La storia della Mafia Siciliana
Capitolo 6 - Il ventennio Fascista
La Sicilia del primo dopoguerra: caos, fame e violenza
Unitamente alle morti, ai feriti ed agli invalidi, la fine della Prima Guerra Mondiale lasciò in eredità alla nazione anche una profonda crisi economica. In molte regioni del paese l’indigenza si portò appresso un gravoso carico di fame diffusa e disordini, che innescati dalla disperazione si svilupparono un po’ ovunque. L’esempio della rivoluzione russa appena conclusasi, contribuì ad incendiare le folle infiammando le aspettative di molti, ma bisogni e speranze spesso s’infrangevano nel muro di realtà ben lontane dal voler ascoltare la voce di chi reclamava una maggiore giustizia sociale.
La Sicilia del tempo è ancora una terra dove la presenza dello Stato è quasi impercettibile. Il tramonto dell’era feudale e gli albori del socialismo ponevano i latifondisti in condizioni di maggiori difficoltà, ma senza scalfirne il vertice nella scala sociale. Una intera regione era scossa da moti rivoltosi in cui masse di braccianti e agricoltori reclamavano diritti e terre. Il caos sociale scaturito dalle contese per l’appropriamento di poderi ed averi liberati dalle riforme, si fonde alle rivolte di migliaia di contadini affamati. In assenza di una concreta giurisdizione che dipanasse tali controversie, la domanda di protezione o l’acquisizione di un diritto anche se presunto, cadeva nelle mani di uomini senza scrupoli, quasi sempre mafiosi. Essi non ponevano pregiudiziali ideologiche alla loro azione e l’importante era consolidare il potere attraverso il controllo del territorio. Se vi erano mafiosi che s’insinuavano nei movimenti contadini, per servirsi del consenso popolare, o al bisogno frenarli con la violenza, molto più spesso si sostituivano ai proprietari terrieri di stanza lontano dai possedimenti, per fornire una gestione della proprietà mirata ai loro interessi. Una volta insediatisi, ricattavano il padrone costringendolo a pagare quanto richiesto per i loro servigi, interponendosi tra lui ed i contadini. Questi ultimi erano costretti ad umilianti condizioni di sopravvivenza, obbligati a sottostare a questi intermediari, contesto che creava i presupposti per nuove rivalse. L’isola si infoltisce di figuri abili con le armi in cerca di occupazione con la violenza. Una manovalanza armata che il primo conflitto mondiale aveva infittito con migliaia di disertori, che sfuggendo alla chiamata alle armi si daranno alla macchia nelle campagne e sui monti per arruolarsi nelle bande di briganti. Una volta terminato il conflitto poi, i reduci di ritorno dalle trincee si ritrovarono al cospetto di un’isola in preda a fame e disordine. Un risarcimento in cambio di anni spesi tra fango, stenti e morte che molti ex combattenti ritennero insopportabile. Rabbia, frustrazione, fame e desiderio di rendere giustizia ad una società iniqua, moltiplicò il numero di coloro che imbracciarono un arma per unirsi alle masse che reclamavano un pugno di terra per sopravvivere.
Una Sicilia in simili condizioni, non si esimeva dal registrarsi come teatro anche di frequenti guerre di mafia, magari circoscritte territorialmente, ma in grado di alimentare un quadro complessivo segnato da incertezza e violenza. Dinanzi a tutto questo l’intervento delle autorità in genere, di polizia o amministrative che fossero, sarà un disarticolato fondersi di incapacità e connivenze. (1) (2)
Verso la fine della Democrazia
Quando nel marzo del 1919, Benito Mussolini fonda a Milano i “Fasci da Combattimento“, nessuno è in grado di prevedere come quel gesto sancirà l’inizio di un lungo e doloroso periodo nella storia del nostro paese. Il giornalista e reduce della Prima Guerra nato a Predappio, intende sostituire il concetto di democrazia, con quello di “Trincerocrazia”, ovvero una sorta di dittatura esercitata dagli uomini provenienti dalla trincea. Dal 1920 inizia la scalata al potere del fascismo, costellata di cruenti pestaggi ad operai e socialisti in sciopero in tutta l’Italia del nord e del centro. L’intero mondo politico e la polizia, chiudono gli occhi dinanzi alle sparatorie, agli atti vandalici e alle tristemente note inoculazioni forzate di olio di ricino, di frequente mortali, con cui le squadre nere colpiscono ogni forma di opposizione. Un processo che culmina con la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, data che da il via al ventennio fascista e al crollo definitivo di ogni modello di Democrazia in Italia. (3)
Il Fascismo e la Sicilia
Finita la Grande Guerra, l’onorata società mafiosa detiene in sostanza il totale controllo della Sicilia, approfittando dei vuoti istituzionali in ogni campo, economico e politico, che un conflitto di quella portata aveva generato. Al cospetto del nascente Fascismo, la mafia ha già assunto i contorni di uno Stato nello Stato. Una forma di potere tendente però al separatismo, poco tollerata agli occhi dei gerarchi in camicia nera, che propagandavano al paese, unità, patriottismo e compattezza. Nel corso di una prima fase, riferibile al periodo 1922-1925, fascismo e mafia riusciranno comunque a convivere. Il potere dei gerarchi cercò l’appoggio in Sicilia anche dell’onorata società, con il malcelato intento di manipolarne l’azione a fini propagandistici. Alla nazione occorreva fornire l’immagine di un fascismo talmente compatto e potente, da riuscire nell’impresa titanica di convertire alla legalità anche la mafia siciliana. Cosa di fatto accadesse nelle remote e oscure stanze del potere siciliano, rimaneva ben distante dall’essere raccontato. I comportamenti ambigui ed i secondi fini non erano patrimonio dei soli gerarchi di Mussolini.
I proprietari terrieri, massima espressione del potere isolano, non esitarono ad appoggiare il fascio, ben contenti di poter stroncare i movimenti operai e socialisti, ma il fascismo in Sicilia, come nel restante Sud Italia, non conquistò mai la base del popolo. La politica siciliana e le sue clientele erano svincolate da ideologie, e la mafia provvedeva da se a fermare con buoni risultati i moti dell’epoca. Quando il Duce andò al potere, in genere i mafiosi si unirono al treno fascista, ma in forma di genetico opportunismo. Sorgono consigli comunali e provinciali definiti “fascista mafiosi“, oppure si parlava di una “mafia fascisticizzata“.
Mussolini non occulterà mai una permanente irritazione di fondo. Egli avverte che la sua popolarità nell’isola è priva di un adeguato appoggio della gente comune. In buona sostanza tra mafia e regime s’instaura un clima di tolleranza reciproca che consenta di garantire il controllo del territorio ad entrambe le parti, tanto che esponenti dell’elite mafiosa vengono nominati nelle sfere dell’esecutivo.
Il delicato equilibrio fondato su di un fragile e temporaneo mutuo accordo di interessi è destinato a spezzarsi: il governo fascista è accusato di risultare troppo morbido verso il potere mafioso ed il crimine che in Sicilia continua a dilagare. L’esecutivo di Mussolini viene inoltre additato di non soddisfare i bisogni di sviluppo economico dell’isola. Per questi e altri motivi, si avvicina il momento in cui il Duce sceglie di avviare una “crociata” contro la mafia ed il potere politico che la proteggeva. (4) (5)
La propaganda fascista aggredisce la mafia
Molti storici sono concordi nello stabilire che gli esiti della visita di Mussolini in Sicilia del maggio 1924, furono determinanti nel portare al limite la pazienza fascista verso la mafia. Dietro alle gesta festose del popolo, gli esponenti locali si mostrarono freddi e irriguardosi al cospetto del Duce, trattandolo con la stessa sufficienza che riservavano ai comuni politici di Roma. Una arroganza figlia del predominio locale indisturbato. Dietro alla propaganda di un regime dalla “ferrea rettitudine morale“, impegnato nel debellare il paese da tutte le piaghe, socialismo o mafia che fossero, Mussolini intendeva colpire ogni forza politica non allineata a se. Un programma di governo che gettò le basi per cogliere al volo l’opportunità di dare una lezione alla mafia e fornire un immagine di esecutivo “forte e pratico“.
L’ultima goccia che fece traboccare il vaso, venne versata nel corso delle elezioni regionali del 1925. Furono diversi i mafiosi che in quella circostanza diedero il loro appoggio ad alcuni politici locali per sconfiggere i fascisti. La tornata elettorale si chiuse ugualmente con il successo del leader camerata siciliano Alfredo Cucco, grazie anche al contributo di altri picciotti, ma nelle stanze del potere Mussolini aveva già maturato la scelta di rompere la tregua, stizzito e risentito per queste ripetute mancanze di rispetto. La mafia poi non era più indispensabile al controllo del territorio. Il fascismo aveva già acquisito il consenso della classe regnante nell’isola e l’abolizione di quelle norme che limitavano il prezzo dei canoni di affitto dei terreni, consentì ai proprietari di sbarazzarsi dei mezzadri e di ogni altro intermediario. Le contese tra padroni e braccianti erano così finite in mano allo Stato fascista.
Nel resto del paese intanto, la dittatura aveva preso il sopravvento. Giacomo Matteotti, leader del partito socialista ed esponente di maggior rilievo dell’opposizione, era stato rapito e ucciso da squadre fasciste. L’intero “Stato Liberale” reagì all’efferato crimine e alla dichiarata aggressione verso ogni principio di libertà con totale inconsistenza. Questa manifesta incapacità di forza era figlia di una società oramai soggiogata dalla propaganda e dalla violenza, che relegò il compito di opporsi al regime, ad indomabili iniziative di uomini costretti da tempo alla latitanza. (6) (7)
L’uomo giusto è Cesare Mori
L’uomo su cui cadde la scelta di Mussolini per sferrare l’attacco militare alla mafia porta il nome di Cesare Mori, che il 23 ottobre del 1925 viene nominato Prefetto di Palermo. Mori era nato nel 1871 a Pavia, e trascorrerà nell’orfanotrofio della città i primi anni di vita. Soltanto sette anni più tardi i suoi genitori naturali decisero di riconoscerlo ufficialmente. Nell’Italia dell’ottocento, un ragazzo come lui dalle incerte origini, senza importanti conoscenze o contatti, poteva puntare ad una carriera in pochi ambienti. Tra questi egli scelse quelli legati all’esercito e alla polizia, e sin dalle prime battute emersero fermezza e coraggio. Mori si distinse per l’intraprendenza e la risolutezza nel combattere i crimini della strada, aspetti che gli valsero una medaglia già nel 1896. Una sempre maggiore cultura sulla conoscenza dei politici, dei partiti e delle loro dottrine, lo farà distinguere anche nelle fila della polizia politica, ma la già programmata promozione del 1903 venne congelata proprio a causa della sua inflessibile efficienza. La perquisizione di un potente politico ravennate, fu alla base di una campagna denigratoria che lo costrinse a subire un trasferimento punitivo a Castelvetrano, in provincia di Trapani. Un episodio che lo legherà per sempre alla lotta alla mafia. I susseguenti quattordici anni furono un lungo elenco di successi e promozioni. Le attività mafiose dell’epoca quali il furto del bestiame, e la violenza intimidatoria a sfondo economico e politico, divennero il suo pane quotidiano, unitamente alle ripetute denunce per abuso di potere collezionate per mano di quei potenti spesso oggetto delle sue azioni di polizia. Allo scoppiare della Prima Guerra Mondiale, egli è già vice questore di Trapani, ma giungerà nel 1917 con la direzione della questura di Torino, un ulteriore e decisivo balzo in carriera. Con la medesima fermezza Mori affrontò i movimenti operai e socialisti del capoluogo piemontese, una intransigenza che per i canoni dell’ordine pubblico dell’epoca fu causa di molti morti. Altri cadaveri rimasero sul terreno quando circa tre anni più tardi, l’uomo ordinò ai propri uomini di sparare ai manifestanti di un corteo studentesco di destra a Roma.
Quando nel 1921, nelle vesti di Prefetto di Bologna, si trovò al cospetto della “gioventù nazionale” in camicia nera, non modificò l’atteggiamento tenuto in passato con altri movimenti di agitatori. Questa volta però l’avversario nutriva appoggi ben diversi. Il fatto che giovani militanti del fascio fossero oggetto della repressione di un organismo del governo, non venne digerito dalle alte sfere del partito. Squadre di fascisti giunsero a Bologna da tutta Italia per alimentare un dissenso che culminò con uno spettacolare gesto di protesta e disprezzo: una folla di persone decise di urinare contro i muri della prefettura bolognese. La tensione crebbe e alla fine per placare i tumulti della piazza e soddisfare malcontenti altolocati, Mori venne trasferito. Un episodio che lasciò una acredine mai appianata tra l’uomo e alcune figure di spicco del fascismo. Ciò nonostante, la salita al potere dei gerarchi dopo la marcia su Roma dell’ottobre 1922, indusse Mori a ricucire i rapporti con le alte sfere dei nuovi padroni dell’Italia. Una densa rete di relazioni riportò il suo nome all’attenzione anche di Benito Mussolini. Era giunto per il Duce, il frangente di sancire la fine della pax con la mafia, e tra coloro a cui affidare le redini della scontro rientrò in corsa anche il nome di Cesare Mori. Esaminandone a fondo il curriculum, Mussolini rimase colpito per l’intransigenza manifestata in più occasioni. I trascorsi vittoriosi nel trapanese infine, lo indussero a ritenere che quel ex trovatello dell’orfanotrofio di Pavia, fosse l’uomo giusto per dare un taglio netto, ed in perfetto stile fascista, alla questione mafiosa. (8)
L’assedio di Gangi, emblema dell’attacco militare fascista alla mafia
Il risoluto Mori, ribattezzato “l’uomo con il pelo sul cuore“, parte dal presupposto che la mafia in Sicilia non è una organizzazione con riti e cerimonie, ma “un modo peculiare di vedere le cose“. Sostiene cioè, che la sua forza sta nello sfruttare la “vulnerabilità e la credulità al centro della mentalità siciliana…gente semplice, non di rado infantile, mansueta ma incline ad ingannare…mafia che per sopravvivere cercava di farsi credere una organizzazione…”. La ricetta di Mori è che per battere la mafia “occorre che lo stato fascista fosse più mafioso dei mafiosi”.
Una chiave di lettura alquanto discutibile, ma che sarà alla base dei teatrali atti di forza che verranno. L’assedio di Gangi, paese sulle Madonie ritenuto covo di clan mafiosi, del 1 gennaio del 1926 è il primo di una lunga serie. Una operazione militare di polizia che è entrata nella storia per la sua spettacolare dinamica e per il contesto in cui venne attuata. In quel giorno le montagne delle Madonie sono teatro di fitta nevicata. Mori aveva preparato l’assedio a Gangi nei minimi particolari, ordinando ai reparti di polizia e carabinieri organizzati in sezioni mobili di una cinquantina di uomini, di arrestare chiunque fornisse aiuto a banditi e mafiosi nella regione circostante. La manovra di accerchiamento unitamente a freddo e neve, sortisce l’effetto di far concentrare la gran parte dei malviventi tra le mura della cittadina, già notoriamente famosa per essere un rifugio e una base operativa per centinaia di banditi. A questo punto autocarri e autoblindo bloccarono le vie di accesso, mentre vennero tagliati i cavi telegrafici e telefonici. Gli uomini di Mori entrarono nel centro abitato, un luogo che per la sua collocazione geografica sembrava militarmente inespugnabile, posto come era in cima al gruppo montuoso che sovrastava la regione centrale della Sicilia. Inizia una minuziosa perquisizione casa per casa, che porterà a decine e decine di arresti. Molti mafiosi si nascondono in stanze segrete ricavate in cantine, soffitte, doppi muri. Locali che si scopriranno ideati e costruiti appositamente da un edificatore della zona su ordinazione. A parte alcuni impavidi che strisceranno tra i vicoli per portare cibo e informazioni a chi si nasconde, l’intera popolazione rimane barricata in casa, con porte e finestre sprangate.
L’assedio a Gangi si prolungò per oltre una decina di giorni, con un bilancio che le autorità dell’epoca riportarono di circa 130 arresti tra i latitanti e oltre 300 tra i loro complici. Una manovra di polizia confezionata come una azione bellica, a cui la stampa di regime diede una enorme risonanza. La guerra fascista alla criminalità organizzata si era inaugurata in linea con gli auspici del regime. (9)
Migliaia di arresti
All’operazione che ebbe teatro nel capoluogo delle Madonie, ne seguiranno decine di altre, con rastrellamenti a tappeto e arresti di massa. La propaganda esigeva una immagine di risolutezza, severità e ordine da fornire all’intero paese, e Cesare Mori soddisfò al meglio questa necessità. In poco meno di tre anni, vennero arrestate circa 11000 mila persone, con ben 5000 catture solo a Palermo e provincia. Impensabile che nel mezzo di così tanti fermi, non si celasse ben più di un innocente, ma questo costituiva un effetto collaterale trascurabile e secondario. Gli uomini d’onore verranno radunati in cerimonie propagandistiche dove giureranno fedeltà al fascismo e alla nazione. Alcuni mafiosi catturati tenteranno di mediare con i sistemi collaudati da decenni di relazioni con i politici locali e sino ad allora efficaci, ma Mori si mostra sordo a quegli approcci e proclama che “l’aria è cambiata“.
Egli intende far colpo sul popolo, e per riuscirci si spenderà in numerosi appelli e comizi pubblici. Il Prefetto di Palermo vuole intimidire ulteriormente coloro che da sempre sostengono i mafiosi, ma in realtà l’intera manovra è diretta ad indurre al tradimento i proprietari terrieri, per costringerli a denunciare la manovalanza mafiosa che avevano fin lì protetto. Una occasione che molti padroni furono felici di cogliere al volo, per liberarsi di gabellotti sempre più sfrontati. (10)
Un azione di forza e non di giustizia
Nei decenni a venire, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, il giudizio storico sull’atteggiamento del fascismo nei riguardi della mafia, fu tema di scontri ideologici e a volte strumentali. La destra italiana ha sempre rivendicato il merito di aver sconfitto la mafia nel corso del ventennio fascista. L’impressione complessiva alla luce dei documenti e degli eventi che emersero man mano che la nube del conflitto mondiale si diradò, lasciando sul terreno le cicatrici di una società distrutta dalla guerra, fornisce conclusioni diverse.
L’azione di forza scatenata da Mori e dal regime, non fu seguita da una condotta che avesse a cuore il senso di giustizia. Al seguito delle migliaia di arresti, vennero istituiti processi dalle dimensioni colossali, per lo più censurati persino alla stampa di regime, all’interno dei quali si regolavano i conti in funzione delle convenienze della propaganda. Al primo posto vi era l’immagine di esecutivo distruggi mafia di cui Mussolini aveva bisogno, e il clima intimidatorio con molte sentenze di colpevolezza a senso unico divennero un comune denominatore. Personaggi di spicco morirono misteriosamente in carcere, con il sospetto che ciò avvenisse per celare collusioni mafiose di gerarchi fascisti.
L’etichetta di mafioso fu utilizzata per togliere di scena avversari, compiere vendette e regolare antichi rancori. La mafia in sostanza non fu eliminata come sostenuto, ma ne venne militarmente tenuto a freno il braccio armato. I nobili e la borghesia che ne costituivano la mente invece, venne addomesticata con la corruzione. Un atteggiamento questo, che preservò dall’epurazione coloro in grado di accattivarsi il regime con il denaro e i favori. Un comportamento che in definitiva impedì il passo fondamentale in grado di spezzare le redini culturali della mafia: trasmettere alla gente di Sicilia un autentico senso dello Stato e della giustizia in grado di sradicarla alla cultura mafiosa, azzerando il prestigio ed il potere clientelare di coloro che servendosi delle medesime dinamiche violente di sempre, s’impadroniranno di nuovo dell’isola nel dopo guerra. (11)
Fine di un personaggio scomodo
Persino Cesare Mori dovette suo malgrado prendere atto dell’ipocrisia di fondo che si celava dietro alle tanto sbandierate campagne antimafiose del regime. Nel pieno della sua inflessibile onestà professionale, il Prefetto di Palermo era ben deciso ad onorare il suo incarico sino in fondo, e dopo aver setacciato la Sicilia facendo man bassa della manovalanza criminale, si preparava ad attaccare la nobile borghesia mafiosa che ristagnava nelle stanze del potere politico. Mori è deciso a colpire i veri mafiosi, coloro che si nascondevano dietro alle lucrose attività legali.
Un intento destinato ad incrociare le armi con chi, gerarchi fascisti inclusi, in quelle dimore aveva stretto le usuali alleanze con i potenti uomini d’onore dell’isola.
La figura di maggior spicco su cui si concentra l’attenzione di Mori, fu proprio il parlamentare fascista Alfredo Cucco, leader delle camicie nere siciliane. Il prefetto raccolse prove che dimostrarono come Cucco avesse beneficiato di voti, denaro e appoggi dalla mafia. Il deputato venne espulso dal Partito Nazionale Fascista con il susseguente scioglimento del movimento fascista palermitano. Inutile dire che una tale conclusione della vicenda Cucco, spaventò e non poco sia l’alta borghesia mafiosa, che tutte quelle figure a lei colluse. Mori ed i suoi collaboratori divennero oggetto di una sleale campagna infamante. Lettere anonime vennero fatte recapitare al Duce, anche grazie alla collaborazione di illustri gerarchi fascisti che non avevano mai perdonato a Mori, le brusche maniere con cui aveva trattato le giovani camice nere in quel di Bologna alcuni anni prima. Le accuse mosse a Cucco, servirono da pretesto per coloro che volevano distruggere la carriera del prefetto. Cesare Mori divenne presto un personaggio scomodo di cui il regime scelse di sbarazzarsi, non prima di averlo nominato senatore del regno nel dicembre del 1928. Nel giugno del 1929 infatti, egli viene rimosso dall’incarico mediante un regio decreto che sanciva la fine del mandato per questori e prefetti dopo il trentacinquesimo anno di servizio, indipendentemente dall’età anagrafica raggiunta.
Mori viene tolto di mezzo perché pericoloso. Per disinnescare la pur ovattata e remota ipotesi di un dissenso a tale provvedimento, il regime si affrettò a diramare una circolare che proibiva di trattare l’argomento mafia in relazione alle cronache siciliane, in quanto la medesima non costituiva più un problema.
Il personaggio Cesare Mori, venne relegato nel dimenticatoio, e la sua morte giunta nel 1942, passò praticamente nel silenzio generale. (12)
Cade il silenzio sulla Sicilia
Nel corso degli anni trenta, il fascismo dichiarava di aver “ufficialmente sconfitto la mafia”. Continuarono le retate ed i processi ma la cronaca nera scomparve quasi dalla stampa. I sospettati venivano velocemente spediti in esilio dopo accertamenti superficiali. Le amministrazioni pubbliche siciliane divengono la dimora di “grigi funzionari fascisti“. Su tutta l’isola cala il silenzio, abbandonandola al dilagare della corruzione e delle lotte intestine. In questo stato di assenza di rumori, la mafia sopravvisse quasi in dormiveglia. Molti suoi esponenti costretti al confino, emigrarono negli Stati Uniti, dove andarono a nutrire le file di una organizzazione in crescendo sin dall’inizio del ‘900. (13)
Note
(1), (3), (5), (7), (8), (9), (10), (11), (13), Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – capitolo “Socialismo, Fascismo, Mafia, 1893-1943” – pagine 155…196
(2), (4), (6), (12), Fonte “www.instoria.it/home/mafia_fascismo”