Su 201 comuni commissariati per mafia dal 1991, gli ultimi in Lombardia e Liguria
Nord in scioglimento per mafia
di Ermanno Bugamelli
Il carico dei 201
Sono 201 i comuni italiani che a partire dal 1991 sono stati commissariati per mafia, a cui vanno aggiunte quattro ASL infiltrate dal crimine organizzato. Un carico di vergogna per l’intero paese, una macchia che infanga tutto l’arco istituzionale. La conta prende il via nel 1991, anno d’introduzione della legge. A farne le spese per primo fu Taurianova, in provincia di Reggio Calabria. In loco era in corso una sanguinosa guerra di mafia, e per arrestare una emorragia di cadaveri e intrallazzi, il parlamento prese questa iniziativa che da quel momento ha colpito giunte comunali di ogni colore. Ben 31 hanno subito l’onta anche più di una volta, come ad esempio la stessa Taurianova “risciolta” nel 2009. Una infamia che non ha privato alcuni sindaci costretti alle dimissioni per collusione mafiosa della spregiudicatezza di ricandidarsi, come tentò con successo Carlo Esposito, primo cittadino sponda PD di Crispano, in provincia di Napoli. Il suo comune venne sciolto per infiltrazione mafiosa nel 2005, ma passati cinque anni Esposito torna in sella, si candida nuovamente per il Partito Democratico e viene eletto.
La legge sugli scioglimenti è stata modificata nel 2009, e le correzioni apportate non convincono il pm di Napoli Raffaele Cantone: “L’istituto dello scioglimento, malgrado tutti i limiti rappresenta un valido strumento nella lotta alle mafie e nel contrasto alle infiltrazioni malavitose. La legge 94 si sta dimostrando peggiorativa rispetto al passato. La norma ha introdotto presupposti per lo scioglimento molto più rigidi e stringenti così si rischia di confinarla solo ad episodi eclatanti, perdendo in questo modo la natura preventiva della legge, la funzione di utile controllo per la quale era nata”. Inutile sottolineare come una maggiore rigidità dei termini condurrà ad un innalzamento dei ricorsi con speranza di successo al TAR.
Le motivazioni di scioglimento seguono un lungo elenco. Le più gettonate sono nell’ordine “legami di amministratori con mafiosi”, “irregolarità negli appalti”, “procedimenti penali contro amministratori”, “parentele di amministratori con mafiosi” e “abusivismo edilizio”.
La classifica per regioni è guidata dalla Campania con 76 scioglimenti, seguita a distanza da Sicilia e Calabria che si contendono il secondo gradino del podio a stretto giro. Nel confronto Centro Sud – Nord non c’è partita, ma sul settentrione grava una preoccupante inversione di tendenza, e pur contando solo tre comuni commissariati, annovera gli ultimi due in ordine di tempo.
Bordighera e la Liguria preda delle mafie
E’ del 12 marzo scorso la notizia dello scioglimento per mafia del comune di Bordighera, in provincia di Imperia.
Con la firma posta sul decreto per infiltrazione mafiosa, il ministro Roberto Maroni ha reso ufficiale quanto in molti sospettavano da tempo. Il provvedimento intrapreso per la giunta di centrodestra di Bordighera, rischia a non restare un caso isolato in Liguria: altri comuni come Ventimiglia e Arenzano, sono sotto stretta osservazione degli organi del ministero.
Quanto emerso dalla inchiesta per mano della Procura di San Remo del resto, racconta di una regione da molti anni sotto scacco della ‘Ndrangheta. A fornire lo spunto ai magistrati è stata l’esternazione di Marco Sferrazza assessore del Turismo. A seguito della sua opposizione all’apertura di una sala giochi, Sferrazza ricevette la visita di Giovanni Pellegrino e Francesco Barilaro, che senza minacciarlo mostrarono comunque una decisa contrarietà alla presa di posizione dell’assessore. Da allora Sferrazza si mostra visibilmente scosso in quanto dice di “dormire con la pistola sotto il cuscino”. Secondo Sferrazza, Pellegrino e Barilaro rivendicano un trascorso di appoggi al sindaco Giovanni Bosio poco trasparenti. Un sostegno alla giunta di Bordighera che il primo cittadino e non solo, doveva contraccambiare con disparati favori e tra questi, l’apertura della sala da giochi in questione, come confermerà anche un altro assessore.
Storie di ordinario malaffare sempre più comuni in ogni angolo del paese, che trovano riscontro anche in terra ligure appena qualcuno trova la forza di infrangere la contagiosa omertà. Diffuse come la reputazione di Giovanni Pellegrino, un nome noto a tutti in quel territorio per i metodi con cui si assicura gli affari. Una sorta di marchio indelebile, difficile da dimenticare come quella giornata del 2009 in cui l’uomo accolse a botte e minacce i carabinieri che si accingevano ad arrestarlo.
E risulterà altrettanto complicato per diversi esponenti della politica Ligure, fornire spiegazioni sulle immagini pubblicate on line dal sito Casa della Legalità, scattate durante una festa calabrese finanziata da enti locali genovesi. E’ il febbraio del 2010 e siamo sotto elezioni. Tra gli invitati Domenico Gangemi, finito in seguito agli arresti, colto a chiacchierare con Aldo Praticò (consigliere comunale PDL di Genova); e poi ancora Eugenio Minasso, deputato e vice coordinatore regionale del PDL, ripreso mentre celebra l’elezione in compagnia di un membro della famiglia Pellegrino ( al centro dell’inchiesta di Bordighera), e di Giovanni Ingrasciotta, che non ha mai rinnegato trascorse frequentazioni con niente meno che Matteo Messina Denaro, uno dei super latitanti di Cosa Nostra siciliana. Gli scatti della Casa della Legalità, toccano anche il centro sinistra: Cinzia Damonte, candidata in Liguria per l’IDV nonché ex assessore di Arenzano, viene colta ad una cena elettorale presso la comunità calabrese, in compagnia di Onofrio Garcea, pregiudicato, che secondo la Guardia di Finanza è “ben inserito negli ambienti della criminalità organizzata”. La Damonte si è giustificata giurando:”Non sapevo”.
Notizie e sospetti su infiltrazioni e contatti reali o presunti che trovano conferme negli atti giudiziari acquisiti negli anni. Ripercorrendo le tappe del lavoro dei carabinieri, già dal 2006 vi sono riscontri che illustrano come le famiglie calabresi manifestassero un interesse particolare alle elezioni comunali di Bordighera, dove nel 2007 il centro destra trionferà. Una attenzione che darà vita a curiose forme di gemellaggio tra attività assai distanti: night club dove la prostituzione è di casa, diretti da figure in odore di mafia, sono affiliati a organizzazioni sportive del posto. Nelle vesti di dirigenti, secondo quanto scritto dai carabinieri del Nucleo di Imperia, il vice sindaco di Bordighera Mario Iacobucci e Consolato Scopelliti, fratello del Governatore della Calabria, entrambi al momento non tra gli indagati. In tale contesto non si contano i locali e le automobili che misteriosamente finiscono in fiamme. Nel maggio scorso poi, quando la vettura dell’imprenditore edile Pier Giorgio Parodi venne bersagliata da colpi di lupara, egli si limitò a minimizzare con un “Era uno scherzo”.
In pochi però sembrano aver ancora voglia di sorridere al cospetto del terzo comune del Nord sciolto per infiltrazione mafiosa, il secondo nell’arco di pochi mesi.
La tranquilla Desio si “autoscioglie”
Riavvolgiamo il nastro del tempo sino a fine novembre del 2010. Siamo a Desio in provincia di Monza , comune a guida PDL nel cuore della Brianza, fiore all’occhiello di quel modello sociale ed imprenditoriale che vuole essere lo “Stato Padano” nella mente dei suoi ideatori. La notizia delle dimissioni collettive da parte di 17 consiglieri comunali, per il coinvolgimento di altri nelle inchieste per mafia risalenti all’estate precedente, irrompe sulla scena politica. Non era mai accaduto che un comune lombardo venisse sciolto per mafia, e anche se “tecnicamente” non si è verificato neppure in questa circostanza, trattandosi di una sorta di “auto scioglimento”, il fatto costituisce un episodio senza precedenti dalle ricadute gravissime. A generare il terremoto, gli strascichi della imponente operazione anti ‘ndrangheta “Infinito” della DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) di Milano del 13 luglio 2010, che ha procurato oltre 300 arresti in tutta Italia di cui 50 proprio in Brianza.
Venerdì 26 novembre a oltre quattro mesi da quella operazione, 11 consiglieri di opposizione e aspetto ancora più significativo, ben 6 di maggioranza sponda Lega Nord, si presentano in Municipio e rassegnano le dimissioni. Una scelta difficile per gli esponenti leghisti che gli stessi hanno motivato:”Se fossimo restati un giorno in più in questa maggioranza avremmo riconsegnato le tessere del partito”. L’ex vice sindaco Ettore Motta, ha aggiunto, “di certo non volevamo essere complici di questo sistema”. Il Sindaco Giampiero Mariani si è così visto sciogliere per mafia la propria giunta, dal provvedimento che il Prefetto ha inoltrato al Ministero degli Interni.
Il quadro che emerge dalle intercettazioni è inquietante. La tranquilla Desio appare come un intreccio di intrighi e collusioni politico imprenditoriali mafiose. Ad attirare le cosche gli innumerevoli appalti, tra svincoli e infrastrutture che ruotano attorno all’Expò del 2015. Affiora che uno dei consiglieri comunali pietra dello scandalo, Natale Marrone (PDL), si è rivolto ad un boss come Pio Candeloro per esercitare pressioni affinché si organizzasse iniziative a danno di un altro funzionario del comune di Desio. Compare il nome di Saverio Moscato, professione di facciata imprenditore, in pratica uno dei leader della ‘Ndrangheta che ha conquistato la Lombardia, scegliendo Desio come quartier generale. Moscato viene “ascoltato” mentre si intrattiene con Massimo Ponzoni, favorito di Roberto Formigoni, ex assessore regionale, e scalpitante giovane promessa del PDL lombardo. Ponzoni, ora indagato non per mafia ma per bancarotta fraudolenta, nonostante le intercettazioni confermino i suoi contatti con boss del calibro di Salvatore Strangio e Fortunato Stellitano, emerge come il nome nuovo sui cui puntare, un nome in grado di aggiudicarsi valanghe di preferenze ad ogni competizione elettorale. Preferenze preziose di cui i candidati del PDL faranno a Desio una tale scorpacciata, da costituire ben il 66% del computo totale dei voti, una percentuale irripetibile altrove, persino a Milano dove si aggira mediamente sul 30%. Riuscire a gestire a proprio vantaggio le preferenze, consente il controllo di un serbatoio di voti considerevole e determinante, e questo meccanismo a Desio segue le dinamiche correnti nei territori controllati dalle mafie. Un politico della città lombarda, che preferisce avvalersi dell’anonimato, racconta di come alle ultime amministrative figure sospette stazionassero dinanzi ad alcuni seggi per tutta la giornata. Costoro controllavano chi entrava nei seggi, altri fungevano da accompagnatori di votanti, anziani in particolare, altri ancora si passavano bigliettini. Comportamenti quanto meno sospetti che sommati alla consolidata presenza tra le fila dei rappresentanti di lista, di figure vicine alla dominante cosca Iamonte-Moscato, confermano come la ‘Ndrangheta a Desio ed in tutta la Lombardia fosse di casa e che quanto successo non possa costituire una sorpresa.
Relazioni politico mafiose che si protraggono da anni, dolosamente taciute da chi ne traeva benefici e profitti, dissimulate per imbarazzo e vergogna da chi si rifiutava di vedere quanto si muoveva sotto i loro occhi, nel nome di una reputazione “Nordista”, da tutelare ad ogni costo.
Bardonecchia feudo di “Roccuzzo” Lo Presti
Il poco invidiabile primato di prima giunta settentrionale a cadere sotto i colpi dello scioglimento per mafia, se lo aggiudicò Bardonecchia nell’aprile del 1995. La località dell’Alta Val di Susa, era caduta nelle mani dei calabresi di Rocco Lo Presti, giunto ragazzino in Piemonte negli anni ’50 come figlioccio del padre padrino Ciccio Mazzaferro a seguito dell’applicazione su questo ultimo della legge sul soggiorno obbligato. Fu solo uno dei molti infelici effetti di un provvedimento che doveva rimuovere i mafiosi dalla loro terra d’origine, nell’intento di isolarli a centinaia di chilometri, ma che ottenne il risultato di esportare la criminalità organizzata laddove era inesistente. Trascorrono gli anni e anche la commissione antimafia annota il suo nome tra gli osservati speciali. Il nullatenente muratore di Marina di Gioiosa Jonica, diviene il leader dell’Ndrangheta locale. L’accademia dell’industria della violenza, a cui è stato forgiato dai clan Mazzaferro e Ursini è del resto una garanzia. Gli affari di “Roccuzzo”, così viene nominato in alcune intercettazioni da sodali e amici, si allargano presto dall’edilizia all’autotrasporto sino al commercio, il tutto condito dalla pratica sistematica dell’usura. I calabresi che lo raggiungono per lavorare in negozi, bar, ristoranti, sale da gioco da lui controllati, si contano a centinaia. Siamo negli anni ‘70 e la Bardonecchia sciistica pare assomigliare sempre più ad un satellite della grande Torino. Una edificazione arrembante ed una fitta rete di raccordi e strade accorciano le distanze dal capoluogo, fornendo alle attività dell’impresa Lo Presti coadiuvata dai Mazzaferro, cospicue fonti di guadagno.
Ma non tutti accettarono di buon grado le regole imposte dalla ‘Ndrangheta. Un imprenditore edile che nel 1975 si oppone di assumere i calabresi di Lo Presti, finisce per essere rapito e assassinato. Si chiamava Mario Ceretto, e per la sua scomparsa Lo Presti viene condannato in primo grado ed in appello a 26 anni di carcere, ma poi la Cassazione annullò tutto, qualcuno sostiene per le troppe amicizie altolocate che l’uomo si era coltivato nel pentapartito di governo. I magistrati sono certi della sua posizione di leader della ‘Ndrangheta, ma incastrarlo è un’altra cosa. I guai con la giustizia di Lo Presti proseguono e nel 1996 finirà di nuovo in carcere per l’affare Campo Smith, un intrigo di appalti edili che ricoprì di cemento una delle più antiche località del turismo invernale del Piemonte. A seguito della inchiesta sul progetto, verranno condannati il Sindaco, il segretario comunale, il consulente urbanistico ed il progettista, e sarà questa la ragione scatenante dello scioglimento per mafia del comune di Bardonecchia. Dopo una condanna di sei anni nel 2002 per associazione a delinquere di stampo mafioso, Lo Presti riconquisterà la libertà grazie ai suoi legali, e forse alle amicizie politiche mai trascurate e ora militanti in Forza Italia. Nel gennaio del 2009, appena ricevuta la conferma dell’ennesima condanna per mafia della sua vita criminale, questa volta per usura, il cuore di Lo Presti smette di pulsare per un attacco cardiaco. Trovava applicazione l’unica sentenza possibile in grado di porre fine e definitivamente, alla sua carriera di mafioso.
Ancora una volta…
Quando nel 1995 l’opinione pubblica venne scossa dalla notizia di una Bardonecchia preda della criminalità organizzata, la reazione più diffusa fu di incredulità e sconcerto. In molti, troppi, finirono per minimizzare quell’episodio, ritenendolo un caso sporadico e non replicabile nell’industrioso e legale Nord. In tanti si indignarono, accusando la magistratura di esser caduta in erronee e precipitose conclusioni non rispondenti alla realtà. Flebili furono le voci che si alzarono verso coloro che marciarono a favore degli arrestati per l’inchiesta di Campo Smith, dove esponenti clericali e politici di destra e sinistra, invocarono in coro la riabilitazione di Bardonecchia, al grido che la mafia nella loro terra non esisteva. Eppure le tangenti, le esplosioni nei cantieri causati dal racket, e l’edilizia selvaggia che si abbatterono in quegli anni sulla valle, dettando legge anche su opere e altri affari legati al turismo invernale, al Traforo del Frejus e alla TAV, non avevano una matrice eterea e spirituale. Erano in realtà, il frutto di dinamiche criminali umane tipiche di una politica corrotta che abbraccia la mafia, apre i cancelli dei pubblici appalti e agli imprenditori a lei legati. Un dato di fatto inconfutabile sovrasta comunque ogni analisi: gli ingenti capitali mafiosi hanno consentito di aprire innumerevoli porte, e le economie legali di molti territori del Nord hanno visto il loro PIL beneficiare di quanto prodotto con ricavi illeciti.
Anche per questo in pochi prestarono adeguata attenzione ad un fenomeno di colonizzazione che aveva radici lontane, esattamente come le prime denunce relative alle attività di clan criminali in terra di Piemonte. Una indagine avviata tra il 1973 e 1976, da alcuni deputati della Repubblica tra i quali Pio La Torre, che da Cosa Nostra verrà ucciso a Palermo il 30 aprile del 1982, indicava senza ombre come a Bardonecchia e dintorni operasse un clan mafioso guidato dai fratelli Vincenzo e Francesco Mazzaferro, una cosca perno della gran parte delle attività illecite della zona.
Ancora una volta, l’ennesima, si è dimostrato come tutto quanto era necessario sapere per proteggere un territorio e reagire alle infiltrazioni mafiose che lo aggredivano, era fruibile e da lungo tempo agli addetti ai lavori.
Un lungo elenco di atti pubblici stava lì a dimostrarlo. Sempre. Nell’oramai lontano 1995 con Bardonecchia e la Val di Susa protagoniste, come nei casi contemporanei di Desio e Bordighera, relazioni delle commissioni antimafia nazionali e regionali congiunte a inchieste di polizia e carabinieri, fornivano indicazioni precise su nomi, luoghi e attività in accertato o forte odore di mafia.
E allora, cosa non ha funzionato nel tessuto politico e sociale del nostro settentrione?
E’ possibile circoscrivere una così vasta contaminazione mafiosa con la sola sottovalutazione del problema, con la disattenzione e con l’incompetenza in materia?
E’ forse mancato il tempo necessario, o la cultura antimafia, o l’umiltà per indurre questi uomini a porre in discussione l’operato proprio e dei predecessori?
O ancora una volta a disertare in politici e amministratori, sono state virtù come l’onestà, il senso del dovere, la rettitudine etica e morale, indispensabili per convertire quelle conoscenze in una sana attività politica al servizio delle comunità?
E ancora.
Può l’intelligenza di ognuno di noi, essere ancora una volta messa a dura prova continuando ad assistere a reazioni come quelle rilasciate dalla presidenza PDL della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, che alcuni giorni addietro ha tacciato di “miserabile” il collega governatore della Puglia Nichi Vendola, reo di aver affermato che “La Lombardia è la regione più mafiosa d’Italia”?
Le affermazioni di Vendola erano sicuramente dure, ma costituivano solo la sintesi di quanto riportato dai quotidiani in merito alle varie operazioni anti ‘Ndrangheta in Lombardia, l’ultima delle quali la “Caposaldo”, ha presentato gli ospedali milanesi come teatro di incontri al vertice tra boss del calibro di Paolo Martino e Giuseppe Flachi, lasciando intendere che la Sanità Lombarda è preda della mafia non solo sul fronte degli appalti, ma anche in termini di occupazione territoriale. Forse politici come Formigoni, sono incoraggiati a negare dati di fatto in luogo di risposte accettabili, solo perché la passività di tanti cittadini perbene, lo induce a ritenerli sprovvisti di una intelligenza degna di non essere oltraggiata. Un risveglio collettivo delle coscienze è quindi urgente.
Le svariate documentazioni sulle infiltrazioni mafiose in possesso di magistratura e forze dell’ordine, riguardano oggi uno spettro molto ampio di territori e settori economici in tutto il Nord Italia, fornendo un quadro che suscita forte preoccupazione per il futuro.
Un futuro che nemmeno troppo lontano, potrebbe tingersi di un Nord in scioglimento per mafia.
Alkemia, 29 marzo 2011