere vittima di condizionamenti. Il PCI siculo, attraverso le percentuali sui fatturati versate dalle proprie cooperative, finisce così per ricevere una piccola parte di una montagna di denaro che viene spartita per la maggiore tra DC, Cosa Nostra, e imprenditori sponsorizzati da una e l’altra, ma diviene comunque ricattabile in quanto ingranaggio di un meccanismo amorale e illegale, nonché esposto alle infiltrazioni mafiose che puntualmente si verificheranno.

La succosa torta degli appalti pubblici
La svolta con la partecipazione del PCI alla spartizione degli appalti in forma continua a Milano come a Palermo, risale alla metà degli anni ’80. La DC siciliana nelle persone di Lima e Ciancimino, affidano all’ex pilota di rally Angelo Siino il compito di orchestrare i cartelli delle imprese a cui assegnare gli appalti pubblici. Siino è un borghese che di mafiosi ne conosce tanti, fratello massone della loggia Orion di Palermo, imparentato con il boss Balduccio Di Maggio, amico dei Brusca di San Giovanni Jato. Il meccanismo in Sicilia prevede che per ogni appalto assegnato l’azienda versi una imposta del 4,5 per cento così suddivisa: 2 per cento ciascuno a boss e politici e un 0,5 destinato a lubrificare gli impiegati e funzionari della macchina burocratica, una oliatina agli ingranaggi questa, perché imbarazzanti pratiche uscissero indenni ad ogni controllo. L’organizzazione gestita da Siino e Lima diventerà sempre più capillare, per assumere sul finire degli anni ‘80, il controllo dell’intera isola. Per avere una idea degli esiti di tale meccanismo, basti pensare che nel decennio ’88-’98, 60 ditte rispondenti a 11 imprenditori, si accaparrano il 40% degli appalti ANAS, pari a una fetta di circa 350 miliardi di vecchie lire, su di una torta di 880. Il restante 60% del giro di affari era spartito da ben 500 imprese. Un imprenditore che protestava o sgarrava poteva se fortunato, subire intimidazioni o rimanere escluso dal susseguente giro di giostra, ma in taluni casi si arrivava alla sua eliminazione, come accadde nel 1991 al costruttore Vincenzo D’Agostino, invitato da amici in un casolare di campagna a trascorrere un weekend, strangolato e sciolto nell’acido.
Salvo Lima preme su Siino perché questi apra la porta del circuito siciliano agli imprenditori vicini alla sinistra ed i primi a varcarla sono i fratelli Stefano ed Ignazio Potestio, costruttori legati da tempo a doppio filo con il PCI. L’ingresso anche delle coop rosse è imminente e Siino tratta di li a poco con Pietro Martino, rappresentante Conscoop in Sicilia. Sarà il primo passo di una estensione del fenomeno in molti angoli dell‘isola. Nel mirino la costruzione di strade, super strade, tangenziali, ospedali, scuole, strutture sportive.
Queste nuove collaborazioni servono per accrescere il giro di miliardi che affluirà verso l’isola, ma soprattutto per costruire una vera e propria copertura a sinistra, coinvolgendo nelle operazioni illecite forze politico economiche di riferimento alla maggiore opposizione antimafia. Una svolta di questa natura è destinata a suscitare acuti mal di pancia su entrambi i fronti. Molti dirigenti comunisti sono contrari ad avvicinarsi così pericolosamente a tali compromettenti soggetti, ma purtroppo questi assennati consigli sono destinati a cadere nel vuoto. Dall’altra parte a molti mafiosi l’umore si annerisce al pensiero di accettare gli odiati rossi quali soci in affari: il PCI è il fresco artefice della poltrona saltata a Vito Ciancimino. Tra questi, il rozzo e sanguinario Totò Riina sarà uno dei più ostici, e difatti nella sua Corleone la direttiva rimarrà praticamente inascoltata. Senza aver nulla da invidiare in fatto di crudeltà, molto diverso sarà l’atteggiamento di Bernardo Provenzano. Egli si rivela un sottile politico, un abile stratega, un fine ragioniere. “Zio Binu” comprende quanto i soci comunisti saranno preziosi nel mascherare con la loro presenza le irregolarità sistematiche del impianto. Nella regione di Villabate-Bagheria dove egli si trasferirà sul finire degli ’80, Tommaso Orobello presidente della coop “La Sicilia”, oggi condannato, diventerà uno degli imprenditori intimi di Provenzano. Il comune di Villabate (che vide vicesindaco Antonino Fontana), sarà a lungo retto da una amministrazione di sinistra. Nella vicina Bagheria dove tutto è mafioso, le cooperative andavano a braccetto con imprese “chiacchierate”. Nella terra che coprì la lunga latitanza del boss, le coop rosse sono nei vertici delle strategie di assegnazione degli appalti.

Una situazione “politicamente imbarazzante”
Angelo Siino venne arrestato nel 1991 e sceglierà poi di convertirsi al pentitismo. Nel giro di breve tempo, seppur con sfumature e competenze più variegate, egli verrà sostituito da Pino Lipari, colui che diverrà una sorta di manager tuttofare e prestanome di Bernardo Provenzano. Dalla ricostruzione di Siino giungono i dettagli di un sistema complesso e minuzioso, e soprattutto nomi e circostanze che coinvolgono imprenditori e amministratori locali con riferimenti nazionali, della maggioranza e come abbiamo visto, dell’opposizione.
Il duo Simone Castello e Antonino Fontana proseguirà la sua carriera sul fronte mafioso politico imprenditoriale con il fulcro operativo nella zona di Bagheria-Villabate, la stessa di Provenzano, condendo le loro attività di svariate truffe. A Bagheria il consiglio comunale è stato sciolto ben 13 volte, le ultime nel 1993 e 1999. Poco prima dell’ultima intrusione degli ispettori della procura nelle sedi comunali, nel 1998, Simone Castello finisce in manette, e nell’arco di qualche tempo in successione subiranno la stessa sorte i fratelli Potestio, i due manager delle coop rosse Pietro Martino e Tommaso Orobello, il direttore della coop CESPA di Partinico, Raffaele Casarubia e nel 2003 lo stesso Antonino Fontana. Inutile sottolineare come la situazione fosse “politicamente imbarazzante” per una sinistra siciliana colta in diversi suoi esponenti con le mani nel sacco, anche se rare furono le ammissioni di colpa e le richieste di pulizia interna incondizionata. Più spesso dalla sede centrale di Roma, arrivavano le esternazioni scandalizzate di chi si scagliava verso la magistratura. Una reazione di lesa maestà non troppo lontana da quelle che conosciamo come rituali da parte di altre forze politiche, come quelle che al tempo rispondevano alla Casa delle Libertà.
Fontana non viene espulso dai DS ma ufficialmente si autosospende. Secondo la procura egli ha aiutato i Potestio (suoi lontani parenti) nel comune di sinistra di Ficarazzi, ma soprattutto come sostiene il pentito Salvatore Barbagallo, ha protetto le famiglie mafiose di Bagheria e Villabate e quindi il boss Provenzano. Fontana, per la Cosa Nostra territoriale prosegue Barbagallo, era un cavallo fidato su cui puntare, esponente di un partito, il PDS, in fase crescente e quindi in grado di assicurare le giuste coperture.

In barba alla questione morale
Alla base di tutto vi fu la crescente convinzione in diversi esponenti della classe dirigente del partito che con la mafia sia possibile convivere. Al riguardo possono diventare emblematiche le vicende che coinvolgono due illustri personaggi della sinistra siciliana: Wladimiro “Mirello” Crisafulli e Giuseppe Montalbano.
E’ il 19 dicembre del 2001 quando una telecamera nascosta nella hall dell’Hotel Garden di Pergusa, riprende un incontro tra l’avvocato Raffaele Bevilacqua, esponente di primo piano di Cosa nostra nella provincia di Enna (per la cronaca a lungo governata dalla sinistra), e proprio il Crisafulli, vice presidente dei DS all’Assemblea Regionale Siciliana. Gli inquirenti rimangono di sasso, nel pieno rispetto di quel luogo comune che vuole la realtà di gran lunga superiore alla fantasia. Nessun regista cinematografico poteva ricostruire i dettagli di un incontro tra vertici di mafia e politica, meglio di quanto riuscivano la realtà di quelle immagini e parole che giungevano agli sbigottiti investigatori. Come scrivono Abbate e Gomez, “…probabilmente se l’episodio fosse stato narrato da un pentito non ci avrebbe creduto nessuno…”. Baci sulle guance, strette di mano, espressioni amichevoli, erano il corredo tra il faccia a faccia tra uno dei “mammasantissima” del territorio, mafioso di terza generazione, iscritto in passato alla DC della corrente Andreottiana, antico subalterno di Piddu Madonia, uomo d’onore che frequentò riunioni con Riina, Provenzano e Nitto Santapaola, e Mirello Crisafulli, definito dall’ambiente un “Dalemiano di ferro”. Il contenuto dell’incontro tocca i più disparati argomenti, dai fatui convenevoli alla politica territoriale.
Inutile dire che quando il filmato divenne di pubblico dominio nell’estate del 2003, la dirigenza dei DS non ne risultò entusiasta. Lo sconcertante documento infiammò il dibattito politico e spinse la procura a muovere accertamenti nei confronti di Crisafulli, anche se nel febbraio del 2004 la stessa ne richiederà con successo l’archiviazione. I contenuti dell’inquietante episodio pur alzando dubbi consistenti sulla solidità morale di un così altolocato politico colto in tali inopportune e a lui note frequentazioni, non vengono ritenute penalmente sufficienti per procedere. Mancano i riferimenti al di sopra di ogni ragionevole dubbio, che certifichino il legame tra i due con operazioni di natura esplicitamente illecita. Pur se graziato dalla Procura, in molti si attendono una risposta univoca da parte della dirigenza della Quercia, ed in effetti essa sopraggiunge, ma invece della auspicabile fine della carriera politica, Crisafulli viene candidato alla Camera dei Deputati nelle politiche del 2006. Le proteste di altri esponenti dell’alleanza del centro sinistra come Antonio Di Pietro, troveranno proprio in Luciano Violante un fermo oppositore il quale sostenne che non esistevano motivi di incompatibilità alla candidatura. Violante è giusto sapere che siederà nel medesimo collegio Sicilia-2 che consentirà al politico colto in confidenziali rapporti con la mafia di essere eletto Deputato della Repubblica, grazie anche alla legge elettorale “porcata” che permette ai partiti di designare a tavolino i parlamentari.
In barba alla questione morale che fu un punto fermo della carriera di figure simbolo come Enrico Berlinguer e Pio La Torre, e nel pieno delle polemiche che scuotono trasversalmente “la casta” politica nazionale, così tante volte accusata di ospitare inquisiti e condannati, la non riconosciuta colpevolezza penale di un esponente politico risulta l’unico “oggettivo” confine della decenza anche per la sinistra.

Il figlio del professore
Assume sfumature diverse ma non meno inquietanti la parabola di Giuseppe Montalbano, abile ingegnere ed imprenditore da sempre vicino ai partiti della sinistra, nato nel 1935 a Santa Margherita Belice in provincia di Agrigento. Montalbano è il figlio dell’omonimo professor Giuseppe Montalbano senior, una autentica pietra miliare della storia del comunismo siciliano, insieme a Girolamo Li Causi e Napoleone Colajanni. Suo padre fu ordinario di procedura penale, deputato regionale e nazionale, componente dell’Assemblea Costituente, artefice di una denuncia verso i mandanti della strage di Portella della Ginestra, scrittore di “Mafia,politica e storia”, un libro simbolo nella comprensione di come la mafia non sarebbe esistita senza la politica. Montalbano senior formò intere generazioni di giovani all’attivismo politico. Il figliastro Ruggiero, sparì nel 1949 a 27 anni, dicono vittima della lupara bianca.
Ma nonostante un così illuminante esempio, il cammino di Montalbano junior non sarà altrettanto luminoso, o almeno non secondo i canoni del padre. Pur essendosi da sempre fatto un vanto delle sue origini politiche e culturali, ed aver concretamente sostenuto i temi della sinistra e in difesa dell’ambiente divenendo un rilevante operatore turistico, l’ingegnere Montalbano verrà arrestato il 21 settembre del 2001. Sarà condannato in primo grado a oltre sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e subirà la confisca di beni mobili ed immobili per oltre 400 miliardi di lire. La Cassazione annullerà la confisca nel 2006 reputando i beni di provenienza lecita, ma confermerà il giudizio di pericolosità sociale applicando la misura della sorveglianza speciale. Fulcro del problema furono residence ed appartamenti di sua proprietà. I primi ospitarono ritrovi di mafiosi e latitanti, e una delle ville in suo possesso, Villa Antica, si scoprì data in affitto per quasi dieci anni ad un signore rispondente niente popò di meno al nome di Totò Riina. L’ingombrante affittuario era stato arrestato da una ventina di giorni quando Giuseppe si recò in Procura a denunciare la cosa, affermando di aver appreso la vera identità dell’inquilino in tv. Fu stravagante la coincidenza che vide muratori e tinteggiatori ripulire la villa medesima alcuni giorni dopo l’arresto di Riina, ma prima della perquisizione, così come fu alquanto sospetto scoprire che anche Pino Lipari, il successore di Siino, braccio destro di Provenzano, viveva in affitto in un altro appartamento sempre di Montalbano.
Probabilmente aveva già visto giusto Giovanni Falcone nel 1984, quando avviò una serie di accertamenti su Montalbano padre e figlio, indagini per mafia che vennero chiuse da archiviazione. Montalbano si scoprirà anche grazie a diversi collaboratori di giustizia, che svolse molti servizi a Cosa Nostra: coprì la latitanza a Riina, collaborò attraverso le sue società alla protezione dalla confisca dei beni intestati a Lipari e quindi di Provenzano, e sempre attraverso l’esame delle sue carte societarie, si scoprirà un lungo elenco di figure insospettabili che costantemente si muovono lungo quella indefinita linea grigia, che spesso non separa affatto la mafia dalla presunta politica ed economia lecita.
E proprio sul filo di questa border line, l’ingegner Giuseppe Montalbano junior sarà intimo amico di Emanuele Macaluso e Michelangelo Russo, entrambi noti esponenti dei DS siciliani, nonchè del vicepresidente dell’Assemblea Regionale Siciliana nel 1996, sempre della Quercia, Angelo Capodicasa. Intercettazioni telefoniche confermeranno ripetuti e assidui contatti tra Capodicasa e Montalbano. Ma sono solo parole che scorrono nell’etere e le parole di questi tempi, pare possano scivolare via senza lasciare traccia nella memoria.

Una storia e memoria tradita
Il "Lato sinistro" di Cosa Nostra,non deve condurre a conclusioni generalizzate e frettolose. Non sarebbe corretto infatti, parlare in modo superficiale di un PCI, PDS e poi DS, come di un partito colluso con la mafia. Improponibile ad esempio porre sullo stesso piano, gli episodi che hanno coinvolto esponenti del Partito Comunista, alla estesa, perdurante e capillarmente radicata simbiosi che la Democrazia Cristiana  ha allacciato per decenni con il sistema mafioso in Sicilia.
La sinistra italiana e siciliana rimane per la sua storia, la sua forza e la sua mobilitazione, l'organizzazione politica che maggiormente si è schierata  contro tutte le organizzazioni mafiose. Lo testimoniano le  battaglie di civiltà e libertà e l'impegno continuo nel territorio in difesa dei diritti dei più deboli. Lo urlano i tanti morti rimasti sul terreno per mano mafiosa in oltre un secolo di lotte: da Bernardino Verro a Pio La Torre.
Non possiamo però nascondere che è accaduto. Che uomini di malaffare militanti nella sinistra o acclusi alla sua area, per cupidigia, convenienza, forse debolezza, non abbiano resistito alla tentazione di una facile rincorsa al potere e al denaro. Alcuni forse illudendosi di poter entrare nelle stanze del potere controllato da Cosa Nostra e al contempo conservarsi immuni dal malefico contagio. Altri, ne siamo certi, perfettamente consapevoli di tutto questo.
Si può allora parlare semplicemente di mele marce?
Aldilà della quantificazione numerica, che senz'altro non può essere ridotta a poche unità, è soprattutto grave il ruolo e la responsabilità di chi una volta individuati questi esponenti infiltrati, non ha scelto di intervenire con risolutezza.
Di quanto accaduto in Sicilia, del coinvolgimento di amministratori, manager e dirigenti della cooperazione e finanziatori del partito, Botteghe Oscure non poteva non esserne a conoscenza. Troppo poco e troppo tardi si è adoperata per fare chiarezza e prenderne le distanze. Si è scelto di chiudere gli occhi, scendendo a compromessi inaccettabili. Il contagio dal cancro mafioso, non contrastato con la necessaria fermezza, si è rapidamente esteso risucchiando la dirigenza in un vortice che ne ha invalidato irrimediabilmente la solidità morale e contemporaneamente ricattato e sfibrato anche la possibile articolata e dura opposizione istituzionale.
Un imperdonabile e grave errore sia nei confronti della storia che nel valore e nella tradizione del cooperativismo che ha fondato la sua memoria e le sue  radici culturali nella sinistra italiana stessa.
Qualsiasi opinione, come qualsiasi analisi, è opinabile, ma di una cosa siamo sicuri: tutto questo non potrà mai essere liquidato come tentò di fare Luciano Violante, come il frutto di una epoca di disattenzione.

 

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