La storia della Mafia Siciliana
Capitolo 22 - Verso le stragi
Provenzano si libera di Nino Giuffrè
E’ il 16 aprile del 2002, quando al seguito di due telefonate anonime alla stazione dell’Arma dei Carabinieri di Termini Imerese, venne sancito il tramonto della carriera di Nino Giuffrè. L’autore della seconda chiamata propone addirittura uno scambio: ignorare le centinaia di pizzini di Bernardo Provenzano che Giuffrè custodisce nel suo marsupio, per ulteriori informazioni in grado di consentire l’arresto di un altro pezzo da novanta della latitanza, di cui lo sconosciuto non vuole al momento menzionare il nome. Una proposta strana, anomala per le dinamiche mafiose. Quando Cosa Nostra decide di terminare la corsa di uno dei suoi uomini di punta, come è noto sceglie altre vie meno tortuose, più sommarie e risolutive. In quegli anni però, il braccio armato sotto il controllo di Provenzano, colui sospettato di essere il mandante delle chiamate, attraversava una fase di grande difficoltà. Regolare la questione ingaggiando una guerra di mafia non era proprio possibile: pochi gli uomini armati a disposizione, scarsa l’efficienza dell’apparato logistico necessario. Provenzano viveva gli ultimi anni della sua latitanza, braccato come mai in passato, e pur godendo di una fitta rete di appoggi che gli consentivano la protezione nel suo territorio, era ben consapevole di come l’epoca delle sanguinose guerre scatenate dall’esercito corleonese appartenesse oramai ai ricordi. Occorreva quindi fare di necessità virtù e alla fine egli sceglierà di togliersi di torno Giuffrè consegnandolo ai carabinieri con una soffiata. (1)
La carriera di “Manuzza”
Questa la ricostruzione fornita da Lirio Abbate e Peter Gomez nel loro “I complici”, a riguardo delle circostanze in cui Nino Giuffrè venne arrestato. Essi lo descrivono come “…un uomo potente, alto e magrissimo che l’onorata società l’ha sposata portando all’altare Rosaria Stanfa…”, una funzionaria del comune di Caccamo, nonché nipote di Joe Stanfa, potente boss italo americano di Philadelphia.
Quattro mesi dopo il suo arresto, Giuffrè ben conscio della trama orchestrata per la sua cattura, opta per saltare il fosso e diventa un collaboratore di giustizia. La scelta lo relegherà per sempre tra gli infami, e da allora in seno agli uomini d’onore, Nino Giuffrè sarà ribattezzato in tono dispregiativo “Manuzza”, a causa di un difetto congenito alla mano sinistra.
Il contenuto delle sue testimonianze lo trasformeranno in breve in un pentito di primo piano, acquisendo per i magistrati il titolo di moderno Buscetta. Egli narrerà i suoi trascorsi, le sue origini, di come fu lo stesso Totò Riina a celebrarne la nomina a capo del mandamento più vasto di Cosa Nostra, i cui confini spaziavano da Caccamo alle Madonie sino alla provincia di Messina. Avvenne nel lontano 1986, addirittura durante una riunione della Commissione, in presenza di tutte le maggiore figure che regolavano la mafia siciliana del tempo. Un appuntamento che lo stesso Giuffrè ricorda non senza emozione, in quanto “…Sono entrato impaurito…perché quando uno va in un posto dove ci sono altre persone non sa se si ritorna…Ma io sono uscito capomandamento…”.
Una carriera intrapresa in giovane età e che negli anni lo premiò con incarichi sempre più delicati. Era il 1985 quando, in contemporanea al primo articolato assalto a Cosa Nostra per mano della magistratura di Palermo guidata da Giovanni Falcone, Giuffrè ha il compito di percorrere in lungo e in largo le montagne attorno alla natia Caccamo e Termini Imerese. Il suo mandato è servire pranzo e cena al “papa” Michele Greco, che in quel periodo lì si nascondeva da latitante. Le ottime referenze che Greco lascerà ai suoi dopo il suo arresto nel febbraio del 1986, consentono a “Manuzza” il salto di qualità, con la promozione prima descritta. Il grande business della droga che scorre libera sotto il controllo della Commissione, gli permettono di consolidare la sua fama di solido e affidabile punto fermo dell’organizzazione. Giuffrè non è solo uno spietato sanguinario, ma una mente riflessiva, precisa, un referente ideale per gli affari e i traffici. Gli anni novanta sono quelli della definitiva consacrazione. I grandi introiti provenienti dall’eroina vengono reinvestiti nelle costruzioni e insieme al boss di Porta Nuova Pippo Calò, opta per la realizzazione di numerosi residence in Sardegna. Le località più esclusive dell’isola da Porto Rotondo a Coda di Volpe, dal Golfo degli Aranci a Punta Nuraghe, vedranno migliaia di turisti inconsapevoli, fare a gara per alloggiare in case edificate sulle morti per eroina. La sua indole lo porta a restare nell’ombra, a misurare i gesti che possono attirare l’attenzione su di se. Virtù che gli consentiranno di superare indenne il grande terremoto che investe Cosa Nostra a seguito della stagione stragista indetta da Riina, e se non fosse per le rivelazioni del pentito Balduccio Di Maggio, forse gli investigatori riterrebbero ancora Giuffrè un perito agrario di Caccamo con modesti precedenti penali. “Manuzza” comprende come Totò si sia infilato in una strada senza uscita e finisce per allontanarsi da “U ’curtu” e avvicinarsi a Provenzano.
Diverrà così uno dei più fidati collaboratori di “U ‘tratturi”, gestore del settore appalti, curatore della latitanza del boss, e dal 1998 membro del direttorio della mafia. L’idillio tra i due è destinato ad incrinarsi quando Provenzano percepisce che l’ambizioso luogotenente aspiri a volare troppo in alto, cominciando ad “allargarsi” eccessivamente. Il capo dei capi accusa Giuffrè di spendere parole per conto del boss senza che questi le avesse pronunciate, ma il vero timore è che “Manuzza” ambisca a fargli le scarpe. Un episodio in particolare pare diverrà la classica goccia. Nella eterna partita a scacchi che si gioca nell’ombra per determinare le candidature degli uomini giusti nelle varie tornate elettorali, nazionali o locali che siano, Giuffrè inizia a sostenere autonomamente la figura di un certo Maurizio Digati, abile con le armi e nel regolare gare d’appalto. Il guaio è che Digati viene spacciato per pedina sponsorizzata direttamente dal numero uno. Provenzano non gradisce e certamente in altri tempi avrebbe regolato la faccenda in modi diversi. Ma come già detto, il suo esercito non era in grado di ingaggiare una faida interna all’indirizzo di un boss oramai troppo potente anche militarmente, che godeva del gradimento di molti altri capi dell’agrigentino e non solo, nonché legato ad una ampia schiera di imprenditori e politici. Pur consapevole dei danni che Giuffrè poteva arrecare a Cosa Nostra una volta in carcere, venne consegnato di fatto ai carabinieri che lo arresteranno in un casolare con in tasca decine di ordini e di appunti.
Una gran parte del resto dell’alleanza agrigentina del fronte Giuffrè, anch’essa fonte di preoccupazione per Provenzano, cadrà nella rete degli investigatori il 14 luglio sempre del 2002, quando in un altro casolare nei pressi di Santa Margherita del Belice, la polizia irrompe nel bel mezzo di una riunione al vertice. Saranno quindici i boss arrestati, riunitosi guarda caso per deliberare la candidatura proprio di Digati, che verrà a sua volta arrestato nel 2006 e da allora collabora anch’egli con la giustizia.
Una serie di fermi che innescò pesanti ricadute, e tra gli altri finirono in carcere due politici: un capomafia di Burgio, ex consigliere comunale DC con incarichi di sottogoverno, e Giuseppe Nobile, medico, proprietario di un laboratorio di analisi privato tra i più importanti della zona, “mammasantissima” di Favara, membro del consiglio provinciale di Agrigento tra le file di Forza Italia.
Nino Giuffrè inizia quindi a collaborare, e tra le tante informazioni che consegna ai magistrati, alcune consentiranno di aprire qualche spiraglio di luce sul buio periodo che precedette la stagione delle stragi. (2)
Referenze non impeccabili
Il racconto di Giuffrè spazia a 360° e nel descrivere le caratteristiche dei vari boss con cui ha nei decenni collaborato, si sofferma a lungo su Totò Riina e Bernardo Provenzano. Manuzza non ne disegna un profilo carico di apprezzamenti. Vengono definiti come uomini dall’istruzione limitata e sprovvisti di quella preparazione culturale tale da consentirgli analisi e valutazioni approfondite sul panorama politico imprenditoriale. La condizione di latitanti e la clandestinità non consentiva loro rapporti e contatti regolari e diretti con gli interlocutori. Per questo hanno avuto da sempre delle figure di “consigliori” al loro fianco, e soprattutto Provenzano, si circondava di saggi e acuti punti di riferimento che provvedevano al suo riciclaggio e a curarne gli interessi. In riferimento all’epoca delle dichiarazioni, il pentito farà i nomi di Pino Lipari l’amministratore per lungo tempo degli appalti edili per l’azienda mafia; Masino Cannella, cugino del deputato regionale di Forza Italia Giovanni Mercadante, imprenditore e titolare della Sicilconcrete di Villabate, un’azienda che distribuiva il cemento a tutti i maggiori appalti pubblici; Antonino Cinà, medico, gestore di un laboratorio di analisi cliniche; Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo, che in coppia con Salvo Lima costituirà per decenni il riferimento mafioso per la DC siciliana.
Marciando a ritroso nel tempo, Giuffrè sottolinea le grandi differenze caratteriali tra Riina e Provenzano, diversità rispecchiate anche nelle competenze ai vertici di Cosa Nostra. Mentre Riina sarà colui che si occuperà della gestione capillare del territorio, comandando il braccio armato dell’esercito mafioso composto da killer, estorsori e manovalanze varie, Provenzano si dedicherà ai rapporti con politici, liberi professionisti, manager e imprenditori. Testardo e impulsivo il primo, quanto riflessivo e più incline ad ascoltare il secondo. Due menti complementari in grado di costituire un sodalizio granitico. Ma è proprio all’interno di queste dissomiglianze che Giuffrè pone l’accento, perché alla base della scelta che definì sciagurata di scatenare la guerra stragista allo Stato, non vi fu semplicemente la supremazia di un carattere sull’altro, ma emerse l’incapacità da parte di entrambi di saper decifrare il contesto politico e sociale del momento, quale limpido esempio a suffragio delle lacune culturali che addebitò ai due boss.
Una necessaria rilettura…non compiuta dal mondo politico
Abbate e Gomez sottolineano nel loro libro come il reale accadimento dei fatti in merito a quegli anni sia ancora lontano dall’essere ricostruito per intero, e con molte probabilità la completa verità potrebbe rimanerci sconosciuta. Esistono le sentenze definitive contro gli esecutori materiali delle stragi che difatti parlano di “mandanti dal volto coperto”. La Procura di Caltanissetta, suscitando un vespaio mediatico e politico, ha nel 2009 riaperto ufficialmente le inchieste su quanto avvenne all’Addaura, a Capaci, in via D’Amelio, e sugli attentati a Roma, Firenze e Milano nel 1993. Un nuovo impulso che la magistratura ha ritenuto necessario proprio perché gli elementi emersi in oltre un quindicennio, consentono una rilettura dei fatti tale, per cui ad oggi non può più risultare credibile che uomini descritti da Giuffrè e non solo, come individui dotati di una limitata cultura, abbiano potuto con le uniche forze in seno all’organizzazione, architettare e porre in atto un così articolato e temerario attacco stragista allo Stato.
Gli atti giudiziari e le molte dichiarazioni dei pentiti oltre a quelle rilasciate da “Manuzza”, già ora ci consentono comunque di abbozzare un realistico quadro delle dinamiche politico criminali in cui si è sviluppata quella stagione.
Una montagna di carte e documenti che in pochissimi nel mondo politico si sono sforzati di leggere ed approfondire, o peggio ancora una volta lette, sono state deliberatamente ignorate.
Informazioni che nelle mani di Istituzioni autenticamente ispirate a principi di legalità nel reale interesse del paese, non avrebbero come invece è accaduto, consentito alle stesse di farcirsi di figure discutibili, accreditate quali frequentatori di mafiosi, di loro amici, di loro soci in affari. Una condotta in barba ad ogni fondamento di quella necessaria ed obbligata trasparenza a cui coloro chiamati a gestire ogni frangente della cosa pubblica, dovrebbero attenersi.
Un malcostume che negli anni ha assunto la forma di una più vasta e diffusa deriva del concetto di legalità, in grado di far crollare quella che ci si ostina a chiamare prima Repubblica e contaminare sin dai suoi albori le fondamenta della presunta seconda, lasciando ai più l’acre sensazione di un paese in balia di un progressivo e mai interrotto stato di abbandono, e consolidando i presupposti ottimali per la proliferazione delle attività criminose ed organizzate. (3)
La svolta “socialista”
Soffermandosi invece a scorrere questa imponente catasta di fascicoli, si intraprende un viaggio che attraversa porzioni oscure. Affiorano date risalenti al biennio 1986-87, un frangente storico classificato da un ampio ventaglio di storici e professionisti della materia, quale autentico sparti acque nell’ambito delle relazioni mafia politica: risalirebbe a quegli anni difatti, il primo concreto tradimento di Cosa Nostra verso la Democrazia Cristiana. L’artefice di tale risoluzione è Totò Riina, stanco di registrare troppi episodi dove figure di spicco del partito (in particolare Mino Martinazzoli ministro Giustizia e Oscar Luigi Scalfaro agli Interni), si schierano apertamente con l’antimafia. Aldilà delle prese di posizione dei singoli esponenti DC, a deludere è la generale percezione di lassismo verso le esigenze mafiose. Secondo Giuffrè ed altri pentiti quindi, Totò avrebbe ordinato di votare socialista, imponendo una svolta le cui conseguenze segneranno il corso degli eventi. Alcuni boss dichiarano di aver sottoscritto un patto persino con Claudio Martelli del PSI. Questo ultimo smentisce senza mezzi termini che accordi di questo tipo siano mai stati siglati, ma che il contatto sia avvenuto o meno, a Palermo nel corso delle susseguenti elezioni i socialisti passano dal 9.8 al 16.4 per cento. Al contempo Riina strizza l’occhiolino anche ai radicali. A catturarne l’attenzione la campagna mossa a livello nazionale a favore dei diritti degli imputati. Il partito raccoglie in Sicilia consensi senza precedenti. Nel capoluogo si registra un 2.3 per cento dei votanti laddove prima si annotava il nulla. Al carcere dell’Ucciardone si narra di collette per sostenere il movimento di Pannella: iniziative promosse tra i detenuti sotto l’egida dei boss. Del resto la questione carcerati è da tempo in cima alla lista delle preoccupazioni mafiose: in pieno maxi processo, praticamente ogni famiglia contava un parente o un amico tra le sbarre.
Provenzano secondo Giuffrè, non è favorevole ad abbandonare la DC, ma nel nome dell’amicizia e del rispetto verso Riina finisce per accondiscendere, pur scegliendo di non recidere i contatti con gli antichi alleati.
La sterzata socialista sarà comunque decisa e netta. Secondo tutte le sentenze delle stragi e quella contro Marcello Dell’Utri, Riina intende agganciare Craxi in persona. A conquistare il boss è il carisma del politico, la sua intraprendenza e la grande capacità di vestire l’Italia di uno spirito nuovo, spregiudicato, rampante. Craxi incarna l’illusione di un paese quale nuova quinta potenza economica del mondo, e a Riina piace un sacco l’idea di una nazione affaristica, senza fronzoli, dove in molti siano disposti a tutto per denaro.
Quando il 10 febbraio del 1986 a Palermo si apre il Maxi Processo, Totò “U ‘ Curtu“ ha l’assoluta necessità di trovare chi gli garantisca un esito positivo del procedimento e nella vecchia DC oramai non ripone molta fiducia. In primo luogo, per calmare le acque e facilitare le trattative, ordinerà la tregua degli omicidi mafiosi per tutta la durata del processo. Quindi si attiva sul fronte politico economico, ed in cima alla lista dei desideri, il boss corleonese pone il leader del garofano Bettino Craxi. Per giungere al leader socialista, egli pare disporre di due strade parallele: per mezzo della Fininvest di Silvio Berlusconi, all’epoca nelle sole vesti di imprenditore, legato però al segretario del PSI da lungo tempo attraverso un vincolo saldato anche da versamenti di enormi somme di denaro occulto, come emergerà anni dopo (21 miliardi di lire versati a Craxi nel 1991 mediante transazione estero su estero, il maggior versamento illecito ad un solo uomo politico); oppure seguendo la pista che conduce al gruppo Ferruzzi di Ravenna, il secondo colosso industriale del paese dopo la Fiat, a quel tempo guidato da Raul Gardini. (4)
Sulle tracce del “Biscione”
Il tramite che doveva condurre Riina alla Fininvest, in base a quanto stabilito dalla sentenza di primo grado che lo ha condannato a nove anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, ridotti a sette in appello, porta il nome di Marcello Dell’Utri, fondatore di Publitalia (la concessionaria pubblicitaria della Fininvest), e ideologo di quello che sarà il partito di Forza Italia. Dell’Utri è un manager in forte ascesa, berlusconiano di ferro e braccio destro dello stesso Cavaliere di Arcore. Nato a Palermo, è orgoglioso delle sue origini a tal punto da non fare mistero di amicizie non tipicamente cristalline risalenti fin dagli anni sessanta. Dell’Utri definirà “l’amico di una vita” tale Tanino Cinà, titolare di una piccola ma funzionale tintoria, sposato con una parente di due boss del calibro di Stefano Bontate e Mimmo Teresi. Ma aldilà delle parentele acquisite, Cinà (solo omonimo di Antonino Cinà, uno dei “consigliori” di Provenzano), è stato condannato a sette anni per mafia, quale affiliato alla famiglia dei Malaspina, clan storicamente alleato sempre a Bernardo Provenzano.
L’antica amicizia tra Dell’Utri e “Tanino” viene ulteriormente comprovata da alcune intercettazioni telefoniche risalenti al 1986. Siamo sul finire dell’anno, e la manovra di avvicinamento per opera di Riina ai socialisti via Fininvest è nel suo pieno. Una bomba viene fatta esplodere sui cancelli di una villa milanese che da tempo Berlusconi usa come pied-a-terre. Dell’Utri non poteva sapere che in quel periodo i suoi telefoni erano sotto controllo a seguito di una inchiesta per bancarotta fraudolenta, e la sua voce viene catturata dalle bobine degli investigatori mentre richiede a Cinà di informarsi su quanto è successo nella villa milanese. Berlusconi sembra temere che dietro all’esplosione si celi la mano di Vittorio Mangano, boss del clan di Porta Nuova che agli inizi degli anni settanta fu amministratore delle sue proprietà terriere ad Arcore. Circa due giorni più tardi, quando Cinà sale a Milano per incontrare Dell’Utri, questi chiama Berlusconi in sua presenza per tranquillizzarlo del fatto che Mangano non è coinvolto, il tutto ovviamente limpidamente intercettato. Per la magistratura fu Cosa Nostra a pianificare l’azione per cementare l’abbordo al “Biscione”, rapporto destinato a saldarsi anche nei convenevoli, come rivelano altre telefonate che raccontano di una cassata siciliana di ben dodici chili, regalata a Berlusconi da Cinà, nel Natale dello stesso anno.
Gaetano Cinà muore improvvisamente nel 2006, dopo la condanna per mafia e si trascina nella tomba segreti ingombranti. La lavanderia di sua proprietà inoltre, distava circa duecentocinquanta metri da una autoscuola che Provenzano userà da ufficio nelle sue puntate da Villabate-Bagheria a Palermo. Un luogo d’incontri questo, come verrà documentato dalle microspie dei ROS, frequentato da tutti gli amici potenti del capo dei capi, e pure da Gaetano Cinà, l’amico di una vita di Marcello Dell’Utri.
Ma i compagni di tempo libero di Dell’Utri non propriamente raccomandabili non si fermano a “Tanino”. Lo stesso Vittorio Mangano fu tra coloro che frequentarono il manager di Publitalia a partire dagli anni sessanta, ma il rapporto si strinse più tardi, quando dal 1974, egli fu assunto per circa due anni in qualità di fattore nella villa di Berlusconi ad Arcore. Mangano stesso dichiarerà che il suo compenso era di circa cinquecentomila lire al mese (l’equivalente di circa cinquemila euro attuali), e per quella non trascurabile cifra si occupava dei lavoratori alle dipendenze, del bestiame, della sicurezza e degli ospiti. Marcello invece aveva in cura la sfera culturale delle attività in villa: il restauro delle opere d’arte, la cura di biblioteca e pinacoteca. Nel tempo rimasto libero dagli impegni di entrambi, si rilassano con lunghe e gradevoli passeggiate a cavallo. Un binomio in piena sintonia, che nel 1986 all’epoca dei fatti prima citati, si era infranto gioco forza perché Mangano non solo non era da tempo in Lombardia, ma si trovava in carcere a scontare una condanna per droga. Quando dal 1990 venne rimesso in libertà non tardò a ricontattare il vecchio amico, e lo stesso Dell’Utri non mancherà di menzionare in pubblico le piacevoli visite che Mangano gli onorava di fare, sino a dopo l’epoca delle stragi, quando già si fregiava del titolo di reggente del clan di Porta Nuova. (5)
Una fedeltà verso il sodale mafioso che l’ex manager di Publitalia non ha mai rinnegato, nemmeno dopo la morte di Mangano incorsa per malattia nel luglio del 2000. In occasione delle dichiarazioni rilasciate alla stampa nel giugno del 2010, a seguito della sentenza di Appello del processo a suo carico per concorso esterno in associazione mafiosa, Dell’Utri disse: “Mangano è stato il mio eroe…Era una persona ammalata invitata più volte a parlare di Berlusconi e di me e si è sempre rifiutato di farlo. Se si fosse inventato qualsiasi cosa gli avrebbero creduto. Ma ha preferito stare in carcere, morire, che accusare ingiustamente. E' stato il mio eroe. Io non so se avrei resistito a quello a cui ha resistito lui". 20
Dell’Utri “canale di collegamento”, Mangano “garante dell’incolumità di Berlusconi”
Secondo la magistratura gli elementi che allacciarono Cosa Nostra alla sfera Fininvest ed al Premier non si fermeranno qui: Marcello Dell’Utri sarà sino ai giorni nostri, al centro di controversie penali e pubblici atti di accusa, quale perno e anello di giunzione tra il mondo politico economico e Cosa Nostra.
Nelle motivazioni della sentenza di Appello emessa il 29 giugno 2010 che condanna Marcello Dell’Utri a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, depositate in cancelleria dal collegio dei giudici di Palermo presieduto da Claudio Dall’Acqua il 19 novembre dello stesso anno, l’imputato viene ritenuto quale “specifico canale di collegamento” tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi. Dell’Utri per i magistrati “ha apportato un consapevole e valido contributo al consolidamento e al rafforzamento del sodalizio mafioso”. Nello concreto l’imputato avrebbe permesso ai boss di “agganciare” per diversi anni l’imprenditore emergente Berlusconi, che di lì a breve avrebbe fondato un vero impero economico e finanziario. Per questa ragione la Corte ha ritenuto “certamente configurabile a carico di Dell’Utri il contestato reato associativo”.
Rilevante anche il ruolo ascritto a Vittorio Mangano. Nelle motivazioni della sentenza si legge come egli fu assunto da Dell’Utri quale “stalliere” nella villa di Arcore con competenze che esulavano dalla veste di curatore della popolazione equina, ma con il compito di assicurare protezione a Silvio Berlusconi. Viene quindi ritenuto credibile il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, che ha fornito una ricostruzione dettagliata del apparato di “relazioni” stretto da Dell’Utri con Cosa Nostra. Al centro della sua testimonianza un incontro tenutosi a Milano “negli uffici di Berlusconi”. Correva l’anno 1975 ed alla riunione intervennero unitamente a Dell’Utri, i boss Gaetano Cinà, Girolamo Teresi e Stefano Bontade che all’epoca vestiva il ruolo di “uno dei più importanti capimafia”. Mangano ad Arcore quindi, secondo i giudici consente l’avvicinamento a Berlusconi “imprenditore milanese in rapida ascesa economica”, garantendone l’incolumità, e “avviando un rapporto parassitario protrattosi per quasi due decenni”. Berlusconi avrebbe sborsato “ingenti somme di denaro in cambio della protezione alla sua persona e ai familiari”. Tali versamenti sempre secondo la Corte, si sarebbero collegati con altri tesi a garantire “la messa a posto” dell’azienda Fininvest che a partire dagli albori degli anni ’80 aveva attivato alcune emittenti televisive in terra siciliana.
Rispetto alla sentenza di primo grado vengono depenalizzati due anni in quanto Dell’Utri è stato condannato per i reati a lui attribuiti fino al 1992, e assolto per quelli successivi. Secondo la magistratura infatti, “non è stato provato il patto di scambio” di natura politico mafiosa che l’accusa sosteneva esistente dal 1994. Non risulta infatti dimostrabile con certezza come si evince nella motivazione, “né che l’imputato Marcello Dell’Utri abbia assunto impegni nei riguardi del sodalizio mafioso, né che tali pretesi impegni, il cui contenuto riferito da taluni collaboranti (generica promessa di interventi legislativi e di modifiche normative) difetta di ogni specificità e concretezza, siano stati in alcun modo rispettati ovvero abbiano comunque efficacemente ed effettivamente inciso sulla conservazione e sul rafforzamento del sodalizio mafioso”. Per le suddette ragioni il senatore del PDL è stato assolto da questi capi d’imputazione.
La reazione di Dell’Utri si è focalizzata su “i giudici hanno ricicciato le stesse cose della sentenza di primo grado. Sono sostanzialmente le stesse accuse del primo processo”, rincarando la dose con “E’ una materia trita e ritrita non c’è nulla di nuovo sono tutte cose che abbiamo già visto”. Il senatore berlusconiano, si affiderà ai suoi avvocati per ribaltare il giudizio in Cassazione, definendosi “fiducioso” al riguardo. (21)
Indirizziamo ora lo sguardo in direzione di un diverso angolo di Nord Italia, per seguire un altro fronte delle relazioni affaristico-diplomatiche del governo di Cosa Nostra.
Con la Ferruzzi “…La mafia entra in borsa..”
La Ferruzzi della seconda metà degli anni ottanta è una multinazionale di dimensioni planetarie. Dopo l’improvvisa scomparsa del suo fondatore, Serafino Ferruzzi, deceduto il 10 dicembre 1979 in un incidente aereo in fase di atterraggio all’aeroporto di Forlì, gli eredi assegnarono la delega operativa al controllo del gruppo a Raul Gardini. La sua massima espansione, la Ferruzzi la registra dopo l’acquisto del colosso chimico Montedison, avvenuta tra il 1985 e il 1987. Una operazione da 2.000 miliardi di lire, che porta il colosso industriale a registrare ricavi da 20.000 miliardi annui, con 52.000 dipendenti e oltre 200 stabilimenti in tutto il mondo. La gran parte degli introiti provengono dallo storico settore agroalimentare, ma la porzione di affari allacciata al campo delle costruzioni è considerevole, compreso in Sicilia, dove come illustrano Abbate e Gomez nell’introdurci nella via “ravennate”, i suoi manager sono ben noti anche a Cosa Nostra. Due importanti società del gruppo di Ravenna, la Calcestruzzi e la Gambogi, sono in quegli anni le assegnatarie di molti appalti, anche grazie all’aiuto dei corleonesi 6 . Diversi anni più tardi nel 1997, Lorenzo Panzavolta, manager della Calcestruzzi, venne condannato in primo grado a sei anni e mezzo per associazione mafiosa. Ad inchiodarlo furono le inchieste del tempo di Giovanni Falcone. E’ il 1986 quando si appura che la Calcestruzzi di Ravenna funse da paravento per una intestazione falsa delle quote di una società in possesso ad Antonino Buscemi, il boss di Passo di Rigano. Una operazione per scongiurare la confisca delle stesse al criminale, in base alla legge Rognoni-La Torre. Panzavolta è un tipo dalle maniere sbrigative. Si pone pochi scrupoli. Mira all’essenziale. Grazie a queste peculiarità si guadagna la stima e la fiducia di Buscemi che confiderà ad Angelo Siino (il coordinatore per anni del ramo appalti per l’azienda mafia): “…Quello è un duro, è meglio di un uomo d’onore”. 7
Il “duro” Panzavolta finirà coinvolto ripetutamente a Milano nel corso dell’inchiesta “Mani Pulite”, colto a versare tangenti ai partiti per conto di Raul Gardini.
La Ferruzzi e le imprese a lei collegate, si accorgeranno che vincere appalti unitamente alla mafia comporta danni collaterali, e numerose saranno le circostanze in cui il braccio armato detta le regole di lavoro nei cantieri e negli uffici. Fornitori, capi cantiere, amministratori delle aziende del nord, cadranno vittima dei soliti metodi, e un caso tra tutti generò forte imbarazzo. Alessio Gozzani era il titolare di una modesta azienda che forniva materiali, e durante una acceso diverbio con Girolamo Cimino, cognato di Buscemi e sovrintendente ai lavori, lo definisce “terrone”. Il 9 aprile del 1991, Gozzani cade vittima di un agguato. Nessun colpevole è mai stato identificato.
Ciò nonostante, la quantità di appalti che le aziende Ferruzzi riescono ad aggiudicarsi è tale, riuscendo a far sedere alcuni suoi rappresentanti agli stessi tavoli al fianco del potere mafioso, che spesso si chiudono entrambi gli occhi su quanto ruota attorno alle attività quotidiane.
A rompere le uova nel paniere ci penserà ancora una volta Giovanni Falcone che intercetta in tempo reale quello che Abbate e Gomez definiscono come “…il nuovo corso di Cosa Nostra..”. Quando nel 1986 la Calcestruzzi verrà quotata in borsa, Falcone non mancherà di sottolineare ad un convegno di alcuni mesi dopo: “La mafia è entrata in borsa”.
Un “comunione d’interessi” che conduce all’Addaura
Il governo di Cosa Nostra come possiamo immaginare non reagisce positivamente a questa intromissione. L’azione quotidiana esercitata dagli uomini di Falcone sul territorio, già creava problemi sempre maggiori all’attività delle cosche. Ora Falcone allarga il raggio d’azione sui binari internazionali, concentrandosi sull’asse Stati Uniti-Svizzera. In America il giudice opera in stretto contatto con le autorità del FBI, stringendo una fruttuosa collaborazione con Rudolph Giuliani. Gli arresti in Sicilia come in America piovono a decine per volta. Ma se l’irritazione dei cugini americani per quanto accade sulle due sponde dell’Atlantico raggiunge livelli oramai insostenibili, è nella direzione elvetica che Cosa Nostra intravede la minaccia più pericolosa. Falcone come abbiamo già visto nei capitoli dedicati al suo lavoro, individua la Svizzera quale rifugio ove confluiscono i miliardi frutto dei proventi illeciti dell’organizzazione ma non solo. Nelle banche di Lugano e delle altre città della confederazione, giungono attraverso gli stessi canali anche i denari dell’evasione fiscale delle aziende, dei fondi neri di loro capitali occulti da utilizzare in svariate iniziative, incluso il liquido necessario alle mazzette con cui foraggiare politici e partiti. In pratica Falcone fiuta una pista unica con la quale si mettere le mani sui tre capisaldi dell’illegalità nazionale: la mafia, la porzione più moralmente decomposta del potere economico e della politica. Quando i giudici iniziano ad entrare nelle banche e le rogatorie internazionali ottenute da Falcone cadono a pioggia, scatta l’allarme rosso: tanti soggetti si ritrovano ad affrontare un unico pericolo. Come riporterà la relazione conclusiva di una operazione stretta con la DEA americana (Drug Enforcement Administration), alcuni agenti infiltrati raccolgono le rivelazioni di un manager che a Lugano smistava il denaro della mafia. Emergono i capitali del traffico di eroina depositati dalla ICRE di Bagheria, l’azienda di ferro e chiodi di Bernardo Provenzano. A suscitare ulteriore sconcerto ed interesse agli agenti americani sotto copertura però, sarà l’offerta dello stesso cassiere dei clan, che propone di reinvestire trecento miliardi di lire raccolte dalle mazzette intascate da funzionari e ministri del governo italiano. Leo Sisti e Peter Gomez forniscono una loro dettagliata interpretazione sul tema, nel libro “L’intoccabile, Berlusconi e Cosa Nostra” (Milano, Kaos, 1997).
Nino Giuffrè racconterà di una riunione a cui partecipò in quel periodo, dove la mafia americana sollecita i cugini siciliani “…a non perdere altro tempo…”.
Sono infatti maturi i tempi per l’attentato all’Addaura. I cinquantotto candelotti di dinamite che nel giugno del 1989 non esplosero per puro caso, sugli scogli vicini alla villa di Falcone nel giorno in cui i magistrati svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehman gli fecero visita per ragioni di lavoro, costituiscono la prova tangibile della comunione d’intenti da parte di quelle che il giudice definì “..menti raffinatissime…che conoscevano il programma di lavoro miei e dei miei colleghi…”.
Quelle menti operavano indiscutibilmente anche dall’interno dello Stato.
Il processo d’appello per l’attentato all’Addaura conclusosi soltanto nel 2003, con sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta, ha determinato Toto Riina come mandante, e Salvatore Biondino e Antonio Madonia quali esecutori. Condanne che saranno confermate dalla Cassazione nel 2004.
Nuovi e recenti sviluppi datati 2009, hanno aggiunto un nuovo nominativo tra i presunti artefici del tentato omicidio di Falcone e dei colleghi svizzeri. Trattasi di quel Salvino Madonia già condannato per l’assassino di Libero Grassi nel 1991. La riapertura delle indagini per mano della Procura di Caltanisetta sempre nel 2009, che come vedremo tra breve non si sta occupando solo di quanto accadde all’Addaura, segue la direzione dei Servizi Segreti deviati. Si ipotizza un occulto centro di potere che utilizzò Cosa Nostra per fini destabilizzanti in ambito politico ed economico. La storia è forse da riscrivere, o più probabilmente da stendere correttamente per la prima volta.
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Le nubi si addensano
L’atmosfera si incupisce quindi. Da più parti giungono le indicazioni che lasciano trasparire l’imminente esplosione di un uragano. L’unica ragione per cui dopo aver fallito l’attentato all’Addaura, Cosa Nostra non ci riprova nell’immediato è che il Maxi Processo non ha ancora terminato il suo iter. Falcone, Borsellino e l’intero pool che lo ha articolato e diretto, attendono il giudizio in Cassazione.
Nel frattempo il contesto politico in Italia sta per affacciarsi ad un futuro in rapida e traumatica evoluzione. Crescono movimenti indipendentisti come la Lega Nord, diminuisce il consenso e la fiducia nel sistema partitico tradizionale. Si profila anche un progetto di Lega meridionale del centro sud, tra i cui patrocinatori si rivede nientemeno che Vito Ciancimino, ed il venerabile Licio Gelli nelle vesti di potenziale candidato. Una vera ventata questa, di fresca rettitudine morale, cui il panorama politico nazionale sentiva il bisogno. Ironia a parte è il segno dei tempi: Cosa Nostra sente la necessità di farsi spazio in un frangente di trasformazione. Le certezze consolidate sono in pericolo e servono paladini fidati utili alla causa, figure arruolabili a 360 gradi da spedire in Parlamento per rinfoltire il partito trasversale pro mafia.
I reati sono in aumento e l’opinione pubblica s’incendia all’indomani dell’uccisione del giudice Rosario Livatino il 21 settembre 1990. L’esecutivo deve dare un segnale, ma a parte l’iniziativa quasi comica da parte del Primo Ministro Giulio Andreotti, che elabora una proposta di legge in cui si bandiscono i fucili da caccia nel centro sud d’Italia, occorre attendere sino al primo febbraio del 1991 per assistere ad una svolta importante. Il neo Ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli punta a convogliare su di se ed il partito un flusso di consensi garantiti e invita il giudice Falcone a vestire la direzione degli Affari Penali del Ministero. Egli accetterà e per i boss che si erano “convertiti al socialismo”, Riina compreso, questa iniziativa ha il sapore del tradimento.
Persino diverse voci provenienti dalla sinistra italiana pronunceranno lo stesso termine, ma accusando il magistrato di “…essersi venduto ai socialisti…”.
Un bel esempio agli occhi di chi la mafia intendeva combatterla a prescindere, libero dal uso strumentale della politica. (9)
Un dossier esplosivo
Pochi giorni prima di trasferirsi a Roma, Falcone incontra il capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno. L’ufficiale consegna al magistrato un dossier investigativo su “Mafia e appalti in Sicilia”. Un rapporto di quasi mille pagine in cui mediante intercettazioni, accertamenti finanziari e pedinamenti, senza avvalersi di alcun pentito, i carabinieri pongono in rilievo la posizione di Siino, e quella del gruppo Ferruzzi. Il gigantesco fascicolo è corredato con nomi, date, cifre, che descrivono nel dettaglio il sistema delle tangenti con il quale in Sicilia e nel resto del paese, si regola l’assegnazione degli appalti pubblici.
Compaiono nell’elenco nomi di aziende dal fatturato di miliardi quali la Grassetto di Salvatore Ligresti; la Tordivalle di Roma i cui titolari sono gli eredi di De Gasperi; la Rizzani De Eccher di Udine; le aziende dei cavalieri del lavoro di Catania, tra questi i nomi dei sospettati di coinvolgimento quali mandanti dell’omicidio del giornalista Giuseppe Fava;
la SII, azienda poi acquistata dall’ex direttore generale della Edilnord di Berlusconi, Antonio D’Adamo; diverse cooperative rosse; la Impresem del imprenditore in costruzioni di Agrigento Filippo Salomone; tutte le imprese facenti capo a Bernardo Provenzano e ai suoi consigliori Masino Cannella e Pino Lipari. L’intero panorama imprenditoriale da nord a sud ne è coinvolto. Da queste pagine si estrapola un sistema che intreccia la politica, la mafia alla imprenditoria, con una dettagliata limpidezza forse senza precedenti. Pagine e pagine di intercettazioni trascritte, narrano di sottosegretari, ministri e parlamentari chiamati in causa. L’inchiesta terremoto di Mani Pulite è ancora distante un anno, e tutte queste forze vivono tranquille in questo sistema drogato su cui si regge una bella porzione dell’economia italiana.
Un testo dal contenuto esplosivo, in grado di generare in molti l’istintiva tendenza a qualsiasi gesto pur di evitarne le conseguenze, e quando qualcuno di cui mai si è conosciuta l’identità, provvede a far divulgare il carteggio, scoppia il panico. Come conferma Nino Giuffrè, in Sicilia ma non solo, sono molti coloro disposti anche ad uccidere, perché il rapporto illustra senza equivoci il legame tra Cosa Nostra e politci-imprenditori nella gestione di miliardi e miliardi di denaro dei contribuenti. Falcone e Borsellino compresero il peso di quanto era giunto nelle loro mani e questo secondo il pentito, contribuì in maniera decisa a velocizzare la loro uccisione. La dettagliata descrizione dei meccanismi di spartizione degli appalti, consente anche una quantificazione del giro di affari. Un sistema che viene perfezionato dopo il 1988, anno che segna la fine dell’era Siino quale gestore. (10)
Nessun limite per mille miliardi
Il costruttore agrigentino Filippo Salomone assume in questa fase una posizione di rilievo, e grazie al tramite dell’ingegner Bini della Ferruzzi, diventa l’anello di congiunzione tra mafia e politici. Guiderà l’assegnazione degli appalti per un determinato periodo, segnando la fine della reale concorrenza tra le imprese, sancendo il punto di non ritorno nella connessione tra mafia e una porzione di politica e imprenditoria. La mafia garantiva la realizzazione degli affari ed in cambio chiedeva un 2 per cento per il proprio servizio di “intermediazione”. Riina stesso qualche tempo dopo, si mise a pretenderne uno 0.8 esclusivo. Se come calcolò Siino, si aggiravano sui 120.000 miliardi le lire stanziate dai politici in Sicilia, Cosa Nostra stava correndo il rischio di veder andare in fumo qualcosa come un migliaio di miliardi.
Quale limite è insuperabile per una cifra simile?
Il giudice Falcone non avrà il tempo materiale per occuparsi personalmente degli sviluppi dell’inchiesta, in quanto nel mese di Marzo del 1991 si trasferirà a Roma. Il subitaneo sospiro di sollievo mafioso, è destinato ad arenarsi in gola quando l’intraprendenza tipica del magistrato brucia le tappe anche nel nuovo incarico. Non ha ancora assunto la direzione degli Affari Penali, quando riesce a far emanare un decreto per ricondurre in carcere una quarantina di imputati del Maxiprocesso (incluso il papa Michele Greco), usciti di prigione per decorrenza dei termini, grazie ad una censurabile sentenza del discusso giudice di Cassazione Corrado Carnevale.
Ed è proprio attorno al suo nome, che l’opinione pubblica scatena una rumorosa campagna. Le sentenze di Carnevale sono state oggetto di polemiche a non finire, perché con regolare puntualità sembravano sovvertire i giudizi a danno di mafiosi. Falcone e Martelli riescono ad ottenere che anche la Cassazione assegni a rotazione i procedimenti. Riina e Provenzano saltano su tutte le furie nel prendere coscienza che persino il verdetto del Maxiprocesso non sarà dibattuto da Carnevale. Appare chiaro che qualcuno in Parlamento ha smesso di servire Cosa Nostra, e gli accusati non sono solo i democristiani. Il comportamento di Martelli viene giudicato come il simbolo di un potere in ostaggio di Falcone per l’intero dossier sugli appalti. Salvo Lima rincara la dose forse sottovalutando il pericolo, e chiosando sulle lagnanze dei boss, si lascerà andare a toni strafottenti: “…Ma cosa pensavano questi quattro pecorai, che ‘u presidenti (Giulio Andreotti), si dimenticava che nel ’87 hanno votato PSI?”.
Come verranno soprannominati da chi li frequenta in quel periodo, “le belve” Riina e Provenzano stanno meditando una vendetta senza precedenti. Essi cercano ancora di percorrere la pista Craxi, sempre attraverso Marcello Dell’Utri. Il manager di Publitalia in quei mesi deve scendere spesso in Sicilia per occuparsi di una serie di attentati contro alcuni magazzini della Standa nell’isola. Secondo i magistrati, gli atti dinamitardi servivano per indurre l’esponente Fininvest ad avvicinarsi e a prendere contatti. (11)
“…Fare la guerra per poi fare la pace…”
Filippo Malvagna è nipote del boss di Catania Giuseppe Pulvirenti, noto anche come “u malpassotu”. Egli affermerà che la dichiarazione di guerra allo Stato da parte di Cosa Nostra, fu deliberata sul finire del 1991, nel corso di una riunione ai vertici tra tutti i capimafia della Sicilia, presieduta dallo stesso Salvatore Riina. Un incontro inserito in un cartello denso di appuntamenti che si tennero tra il novembre del ’91 ed il febbraio del ’92, ribadito dalle testimonianze di altri pentiti come Leonardo Messina e Ciro Vara. Altre fonti concentrano queste riunioni nell’agosto-settembre sempre del 1991. Teatro delle riunioni furono varie località della provincia catanese, così come Enna. Tema centrale, l’esigenza di dare una forte risposta alle pressanti azioni che lo Stato stava muovendo verso l’organizzazione, dinanzi al verificare che le antiche intese istituzionali non offrivano più riscontri. Riina si ispira alla realtà colombiana e vuole alzare il tiro dello scontro. Il suo motto diventa “…Con lo Stato bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace…”. A margine della definizione del disegno stragista si manifesta la ricomparsa di un antico sogno mafioso: la formazione di un “…partito nuovo…”, composto da massoni e uomini d’onore appartenenti alla società che conta, in grado di traghettare l’organizzazione verso l’ambizioso desiderio di “…uno stato indipendente del Sud, all’interno di una Italia separata in tre Stati…”. Come rivelerà sempre il pentito Leonardo Messina a Paolo Borsellino nel giugno del 1992, era in atto un vero progetto eversivo che nei sogni di Riina doveva tramutarsi in un “…Cosa Nostra che si farà Stato…”. Un progetto utopico, quale lampante esempio di una delirante deriva, ma inserita in un contesto politico dove la percezione di una generale incertezza induceva a ritenere realizzabile ogni miraggio. (12)
Nessun contrario
La stagione degli attentati prende il via. I mesi a venire registreranno una serie di atti violenti verso ogni infrastruttura che identifichi lo Stato. Filiali delle poste, impianti dell’Enel, questure e stazioni dei carabinieri, fino ad alcune sedi territoriali della DC, saranno oggetto di attentati e distruzioni. Le azioni vengono firmate a nome della Falange Armata, ed il fatto costituisce una novità assoluta: mai prima d’ora gli uomini d’onore avevano rivendicato un atto criminoso. Secondo la versione di alcuni collaboratori di giustizia, si puntava a seminare disordine tra le istituzioni, per creare i presupposti politici alla separazione della Sicilia dal resto del paese.
Viene ordinato un programma di morte a carico di una serie di figure individuate come traditori. La lista include Salvo Lima, Claudio Martelli, Ignazio Salvo, Calogero Mannino e Salvo Andò, sino al nemico pubblico numero uno, Giovanni Falcone. In epoca più recente, altre fonti hanno implementato a questi nomi quelli di Giulio Andreotti e Carlo Vizzini. Il nome di Paolo Borsellino ancora non compare. Nonostante tutto sia pronto per dare il via all’escalation di violenza, Cosa Nostra vuole tastare il polso alla “società amica”, per verificarne le reazioni una volta scattato l’attacco. Nino Giuffrè, racconta di aver partecipato ad una riunione con Provenzano verso la fine del ’91. Erano presenti vari capomandamento ed il boss incaricò alcuni di essi a sondare politici, imprenditori, massoni, per conoscere il loro pensiero al riguardo del progetto stragista. A Vito Ciancimino secondo il pentito, venne assegnato il compito di esplorare la sponda politica. Pino Lipari fu inviato ad interrogare il fronte imprenditoriale. L’esito del sondaggio, a quanto venne riferito da Provenzano stesso, diede responso positivo: nessuno degli intervistati si mostrò contrario o intenzionato ad ostacolare in qualsivoglia misura la realizzazione del piano. Tutti erano troppo spaventati dai possibili nefasti esiti dell’inchiesta su mafia e appalti.
Quando con il 31 gennaio 1992, sopraggiunge la conferma in Cassazione delle condanne del Maxiprocesso, il piano diviene esecutivo. Il primo a cadere vittima di questa fase non sarà però un nemico di Cosa Nostra, ma una figura che poteva fregiarsi del titolo di grande confidente di molti e prestigiosi uomini d’onore. (13)
La mafia condanna Salvo Lima
Sono le 9:30 del mattino del 12 marzo 1992 quando l’onorevole Salvo Lima euro parlamentare DC, esce dalla propria villa in via delle Palme a Mondello, in provincia di Palermo. Ad attenderlo in auto vi sono il prof. Alfredo Li Vecchi e il dott. Leonardo Liggio, entrambi esponenti della DC palermitana. I tre politici sono diretti ad uno dei maggiori alberghi della zona: in programma vi è una importante riunione dei vertici locali del partito intenti ad organizzare i preparativi della imminente visita di Giulio Andreotti, impegnato nella campagna elettorale per le politiche del 4 e 5 aprile. Percorso un breve tratto di strada l’auto è affiancata da una motocicletta con due persone a bordo che sparano al suo indirizzo diversi colpi di arma da fuoco. L’automobile si arresta di lato e l’onorevole democristiano che nel frattempo ha ben compreso ciò che sta accadendo, quando si accorge della moto che una volta invertita la marcia sta per ripiombare su di loro, esce in preda al panico dalla vettura gridando “Stanno ritornando…!”. Nel disperato intento di guadagnarsi una via di fuga, Salvo Lima ingaggia una inutile corsa a piedi, ma uno dei killer sceso dalla moto per inseguirlo, una volta raggiunto lo fredderà con alcuni colpi di pistola, per finirlo con un colpo di grazia alla testa.
Li Vecchi e Liggio nel frattempo erano anch’essi scesi dall’auto e dopo una breve corsa si erano riparati dietro un cassonetto della spazzatura ad assistere sgomenti e terrorizzati all’esecuzione.
Grazie al contributo di diversi testimoni la dinamica dell’agguato appare subito chiara agli inquirenti unitamente alla sua matrice mafiosa. La notizia irrompe nel panorama politico nazionale suscitando clamore e timore. (14)
Morte di un potente
La mafia aveva giustiziato Salvo Lima. Ma perché proprio lui? Voleva essere un attacco alla DC siciliana o nazionale? E se così fosse, per quale motivo eliminare un politico in quel momento al Parlamento Europeo e non un suo collega a Roma?
Le risposte risiedono nella comprensione del ruolo che l’On. Lima ha rivestito per oltre i quarant’anni della sua militanza politica nella DC siciliana e nazionale. Di mafiosi Lima ne aveva conosciuti e frequentati molti. Uomini d’onore altolocati, potenti e di prestigio, spesso intrattenendo con loro confidenziali e duraturi rapporti che oltrepassavano la sfera affaristica e forse mafioso, lo era anch’egli 15. Le numerose testimonianze dei collaboratori di giustizia degli anni seguenti ricostruirono con esattezza la preziosa figura di Lima, quale autentico e principale referente politico di Cosa Nostra per la DC siciliana.
Egli a soli 23 anni nel 1951 16, era entrato a far parte della giunta comunale di Palermo nelle liste democristiane. La sua ascesa prosegue con un mandato da vicesindaco dal 1956 al ’58, e due da primo cittadino dal ’59 al ‘63 e dal 1965 al 1968. Sono gli anni del boom edilizio italiano che in Sicilia si chiama speculazione selvaggia, o più precisamente “Sacco di Palermo”. L’epoca in cui la giunta cittadina rilasciava migliaia di concessioni edili, molte a prestanome, alcuni dei quali si scopriranno già defunti nelle date di assegnazione. Una sistematica ed incontrollata spartizione degli appalti pubblici tra le aziende controllate da Cosa Nostra.
Lungamente legato al “fanfaniano” Giovanni Gioia, grande amico di Vito Ciancimino il discusso sindaco di Palermo legato a Totò Riina e Bernardo Provenzano, e successivamente braccio destro di Giulio Andreotti, Salvo Lima nel corso della sua carriera ha consentito alla mafia guadagni stellari in cambio di un costante e cospicuo flusso di voti verso i capi corrente a lui legato. Personaggi storici del panorama politico del dopoguerra come Amintore Fanfani e Giulio Andreotti, hanno potuto fondare su quei voti una luminosa e longeva carriera politica in grado di assicurargli assidue e ripetute cariche alla guida del Governo.
Lima fu ripagato con tanto potere, e numerosi incarichi di prestigio a livello nazionale ed europeo. La sua figura di intoccabile nonostante le imbarazzanti amicizie, sarà motivo di dissensi all’interno della stessa DC, ma alla fine persino Aldo Moro 17 dovrà arrendersi dinanzi alla impossibilità di una sua rimozione.
La mafia però ha una memoria condizionata dalle sole esigenze di prestazioni e servizi, e l’aver così a lungo militato in ambienti saturi di tali frequentazioni, non è risultato un alibi ma una aggravante nell’istante in cui Totò Riina ha ritenuto altamente insoddisfacente il lavoro da lui svolto nell’ultimo periodo.
Cosa Nostra intende far pagare alla corrente di Giulio Andreotti, una sorta di tradimento per la mancanza di quelle coperture che dovevano condurre ad una diversa conclusione la sentenza in Cassazione del Maxi Processo, e magari impedire a Giovanni Falcone di creare tanti problemi. Riina si sente come un vecchio compagno prima usato e poi scaricato dagli amici politici, e prima di occuparsi dei nemici, avvia il suo regolamento di conti con un chiaro messaggio verso chi si era dimenticato di lui.
Gli esecutori materiali dell’omicidio del fedelissimo andreottiano furono il killer poi divenuto un pentito Francesco Onorato, uomo d’onore della famiglia di Partanna-Mondello, che quel 12 marzo cavalcava la motocicletta insieme a Giovan Battista Ferrante. 18
All’ombra del “Palazzo” che sta per crollare, Provenzano tenta di sparire
Negli ambienti della magistratura l’assassinio di Lima fu registrato con estrema preoccupazione. Egli rappresentava una delle figure simbolo dell’istituzione mafioso politica, e la sua cruenta e spettacolare eliminazione equivaleva ad un terremoto dalle conseguenze imprevedibili. Stavano saltando degli schemi consolidati da decenni, ed in questi casi maturava la percezione del tutto può succedere. Giovanni Falcone commentò l’accaduto con “E adesso viene giù tutto…”. Sempre il magistrato, in un editoriale sul quotidiano “La Stampa” di quei giorni afferma: “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la Politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”. Ma come ci viene suggerito da Abbate e Gomez, la politica a cui fa riferimento il giudice, è oramai un surrogato di potenti che abitano in un palazzo pericolante. Il 17 febbraio di quel anno l’inchiesta “Mani Pulite” ha avviato il suo corso, sotto la direzione del pool di magistrati della procura di Milano guidati da Francesco Saverio Borrelli. Nel capoluogo milanese viene arrestato Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Il fermo darà il là ad un effetto domino che coinvolgerà nell’arco di poche settimane tutti i partiti politici e rispettivi leader. Le imputazioni ricorrenti saranno finanziamento illecito ai partiti, concussione e corruzione. Quel Bettino Craxi che gli uomini d’onore cercano ancora di agganciare, viene definito dagli autori come “…Un cavallo che si sta schiantando ancora prima di correre…”. Gli arresti ordinati dalla procura di Milano, stringeranno le manette ai polsi di quasi tutti i fidi scudieri del leader socialista. Con Martelli che si è bruciato con Falcone e Andreotti oramai inaffidabile, Cosa Nostra ritiene di non avere scelta, la strategia deve andare avanti, non si può tornare indietro. Provenzano è però dubbioso che questa sia la strada migliore. Aldilà delle rassicurazioni fornite dal sondaggio interno, egli è certo che lo Stato reagirà in qualche modo, e teme soprattutto conseguenze che minino la libertà individuale. La sua latitanza iniziata ben nel 1963, non gli ha impedito di muoversi ed agire. Egli è anche riuscito a crescere una famiglia con la compagna Saveria Palazzolo, di allevare due figli, ma ora le cose potrebbero cambiare.
Il fitto tessuto di amici, soci in affari e familiari che lo hanno sin qui protetto, rischia di subire un attacco massiccio. L’ideale sarebbe poter scomparire. Farsi credere morto la soluzione migliore. Ci proverà. A dimostrarlo fu quanto accadde nei primi giorni di aprile del 1992, circa tre settimane dopo l’assassinio di Lima. Saveria Palazzolo ed i figli tornano a Corleone ed annunciati da una telefonata di un avvocato di fiducia, si recano nella caserma dei carabinieri per un colloquio. Su di loro non vi sono pendenze giudiziarie: essere la convivente di un latitante non è di per sé reato. La chiacchierata lascerà nei militari la netta sensazione che Provenzano sia defunto. Se si trattò di percezione spontanea o “aiutata” da qualche altro elemento figlio della rete di agganci territoriali di cui godeva il boss, non fu mai chiarito. Di certo quando la polizia la convocò per delucidazioni, Saveria Palazzolo chiese curiosamente di essere accompagnata in questura da una gazzella dei carabinieri. Un militare fu silenzioso testimone dell’incontro nell’ambito di una procedura certamente anomala, ma la cronaca di quei giorni stava per prendere il tragico sopravvento, e quello strano episodio venne sepolto dagli eventi. (19)
Qualcosa di molto grave matura nell’aria
All’indomani della morte di Salvo Lima, Falcone e Borsellino confessarono all’amico Giuseppe Ayala le loro inquietudini. Essi presagivano che qualcosa di molto grave stava maturando nell’aria. Da tempo i due magistrati erano sottoposti alla pressione frutto della convivenza con il pensiero di una morte incombente. Una fine che poteva sopraggiungere all’improvviso, strappandoli senza appello agli affetti più cari. Mai questo influì sul loro impegno professionale e sulla loro lucidità. Purtroppo quelle sentenze di morte in cantiere da anni vennero deliberate da Riina e i vertici di Cosa Nostra e con esse gli specifici piani esecutivi per metterle in pratica. Ma alla luce di ciò che sta emergendo dalla riapertura delle inchieste sulle stragi del 1992-93 avviata dalla magistratura di Caltanissetta nel 2009, l’intero piano stragista potrebbe aver goduto del sostegno non solo mafioso. Gli elementi sembrano profilare la sussistenza di una sorta di antistato, un nucleo di potere deviato operante in seno alle istituzioni. Alcuni lo definiranno “entità”, altri “grumo”. Certamente qualcuno che aveva accesso privilegiato alle indagini e che ha provveduto a falsare prove e testimonianze, nel corso di un lungo ventaglio di anni, come ci ha già sottolineato Giuseppe Ayala in passato, è esistito.
Aldilà di quanto ancora la storia dovrà annotare, quei giorni significarono momenti devastanti per le istituzioni dello Stato così come Cosa Nostra. La scelta di Riina priverà l’Italia di uomini straordinari, ma al contempo creerà condizioni che condurranno anche l’organizzazione sulla soglia del collasso.
Prima di occuparci di quei frangenti terribili però, nel prossimo capitolo compiremo un viaggio all’interno delle connessioni a “sinistra” di Cosa Nostra. Un percorso che ci aiuterà a comprendere meglio come in epoca lontana e forse in forma sempre di più marcata di recente, chi si è trovato a combattere la mafia ha dovuto imbattersi in una indefinita ed incolore coltre di umana criminale immoralità.
Note
(1), (2), (3), (4), (5), 6, 7, (8), (9), (10), (11), (12), (13), (19), Fonte “ I complici “ – Lirio Abbate e Peter Gomez – Fazi Editore – Edizione febbraio 2007 “ Alle radici della paura “ – pagine 172…191 e relative note
(14), 15, 17, 18, Fonte “ senza memoria.wordpress.com”
16, Fonte “ Wikipedia.org “
20, Fonte www.laRepubblica.it del 29 giugno 2010
(21), Fonte www.repubblica.it/cronaca/2010/11/19/news/mafia