Una politica dilaniata dagli scontri
Il rapporto spedito dal dottor Gaspare Galati al ministero degli Interni nel 1875, relativo al racket sul mercato degli agrumi impiantato dalla mafia dell’Uditore nei dintorni di Palermo, venne inserito in un più ampio carteggio e consegnato a quella che sarà la prima commissione parlamentare d’inchiesta sull’ordine pubblico dello Stato italiano. La commissione avvierà il suo iter nell’estate del 1875, per chiudere i lavori nel gennaio del 1877. Nel corso di questa fase, la vita politica del paese venne attraversata da un furente scontro che finì per favorire lo sviluppo della mafia invece che combatterlo.
Il primo quindicennio dall’Unità d’Italia aveva visto al potere un ampio schieramento di Destra sostenuto da proprietari terrieri conservatori originari del Settentrione. Un fronte che aveva centrato la propria azione politica con una dura battaglia verso ogni moto antiunitario, orchestrando una serie di campagne repressive e sanguinarie. All’opposizione, si era collocata una coalizione forse ancor meno compatta che si definiva di Sinistra, promulgatrice di una maggiore democrazia sociale e favorevole ad una spesa pubblica più ingente, con i propri baluardi dislocati nel Meridione d’Italia ed in Sicilia. All’avvio dei lavori della commissione d’inchiesta, la Destra di Governo si trovava in forti difficoltà, ed il “caso Sicilia” costituiva una delle ragioni di più acuta sofferenza. Ben quaranta su quarantotto collegi dell’isola, erano sfuggiti al controllo elettorale della Destra nel corso delle elezioni svoltesi nel novembre del 1874. La politica fiscale “centrista” veniva descritta come una delle cause, ma la compagine di Governo attribuiva la sconfitta in Sicilia, allo spostamento a Sinistra di un gran numero di voti controllati a suo parere da corrotti che minacciavano l’unita del paese, e che si facevano forza dei criminali mafiosi per rastrellarli. L’accusa non era di per sé senza fondamento. In un contesto dove solo il 2 per cento della popolazione aveva diritto al voto, per conquistare un seggio in Parlamento bastavano poche centinaia di consensi. Un obbiettivo, che la nobiltà di spicco attigua alla mafia e avversa al potere centrale, colse in serie senza sforzi. A rivoltarsi contro la forza di governo però, furono anche molti proprietari terrieri che vittime reali della mafia, erano stanchi di ascoltare promesse di legalità mai esaudite. Pur con difficoltà, nel 1874 la Destra si aggiudicò la tornata elettorale, ma nel dopo elezioni l’attacco ai parlamentari siciliani non si fece attendere. Cavalcando la propaganda antimafiosa, su di essi piovvero denunce per le presunte collusioni con i criminali di cui avrebbe beneficiato la Sinistra. A sostegno delle accuse, un rapporto che poneva in evidenza l’insostenibile livello raggiunto dalla criminalità in Sicilia. Una statistica sulla distribuzione dei delitti nel paese regione per regione, riportò che nel corso del 1873 in Lombardia si era assistito ad un omicidio ogni 44674 abitanti, mentre nell’isola si registrava un assassinio ogni 3194 cittadini. La mafia veniva definita “presente” in tutta la Sicilia Occidentale ed in diverse città di quella Orientale, tra le quali spiccava Messina e non casualmente, vista l’importanza del suo porto nel commercio internazionale degli agrumi. Se le relazioni dei prefetti divergevano in merito alla presenza o meno di un unico cartello mafioso o di più organizzazioni concorrenti, allo stesso modo non concordavano sulla misura fornita dal modo di pensare siciliano al radicamento della sua cultura criminale. La gran parte dei funzionari pubblici era però allineata nel ritenere che l’essenza del potere mafioso si sostenesse sul racket dell’estorsione, sulla minaccia dei testimoni, e sul arruolamento degli affiliati in ogni ceto sociale. A sostegno dell’analisi sul diffondersi del fenomeno mafioso, si attinse a piene mani persino nel materiale redatto da testate giornalistiche straniere quali il “Times”. Attraverso i resoconti del suo inviato a Roma, il giornale aveva riportato ai lettori inglesi il seguente quadro della situazione siciliana:”…La mafia era una setta intoccabile la cui organizzazione è altrettanto perfetta di quella dei gesuiti o dei massoni, e i cui segreti sono ancor più impenetrabili…”.
Nella sostanza la manovra della Destra mirava a consolidare nell’opinione pubblica, l’immagine di una mafia dilagante e onnipresente, anche grazie all’azione di una Sinistra quale sua fraterna sodale. Un tentativo probabilmente destinato alla riuscita, se non si fosse scontrato con le ombre di un passato troppo recente da cancellare. (1)
Battaglia in Parlamento
In un contesto sociale e politico quale era la Sicilia di quel tempo, dove spesso risultava impossibile distinguere ruoli e schieramenti, chiunque era a conoscenza di episodi nei quali la mafia aveva dettato un ruolo da protagonista. Eventi da ascrivere nell’agenda di ogni fazione politica. Nell’orchestrare questa strategia a metà strada tra la propaganda e la denuncia, i parlamentari di maggioranza peccarono di profonda ingenuità, ed esposero il fianco alla più prevedibile delle contro offensive. Ben consci di come nessuno potesse sventolare una immacolata illibatezza da appoggi mafiosi, e tanto meno coloro che da oltre dieci anni detenevano il potere nell’isola, alla Sinistra bastò riesumare trascorsi altrettanto compromettenti, e affidarli alla memoria di un testimone credibile ed autorevole. L’asso nella manica portava il nome di Diego Tajani, ex procuratore della Corte d’Appello di Palermo tra il 1868 ed il 1872, lungamente nelle file della Destra, ora parlamentare all’opposizione.
La figura di Tajani conquistò la ribalta dalla cronaca siciliana, quando a Palermo nel 1871, nella sua veste di procuratore si scagliò niente meno contro il questore della città Giuseppe Albanese. Lo scontro istituzionale fu clamoroso, e lo scalpore amplificato dal capo d’accusa: corruzione mafiosa. Una volta al cospetto della legge, il questore venne assolto per mancanza di prove. L’amarezza per ciò a cui aveva assistito, indusse Tajani a lasciare la carica e la città, per intraprendere la carriera politica nella Sinistra. Un uomo quindi, perfettamente a conoscenza di tutti i retroscena delle attività di governo in Sicilia, ma sino ad allora reticente nel illustrare i metodi non sempre cristallini con cui si gestiva l’opera dello Stato nel Mezzogiorno. La colma raggiunta dalla presunta integrità morale di cui tanto la Destra spocchiosamente si vantava, era divenuta insostenibile.
Nel corso di una seduta infuocata del Parlamento datata giugno 1875, Tajani aprì il suo intervento con una tagliente affermazione rivolta a 360 gradi, ivi compresi i propri compagni dell’opposizione, e sostenne che “…negare la presenza della mafia, significa negare il sole…”. Proseguendo, rese pubblico come a seguito dei moti del “Sette e Mezzo” del 1866, la Destra aveva spinto le autorità di polizia a cooperare con la mafia. Nel corso del dibattito che doveva discutere su una serie di proposte di riforma legislative nella lotta alla criminalità, l’ex procuratore affondò la lama e attraverso un resoconto denso di precisi riferimenti, dimostrò che la stessa Destra nel corso delle campagne repressive degli anni precedenti, si era avvalsa della collaborazione mafiosa per scovare i sovversivi rivoluzionari antiunitari, ma non solo. Le autorità incalzava Tajani, si avvalevano di nobili ex borbonici quali mediatori per raccattare voti e consensi, ed inoltre, consapevoli di come un simile interlocutore reclamasse sempre una contro partita, si impegnarono ad assicurare alla giustizia esponenti delle cosche rivali ai mafiosi “collaboranti”. La sequela di denunce non si arrestava: svariati gli episodi in cui pubblici ufficiali agirono in sintonia con bande criminali oppure, sorretto dalla esperienza personale, esempi di funzionari pubblici corrotti dalla malavita che una volta accusati sfuggirono alla giustizia grazie a magistrati loro complici.
In aula scoppiò il finimondo e nel corso di una bolgia feroce farcita di insulti e grida, Tajani venne aggredito fisicamente da un parlamentare avverso poi strattonato a forza fuori dalla Camera. La seduta venne sospesa. Il giorno seguente ripresero i lavori, e a sigillo del suo intervento egli concluse: “La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale”. Altre accese proteste seguirono senza giungere agli eccessi del giorno prima. Una volta calmatesi le acque, il danno alla manovra della Destra era compiuto, in quanto era ormai evidente che nessuno schieramento poteva arrogarsi l’esclusiva antimafiosa. La Destra fu gioco forza costretta ad abbassare i toni. Il compromesso finale fu l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, e come spesso accadrà in svariate occasioni nel corso del secolo seguente, tali organismi sanciranno l’arenarsi di un reale percorso di giustizia in luogo di intrighi politici, ambiente ideale da cui la mafia trarrà immenso beneficio. (2)
Il viaggio della “Commissione Parlamentare”
Nell’inverno tra il 1875-76, i nove membri incaricati dalla commissione parlamentare, intrapresero il loro viaggio per accertare lo stato delle cose in Sicilia. Ogni città dell’isola celebrò loro una festosa accoglienza, condita da bande musicali, cortei di benvenuto, e ospitalità nei migliori alberghi. I palazzi comunali furono la sede di moltissimi incontri ed interviste con i tanti giornalisti al seguito. Ben presto si manifestò il filo conduttore di questi appuntamenti, e molti senatori e deputati s’impegnarono a circoscrivere il fenomeno criminale, affannandosi a colorarlo: “…Ma che cos’è questa maffia?...Io dico anzi tutto che ci è una maffia benigna. La maffia benigna è quella specie di spirito di braveria, quel non so che di disposizione a non lasciarsi soverchiare, ma piuttosto soverchiare…Dunque maffioso benigno per dir così potrei essere anche io, io non lo sono, ma insomma lo può essere anche qualunque persona che si rispetti.” Meno “benigno” fu l’apporto fornito dalla testimonianza di avvocati, poliziotti, politici locali e soprattutto comuni cittadini che descrissero la quotidiana violenza e forza espressa della mafia. Il quadro d’insieme delle deposizioni raccolte lungo il viaggio, allargò il piano di conoscenza del fenomeno, ma accrebbe lo stato di confusione al suo intorno.
Il carteggio ufficiale dell’inchiesta non venne mai pubblicato. Quando all’inizio del 1877, la commissione parlamentare fu tenuta a presentarne le conclusioni, l’alleanza di Destra si era già dimessa. La seduta della Camera si tenne al cospetto di un aula semi deserta, perfetta esemplificazione di un evaporato interesse verso la comprensione reale della criminalità mafiosa da parte dell’intero Parlamento. Il testo del rapporto finale disegnava un ritratto sbiadito della mafia definendola come una “solidarietà istintiva, brutale, interessata, che unisce a danno dello Stato, della legge e degli organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che preferiscono trarre l’esistenza e gli agi, anziché dal lavoro, dalla violenza”. Anziché elaborare la denuncia di Tajani quale “strumento di governo locale”, la commissione pensò bene di chiudere la questione descrivendo la mafia come una accozzaglia di miseri, disonesti, e fannulloni nemici dello Stato. (3)
Alla scoperta della “Maffia”
Una tale e riduttiva chiave di lettura non colse tutti di sorpresa. All’interno degli ambienti intellettuali una simile conclusione era talmente prevedibile, che vi fu chi decise di approfondire per conto proprio la conoscenza della “cosa mafiosa”, ancor prima della fine dei lavori della commissione.
Leopoldo Franchetti e Giorgio Sidney Sonnino erano due professori universitari toscani poco più che trentenni. Entrambi in possesso del titolo nobiliare di barone e di origine ebraica, erano esponenti di una Destra storica ma attenti alle problematiche umanistiche e sociali. Ad una formazione politico economica più tradizionale, fusero indirizzi filantropici tesi a comprendere le evoluzioni in seno al giovane Stato appena nato. Molto presto al centro della loro curiosità si pose l’intera “Questione Meridionale“, il cui fulcro era la Sicilia e l’ombroso alone di mistero che la circondava. Ad attrarli un territorio praticamente sconosciuto, lontano, noto soltanto per le notizie relative ai crimini efferati. Una miriade di racconti dai quali con fatica si scindeva la realtà dalla leggenda. Tutto quanto ruotava attorno al termine “mafia” o “maffia” poi, costituiva uno dei capitoli più accattivanti da approfondire. All’inizio del 1876, i due studiosi decisero di intraprendere un viaggio verso il Sud del paese con l’obbiettivo di raggiungere e attraversare in lungo e in largo la Sicilia. Essi desideravano conoscere da vicino quella realtà, e poco importava cha la pomposa commissione parlamentare dovesse ancora rilasciare le sue conclusioni. In loro era maturata una profonda sfiducia sull’esito dell’inchiesta, che avvertivano istituita con il fine primario di sedare l’indignazione pubblica al cospetto di una politica trasversalmente collusa al crimine in modo palese.
Al loro ritorno Franchetti e Sonnino, pubblicarono un libro inchiesta suddiviso in due parti su quanto avevano conosciuto nel corso del loro viaggio. Nella prima, Sonnino si sofferma sulle condizioni di vita dei contadini senza terra, e dei minatori delle zolfare; nella seconda, intitolata “Condizioni politiche e amministrative della Sicilia”, Franchetti offre uno straordinario spaccato di quanto servirebbe sapere per affrontare in modo efficace la questione mafiosa. Una analisi socio politica e culturale di alto spessore, ancora oggi considerata tra le migliori mai scritte sul complesso contesto siciliano. Un testo che sarà di riferimento per la comprensione del fenomeno mafioso, persino per Giovanni Falcone un secolo più tardi. (4)
Il viaggio di Franchetti e Sonnino
I preparativi al viaggio seguirono uno spirito da autentici avventurieri. L’equipaggiamento da viaggio includeva carabine a ripetizione, pistole di grosso calibro e persino bacinelle di rame, che una volta riempite d’acqua, avrebbero funto da supporti per le gambe dei letti da campo: un accorgimento per impedire agli insetti di risalire i giacigli nel sonno. Consci di come soprattutto nelle zone più interne, i collegamenti erano spesso privi di strade, optarono di viaggiare per lunghi tratti a cavallo, scegliendo con cura l’itinerario dei sentieri sul posto, per sfuggire alle bande di briganti. Potevano sembrare misure esagerate, ma in particolare Franchetti era tutt’altro che uno sprovveduto al riguardo, avendo già compiuto esplorazioni analoghe nel sud Italia continentale un paio di anni prima. Ciò nonostante, la realtà che apparve ai loro occhi generò un forte impatto. Aldilà dei disagi e dei pericoli distanti anni luce dalle soffuse atmosfere dei salotti universitari, i due uomini attraversarono terre dove gran parte della gente parlava esclusivamente dialetti incomprensibili. Difficoltà che non gli impedirono di descrivere quei luoghi di incantevole bellezza naturale, territori tempestati dai gioielli architettonici lasciati in eredità da greci e romani. Un paesaggio addolcito dagli agrumeti e vigneti e dal loro intenso profumo che si liberava nell’aria. Un aroma che, preso atto del contesto in cui maturava, non esitarono a definire “che profumava di cadavere“.
La loro fotografia si addentra nella cultura sociale siciliana, esaltando la generosità della gente semplice, ma affondando i colpi contro le radici di una industria malavitosa che sfruttava la povertà, l’arretratezza e l’analfabetismo, per trasformarli in braccio armato di un sistema ben più elevato. Attraverso l’incontro con decine di contadini e braccianti, tracceranno un studio disastroso del livello di miseria nel quale annaspavano senza speranza di riscatto, migliaia di famiglie. Un intero capitolo della loro inchiesta verrà dedicato al vergognoso sfruttamento dei Carusi nelle zolfare. Eppure, pur avvolti in partenza da una cognizione alquanto confusa della mafia, comprenderanno ben presto quanto lo sviluppo dell’industria della violenza sia direttamente proporzionale al progresso economico dell’area. Migrando di provincia in provincia, prenderanno contatto con le manifestazioni più variopinte della mafia. Da Caltanissetta ad Agrigento fino a Palermo, fu un susseguirsi di episodi di vendette trasversali tra bande, commissari incapaci di scovare assassini causa l’omertà diffusa, pubblici ufficiali notoriamente corrotti ma costantemente al loro posto in quanto protetti dal potente di zona. Essi affermano che “la classe dominante è portata fatalmente a proteggere i malfattori…e si compone della gente in Europa più gelosa dei privilegi e della potenza che dava, in Sicilia ancora più che altrove, la ricchezza; più appassionatamente ambiziosa di prepotere; più impaziente nelle ingiurie; più aspra nelle gare di potere, d’influenza e anche di guadagno; più implacabile negli odi, più feroce nelle vendette”. 5 Nessuna di queste espressioni del fenomeno raggiunse però il livello di organizzazione sistematica ed endemica, che individuarono nell’area degli agrumeti circostante Palermo, guarda caso all’interno di una delle regioni più economicamente evolute di tutta Europa. Una industrializzazione del crimine che aveva radici temporali lontane.
Tra le porzioni più significative del resoconto finale di Franchetti e Sonnino infatti, uno spazio importante è riservato all’analisi socio culturale sulle origini della mafia. (6)
L’industria della violenza quale “capitale” da investire
La ricostruzione prende il via dal 1812, quando gli inglesi occupanti la Sicilia nel corso delle guerre napoleoniche, intrapresero l’abolizione del feudalesimo. La struttura feudale prevedeva che il re assegnasse possedimenti terrieri a nobili e discendenti. In cambio il nobile, in caso di necessità metteva a disposizione del sovrano il proprio esercito personale. All’interno dei limiti del feudo, l’unica legge riconosciuta era la parola del nobile. Sino all’abrogazione del feudalesimo, la Sicilia vide la propria storia attraversata da un susseguirsi di monarchi stranieri in continuo attrito con i baroni feudali di turno. I primi premevano per aumentare il proprio potere, i secondi per garantirsi una autonomia di potere sui terreni. Contesa che spesso vedeva i secondi avere la meglio, in quanto la conformazione montagnosa di molte aree dell’isola, con relative difficoltà di comunicazione, obbligava i re a delegare gran parte del potere al nobile del feudo. I privilegi dei baroni si dimostrarono però difficili da cancellare. L’abitudine da parte dei vassalli di baciare la mano del nobile, venne formalmente abolita solo da Garibaldi dopo il 1860. Il “bacio le mani” quale saluto a volte stereotipo siciliano, era destinato a preservarsi ancora per molti decenni. Stessa sorte per il titolo ”Don”, ereditato dalla dominazione spagnola, ma utilizzato tuttora all’indirizzo di persona di un certo rilievo sociale. Aldilà del laborioso sradicamento di queste usanze, peraltro diffuse tra tutta la popolazione e non solo tra i mafiosi, la fine del feudalesimo introdusse la possibilità di compravendita dei terreni. Un possedimento ora poteva cambiare padrone grazie al denaro e non attraverso la sola eredità tra i successori. Per acquisire delle proprietà occorre quindi investire, un passaggio economico chiave nel destino dell’isola, che assisteva così all’approdo del capitalismo. Una evoluzione che si scontrava subito con un grave problema, in quanto un qualsiasi investimento necessità di una autorità in grado di proteggerlo. Nessuno investe in un contesto in cui la violenza può minacciare beni appena comprati. Posto fine al feudalesimo tocca ora al potere superiore di uno Stato garantire tale sicurezza, il rispetto delle leggi, la pena per i criminali. Secondo Franchetti e Sonnino, la mafia prolificò perché dopo il 1812 nessun potere superiore riuscì ad imporre uno stato di regole. I baroni infatti, continuavano a spadroneggiare localmente, arrivando ad piegare al suo volere poliziotti, tribunali e funzionari del potere centrale. Ad aggravare il disgregamento del sistema di regole, contribuì il fatto che non furono solamente i baroni a sentirsi autorizzati ad applicare il proprio potere con la forza. Altri figuri in possesso di violenza e spregiudicatezza, colsero al volo la possibilità di guadagnarsi un proprio spazio. Briganti e bravi di varia provenienza inizieranno ad imperversare per le campagne, ottenendo rifugio da proprietari terrieri a volte sodali, in altre loro vittime. Perfino i gabellotti, fedeli amministratori dei poderi un tempo, si organizzarono con proprie bande di uomini armati a tutela dei propri interessi.
Quando lo Stato insediò le proprie istituzioni ed i tribunali, questi finirono stretti nella morsa caotica di potenti locali in grado di assoggettarne le decisioni con la violenza e al proprio servizio. Franchetti inquadrò una Sicilia in preda ad un mercato così violento, che i confini tra economia, politica e criminalità apparivano indefiniti. Chiunque desiderasse avviare una attività, non poteva affidarsi ad uno Stato centrale quale garante di protezione per beni e persone. L’uso della violenza, per difendersi o aggredire, era importante al pari della disponibilità economica da investire. Anzi secondo i due studiosi, la violenza era lei stessa divenuta un capitale da investire. I mafiosi divengono veri imprenditori nel mercato della violenza, e se ben amministrata la società è in grado di garantire enormi profitti alternando l’uso della forza per indurre al bisogno di protezione, o per imporre condizioni di monopolio.
In definitiva agli occhi di Franchetti, un uomo che in Sicilia ambisse ad esercitare la professione di commerciante o politico, non aveva altra possibilità che divenire abile con le armi in prima persona o circondandosi di un proprio esercito privato, o più probabilmente, acquistare la protezione da chi la violenza la praticava per mestiere, cioè da un mafioso. (7)
Una testimonianza inascoltata
L’aspetto che più deve far riflettere è che Franchetti e Sonnino, semplicemente mossi da curiosità scientifica di studiosi, raggiungeranno le stesse conclusioni illustrate da un lungo elenco di atti ufficiali resi pubblici molti anni dopo, documenti a loro completamente sconosciuti. Non può sfuggire come la medesima chiave di lettura elaborata nella loro analisi delle origini della mafia, sia perfettamente in linea con la ricostruzione da noi riportata nei capitoli precedenti, tesi estrapolata da testi pubblicati in epoche di parecchio successive il loro viaggio in Sicilia.
Alla sua presentazione “Condizioni politiche e amministrative della Sicilia”, susciterà polemiche e invettive da parte della nobiltà siciliana e dei politici ad essa legati, che giudicarono il testo rigonfio di errori e pregiudizi. Il resto del paese che conta non si discostò nel giudizio e ne restò quasi indifferente.
Come vedremo tra breve in quello stesso frangente, la vita politica italiana registrò un cambio al vertice, ed il nuovo governo era guidato da una coalizione di Sinistra. I noti e mai sopiti attriti del nuovo esecutivo con la Destra storica risalenti al recente “caso Tajani”, a cui i due professori erano storicamente fedeli, concepì quei fenomeni di campanilismo ideologico tipicamente italici, capaci di affossare l’analisi nel merito delle questioni. Del resto nemmeno gli esponenti della stessa Destra, erano disposti di accettare di buon grado un rapporto che illustrava la loro manifesta incapacità di interpretare il fenomeno mafioso. I più esposti colsero al volo l’occasione di etichettare come presuntuosi, due semplici insegnanti che osavano affermare come “basterebbe agire d’accordo per tre giorni per far sparire dall’isola l’industria della violenza” 8, asserzione di certo riduttiva, che non sappiamo quanto provocatoria o indotta da una visione parzialmente distorta della situazione.
Oltre agli interessi di parte infatti, la relazione non conquistò consensi anche a causa dell’impronta marcatamente autoritaria fornita da Franchetti. Egli non nascose di ritenere la quasi totalità dei siciliani gravata da una deviata scala dei valori, sostenendo che essi attribuissero alla violenza un “valore morale”, incapaci di ritenere l’onesta come una virtù. Franchetti era convinto che molti abitanti dell’isola cooperassero con i mafiosi, e non loro vittime.
Aldilà di ogni commento sulla natura dell’insuccesso, un grande rammarico maturò nell’assistere ad una delle testimonianze sulla industria della violenza mafiosa meglio redatte del XIX Secolo, rimanere senza sbocchi per molti anni.
Leopoldo Franchetti venne eletto alla Camera in seguito, ma non vide decollare la propria carriera. L’immenso e sincero amor patrio, lo indusse al suicidio il 4 novembre del 1917, devastato emotivamente dalla tragica disfatta di Caporetto nella Prima Guerra Mondiale.
Sidney Sonnino riceverà l’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri per due brevi mandati nel 1906 e nel 1909, nonché quale Ministro degli Esteri nel 1914. Seguiranno altri ruoli diplomatici a livello internazionale prima della morte che sopraggiungerà il 22 novembre del 1922. (9)
La guida del paese passa di mano
Contemporaneamente al viaggio in Sicilia di Franchetti e Sonnino, e ai lavori della commissione parlamentare d’inchiesta per l’ordine pubblico nel Mezzogiorno, nel marzo del 1876 la guida del paese passo di mano ad una alleanza di Sinistra. I molti deputati siciliani eletti tra l’opposizione nel 1874, offrirono un contributo decisivo a questo storico passaggio di consegne. Un ruolo che trova conferma nelle elezioni del 1876 dove la Sicilia si rivela per la prima volta determinante anche sul piano nazionale: 43 deputati siculi su 48, vanno all’opposizione. 10
La Sicilia voltò quindi le spalle al governo di Destra, perché giudicato repressivo in ambito fiscale e accusato di aver “ dimenticato il mezzogiorno “, ma questo cambio di direzione non deve ingannare. In realtà l’intento della classe ex feudataria era di punire chi a Roma, appariva riluttante a stringere le alleanze di potere nella forma desiderata dai suoi referenti mafiosi. Questo passaggio avvenne attraverso il controllo dei voti che consentiva di eleggere gli uomini giusti da condurre in Parlamento. Come era già accaduto nel 1874 alle Regionali siciliane, la bassa percentuale di aventi diritto al voto, congiunta ad una alta astensione tra i votanti, consentiva di conquistare un collegio elettorale con relativo seggio parlamentare, grazie a poche decine di consensi. Aldilà di ogni giudizio di merito, la coalizione vincente di Sinistra manifestava un programma più confuso di chi l’aveva preceduta. La stessa vittoria matura attraverso l’investitura di parlamentari eletti in collegi uninominali praticamente privi di veri partiti politici, dove le candidature diventano l’espressione di accordi personali tra candidato ed elettore, tesi a promettere la risoluzione di quanto la Destra aveva disatteso. Inutile sottolineare come un simile contesto sprovvisto di una reale cultura politica, favorisse il controllo di molti voti da parte di coloro in grado di tessere in modo convincente quel genere di accordi.
Mostrando il suo volto beffardo, la storia registrerà la sconfitta della Destra a causa di quello stesso sistema da lei denunciato dopo le Regionali del 1874, tentativo che aveva a sua volta innescato la contro offensiva di Tajani e l’inizio della sua fine.
La Sinistra invece, si ritroverà a governare il paese e l’isola con i medesimi problemi irrisolti, dalla criminalità mafiosa in espansione, al banditismo, alla povertà dilagante, più uno: un folto numero di politici in Parlamento eletti con voti anche mafiosi. (10)
La sinistra al Governo
L’incarico di guidare il nuovo esecutivo viene affidato ad Agostino Depretis discepolo del Mazzini e affiliato alla “Giovine Italia”, il quale nominerà ministro degli Interni Giovanni Nicotera, anch’egli mazziniano ed ex combattente al fianco di Garibaldi. La situazione dell’ordine pubblico è talmente grave che Nicotera si troverà costretto ad utilizzare
gli stessi metodi adottati dal precedente esecutivo e criticati in campagna elettorale. Il 13 novembre 1876 viene rapito John Forester Rose, giovane dirigente di una impresa che amministrava una zolfara. Il “Times” si occupa del caso, esportandolo a livello internazionale. L’imbarazzo esce dai confini nazionali e Nicotera impone una repressione identica al passato. Nell’addentrarsi nella realtà siciliana comprende come l’influenza della mafia sui più potenti uomini dell’isola, sia ben più vasta di quanto immaginato. Il pugno di ferro viene abbracciato da molti prefetti della Sicilia, alcuni dei quali nominati direttamente dal ministro. Ciò a cui si assiste non costituisce una novità: il giro di vite porta con sé città in stato di assedio, arresti di massa, deportazione di sospetti, repressione violenta di chiunque venga giudicato un sovversivo, ma anche una polizia che per giungere a tali obbiettivi si accorda con una parte di criminali per sconfiggerne altri.
A differenza di quanto avvenuto nelle campagne per l’ordine pubblico di Destra, quella orchestrata da Nicotera pare sortire l’effetto sperato e ad un anno dal suo via, nel novembre del 1877, il ministro annuncia “una grande vittoria sui banditi e sul crimine“. In realtà per rendere governabile o quanto meno, esportabile in forma accettabile l’immagine dell’ordine pubblico in Sicilia, Nicotera scese a patti con i potenti del crimine isolano. A costoro chiese di tenere a freno gli aspetti più visibili del fenomeno senza intaccarne le radici. A conferma della buona riuscita di questa conciliazione, da decine di comuni giunsero lettere con attestazioni di stima e sostegno all’operato di Nicotera. L’autoritarismo con cui si propose a 360 gradi però, gli aveva creato il vuoto intorno, ed i leader del variopinto e poco compatto fronte di fazioni in seno alla Sinistra, intravidero in lui una minaccia e imposero la loro voce chiedendone le dimissioni. Circa un mese dopo l’annuncio della vittoria della Sinistra sul banditismo, Giovanni Nicotera sarà costretto a dimettersi.
Prima di essere silurato, nelle maglie della sua azione repressiva si erano incagliate diverse associazioni criminali di rilievo, e anche dopo l’abbandono del ministro degli interni, lo Stato proseguirà la sua battaglia contro di esse. I processi imbastiti proseguirono anche negli anni a venire e molte cosche furono bersagliate come gli "Stuppagghieri" di Monreale, i “Fratuzzi” a Bagheria, la “Fontana Nuova” a Misilmeri, la “Fratellanza“ di Favara. Tra numerosi episodi di corruzione che coinvolsero poliziotti e magistrati, gli esiti dei processi svariarono tra assoluzioni e condanne a morte, ma come denominatore comune emerse un fattore: gli esponenti di spicco che godevano di protezione politica erano certi dell’assoluzione.
Gli uomini d’onore avevano imparato che la forza e la spietatezza da mettere sul campo nel racket dell’industria della violenza, doveva crescere di pari passo alla capacità di creare un intreccio di legami e amicizie politiche che ne garantissero la sopravvivenza.
I sostanza in quegli anni i politici siciliani barattarono l’appoggio alla sinistra per ottenere il loro ingresso in parlamento. La mafia comprende di possedere un arma indispensabile per chiunque intenda governare: un serbatoio di voti da offrire in cambio della garanzia di conservare inalterato il suo potere locale, e di attingere nel flusso di denaro convogliato in Sicilia per lo sviluppo del Mezzogiorno. Essa ha imparato a non far distinzione di colore politico. Una raffinata evoluzione, per quel rango di uomini d’onore ancora definito da tanti “primitivo”. (11)
Il potere clientelare
Per poter comprendere al meglio la capacità della mafia di sfruttare la politica, occorre entrare nel merito di un malcostume non necessariamente mafioso e nemmeno peculiarità siciliana: il potere clientelare.
Viene definita così la “costruzione di clientele politiche”, ovvero un sistema che consiste nello scambio di voti per favori di vario genere. Figure della politica e dello stato, si impadroniscono di “risorse pubbliche“ ( dai posti di lavoro agli appalti, dalle licenze per porto d’armi alle pensioni e ai sussidi), e le utilizzano per il proprio sostegno o per gli interessi di specifiche altre persone. Un impianto che è sopravissuto sino ad oggi è ben vivo in realtà italiane e del mondo che nulla hanno a che fare con la mafia, ma che da questa verrà utilizzato per esteso e alla perfezione.
Il costo della gestione di questa rete di clientele, salirà di molto quando dal 1882 il diritto al voto si estende al 25% della popolazione maschile.
Occorre quindi più denaro per poter controllare più persone, e questo determina il dilagare della dissolutezza. A facilitare questi traffici partecipa la natura della vita politica italiana, dominata da una grande frammentazione all’interno degli schieramenti stessi. I governi di coalizione durano per brevi periodi e si distinguono delle minoranze politiche che svolgono il ruolo di ago della bilancia, in grado di fare la differenza per poter governare. I voti controllati dalle organizzazioni mafiose diventano una di queste minoranze, sia nei consigli comunali e regionali, come in parlamento. (12)
Raffaele Palizzolo
La classe politica italiana di fine ‘800, si popola di una nuova tipologia di figure, pronta a mettersi in evidenza per un altrettanto nuovo modo di “fare politica”. Raffaele Palizzolo ne è un esponente esemplare, e la sua rete di “ potere clientelare “, sintetizza alla perfezione l’essenza del potere mafioso sul territorio. Il suo centro politico ed elettorale era Villabate di Palermo, ma la sua area d’influenza raggiungeva i centri di Caccamo, Termini Imerese e Cefalù.
Appartenente alla classe nobile con il titolo di marchese, Palizzolo è un proprietario e affittuario terriero, nonché consigliere comunale e provinciale, e influente consigliere del Banco di Sicilia. All’elenco delle molte cariche che riveste, spesso parallelamente, occorre unire la direzione del fondo per l’assicurazione contro le malattie della Marina Mercantile, e la sovrintendenza del manicomio di Palermo. Ma Palizzolo sarà soprattutto deputato alla Camera per ben tre legislazioni consecutive e un convinto fautore della politica di Governo, chiunque fosse a governare.
La sua immensa abilità in affari e intrallazzi, si fondeva alla capacità di stringere amicizie e alleanze nel territorio, tessendo con assoluta spregiudicatezza una maglia fittissima di clientele.
Palizzolo riceveva le tante persone che a lui si rivolgevano per ricevere aiuti e favori nella sua fastosa dimora privata di Palazzo Villarosa. Incontri che spesso si svolgevano mentre il marchese era impegnato in attività personali come radersi, vestirsi o fare colazione. I suoi postulanti non mancavano di portare in offerta chi un capretto, chi vassoi di cannoli, chi mazzi di fiori. A lui si dirigevano studenti liceali o universitari, per farsi cancellare brutti voti in grado di macchiare la strada per una vincente carriera scolastica o professionale; delinquenti che chiedevano aiuto per ricevere quella raccomandazione in grado di riottenere il porto d’armi; pregiudicati che speravano in un freno alle pressioni di polizia e magistrati, o poliziotti e giudici che desideravano aiuto per trasferimenti o aumenti di stipendio; consiglieri comunali o funzionari pubblici che volevano promozioni o posti di lavoro per sé, per amici o parenti. L’onnipresente don Raffaele non si è mai preoccupato di curare una propria immagine di facciata, mostrandosi in pubblico scortato da bravacci e mafiosi, tanto smisurata era e da sempre, l’arroganza fusa alla ferma coscienza d’impunità.
L’On. Palizzolo sarà per molti anni il referente politico di un nutrito esercito di uomini d’onore coinvolti in un ampio spettro di reati, e a lui stesso, verranno addebitati in forma vera o presunta, un lungo elenco di misfatti come truffa, appropriazione indebita ai danni di enti di previdenza, falsa testimonianza e ovviamente, favoreggiamento nei confronti di mafiosi.
Attorno al suo atteggiamento benevolo e paterno, ruotava una grande porzione di quella che chiamiamo oggi società civile o pubblica. Un meccanismo regolato dallo scambio di queste concessioni con il voto e il sostegno politico, legittimando così quel potere da utilizzare per i suoi fini. Un così ampio spettro di cariche, gli rendeva possibile appagare o ricattare persone di ogni estrazione e professione.
Raffaele Palizzolo impersonava quel genere di sistema che una volta radicato allontanava la gente dallo Stato, imprigionandola in una condizione di sudditanza a chi allo Stato si sostituiva. (13)
Uno Stato privo di fermezza
L’Italia di fine ‘800 non è in possesso di quella fermezza necessaria a fronteggiare, vigilare e smascherare questi personaggi. I governi sono generalmente di breve durata, sostenuti da coalizioni frammentate, litigiose e impegnate in lotte intestine. I programmi degli esecutivi non riescono ad operare manovre strutturate per innescare sviluppo. L’ultimo decennio del secolo sarà segnato poi da una crisi economica e sociale di tali proporzioni, che il paese corre il rischio di sgretolarsi. Durante il 1892 le due più importanti banche del paese furono costrette alla chiusura. Qualche mese dopo la Banca Romana, uno dei sei istituiti abilitati ad emettere moneta, fu colta a falsificare banconote per svariati milioni di lire. In circolazione finirono le cartemonete con i numeri duplicati, mentre il denaro vero veniva utilizzato per finanziare la campagna elettorale di uomini politici. Una simile sequenza di crack finanziari, mise sul lastrico migliaia di risparmiatori. A causa della conseguente svalutazione della lira, le monete di argento e bronzo divennero bene prezioso da esportazione sparendo dal circuito nazionale, e nell’Italia settentrionale le associazioni di commercianti furono costrette a stampare una propria banconota fiduciaria. La disperata condizione di milioni di italiani generò disordini in ogni regione. Il gennaio del 1894, vide l’applicazione della legge marziale in Sicilia. Una decisione dalle drammatiche conseguenze: le campagne della regione vennero dilaniate da una cruenta lotta sociale con braccianti e operai in miseria e affamati, scagliarsi contro i proprietari terrieri. L’acuirsi degli scontri, indusse il governo a dichiarare illegittimo il Partito Socialista dentro al quale erano confluiti migliaia di lavoratori.
Il Governo presieduto dal primo siciliano alla presidenza del consiglio, Francesco Crispi, non trovò miglior soluzione alla crisi che lanciarsi in una disastrosa campagna coloniale in Etiopia. L’inutile impresa militare sembrò cadere vittima dell’unica conclusione possibile, e culminò con il massacro di Adua del 1 marzo 1896. Un corpo d’armata di 17000 uomini, composto da soldati italiani e indigeni del posto, venne soverchiato da un esercito di etiopici di oltre 120.000 soldati. Il nostro contingente venne colpito da oltre il 50% di perdite tra morti, feriti e prigionieri. La più tragica disfatta militare mai registrata da una potenza coloniale europea.
Nel suo continuo sprofondare, la crisi arriva a travolgere persino Milano, la capitale economica del paese. Nel maggio del 1898, nel capoluogo lombardo venne dichiarata la legge marziale nel tentativo di arginare i dilaganti tumulti. In uno dei vari interventi in cui l’esercito è chiamato per ripristinare l’ordine pubblico, per errore l’artiglieria colpisce un convento di cappuccini e provoca una strage: troveranno la morte oltre 80 persone, tra frati della comunità religiosa e mendicanti in cerca di un piatto di minestra.
Trenta giorni dopo i tragici fatti del capoluogo lombardo, la presidenza del consiglio viene affidata al generale Luigi Pelloux, un militare pluridecorato dalla lunghissima e gloriosa carriera nel Esercito di casa Savoia. La scelta di Re Umberto I cade su di un uomo dal pugno di ferro. Secondo la “Real Casa”, il momento il frangente è terribile e la monarchia rischia il tracollo. L’ultra conservatore Pelloux, da sempre fedele servitore del Re, ricambierà la fiducia non tradendo se stesso. Questi salirà alla storia per la durezza dei provvedimenti intrapresi dal suo governo. Egli limiterà la libertà di stampa, vieterà i sindacati nelle fabbriche, condannando al domicilio coatto sospetti senza processo. Misure assolutamente discutibili, ma viste con gli occhi del tempo erano azioni mirate a riportare l’ordine in una turbolenta fase di transizione. Tra le tante misure Pelloux decide di applicare la medesima fermezza anche nel combattere la corruzione in Sicilia e nomina sul finire del 1898 un nuovo questore a Palermo: Ermanno Sangiorgi. (14)
Il questore Sangiorgi ed il suo omonimo “Rapporto”
Sangiorgi era un uomo dalla condotta severa e professionista inflessibile. Egli trascorrerà buona parte della sua vita nelle fila della polizia, e le poche notizie giunte a noi sulla sua persona, lo descrivono come una figura dai tratti inconfondibili. Il volto dalla mascella quadrata era incorniciato da una bionda barba su cui non trasparivano i segni della cinquantina oltrepassata da un pezzo. Il marcato accento romagnolo, tradiva origini lontane e quasi sconosciute per i siciliani dell’epoca. Eppure nonostante le sue radici, Ermanno Sangiorgi era un esperto poliziotto che la mafia l’ha conosceva da tempo e molto bene.
Fu infatti lo stesso Sangiorgi colui inviato a guidare le indagini sulla mafia dell’Uditore a seguito della denuncia di Gaspare Galati nel 1875. E ancora Sangiorgi guidò le operazioni di rastrellamento a carico della Fratellanza di Favara nel 1883. L’apice della carriera il poliziotto romagnolo, lo raggiungerà con l’incarico a questore di Palermo nell’agosto del 1898. Sin da subito egli si distingue per la passione e l’acume con cui si prodiga nel difficile compito, applicando un sistema innovativo nell’affrontare il crimine mafioso. Sangiorgi è convinto che la mafia sia articolata in una organizzazione ben più strutturata di quanto sia finora emerso. Tra il novembre del 1898 e il gennaio del 1900, si materializza il frutto del suo lavoro investigativo. In occasione della fase preparatoria di un processo, Sangiorgi invia un rapporto redatto di propria a mano al Procuratore di Palermo, che a sua volta lo girerà al ministero degli interni. Quello che salirà alla storia come il “Rapporto Sangiorgi”, sommatoria di circa una trentina di documenti scritti a più riprese, costituirà la prima relazione ufficiale e completa sulla organizzazione mafiosa in Sicilia. Ripercorrendone le 485 pagine complessive, ci si immerge in una ricostruzione esplicita, meticolosa e sistematica, lontana dalle testimonianze che sino ad ora fotografavano il fenomeno in forma frammentata. Sangiorgi redige una mappatura delle otto cosche che si spartiscono le aree circostanti a nord e ovest di Palermo: Piana dei Colli, l’Acquasanta, Falde, Malaspina, l’Uditore, Passo di Rigano, Perpignano, l’Olivuzza. Di ognuna ne vengono indicati capi e sotto capi, fornendo dettagli personali ed una schedatura di 218 uomini d’onore. Figure in gran parte operanti nella lavorazione degli agrumi in qualità di guardiani, intermediari, e proprietari terrieri. Nel rapporto si descrive la mafia addentrandosi nei suoi codici di comportamento, nei rituali d’iniziazione e come mai prima d’ora, se ne illustra il panorama delle attività imprenditoriali. Sangiorgi mostra una raffinata capacità descrittiva, e rivela noti narranti eccelse disegnando i metodi con cui l’organizzazione penetra nelle attività ortofrutticole, falsifica banconote, compie rapine, minaccia e uccide i testimoni. Viene spiegato dal questore, come i Capi Cosca uniscano le forze per la gestione del territorio e amministrino i fondi per le famiglie dei detenuti e per le parcelle degli avvocati. Il “diagramma mafioso“ che ne scaturisce è nel suo complesso sconcertante, in quanto troverà precise corrispondenze nelle rivelazioni che Tommaso Buscetta rilascerà al giudice Falcone, molti decenni più tardi.
Ermanno Sangiorgi, comprende quanto sia importante convincere i testimoni a vincere l’omertosa reticenza che per paura o convenienza li induceva al silenzio. Era fondamentale per il questore, che lo Stato garantisse loro protezione dalle minacce, e allo stesso modo salvaguardasse la vita a giudici, giurie e informatori ex mafiosi, allontanando da loro killer e corruttori. Andava invertito quel circolo vizioso che allontanava i cittadini dal senso di appartenenza ad una nazione. Lo Stato doveva conquistarsi la fiducia delle persone comuni dimostrandosi più forte e giusto della mafia, ed il primo passo da compiere consisteva nell’assicurare alla giustizia individui da tutti riconosciuti come criminali, che nella impunità in quanto mafiosi, fondavano la propria arrogante condotta. Sangiorgi era consapevole infine, di come la vera sfida andasse combattuta colpendo i contatti politici, che su quel sistema edificavano potere e ricchezze, e fu per questo il sostenitore di una legge specifica contro le associazioni criminali. (15)
Le indagini di Sangiorgi
Quando Sangiorgi giunge a Palermo, nel capoluogo è in corso una sanguinosa faida di mafia da circa due anni. Nell’indagare sui tanti omicidi commessi in città, nelle campagne e nei piccoli centri della provincia, il questore comprende come modalità e circostanze fossero accomunate da una specie di ritualità condivisa. Non si trattava di singoli uomini che assassinavano altri individui, ma il tutto era subordinato ad un disegno collegiale per il controllo del territorio sottoposto a regole e comportamenti precisi.
Il fulcro dell’attività investigativa di Sangiorgi è la Conca d’Oro che circonda la periferia di Palermo. Una zona celebre sin dall’epoca romana per la fertilità della sua terra. Sul finire dell’800, questa porzione di Sicilia accresce il proprio prestigio internazionale, e l’alta società europea la recensisce come una delle regioni più incantevoli del continente. Tra i verdissimi giardini di limoni, a due passi da un mare turchese e limpido, la nobiltà d’Italia e straniera, faceva a gara per costruire le sue ville lussuose. Nell’inseguire le tracce di alcuni criminali, Sangiorgi scopre come queste conducano assai di frequente all’interno delle sontuose residenze dei potenti d’Europa. Nello specifico, il questore finisce per ritrovare i cadaveri di quattro uomini scomparsi da oltre un anno, nel terreno del “Fondo Laganà” una delle tante aziende di agrumi. Le indagini porteranno alla luce che i quattro uomini uccisi, prestavano servizio da cocchieri presso due delle famiglie più potenti della Sicilia: i Florio ed i Whitaker. I Florio si stimava avessero alle loro dipendenze circa 16000 dipendenti. Il loro nome era legato all’estrazione dello zolfo, all’industria della ceramica e meccanica, alle acciaierie, alla pesca del tonno, alla produzione di liquori, al settore finanziario, e in quanto armatori della N.G.I. (Navigazione Generale Italiana), uno dei gruppi di trasporto marittimo di uomini e merci più importanti d’Europa. I Whitaker erano i maggiori imprenditori di discendenza inglese viventi nell’isola, uno dei più facoltosi casati britannici giunti in Sicilia a seguito delle guerre napoleoniche. Essi detenevano affari nella produzione del Marsala, ed in svariati altri campi.
Sangiorgi si trovò in una situazione delicata. Le informazioni raccolte dai suoi uomini legavano entrambe le potenti famiglie alla mafia, seppur con sfumature diverse: più attivi e complici i Florio, più sottoposti a vessazioni i Whitaker. Nel mezzo, una fitta ragnatela di traffici e crimini tra fazioni rivali, attirati dal potere e dal vasto panorama imprenditoriale. Nessuno era disposto a riconoscere nulla, e tutt’altro che semplice appariva il dimostrare con prove certe ogni relazione con la mafia. Mentre Sangiorgi continua ad inviare alle autorità superiori, le porzioni del proprio rapporto, il 25 ottobre del 1899 il quadro muta grazie ad un colpo di scena. Nel corso di una conflitto a fuoco, viene fermato Francesco Siino, una delle vittime designate nella sparatoria, ma soprattutto uno dei leader mafiosi più potenti dell’epoca. A dire il vero, al momento dell’arresto la stella di Siino è ora offuscata dall’astro nascente di don Antonino Giammona, il capo mafia dell’Uditore denunciato da Galati. Anche grazie a questa consapevolezza, una volta messo alle strette Siino decide di collaborare, e quanto rivela consente a Sangiorgi di raccogliere un mare d’informazioni preziose su tutta l’organizzazione. I dettagli di una feroce guerra di mafia, si fondono alla mappatura delle cosche dell’area. Nuove missive infoltiranno il suo rapporto, ma soprattutto il fresco materiale raccolto, creerà le condizioni per ordinare decine e decine di arresti tra aprile e ottobre del 1900.
La documentazione necessaria per imbastire il primo storico processo alla mafia come cartello di più cosche, era quindi pronto. (16) (17)
Il potere annichilisce la giustizia
Famiglie potenti come i Florio, avevano molte frecce al loro arco per difendersi dagli attacchi di uomini come Sangiorgi. Per avere la meglio, il questore di Palermo doveva beneficiare di tutto l’appoggio possibile da parte di uno Stato forte e consapevole. Ma ai nemici visibili ed invisibili che ostacolarono il passionale e meticoloso lavoro di Sangiorgi, si affiancò purtroppo anche la Storia. Nell’estate del 1900, un anarchico uccise il Re Umberto I a Monza: quale conseguenza del grave attentato, il governo Pelloux cadde. La fase più acuta della crisi economica si andava dissolvendo, e il ritrovato ottimismo poneva in secondo piano i problemi dell’ordine pubblico. Fu il tentennante atteggiamento del governo che succedette a Pelloux, a lasciar trasparire come il vento fosse cambiato. Al contempo il potere dei Florio, trova la sua massima espressione con il palese ostruzionismo del Procuratore Generale Vincenzo Cosenza. Il procuratore di origini napoletane nelle fasi di istituzione del processo, quasi due anni dopo l’invio del rapporto di Sangiorgi, quando nelle alte sfere della magistratura i fatti relativi alla Conca d’Oro erano a tutti noti, arriva a sostenere che “…Della mafia non mi sono mai accorto nell’atto di esercitare il mio ministero”. Sospettare che Cosenza fosse quanto meno colluso con la mafia risulterebbe riduttivo.
Il processo ebbe inizio nel maggio del 1901, un anno più tardi della gran parte degli arresti. Dietro alle quinte, il sistema corruttivo dei Florio aveva avuto tutto il tempo per oliare a dovere e con successo ogni ingranaggio. Il Procuratore Cosenza non giudicò sufficienti le prove presentate per gran parte degli imputati e delle centinaia di mafiosi finiti in manette, solo una novantina vennero processati. Tra coloro che sfuggirono alla giustizia, anche il buon Antonino Giammona. Gli avvocati difensori si esibirono in pirotecniche acrobazie verbali, mentre molti testimoni ritrattarono in aula le dichiarazioni rilasciate in precedenza, soggetti a espressioni orali meno evanescenti come minacce o tentazioni in denari. Quando nel giugno del 1901 giunse la sentenza, solo trentadue mafiosi vennero ritenuti colpevoli. Furono in tanti a non rimanere un solo giorno in carcere: considerato il lungo tempo già trascorso dietro le sbarre, la maggioranza venne rimessa subito in libertà. Per Sangiorgi si trattò di una vittoria dall’acre sapore e per nulla gratificante. Quando la stampa lo intervistò, egli non nascose una amarezza profonda, fusa ad una rassegnata constatazione:”Non poteva essere diversamente, se quelli che li denunziavano la sera andavano a difenderli la mattina”.
Il rapporto Sangiorgi allo scoccare dell’anno 1900, aveva condensato tutto quanto era necessario che uno Stato conoscesse sulla mafia. In quelle 485 pagine, un qualsiasi governo minimamente risoluto ed efficiente aveva a disposizione uno straordinario strumento per colpirla a morte pochi decenni dopo la sua genesi. Tutto questo non accadde perché i politici romani consideravano quel genere di processi una sorta di seccante distrazione. Tra le priorità del periodo, vi era la spasmodica ricerca di solidi appoggi per puntellare l’azione delle traballanti fazioni politiche in continua lotta tra loro. Il potere rappresentato da famiglie come i Florio in una terra come la Sicilia, era ben più importante di quanto comprovato da un umile questore romagnolo trapiantatosi nella lontana isola.
Il “Rapporto Sangiorgi”, venne definitivamente dimenticato negli archivi. Non venne affatto archiviata invece, quella strategia di delegittimazione ed isolamento, che le istituzioni colluse porranno in atto con rinnovato vigore e raffinatezza, a danno dei grandi uomini di giustizia che sfideranno la mafia. Tragica morte a parte, e con le dovute differenze relative al contesto dei periodi storici, rileggendo la vicenda di Sangiorgi si possono scorgere evidenti analogie con quanto accadrà a Giovanni Falcone circa 90 anni più tardi. (18)
Una vita di pubblica onestà
Se il capitolo legato al questore Sangiorgi contribuì ad alzare i toni sulla lotta alla mafia in ambito locale, l’omicidio di Emanuele Notarbartolo di alcuni anni antecedente, portò per la prima volta il fenomeno mafioso all’attenzione mediatica di tutto il paese.
Notarbartolo era un marchese nativo di San Giovanni, vicino Palermo, appartenente alla classe del 1834. Cresciuto in una famiglia aristocratica, rimane orfano molto presto di entrambi i genitori. Le cospicue possibilità economiche del casato gli consentiranno di coltivare comunque la propria istruzione, e nel 1857 si trasferirà prima a Parigi e poi in Inghilterra. Le esperienze all’estero, lo renderanno esponente di un conservatorismo più liberale. Partecipa alla spedizione dei Mille, ma dopo il 1865 lascia l’esercito per divenire assessore alla polizia cittadina di Palermo, poi amministratore dell’ospedale e sindaco del capoluogo per tre anni da ottobre 1873 a settembre 1876. Durante il suo mandato avvierà la costruzione del Teatro Massimo, e si distinguerà in quella che sarà una delle “mission” della sua vita: combattere la corruzione in ogni anfratto delle istituzioni pubbliche. Lasciata la carica di sindaco, egli si occuperà in modo permanente del Banco di Sicilia, divenendone reggente e amministratore. Il suo operato salverà l’istituto dal fallimento, ma lo costringerà a fronteggiare un folto nucleo di politici e imprenditori legati alla mafia, che attraverso la banca intendevano coltivare operazioni illecite nei loro interessi. Tra questi soggetti emergeranno la N.G.I. della ricca, collusa e potente famiglia Florio, e il deputato Raffaele Palizzolo, le cui discutibili amicizie erano ben note a tutti. L’acredine tra uomini così determinati e dall’etica tanto agli antipodi, sarà destinata ad innalzarsi drammaticamente. (19)
L’omicidio Notarbartolo
La fermezza con cui Notarbartolo vestì l’incarico alla guida del Banco di Sicilia lo condannò a divenire una vittima designata. La sua integerrima onestà suscitò lo spirito di vendetta della cricca dei potenti mafiosi che a causa del marchese, si trovavano impossibilitati ad appropriarsi di somme ingenti. Nella mattinata del 1 febbraio 1893, alla stazione di Sciara, Notarbartolo sale a bordo del treno diretto a Palermo. Una volta sedutosi nello scompartimento vuoto, decide di riporre nella retina tre i bagagli il fucile che portava sempre con se, da quando nel 1882 era stato vittima di un rapimento dai contorni mai chiariti, ma che in seguito vedrà tra i sospettati quale mandante ancora Raffaele Palizzolo. Alcuni testimoni racconteranno questi dettagli alla polizia e saranno le ultime persone a vederlo in vita. Il racconto successivo che lo riguarderà, sarà un resoconto frutto di deposizioni e ricostruzioni della polizia. Mentre il treno percorre la galleria tra Termini Imerese e Trabia, Notarbartolo viene aggredito da due uomini armati di coltello. La colluttazione è violenta e gli aggressori faticano ad avere la meglio. Il marchese pur sulla sessantina d’anni, era un uomo di grossa corporatura e da ex militare sapeva farsi valere nel corpo a corpo. Occorsero ventisette pugnalate in ogni parte del corpo per ucciderlo. Lo scompartimento teatro dell’omicidio venne rinvenuto ricoperto di sangue. Una volta portato a termine l’omicidio i due killer non lasciarono il treno. Perquisirono i suoi bagagli per sottrargli ogni oggetto che potesse consentire un rapido riconoscimento della vittima, e si acquattarono in un angolo buio durante la fermata alla stazione di Trabia. Quando il treno fu nuovamente in movimento, aprirono il portello della carrozza, ed in corrispondenza del ponte sul fiume Curreri lanciarono il corpo fuori dal convoglio. Gli assassini intendevano gettare il cadavere nel fiume perché non venisse mai ritrovato, ma il morto rimbalzò contro il parapetto del viadotto e si fermò vicino ai binari. I due criminali abbandonarono il treno alla stazione successiva trafelati e sporchi di sangue. (20)
Lo scandalo politico si abbatte su Raffaele Palizzolo
Occorsero 7 anni per istituire un processo, e alla fine sul banco degli imputati comparvero solo 2 ferrovieri, il frenatore della carrozza su cui Notarbartolo compì il suo ultimo viaggio ed un controllore, entrambi accusati di essere almeno complici degli assassini in quanto avrebbero dovuto accorgersi di ciò che stava accadendo. Le fasi iniziali del dibattimento avviatosi l’11 novembre 1899 a Milano, furono confuse e senza sbocchi. Il 16 di novembre, ebbe luogo la deposizione di Leopoldo Notarbartolo, ufficiale di marina figlio della vittima, ed il suo intervento era destinato a salire alla storia della lotta nazionale alla organizzazione mafiosa.
Il giovane si mostrò risoluto, e senza indugi andò dritto al punto accusando quale mandante dell’omicidio del padre, nientemeno che Raffaele Palizzolo, politico eletto alla Camera dei Deputati di Roma. Palizzolo come abbiamo visto, tra le svariate cariche che occupava, era membro del consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia. Leopoldo fornisce una ricostruzione dettagliata di quanto il padre gli aveva riferito negli anni. Egli illustra con precisi riferimenti diversi particolari degli intrallazzi mafiosi di Palizzolo, dal periodo in cui Notarbartolo senior era sindaco di Palermo, fino agli ultimi mesi. Leopoldo affondò i colpi in relazione a cospicue sottrazioni di denaro dall’istituto, che Palizzolo avrebbe operato per finanziare le proprie relazioni clientelari. Una situazione che Emanuele Notarbartolo aveva ufficialmente denunciato, senza ottenere gli appoggi sperati dal ministero. Anzi, il potere colluso a Palizzolo lo aveva indotto a dimettersi dalla direzione della Banca, ma ciò nonostante era stata avviata una inchiesta al riguardo. Secondo Leopoldo, il politico avrebbe comunque incaricato i sicari di eliminare il padre per impedire la scoperta della verità. A sigillo della propria deposizione, il figlio di Emanuele dichiarò: “…Tutte queste cose io dissi replicatamene alle autorità, eppure Raffaele Palizzolo non venne mai neppure interrogato dalla giustizia. Forse si ebbe paura di farlo”.
Il mondo politico fu scosso dal coinvolgimento di un così illustre esponente. L’intero processo era stato chiaramente imbastito per accontentare le insistenti richieste di giustizia sull’omicidio Notarbartolo, con l’obbiettivo di scovare un paio di secondari e sacrificabili capri espiatori. Il clamore e l’imbarazzo indussero approfondimenti che accertarono gli illeciti finanziari per mano di Palizzolo. A seguito di uno scontro durissimo alla Camera, viene revocata a don Raffaele l’immunità parlamentare ed il primo ministro Pelloux, ordina al questore Sangiorgi di arrestare il politico nella sua residenza palermitana.
Alcuni giorni più tardi, oltre 30000 persone si riunirono nel capoluogo in piazza Politeama a rendere omaggio a Emanuele Notarbartolo, la cui memoria veniva finalmente riabilitata e restituita alla propria città come meritava. (21)
L’arresto di don Raffaele
La testimonianza di Leopoldo Notarbartolo, segnò una svolta nel processo. Emerge così l’intreccio di omertà, false dichiarazioni e depistaggi che aveva rallentato il corso della giustizia. Lo scandalo aumenta di proporzioni, man mano che uno dopo l’altro i singoli episodi divengono di pubblico dominio. Il comando del distretto militare di Milano, proibisce ai propri ufficiali di presenziare alle udienze: le rivelazioni a valanga vengono ritenute potenzialmente destabilizzanti per il clamore con cui espongono organi dello Stato al pubblico ludibrio. Il ministro della Guerra, già commissario del Re in Sicilia, prima di rimettere il mandato, confessa “…la colpevole negligenza del lavoro istruttorio…”. Un Procuratore di Palermo al periodo dell’omicidio, fu costretto a dimettersi perché sosteneva credibili le numerose voci che in città indicavano in Palizzolo il mandante del delitto. Un ufficiale di polizia, dopo aver con insistenza richiesto l’assegnazione del caso, si era impegnato a occultare e distruggere prove basilari come indumenti imbrattatati del sangue di Notarbartolo, e di seguito costruito ad arte elementi che danneggiassero la reputazione della vittima. A completare l’opera distruttiva a danno delle figure istituzionali coinvolte nella vergognosa macchinazione, il clamoroso dietro front a cui fu costretto un vice capo stazione a bordo del treno quel 1 febbraio 1893. Nel corso della deposizione in aula, l’uomo ammise di aver disconosciuto, perché costretto da figure della magistratura, quello che secondo lui era uno degli assassini, un volto dai lineamenti unici incontrato in una carrozza quel giorno. Tra balbettii e tentennamenti, compare sulla scena il nome di Giuseppe Fontana, membro di rilievo della cosca di Villabate, fedele scudiero da una vita di Raffaele Palizzolo. Per Fontana scatta il mandato di cattura con l’accusa di omicidio, ma il mafioso si rende irreperibile. Il killer troverà rifugio nella residenza di un principe, esponente di quella nobiltà da sempre in Sicilia filo mafiosa, e si consegnerà al questore Sangiorgi solo dopo aver trattato precise condizioni di resa che il poliziotto romagnolo dovrà gioco forza accettare. Il malvivente non accetterà di arrendersi allo Stato in quanto tale, perché istituzione non riconosciuta da tanti siciliani. Piuttosto, il codice d’onore mafioso predilige la resa nelle mani di un avversario rispettato. Un episodio significativo di quale baratro separasse gran parte dei cittadini di Sicilia, dal senso di appartenenza ad una nazione unita, nonché dall’imperversare della cultura mafiosa.
Con Palizzolo e Fontana dietro alle sbarre, il colpo inferto alla mafia sul palcoscenico nazionale appare mortale.
Il 10 gennaio 1900, il processo viene sospeso per consentire le necessarie nuove indagini alla luce della sconvolgente realtà emersa. (22)
La mafia nazionale dietro le sbarre
Nel giugno di quell’anno, in barba a qualsiasi codice etico e di pubblica moralità, i potenti amici di Palizzolo con i Florio sugli scudi, candidarono don Raffaele quale deputato alla Camera nel collegio di Palermo. L’insurrezione di molti esponenti politici e di governo, rese vano il suo tentativo di sfuggire alla giustizia e riconquistare l’immunità parlamentare. Dopo la sospensione il dibattimento viene ripreso con sede a Bologna. Gli undici mesi di battaglia in aula, faranno da sfondo al durissimo scontro politico tra coloro che si schierarono a difesa di Palizzolo, e chi ne voleva la testa. La risonanza del processo conquistò molte delle prime pagine di quel periodo. Vennero chiamati a deporre tutti i protagonisti della prima parte del dibattimento e altri ancora, da Raffaele Palizzolo a Giuseppe Fontana, da Leopoldo Notarbartolo a Ermanno Sangiorgi. Nella serata del 30 luglio del 1902, la giuria bolognese si raccolse in camera di consiglio. Era una sera d’estate caldissima e afosa. L’aula del tribunale di Bologna era gremita all’inverosimile, e lungo le strade che circondavano il Palazzo di Giustizia, una folla di migliaia di persone attendeva trepidante l’esito del giudizio. La tensione era altissima. Il paese si trovava dinanzi alla prima occasione di legare il termine mafia ad un fatto salito da mesi agli onori massimi della cronaca, compromettendo alte figure dello Stato.
La giuria rientra in aula alle 11,25. Un emozionantissimo insegnante elementare nominato a capo dei giurati, alzatosi in piedi con la mano sul petto, ascolta il quesito postogli dal presidente della corte: “L’accusato Raffaele Palizzolo è colpevole d’aver determinato altri a commettere l’omicidio in danno del comm. Emanuele Notarbartolo?”.
Dopo un lunghissimo secondo di assoluto silenzio, la voce dell’uomo pronuncia un “Si” pesante come un macigno che infrange la quiete dell’aula. Gli applausi e le grida di gioia di tutti coloro che credevano nella colpevolezza del deputato, si fusero alle urla di protesta di chi ne sosteneva l’innocenza. Un fragore che rischiò di rendere inudibile l’altra clamorosa sentenza di colpevolezza comminata a danno di Giuseppe Fontana. Entrambi gli imputati furono condannati a 30 anni di carcere. Palizzolo e Fontana prima di essere portati via a forza dalle forze dell’ordine, rilasciano dichiarazioni infuocate dove rivendicano la propria innocenza.
In molte sue parti l’Italia gioisce per l’esito del processo. Nelle strade di Bologna giudici e giurati vengono accompagnati da una folla festante che inneggia al loro nome. Una atmosfera funerea invece, segue la reazione del popolo palermitano all’arrivo della medesima notizia. Le folle riunitesi dinanzi alle sedi di giornali e gli uffici del telegrafo, si dissolsero silenziose dopo aver saputo della condanna di Palizzolo, ed il giorno seguente “L’Ora”, la testata di proprietà dei Florio, commentò con rimarcato sdegno l’esito della sentenza. Una diversa matrice accomunerà altri quotidiani siciliani come “Il Giornale di Sicilia”, o nazionali come “La Nazione”, “l’Avanti”, o il bolognese “Il Resto del Carlino”, che esalteranno il coraggio e l’onestà di un gruppo di uomini virtuosi in grado di opporsi alla cricca di potenti dediti al malaffare. Persino il britannico “Times”, riserbò spazio all’evento, senza celare lo stupore per questa inaspettata impennata di orgoglio e legalità, in un paese da tempo marchiato dalla corruzione.
Nelle vetrine di parecchi negozi di Palermo, comparvero cartelli in cui si leggeva che “La città è in lutto”. Comunicati che il questore Sangiorgi accertò commissionati dai luogotenenti mafiosi.
Nel pieno di quella calda estate del 1902, lo Stato pareva aver vinto il primo vero scontro con la Mafia sul piano nazionale. Una vittoria talmente clamorosa e propagandata, che a molti lasciava intravedere un futuro dove episodi di una così flagrante e arrogante collusione tra potere politico e mafia, sembravano impossibili a ripetersi. (23)
Sulla giustizia, l’ennesima doccia gelata
La doccia gelata sopraggiunge inaspettata circa sei mesi dopo. La Cassazione annulla la sentenza del Tribunale di Bologna per un vizio di forma: un teste secondario non ripeté il proprio giuramento dinanzi la corte alla ripresa di una delle udienze sospesa dopo una lite tra avvocati. In molti ritennero, tra cui Leopoldo Notarbartolo, che l’episodio fosse stato un artifizio creato di proposito per essere utilizzato in caso di sentenza a sfavore. Le ombre che gravavano alle spalle di un giudizio che di fatto azzerava la credibilità di uno Stato nel suo insieme, si diramarono sul folto panorama di potenti controllati o legati dalla lobby della N.G.I. A questi occorre sommare un nutrito fronte di conservatori che si opponevano al “pericoloso” avvicinamento ai movimenti socialisti da parte del governo liberale. Ognuno di questi centri di potere, come abbiamo visto controllava voti determinanti e indispensabili per governare. Per assecondarne le ragioni e acquisirne il consenso, gettare a mare il prestigio di un paese a cui in pochi sentivano di appartenere, costituiva un prezzo da pagare assai modesto per chiunque ambisse a guidarlo.
Il nuovo processo si apre a Firenze il 5 settembre del 1903. Gli unici imputati ora sono Raffaele Palizzolo e Giuseppe Fontana. Sono trascorsi oltre dieci anni dall’omicidio di Emanuele Notarbartolo, e più di quattro dalle sconvolgenti rivelazioni del figlio Leopoldo riguardanti il deputato. I segni di un treno perso per sempre appaiono in tutta lo loro triste ed amara evidenza. Il tempo ha annacquato l’interesse dell’opinione pubblica sul fenomeno criminale, ed il concetto di mafia ritorna ad essere “opaco ed informe“. Una logorante dissezione si aprirà sui ridondanti e retorici concetti di mafia quale “esagerata espressione di fierezza personale”, o “prodotto di una lunga oppressione straniera subita dai siciliani lungo la loro storia”. L’aspetto più grave e che il palpabile lassismo pare aver contaminato sia l’accusa che gli avvocati di Leopoldo Notarbartolo.
L’azione di chi mescolando le acque, fa prevalere dubbi e incertezze sulle ragioni della delibera di Bologna, ha il sopravvento. Il tripudio con cui vennero accompagnati i protagonisti di quella vittoria sulla mafia che appariva così vivo e sincero all’indomani della sentenza del 30 luglio del 1902, sembrava appartenere ad un secolo addietro. I proclami di alcuni politici che disegnarono il caso Palizzolo come una vergogna nazionale a cui sottrarsi in futuro, fu l’ennesima testimonianza di una ipocrisia spesso figlia della convenienza. La verità è che ognuno di questi comportamenti era il sintomo di come la questione mafiosa aveva finito per stancare l’opinione pubblica. Un logoramento che ottenne l’effetto sperato: anestetizzare la stessa per attenuarne il rischio di una insurrezione nel caso di assoluzione degli imputati.
Lungo tutto il secondo dibattimento in aula, Palizzolo mise da parte l’arroganza e spregiudicatezza manifestate durante il primo processo. Egli rinunciò alle deposizioni fiume e apparve come un vecchio stanco e malato che a volte necessitava di aiuto per giungere al banco delle deposizioni. Una strategia destinata a fornire una immagine di un Palizzolo oramai incapace di nuocere, ben lontana da quanto sosteneva l’accusa. La squadra dei suoi avvocati completò l’opera offrendo una performance in linea con la situazione e degna della consistente parcella.
Quando il 23 luglio del 1904 giunse la sentenza, in pochi rimasero sorpresi dell’assoluzione per insufficienza di prove sia di Raffaele Palizzolo, come di Giuseppe Fontana. (24)
Cala il sipario
Palizzolo venne accolto al ritorno a Palermo dal tripudio della sua gente ed “il martire di Bologna”, venne portato in trionfo. I Florio non badarono a spese in propaganda e festeggiamenti, e questi si prolungarono per giorni e giorni. Ciò nonostante, la gioia per una assoluzione che riapriva le porte alla carriera politica della discussa figura, venne raffreddata dalla mancata rielezione nella tornata parlamentare di novembre 1904, nella quale Palizzolo rimediò una sonora batosta. La credibilità dell’uomo era stata definitivamente compromessa a livello nazionale così come il suo potere in ambito clientelare. Cala il sipario quindi su Don Raffaele che conservò comunque la sua autorità locale, continuando a dispensare favori dalla sua residenza personale.
Ad accogliere il rientro in Sicilia di Leopoldo Notarbartolo presenziò solo uno scarno gruppo di amici. Le ingenti spese sostenute per la lunghissima battaglia legale, obbligarono l’uomo a vendere la tenuta del padre. Leopoldo proseguì la carriera di militare nella marina giungendo al grado di ammiraglio, ma di lui non rimase ricordo nella memoria nazionale. La lotta per la giustizia che condusse per tutto il resto della sua vita, fu incentrata nell’onorare la memoria del padre. Durante gli interminabili viaggi in mare, Notarbartolo scrisse la propria biografia in cui narrava quanto vissuto negli anni dal 1893 al 1904. Egli era convinto che il progresso avrebbe un giorno regalato una Sicilia diversa e meno schiava di quel potere mafioso che aveva cagionato la morte al padre. Una terra così tanto amata e odiata, che Notarbartolo decide di lasciare per trasferirsi a Firenze, dove nel 1947, si spegnerà dopo una lunga malattia. Due anni dopo la sua morte, la moglie di Leopoldo decise di pubblicare lo scritto del marito. Molto di quanto è giunto a noi dell’intera vicenda lo si deve anche a quel testo.
Una volta libero, pure Giuseppe Fontana fu indotto a lasciare la Sicilia. In questo caso per lui si apriranno le porte dell’America, dove andrà ad esportare l’arte del killer e dell’estorsore.
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Note
(1), (2), (3), (11), Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – “La Mafia fa il suo ingresso nel sistema italiano, 1876-1890”
(4), (6), (7), (9), Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – “La genesi della mafia”
5, 8, 10, Fonte “Breve storia della mafia” Rosario Minna – Editori riuniti, 1984
(12), (13), (14), (15), (16), (18), (20), (21), (22), (23), (24), (25), Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – “Corruzione nelle alte sfere, 1890-1904”
(17), Fonte http://it.wikipedia.org/wiki/Rapporto_Sangiorgi
(19), Fonte http://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Notarbartolo