sabato 9 novembre 2024   
  Cerca  
 

wwwalkemia.gif
  Login  
Home1 » Le mafie » Prologo:una storia di uomini  

La storia della Mafia Siciliana

Prologo -  Una storia di uomini


…Se Cosa Nostra e la mafia esiste, allora ha una storia…e se ha una storia, allora, ha avuto un principio e avrà una fine…”.
Lo ripeteva spesso il giudice Giovanni Falcone per ricordare a tutti che ogni fenomeno e movimento d’ispirazione umana, è per sua natura destinato come l’uomo a nascere e morire.
Una considerazione frutto della saggezza di un profondo conoscitore dell’animo umano prima che un grande magistrato, consapevole di stringere nelle mani la giusta chiave di lettura per liberare dalla morsa della violenza mafiosa la propria terra, sempre imprigionata dalle catene culturali e di malaffare di antica memoria.
Il verbo della legalità che vorremmo profumasse di auspicio, ma che purtroppo ad oggi conserva il retrogusto amaro della speranza ancora lontana a compiersi. Al pari della comune percezione sullo stato di una guerra alla mafia ben distante dall’essere conclusa e soprattutto vinta. La storia ha sin qui registrato in questa direzione importanti vittorie, sul fronte giudiziario e sul piano culturale. Conquiste che hanno richiesto un costo di vite altissimo, con la morte di tanti che provenienti da ogni schiera sociale, hanno scelto di combattere Cosa Nostra e la mafia. Figure troppo spesso rimaste sole, calunniate e screditate da un collaudato sistema che utilizza tutti gli strumenti radicati nel territorio per delegittimare un bersaglio prima di trasformarlo in vittima. O peggio ancora individui isolati dalle stesse istituzioni e a volte anche dalla società, compresa quella porzione che si pretende di definirsi “civile”. Uomini, donne, fanciulli che in buona o cattiva fede, sono stati trattati alla stregua di fastidiosi disturbatori da zittire o di veri ostacoli da eliminare, per aver denunciato pubblicamente le atrocità e le vessazioni legate alla cultura mafiosa.
Gli elementi emersi nella recente riapertura delle indagini sulle stragi del 1992, e del fallito attentato a Falcone all’Addaura nel giugno del 1989, potrebbero fornire una nuova chiave di lettura audace e sconvolgente, che se confermata, vedrebbe figure dei servizi segreti deviati coinvolte in quei crimini. Le conseguenze di un tale nugolo di interrogativi ancora sospesi, condurrebbero a pagine di storia da riscrivere, alla rilettura di una stagione insanguinata che forse non venne innescata dalla sola Cosa Nostra. Se le omissioni, i depistaggi, l’eliminazione di testimoni e protagonisti, fossero avvenute con la connivenza e complicità di presunti servitori dello Stato, troverebbero conferma anche le teorie di chi sostiene da tempo l’esistenza di entità occulte quali componenti di un coagulo di potere che, con cinica puntualità, ha ostruito e deviato il flusso dell’evoluzione democratica nel nostro paese.

Da sfumatura caratteriale, a sistema di potere
Quel medesimo Stato che per svariati decenni ha reiterato una colposa indifferenza verso la cultura mafiosa, dando licenza che la mafia venisse equiparata ad una discutibile, indefinita ed al massimo sconveniente sfumatura caratteriale del popolo siciliano, invece che indicarla come una delle organizzazioni criminali più potenti e crudeli del pianeta. Un atteggiamento cieco che nulla aveva a che spartire con la naturale rimozione che l’animo umano esercita verso i ricordi e gli eventi dolorosi. Piuttosto un deliberato e riuscito tentativo negazionista ed occultista, che per convenienza ha deliberatamente concesso il controllo del territorio di alcune zone del paese. Una sorta di particolare “socio in affari” a cui delegare anche la parziale o totale intermediazione in ambito elettorale.
In epoca più recente e quasi contemporanea poi, le medesime forze che nel tempo si sono riciclate in mutevoli colori politici, cercano di insinuare il concetto di mafia in disarmo, e costretta all’angolo dall’incalzare di arresti celebri, avvalorando così la tesi del “progressivo calar dei toni del suo braccio armato”. Il lavoro delle forze dell’ordine è stato certamente straordinario, ma la mafia è tutt’altro che sconfitta. Sono ormai anni che ha messo in pratica un profondo cambio di strategia, in linea con i tempi, i mutamenti sociali, e la globalizzazione dei flussi del denaro. Una generazione di “nuovi soldati eccellenti” composta da manager, liberi professionisti ed esperti in finanza in possesso di molteplici lauree e vocabolari in lingue straniere. Funzionari “dell’azienda mafia” che hanno contribuito all’acquisizione degli appalti pubblici da parte delle sue imprese, il trading finanziario con cui effettuare il riciclaggio del denaro illecito, o espandere i confini dell’impero economico una volta che gli investimenti riemergono nella legalità. Gli stupefacenti e l’estorsione, solo per citare alcune specializzazioni tradizionali, rimangono importanti campi di forza della oramai “multinazionale struttura”, ma sempre più maggiore discrezione è stata dedicata alle esigenze dell’impresa che produce e ricicla. Del resto, meno la mafia spara e uccide, più contenuto sarà il tono della discussione a lei rivolta, e più soffusa rimarrà l’attenzione dell’opinione pubblica, più vasto il campo d’azione in cui allargare gli affari.
La mafia siciliana ha da sempre inseguito unicamente il potere ed il denaro senza dogmi di carattere ideologico o politico. Obbiettivi coltivati attraverso la violenza sistematica all’indirizzo di vittime e nemici. Una pratica unica nel suo genere, edificata sulla peculiarità di saper fondere in una sola organizzazione le proprietà  di uno Stato ombra, le capacità imprenditoriali di una potente azienda specializzata nel crimine, le caratteristiche tipiche della massoneria in una struttura i cui affiliati sono vincolati dalla segretezza e da un giuramento inscindibile se non con la morte.

Lo Stato mafia
Cosa Nostra è simile ad uno Stato in quanto mira al controllo del territorio. Al suo interno ogni famiglia o cosca, dietro l’avvallo di un vertice piramidale, come un governo ombra detta le regole nel distretto arbitrariamente stabilito di competenza. Gli analisti dell’antimafia oggi ci descrivono una struttura costituita da diverse piramidi di dimensioni minori rispetto alla sua storia dal dopoguerra. Una evoluzione che non ne ha snaturato sostanza e metodi. Attraverso il racket del pizzo la mafia riscuote le tasse, con una differenza rispetto allo Stato: la Famiglia mafiosa pretende il pagamento da ogni attività, legale o illegale che sia. Accade così che vittima dell’estorsione finisce per essere un qualsiasi esercizio commerciale, o la banda di ladri o rapinatori che la derubano. In questo modo l’unico soggetto a trarre beneficio da un qualsivoglia accordo di protezione è sempre la mafia. E sempre lei, detentrice come lo Stato del potere sui suoi sudditi, che travalica ogni statuto arrogandosi il diritto di decidere della loro vita e morte. Ma a differirla da uno Governo autentico è la sua riservatezza: essa ufficialmente non esiste, come un ombra vive per la caratteristica di rimanere incollata allo Stato pubblico, e infiltrandovi lo manipola fino al raggiungimento dei propri interessi. Mafia e politica sono da sempre andate a braccetto, ma il rapporto di forza si è nei decenni evoluto e di sovente ribaltato. Per molti anni è stato il politico ad individuare in un particolare territorio, la Famiglia mafiosa a cui appoggiarsi nella gestione clientelare di un particolare territorio. Un mutuo rapporto che ha garantito ad entrambi il suo controllo soprattutto in ambito elettorale e affaristico. In epoca più recente, l’immensa disponibilità finanziaria delle cosche ha permesso di acquisire un tale potere, che oggi è la Famiglia a determinare il volto del candidato in un determinato collegio elettorale. Un automatismo applicato in serie alle elezioni amministrative regionali come alle politiche nazionali, consentendo a Cosa Nostra di farcire il Parlamento siciliano e della capitale, di esponenti propri in prestito ai partiti. A rendere il contesto morale della politica del paese a dir poco imbarazzante, è il constatare come la stessa abbia da tempo delegato alla sola Giustizia, la denuncia di coloro sospettati di stringere affari e connivenze con figuri in odore di mafia. Nascosti dietro alla foglia di fico della presunzione di innocenza, i partiti si stringono attorno agli esponenti accusati, invece di optare con prudenza ad un loro allontanamento. La politica meriterebbe una pubblica dignità in grado di volare ben al di sopra dell’attesa per una comprovata colpevolezza giuridica. Una condotta che offusca la doverosa trasparenza verso gli elettori che coloro delegati ad amministrare la cosa pubblica, dovrebbero considerare un valore primario. I confini di natura morale sfumano così in un diffuso malcostume, un limite che l’elettorato stesso pare troppo spesso non distinguere, vista la disinvoltura con cui continua a premiare liste imbottite di candidati sotto inchiesta per mafia. E se i cittadini di un paese smarriscono il valore ed il rispetto verso una cultura della legalità in grado di elevarsi al di sopra degli interessi di parte, il rischio di affidarne la guida a uomini sprovvisti del medesimo, finisce per divenirne quasi una inevitabile conseguenza.

Una società assolutamente “profit”
Cosa Nostra è nel senso più letterario del termine una società d’affari perché il suo primo obbiettivo è realizzare utile, e per riuscirci si avvale di violenza ed intimidazione. Il suo metodo è divenuto un autentico marchio di fabbrica. Un sistema applicabile a qualsiasi mercato ed in grado di paralizzare dal terrore ogni concorrente. Ed i guadagni sono destinati ad aumentare, maggiori sono le sfumature violente o illecite che distinguono il mercato.
Nel traffico di stupefacenti ad esempio, la firma di Cosa Nostra è divenuta garanzia assoluta di profitto stellare, conosciuta ed esportata in tutto il pianeta. Può accadere che altre organizzazioni in alcune fasi conquistino la leadership del settore, obbiettivo raggiunto negli ultimi anni dalla ‘Ndrangheta calabrese. Nessuna associazione criminale però, riuscirà mai a scalzare Cosa Nostra dalla gestione del traffico internazionale di droga, garantendogli un ruolo di referente nel mercato.
Per assicurare all’organizzazione l’efficienza della struttura, occorre che il denaro incamerato dalle attività illecite venga reinvestito in parte, sia al finanziamento diretto del suo esercito e dei semplici fiancheggiatori, sia alla corruzione di avvocati, giudici, poliziotti, giornalisti, politici. Si è innescato così nei decenni, un vasto meccanismo di favori reciproci che ha finito per legare indissolubilmente a Cosa Nostra esponenti dell’intera società, alimentando quella indistinguibile zona grigia nella quale rischiano di smarrirsi le inchieste della magistratura. La politica e l’imprenditoria mafiosa si è incuneata con le proprietà di un parassita cancerogeno nelle maglie sane del paese infettandole. Un fenomeno che ha beneficiato della modesta dicitura morale di molti suoi esponenti, disposti a garantirsi denaro e potere, barattando l’integrità delle proprie coscienze nel cooperare con le associazioni mafiose. L’impianto politico economico che ne è scaturito, ha alienato di fatto la libera concorrenza a favore di un sistema di regole drogato da prepotenze, corruzione e minacce.
Per completare il quadro basta constatare come di frequente in Sicilia, non occorra intimidire a morte un uomo per piegarlo. In regioni dove il lavoro, le cure mediche, ed i diritti civili, divengono merce da permutare in cambio della sopravvivenza quotidiana, è sufficiente che l’ufficio di collocamento e di previdenza sociale della Azienda Stato Cosa Nostra, iscriva un nome nella propria lista di proscrizione, perché egli si veda costretto a piegare il capo e serrare la labbra se non vuole assistere all’annientamento di ogni prospettiva per sé ed i propri familiari.
Una politica aziendale capace quindi di condizionare l’intero panorama delle attività che regolano i meccanismi sociali, economici, politici e giuridici di una nazione. Una zavorra insostenibile al suo sviluppo e alla sua crescita. Una pietra tombale posta sull’affermazione del concetto universale di legalità. Una cambiale in bianco firmata per conto di intere generazioni, sul carico di aspettative che comunemente affidiamo al vocabolo speranza e all’intero cerchio vitale di luce che lo circonda. L’impossibilità per tanti giovani di costruirsi una felicità nella propria terra, e da essa costretti a fuggirvi invece che costituirne una risorsa.


Un “club” esclusivo e riservato
Cosa Nostra è anche una società segreta e l’esclusività dei suoi membri, è il risultato di una accurata selezione.
Un candidato deve sottoporsi ad un periodo di attenta osservazione prima di essere premiato con l’annessione. Un lasso di tempo durante il quale egli verrà sorvegliato e messo alla prova, e quasi sempre una di queste, consiste nel commettere un omicidio. All’aspirante mafioso, non si stancheranno di ripetere che fino all’istante in cui verrà introdotto,che egli è una nullità: “Nuddu ammiscatu cu’nienti”. Un martellamento figlio di una tradizione culturale che condurrà l’uomo a ritenere quel momento come uno dei più importanti della sua esistenza. L’affiliazione alla Famiglia mafiosa è sancita da una cerimonia di giuramento. Un rituale d’iniziazione dal profondo significato all’interno del quale si concentra quell’essenza ulteriore, in apparenza impalpabile ma concretamente presente, che rende i mafiosi una specie a parte, differente e superiore al cospetto di tutti gli altri individui. Il sangue del candidato che viene cosparso sull’immagine sacra, la formula del giuramento di fedeltà pronunciata mentre il fuoco arde la “santuzza”, il bacio con cui tutti i partecipanti danno il benvenuto al neo affiliato, condensano gli elementi base della natura mafiosa. L’affiliato bagna con il proprio sangue la promessa di fede eterna alla Famiglia, al cospetto di Dio e degli altri membri, gli unici uomini per cui in terra valga la pena vivere. Il continuo richiamo alla fedeltà verso la Famiglia, e alla segretezza con tutti gli esterni, rappresentano le radici di una cultura di antica memoria che ancora sopravvive e prospera se pur con l’evoluzione di alcune sfumature dettate dai mutamenti delle ere. Elementi che trovano riscontro in un matrice storica che ha visto le popolazioni dell’isola schiave di dominazioni susseguitesi nei secoli. In un epoca ancora non propriamente fissata ma antecedente l’Unita d’Italia, la maturazione di una radicata e genetica diffidenza per qualsiasi forma di governo straniero od esterno alla Sicilia, si è materializzata con l’accorpamento in clan o famiglie non vincolate da legami necessariamente parentali. Una ostilità rinforzata dalla ricorrente e perpetua manifesta incapacità da parte di ogni autorità di occuparsi dei veri bisogni delle genti, in luogo dell’arrogante esercizio del potere. In tempi a noi più vicini, questi valori si sono a loro volta riassunti in vocabolo ricorrente, “onore”. Un termine spesso schernito, bersaglio di caricature, oppure inflazionato e snaturato quale soggetto di film, fiction e romanzi di successo. Il significato autentico che assume nel contesto mafioso, è però ben lontano dallo stereotipo evanescente a cui è stato a volte e strumentalmente confinato.


Requisiti obbligatori per “l’uomo d’onore”: ubbidienza e ferocia

Uno dei requisiti imprescindibili per vestire gli abiti di un “uomo d’onore”, essenziale grif per chi ambisce ad acquisire potere in seno all’organizzazione, risponde alla cieca obbedienza ai suoi ordini. Una totale disponibilità ad eseguire ciò che viene comandato senza riserbo e domande, sino ad essere massimamente crudeli e sanguinari al bisogno. Quanto accadde a riguardo della sorte del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino, può costituire un esempio tangibile della ferocia inserita nel contesto culturale mafioso. Giuseppe aveva 13 anni quando venne sequestrato da Cosa Nostra, vittima di una vendetta trasversale per indurre il padre a smettere di parlare. A rapirlo un gruppo sotto il comando di quel Giovanni Brusca boss di San Giuseppe Jato, che verrà arrestato e condannato anche per aver preso parte alla strage di Capaci. Il bambino rimase prigioniero 779 giorni prima di essere strangolato e sciolto nell’acido nel gennaio del 1996. Dalla lucida ricostruzione rilasciata in tribunale dall’uomo che per ordine di Brusca commise l’orrendo delitto, traspare quanto serve per comprendere come la convenzionale follia criminale, assuma un significato del tutto relativo nella società mafiosa: “Se uno vuole fare carriera deve essere disponibile, cioè deve chiedere sempre di andare avanti…Io volevo fare carriera, avevo accettato questo sin dall’inizio: ecco perché toccavo il cielo con un dito…Io in quel momento ero in Cosa Nostra un soldato, eseguivo degli ordini e in più sapevo che strangolando un ragazzino avrei fatto carriera, toccavo il cielo con un dito.” L’uomo d’onore deve essere disposto ad uccidere quindi ma non solo: anche nello strozzare un innocente ragazzino è indispensabile mostrare orgoglio ed entusiasmo, affinché il proprio prestigio acquisti rilievo agli occhi dei capi della Famiglia di appartenenza. All’indomani delle testimonianze dei pentiti che ricostruirono la tragica fine di Giuseppe, si sollevarono voci cariche di sdegno anche da parte di alcuni affiliati. Ma questa Cosa Nostra che secondo costoro aveva smarrito il senso della misura persino nel praticare le atrocità, non appariva così distante ma solo una evoluzione, della medesima organizzazione che da oltre 150 anni elargiva terrore e morte sempre grazie all’onorevole operato dei suoi uomini.


Marito fedele, padre premuroso, uomo timorato di Dio

Eppure l’uomo d’onore deve osservare un profondo e amorevole rispetto anche per una serie di altri aspetti della vita sociale, tutti rigidamente esaminati attraverso la lente dei capi cosca. Lo spessore e la qualità dell’onore di un individuo all’interno di Cosa Nostra sono variabili sottoposte ad una verifica continua, destinata a proseguire per un lungo periodo successivo all’affiliazione. L’onore in seno all’organizzazione è anche sinonimo di fiducia. Colui che si è guadagnato l’accesso ad una tale elite umana, deve consolidare la propria immagine fornendo un clichè comportamentale in grado di assecondare oltre alla spiccata crudeltà, l’amore per la propria famiglia di sangue, una irreprensibile fedeltà coniugale, e la pubblica ostentazione di una fervida religiosità. L’onorata società impone di preporre gli interessi della cosca a quelli della famiglia affettiva nonostante le si attribuisca un forte significato morale e finanziario. Il mafioso è importante si unisca ad una donna che rispetti i canoni culturali mafiosi, perché a lei sarà riservato un ruolo fondamentale nel tramandare ai figli i medesimi valori. Spesso la sposa di un “uomo d’onore” è figlia o familiare di un altro mafioso, e la sua reputazione è destinata ad oscillare proporzionalmente al prestigio della famiglia della donna. La moglie deve godere del rispetto della fedeltà da parte del marito e il tradimento nell’ambito matrimoniale è pratica non consentita dal codice d’onore. Anche perché il fedifrago rischia di pagare assai caro ogni pubblica mancanza. Se poi questo accade con un altro affiliato, il colpevole rischia la vita. Tali premure verso la tutela della immagine femminile non devono però ingannare. Sono, infatti numerosi, gli episodi di consorti vessate, intimidite e malmenate all’interno della cultura familiare imposta dal coniuge mafioso. La matrice maschilista in seno all’onorata società quindi è totalitaria. Il loro compito è rigidamente confinato alla cura domestica e alla crescita dei figli. Nella scala gerarchica di Cosa Nostra, la figura femminea non è ufficialmente riconosciuta. La donna non può essere direttamente affiliata e solo in alcuni casi le è consentito coadiuvare l’attività del marito ma sempre con una veste secondaria. L’arresto di esponenti femminili con ruoli totalmente operativi in seno all’organizzazione, effettuati in un numero crescente negli ultimi anni, sembra aprire a nuovi scenari pur se letti al momento con cautela dagli investigatori. Più che di un nuovo corso femminista, si deve parlare di esigenza pratica da parte di Cosa Nostra che, con numerosi uomini costretti dal carcere all’inattività, è costretta a ricorrere all’impiego di mogli e sorelle per gestire affari e collegamenti. Ma se l’onore nell’accezione mafiosa, è qualità “unicamente maschile”, non esiste dubbio su come l’onore di un mafioso arricchisca l’autorevolezza della moglie, e viceversa il suo devoto e servile atteggiamento, potenzi l’onorabilità del marito.
E’ proprio attorno a questi valori, come l’attenzione ai propri cari, dedizione alla consorte e fede in Dio, universalmente e positivamente riconosciuti anche nel subalterno mondo popolato dagli “onesti”, che la mafia ha manovrato ad arte. Un terreno fertile su cui operare, solo allo scopo di mascherare per decenni la propria matrice violenta e criminale, esternando una retorica e ipocrita aurea di associazione di “uomini onorevoli”.


Nelle relazioni Chiesa-Mafia, ambiguità imbarazzanti e colpevoli

Se questo è potuto accadere, non può considerarsi secondario il contributo fornito dal atteggiamento ambiguo della Chiesa Cattolica.
In Sicilia l’Istituto ha nel suo insieme, stretto alleanze affatto episodiche ma durevoli, con i leader del potere mafioso. Una  benedizione pubblica, ricambiata con devozione, senza porre alcun veto o reprimenda a condotte morali dai canoni assai poco evangelici. Con riferimento ad un passato pur se troppo recente, la situazione ora appare diversa. La posizione sia dei pontefici che degli alti esponenti del clero nazionale, ha assunto nel corso dell’ultimo ventennio i toni di una condanna sempre maggiore ed univoca verso il fenomeno mafioso. Anche se il lungo sodalizio di potere, che nel tempo ha caratterizzato la storia delle relazioni tra Mafia e Chiesa, è densa di episodi discutibili e condannabili, non si può comunque affermare che gli uomini, che in Sicilia rappresentano in terra la legge di Dio, siano in assoluto da considerarsi vicini alla cultura mafiosa.
In ogni epoca i singoli sacerdoti o prelati che si sono scagliati contro la violenza di Cosa Nostra hanno pagato spesso con la vita il loro coraggio. Eppure per un lasso di tempo che ancora oggi ci appare amaramente infinito, questi gesti  appartenevano a scelte individuali ben distanti dalla posizione collegiale dell’Istituto, imbrigliato da imbarazzanti paralleli di convenienza con Cosa Nostra. Come sottolineava il giudice Falcone difatti, “…Non si cessa mai di essere preti. Ne mafiosi.”, comparando l’affiliazione ad una sorta di conversione religiosa. Il terreno comune più evidente su cui due organizzazioni tanto distanti s’incontrano è la fede cattolica dei loro appartenenti. L’uomo d’onore come abbiamo visto deve essere fortemente credente e gli esempi di assoluta devozione da parte di un nutrito elenco di capimafia sanguinari lo conferma. Nitto Santapaola ad esempio, lungamente boss incontrastato del catanese, si fece erigere un altare con annessa cappella all’interno della sua villa, dove potersi raccogliere in preghiera liberamente. Attimi di cristiana riflessione che non sembrano appartenere al responsabile, in qualità di mandante o di esecutore, di decine di omicidi, alcuni dei quali espletati con modalità autenticamente feroci, come quando secondo la testimonianza di un pentito, fece strangolare e gettare in un pozzo quattro ragazzi colpevoli di aver rapinato sua madre.
Lo stesso Bernardo Provenzano, per anni ritenuto il numero uno di Cosa Nostra, completava i pizzini con i quali comunicava all’esterno dai suoi rifugi, con invocazioni alla protezione divina: “…con il volere di Dio voglio essere un servitore”. Anche Giovanni Brusca soprannominato “lo scannacristianni”, giusto per non lasciare spazio ad equivoci sulle sue non nascoste virtù, mentre si trovava alla testa di una squadra della morte, trovava beneficio nell’anima formulando prima di ogni impresa “…Dio sa che sono loro che vogliono farsi uccidere e che io non ho colpa…”.
Ogni interpretazione delle sacre scritture e del Vangelo sembravano non fornire appigli alla Chiesa Cattolica per schierarsi in maniera inequivocabile. Malgrado ciò invece, in presenza di simili ed evidenti crimini da parte di suoi “figli”, l’Istituto reagì a lungo come al cospetto di un qualsiasi altro peccato. L’assassino mafioso che si prostrava nel confessionale veniva trattato come un comune penitente, e pubblicamente nessuna presa di posizione specifica verso una condanna alla cultura mafiosa veniva attuata. Di fatto questo atteggiamento di parziale tolleranza, costituì le fondamenta per la diffusione di un sentimento comune che volgeva ad assolvere se confessata, la pratica di mafia. Qui risiede il punto, la maggiore responsabilità da ascrivere alle istituzioni religiose: aver consentito che valori comuni di ubbidienza, umiltà, radicamento alle tradizioni e alla famiglia, mascherassero quel valore aggiunto di malefica entità.
Ma si è trattato solo di una errata chiave di lettura del fenomeno?


Onore e religione
E’ appurato come la religiosità di un uomo d’onore non ha nulla a che spartire con l’istituzione in quanto tale. Nel popolo siciliano il radicamento culturale cattolico ha radici profonde e diffuse di antica memoria, ed i mafiosi da siciliani, ne costituiscono una conseguente espressione. Cosa Nostra ha però plasmato la connaturata fede religiosa degli uomini d’onore, per dare vita ad un senso di appartenenza ai valori cattolici comune a tutta l’organizzazione. Un disegno al fine di ostentare un volto benevolo di facciata utile a  perseguire i propri scopi. E’ altrettanto vero che la Chiesa si è resa responsabile di peccati non solo morali. L’istituto si è macchiato di misfatti concretamente documentati come quando ha accettato donazioni e prestazioni a vario titolo provenienti da patrimoni mafiosi, senza nessun turbamento di carattere etico. Iniquità perseverate nel consentire a figure in fortissimo od accertato odore di mafia, o addirittura dalle mani intrise di sangue, di amministrare opere di carità e guidare associazioni a presunto scopo benefico. Non si può quindi parlare di una svista, ne tanto meno di politiche e scelte frutto di una incauta valutazione. Tutto questo non fa riferimento ad uno spazio temporale circoscritto, ma ad un periodo spalmato su svariati decenni. Non si poteva non vedere ciò che accadeva quotidianamente ad ogni angolo di strada, nelle campagne, nelle miniere di zolfo, trai filari di agrumeti, nei porti mercantili, nelle fabbriche, nei cantieri edili, nelle sedi comunali, negli austeri gabinetti del Parlamento di Roma a pochi passi dalle stanze vaticane. Forse è più corretto dire che si è messa in atto una flessibile opportunità al servizio di una convenienza spesso assai mal celata. Probabilmente la Chiesa scelse di non affrontare di petto una organizzazione che di fatto in Sicilia, costituisce da tempo immemore la massima espressione di potere, perché sfidandola avrebbe messo a repentaglio l’appoggio del vasto numero di fedeli che a quel potere si allineavano, nonché la difesa dei propri interessi. Compì la sua esecrabile e drammatica scelta in funzione di garantirsi il mero controllo del proprio territorio, con l’alibi spirituale a mascherare il tornaconto materiale.
Una malleabilità verso il potere drammaticamente già nota
Una caratteristica già sperimentata nella storia mondiale dell’istituzione ecclesiale, soprattutto nei confronti di quei governi che avrebbero dovuto trovare la Chiesa in prima linea come feroce oppositrice ma che in realtà hanno preferito mantenere un “salutare silenzio”, solo perché si mostrava disponibile ad accogliere, come proselitismo di Stato, i valori della tradizione cattolica. Solo per citare alcuni esempi a noi geograficamente vicini, era accaduto in Germania durante l’ascesa del Nazismo, e in Italia con la dittatura Fascista. Gli episcopati tedeschi, italiani ed in misura ancora più grave la stessa Santa Sede, non opposero adeguata resistenza dinanzi alle espansioni belliche di Hitler e Mussolini, alle leggi razziali ne alla soluzione finale ebraica.  Venne consentito il soppiantamento di qualsiasi forma di istituzione democratica in luogo di regimi totalitari e dittatoriali che adottarono la violenza sistematica nell’applicazione del loro potere.
L’obbiettivo, fu salvaguardare l’unità e la moralità dei cattolici, al cospetto del incalzante e “demoniaco materialismo socialista e comunista”. La Chiesa non si schierò con fermezza al fianco di chi si contrapponeva a quei regimi, mancando un appuntamento che avrebbe potuto mutare le sorti della storia. Essa non solo rimase alla finestra sin dai primi passi mossi dai Movimenti, ma si schierò ripetutamente al loro fianco una volta affermatisi. Una condotta immediatamente reinterpretata a conflitto ultimato, e decaduti i regimi prima sostenuti. Una esigenza atta a salvaguardare ancora una volta, il proprio credito ed il potere annesso. Una forza esercitata attraverso il tentativo di colorare la politica di quegli anni come una necessaria ed obbligata forma di neutralità da parte di chi si doveva occupare delle anime di tutti i cattolici. Indipendentemente dal fronte bellico in cui erano schierati.

Il tragico silenzio della Santa Sede dinanzi ai diritti umani violati
Una linea di condotta dei vertici della Santa Sede che alcuni storici motivarono con la sottovalutazione della pericolosità dei regimi in oggetto, fusa alla segreta speranza di assoggettarli ad una opera di conversione seguente alla loro salita al potere. Senza dubbi secondo la maggior parte degli studiosi, prevalse l’intento di preservare i propri interessi, nonché l’incolumità fisica degli ecclesiali. Un atteggiamento teso ad evitare un pericoloso scontro frontale che gli garantì la sopravvivenza, ma che al cospetto del Nazismo germanico, relegò la Chiesa ad inerte testimone della più grande atrocità pianificata che l’umanità abbia registrato. Lo scrittore tedesco e docente negli USA Guenter Lewy, autore nel 1964 de “I Nazisti e La Chiesa” (Saggiatore Editore 1995, Edizioni Net 2002), uno degli scritti più approfonditi e meticolosi nella ricostruzione storica dei rapporti tra Vaticano e stato Nazista, riassume in sintesi: ”…La Chiesa non può rimanere in silenzio quando i diritti umani fondamentali sono violati, e deve spontaneamente farsi carico di sollevare in tempo le coscienze dei propri seguaci. Questo non accadde nella dovuta misura ne a Berlino ne a Roma durante i giorni bui del Terzo Reich…”.
Una grave mancanza replicata anche nelle relazioni con il potere mafioso, dove la Chiesa ha osservato un imbarazzante silenzio in presenza di un ampio ventaglio di diritti umani violati.
Una cecità che si spera in definitiva regressione
Un movente storico, quello del contrasto a socialismo e comunismo, che suggerì anche alla Chiesa siciliana prese di posizione discutibili e condannabili. Come il chiudere gli occhi su stragi di lavoratori, donne e bambini ad opera di mafiosi, come accadde in vari centri rurali durante i moti dei Fasci Siciliani sul finire dell’800, e a Portella della Ginestra il 1° maggio del 1947. Un elenco di vittime che nei decenni ha visto leader socialisti, comunisti, sindacali, e semplici operai, stroncati da una violenza mafiosa “odorante d’incenso”, colpevoli di lottare a favore di diritti, libertà e giustizia nei luoghi di lavoro. Non fu, infatti, un caso se tutte le organizzazioni cattoliche, dai vertici papali ai più piccoli prelati di paese, si mobilitarono in quegli anni, in una forte campagna politica in favore della Democrazia Cristiana, nuovo referente politico religioso schierato a difesa della cristianità nazionale e degl’interessi vaticani.
Fu proprio grazie all’egemonia della Democrazia Cristiana sul fronte politico nazionale e siciliano che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, fu firmato ufficialmente dal partito dei cattolici italiani, questa sorta di concordato informale e quasi doveroso con il potere mafioso. Un legame con la DC che per oltre 40 anni, ha rappresentato la massima espressione di potere politico colluso a Cosa Nostra. Un lungo filo che collegò mafia, chiesa e politica e che oggi sembra apparentemente reciso.
Non vorremmo però che anche questa nuova condotta dell’istituzione religiosa, fosse il risultato di una nuova conversione dettata dalla nuova trasformazione culturale e politica di un epoca.


Omertà e uso ambiguo della menzogna
Il codice d’onore mafioso stabilisce, inoltre, che non si dovrebbe mentire agli altri affiliati, indipendentemente se questo appartenga o meno alla medesima Famiglia. Una menzogna in quel senso, se scoperta, può condurre l’uomo alla morte. In osservanza però a quel regime di ambiguità, che detta legge in seno a Cosa Nostra, una bugia ben travestita, può anche rappresentare una via efficace per la lotta di potere in seno all’organizzazione.
Anche se le nuove tecnologie a disposizione delle forze dell’ordine hanno evidenziato aspetti sino ad oggi sconosciuti di Cosa Nostra, non può sorprendere che gli uomini d’onore siano straordinariamente bravi nel restare nell’ombra. Esattamente come i loro predecessori della metà ‘800, trovano esemplare e costante applicazione tutti i dettami della tradizionale liturgia dell’omertà mafiosa. Essi prediligono “non dire nulla a nessuno che non sappia già di cosa si sta parlando”. Si esprimono in codice, per mezzo di allusioni, porzioni di frasi, sguardi e silenzi.
Il giudice Falcone constatò come : “…L’interpretazione dei segni, dei gesti, dei messaggi e dei silenzi costituisce una delle attività principali dell’uomo d’onore”. Uno stile di vita che lo stesso Tommaso Buscetta commentò in questo modo: “…In Cosa Nostra c’è l’obbligo di dire la verità, ma c’è anche molta riservatezza. E’ la riservatezza, il non detto che imperano come una maledizione irrevocabile su tutti gli uomini d’onore. E rende profondamente falsi, assurdi, i rapporti…”. La decisione di collaborare con la giustizia da parte del “Boss dei due mondi”, rappresentò un frangente spartiacque nei rapporti tra magistratura e cosidetti “pentiti”. Prima di allora la diffidenza verso queste figure era totale. Da quel momento, seppur con l’immancabile corredo nazionale di accese e strumentali polemiche, le informazioni che sono giunte dall’interno di Cosa nostra hanno costituito la base per una lunga serie di vittorie giudiziarie. Ma non solo. Attraverso i “pentiti”, definizione letteralmente inesatta, perché pochissimi sono stati gli uomini d’onore che si sono realmente dissociati dalla cultura mafiosa, sono giunte una miriade di informazioni che hanno consentito di decifrare un codice di comportamento ancora incredibilmente oscuro solo trenta anni or sono. Un meticoloso lavoro di studio, ricerca e investigativo, possibile solo grazie alle conoscenze umanistiche di Giovanni Falcone e, a quelle dell’amico e magistrato Paolo Borsellino che, come autentici pionieri, inaugurarono una nuova pista in quella terra di frontiera che risultava essere la lotta antimafia tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80.

In nessun altro paese
A queste barriere le forze dell’ordine hanno dovuto sommare il generale terrore che da sempre tormenta coloro che a contorno dei reati di mafia, sono chiamati a testimoniare o collaborare. Il comune cittadino spesso dichiara di “non aver visto ne sentito”, trovando con difficoltà il coraggio di parlare. La paura di vendette e ritorsioni, per se e per i familiari, prende sovente il sopravvento. Egli conosce il potere dell’azienda mafia e la sua capillare rete d’informazione nel territorio, in grado di risalire sempre ai nomi di “chi non ha taciuto”, e la loro crudele e violenta reazione. I moltissimi cittadini onesti di Sicilia che della Mafia vorrebbero liberarsi, si ritrovano menti e braccia incatenate ad un sistema che si fa forza anche della diffusa percezione di uno Stato impotente ed incapace di garantire il rispetto della legalità. Per gli stessi motivi, tanti procedimenti giudiziari sono evaporati nel nulla perché l’iniziale testimone decide all’improvviso di ritrattare: a volte perché corrotto, più frequentemente perché minacciato. In questo senso, la storica sentenza del Maxi Processo del 1987, dove per la prima volta lo Stato condannava Cosa Nostra nel suo insieme, grazie all’inestimabile lavoro del pool antimafia di Palermo, è divenuta patrimonio e simbolo per l’intero paese, travalicando i confini puramente giuridici. Deve però indurre una profonda riflessione constatare come la più grande vittoria del paese sulla mafia, appartenga alla nostra storia modernissima e quasi contemporanea. Una considerazione quale viatico ad un dolore che ci penetra nell’anima al pensiero di non poter stringere tra noi coloro che furono i massimi artefici di quel successo: ancora Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
I due magistrati erano amici di lunga data e infaticabili compagni di lavoro. Uniti dal medesimo terribile destino, vennero entrambi lasciati soli dalle istituzioni un attimo prima di finire dilaniati dal tritolo mafioso cinque anni più tardi nell’estate del 1992, a poche settimane di distanza l’uno dall’altro. Pagine di sangue che come già citato, ancora reclamano piena luce e giustizia.
Una rabbia e frustrazione indicibili ci assalgono nel prendere atto che questo sarebbe stato possibile in nessun altro paese che voglia definirsi autenticamente civile e democratico.
Falcone e Borsellino: nel loro nome la fede nella giustizia
La stagione del pool antimafia di Palermo ha segnato un’epoca gloriosa per l’affermazione della legalità, ma decisamente troppo breve. Ciò nonostante da essa è scaturita una rinascita nazionale dell’antimafia a tutti i livelli. Generazioni di magistrati ed investigatori hanno fruttuosamente tracciato la propria attività traendo spunto da metodi e conoscenze di quel gruppo di lavoro. Ma l’eredità più importante di quella fase storica alberga nel risveglio collettivo delle coscienze. Decine e decine di associazioni sono sorte per promuovere tra la gente comune e d i ragazzi in particolare, la consapevolezza nazionale che la mafia è un autentico cancro culturale.  La Mafia oggi esiste, non è più una sfumatura di folclore, un fenomeno soggettivamente classificabile al bisogno. Lo afferma lo Stato dalle sue sedi. La Chiesa dai pulpiti. L’intera società civile e persino l’imprenditoria ha avviato l’esclusione, dalle proprie associazioni, dei loro iscritti che pubblicamente non denunciano gli episodi di estorsione. Una goccia nel mare delle connivenze affaristiche, ma stilla preziosa e significativa. Eppure nonostante tutto, ogni giorno ci accorgiamo di come le complicità proseguano nell’ombra, dalle stanze di potere come al tavolo di un bar di provincia.
Nell’incrollabile fede nella giustizia e nella verità di persone straordinarie come Falcone e Borsellino la lotta deve proseguire, e mai come ora è importante che l’Italia si identifichi senza tentennamenti in chi come loro ha costituito un esempio tangibile di quanto la criminalità organizzata sia anch’essa un fenomeno umano e quindi vincibile.
E’ fondamentale compiere uno sforzo per comprendere cosa sia la mafia, quali siano le sue dinamiche, le sue regole, le connivenze e gli interessi che gli consente di sopravvivere ad oltre un secolo e mezzo dalla sua comparsa.
Un tentativo che passa obbligatoriamente dall’apprenderne la storia, la medesima che ci auguriamo un giorno, possa veramente e finalmente annotarne la fine.


Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – “Prologo e Introduzione”


 

DotNetNuke® is copyright 2002-2024 by DotNetNuke Corporation