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L'analisi del giudice Scarpinato
Un fatturato annuo di settanta miliardi di euro:
il sette per cento del Pil, pari a tre finanziarie.
di Curzio Maltese - 1 luglio 2008
Nel pieno dell´ultima campagna elettorale Silvio Berlusconi
ha definito «un eroe» Vittorio Mangano, boss morto nel
carcere di Pisa con una condanna per tre omicidi. In un altro paese
sarebbe stata la fine di una carriera politica. Le elezioni sono
state invece un trionfo personale del premier. Marcello Dell´Utri,
fondatore di Forza Italia, ha fatto dire al suo messo siciliano
Miccicchè che «faceva tristezza» sbarcare a
Palermo e vedere l´aeroporto intitolato a Falcone e Borsellino.
Nelle elezioni siciliane la destra ha ricevuto un plebiscito. Il
primo atto del governo, ancora prima di ricevere la fiducia, è
stato l´annuncio della ripresa dei lavori per il ponte sullo
stretto. «Un favore dovuto a mafia e ´ndrangheta»
ha commentato il professor Giovanni Sartori. Stavolta non ci sarà
neppure bisogno di un´uscita alla Lunardi sulla necessità
di «convivere con la mafia» per capire l´aria che
tira.
La mafia ha vinto. Non è la prima volta. La mafia è
sopravvissuta in Italia a ogni cambio di regime, dal Risorgimento al
fascismo, dalla prima alla seconda Repubblica. Ma la vittoria
culturale della mafia di ora, in tutti gli strati del potere e della
società, non ha precedenti. Il sistema mafioso è
diventato il metodo del potere delle classi dirigenti, come si evince
da ogni intercettazione pubblicata, ma anche il modello di grandi
pezzi di borghesia media e piccola. L´ordine mafioso è
sopportato e in qualche caso apprezzato dai ceti popolari, rassegnati
a vivere nell´omertà in paese governato dalla
sopraffazione e dagli interessi privati. L´abilità del
potere nel controllare i media è poi riuscito nell´impresa
più spettacolare e impensabile fino a pochi anni fa. Quella di
rovesciare il rapporto fra guardie e ladri davanti all´opinione
pubblica, di negare la criminalità delle classi dirigenti
attraverso il suo esatto contrario: la questione giudiziaria,
l´eccesso di protagonismo delle procure.
Qualcuno potrebbe
ora obiettare: e gli arresti di Riina, Provenzano, Lo Piccolo, le
retate di capi della ´ndrangheta in Calabria, le condanne
esemplari ai casalesi, al cospetto di Roberto Saviano in aula?
Successi importanti, ma ottenuti soltanto contro i capi militari,
colonnelli e generali di un esercito i cui comandanti in capo siedono
in Parlamento, nei consigli di amministrazione aziendali, alla guida
di banche, e scendendo nel territorio nelle Asl, negli enti locali,
nelle sezioni di partito.
Le mafie hanno un fatturato annuo di 70
miliardi di euro, il 7 per cento del Pil, equivalente di tre o
quattro finanziarie, controllano militarmente tre regioni, possiedono
pezzi di economia del Nord e immense proprietà immobiliari a
Milano, Torino, nel Veneto, in Liguria, in Valle d´Aosta.
Riina, Provenzano, Lo Piccolo, sono le maschere di questo potere.
Maschere terribili, mostri da prima pagina. Maschere significative,
anche. Con il loro sgrammaticato anticomunismo buono per giustificare
ogni sporco affare, l´odio viscerale per la magistratura
«rossa», il cattolicesimo esibito dai piccoli santuari
nei covi, la fedeltà assoluta a santa madre Chiesa, il
familismo amorale, le pretese paradossali d´essere riconosciuti
dalla società come esemplari padri di famiglia, imprenditori
che danno lavoro, gente che «s´è fatta da sé»,
i boss incarnano la caricatura di tanti rispettabili uomini di
potere, esprimono la versione analfabeta ed esteticamente
insopportabile di un´egemonia culturale della criminalità
largamente dominante e accettata. Dicono in fondo le stesse cose che
dice Berlusconi, ma senza fronzoli televisivi e codazzi di cortigiani
ben vestiti.
C´è chi si contenta della
rappresentazione, la maggioranza. Pochi spingono la propria curiosità
a indagare l´«oscenità del potere». Alla
lettera, ciò che accade fuori dalla scena. Fra questi, rari
intellettuali come Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia, che hanno
pagato un caro prezzo per questo, da vivi e da morti. Un altro grande
intellettuale che era anche magistrato, Giovanni Falcone, con l´amico
fraterno Paolo Borsellino ha provato non solo a capire ma a rivelare
e smontare il vero meccanismo del potere mafioso, rivelandone il
ferreo legame con le classi dirigenti.