TRAVAGLIO PRESENTA SPATARO
“NE VALEVA LA PENA”
di Elena Ferrari
Qualche settimana fa si è svolta a Modena, presso il Baluardo della Cittadella, con la collaborazione di Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia, la presentazione del libro di Armando Spataro edito da Laterza “Ne valeva la pena” (vincitore del Premio Capalbio 2010 per la sezione Politica e Istituzioni). La serata ha visto partecipi l’autore introdotto da un ospite di eccezione: Marco Travaglio in veste di presentatore.
Seicento pagine, contenenti le più scottanti inchieste della storia giudiziaria italiana degli ultimi trent’anni: dal caso Abu Omar alle stragi degli anni di piombo; dalle Brigate Rosse alla ‘Ndrangheta; dal terrorismo internazionale, fino alle collisioni odierne tra governi e Magistratura. Seicento pagine redatte dalla penna di chi per tutta la vita si è dedicato a questi temi: Armando Spataro è infatti magistrato dal 1975 presso la Procura della Repubblica di Milano, Procuratore Aggiunto dal 2003, giudice nel Consiglio Superiore della Magistratura tra il 1998 e il 2002, nonchè autore di saggi in materia di criminalità organizzata e terroristica, tecniche investigative e procedura penale. Protagonista e titolare stesso delle inchieste da lui descritte.
Una graffiante apertura quella di Travaglio, che propone di leggere il titolo con il punto interrogativo: ne valeva la pena?
Questa perplessità nasce da alcune semplici constatazioni: gli ultimi sedici anni, tra governi di opposti schieramenti, caratterizzati da un continuum di impunità estesa; la difficoltà per alcuni magistrati coraggiosi, definiti proprio da Travaglio “cani sciolti”, di ricevere riconoscimenti e lodi se non solo dopo la loro strage, a discapito di chi amministra la giustizia nel silenzio dell’omertà, per non dimenticare il continuo ricorso a leggi speciali e al segreto di stato, con il solo scopo di rafforzare il potere costituito.
Questa perplessità si riconferma nell’osservare in Italia alcuni “aspetti” della giustizia: ad esempio si è raccontato più volte, come in molti stati siano presenti provvedimenti come il “Lodo Alfano”, volti alla protezione delle cariche politiche, mentre questa si rivela essere un’eccezione tutta italiana.
Nella maggioranza delle democrazie, il Presidente del Consiglio è imputabile sia per i reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, sia per quelli commessi prima e dopo la sua nomina; allo stesso modo la questione della separazione delle carriere giudiziarie che la classe politica vuole all’unanimità attuare, nonostante il consiglio d’Europa si sia ripetutamente espresso contro un tale provvedimento. Infine la prassi sempre più frequente di sottrarre le inchieste ai magistrati titolari, proprio nel punto di svolta delle indagini, attraverso provvedimenti disciplinari o trasferimenti dettati da alquanto dubbie necessità e motivazioni.
La voglia e la necessità di esprimere tutto questo, di condividerlo con gli Italiani, di alzare la testa perché “quando è troppo è troppo”, è stato sicuramente il catalizzatore di una non semplice stesura ma, a detta dello stesso autore, una scelta autoterapeutica di curare l’amarezza accumulata in molti anni di lavoro, di fatiche e di contraddizioni.
Non si può credere che un presidente del consiglio possa affermare davanti al proprio paese che “non si può combattere il terrorismo con il codice in mano”, quando molti magistrati proprio per quel codice hanno sacrificato la vita; non è possibile che chi crea provvedimenti “pugnale” per la giustizia come quello del falso in bilancio, ora sia vicepresidente del CSM e non è concepibile che le torture siano definite “tecniche di interrogatorio” o i magistrati semplici “impiegati che hanno vinto un concorso”.
In questo pezzo di storia giudiziaria proposto da Armando Spataro, si rivela come dietro all'eccezionalità delle inchieste ci sia la normalità di chi le ha condotte, talvolta ricevendo l’incarico anche per caso, in rispetto della propria deontologia o di ciò che il cuore suggeriva di fare. “Non vuole essere - aggiunge Spataro - l’esaltazione eroica del ruolo di magistrato, ma piuttosto quella di tutte le persone che fanno del loro dovere il proprio ideale”.
Allora la risposta è sì, ne valeva la pena.
23/11/10