venerdì 4 ottobre 2024   
  Cerca  
 

wwwalkemia.gif
  Login  
Home1 » Le mafie » la sintesi di un fallimento  
La storia della Mafia Siciliana

Capitolo 3 - Dal 1860 al 1875: la sintesi del fallimento di uno Stato in erba

 
 

Campagne militari inefficaci ed inique
Lo storico Gaetano Falzone (Palermo, 2/4/1912 – 1/6/1984), uno dei massimi studiosi della storia risorgimentale siciliana, sintetizzò il fallimento di oltre un quindicennio di politica nazionale dopo l’Unità d’Italia, con l’espressione “Passata la buriana del sette e mezzo è la mafia”. Le svariate campagne militari messe in atto per piegare il brigantaggio e arginare la renitenza alla leva, non ottennero i risultati sperati. Si trattò di operazioni che coinvolsero l’esercito regolare ma orchestrate senza un disegno preciso e scollegate tra loro. A nulla servì istituire nuovamente le “Compagnie d’armi” di memoria borbonica con il nome ora di “militi a cavallo“ o “guardie di pubblica sicurezza a cavallo“, composte come in passato da agenti semiprivati. Ma soprattutto ogni sforzo veniva annullato dalla incapacità di inserire queste azioni in un contesto di giustizia sociale. Ogni nuovo intervento registrava uno smisurato numero di morti e di arresti tra civili in miseria e spesso innocenti. La credibilità delle forze dell’ordine poi, subiva un ulteriore attacco dall’implicazione di poliziotti in numerosi casi di furto per svariati milioni. Quel senso di abbandono da parte dello Stato così diffuso tra la popolazione continuò ad acuirsi sempre più. Lo spirito antiunitario ne uscì rinvigorito al pari del dilagare di fenomeni di diserzione e moti di rivolta. Ma in crescendo si riscontrò anche la fiducia per chiunque in modo organizzato riuscisse a proporsi come sistema di potere alternativo. E l’organismo in grado di candidarsi al meglio per quella veste fu la mafia. (1)

La prima comparsa della mafia in un rapporto ufficiale
Una mafia di cui ancora non si conosce quasi nulla. La sua prima comparsa in un rapporto ufficiale risale all’anno precedente la “Rivolta del sette e mezzo”. E’ il 25 aprile del 1865 quando il marchese Filippo Antonio Gualtiero, appena nominato prefetto di Palermo, invia un resoconto inquietante al proprio superiore, il ministro dell’Interno.
I prefetti rivestivano un ruolo determinante nel nuovo ordinamento amministrativo italiano. Essi costituivano gli occhi e le orecchie del governo centrale nelle varie regioni del nuovo Stato, e le loro competenze primarie erano dirette al mantenimento dell’ordine pubblico e alla vigilanza su ogni forma di opposizione. Il rapporto di Gualtiero descrive “…un grave e prolungato malinteso fra il Paese e l’Autorità…”. Una incomprensione tra Governo e paese reale che “…contribuì a far sì che la cosiddetta Maffia od associazione malandrinesca potesse crescere in audacia…
Le rivolte che regolarmente si succedevano nella Palermo di quel tempo, secondo Gualtiero, godevano del sostegno del braccio armato della “Maffia”, ancora nominata con la doppia “f”. Un appoggio che mirava ad ampliare il proprio potere, supportando le ragioni di chiunque si mostrasse ostile al Governo. Il vociare informale che serpeggiava da tempo nelle strade palermitane, prende la forma di un allarme ufficiale che entra nelle stanze del potere centrale.  Il prefetto suggerì di inviare un robusto contingente dell’esercito per cogliere una occasione importante ed infliggere un colpo mortale alla “organizzazione malandrinesca”. L’esortazione venne recepita a pieno, ma l’effetto dei 15000 soldati che saranno impegnati a quel fine per oltre sei mesi, non diede i risultati sperati.
Alcuni storici hanno definito Antonio Gualtiero un teorico della congiura, e di fatto incline ad ipotizzare con relativa disinvoltura, l’ordire di trame oscure a tergo delle tante difficoltà che le istituzioni dovevano affrontare. Di certo fu un servitore dello Stato propenso con eccessiva leggerezza alla necessità di una repressione violenta per gestire l’ordine pubblico. Il grido di allarme di Gualtiero era in questo caso giustificato, ma nello specifico, è il giudizio che gli studiosi attribuiscono alla sua scelta di allineare i “maffiosi” solo sulla sponda degli oppositori al Governo a lasciare perplessi. In Sicilia la “Maffia” era divenuta una componente fissa della lotta politica, ma a seconda delle circostanze e della convenienza, taluni seguaci alimentavano la fiamma dei rivoltosi, e altri si muovevano lungo la sottile lama dell’ambiguo, schierandosi con i potenti in difesa dell’ordine costituito. Accadde che membri appartenenti a gruppi diversi, schierati a opposte fazioni, etichettassero come mafiosi gli affiliati alla setta avversa, quasi riconoscessero i malviventi solo tra gli avversari. Una situazione di difficile lettura che alimentò la confusione e rese complicata per molti decenni una chiara identificazione del fenomeno mafioso. Chi affermava che “la mafia” sostenesse le congiure criminali, trovava altrettanti pronti a ridurla ad una sfumatura peculiare dei siciliani per ostentare una orgogliosa sicurezza di sé. Le circostanze che indussero il Governo a lanciare offensive per sconfiggere la mafia legandola ai rivoltosi, alimentarono di riflesso un’altra mistificazione, ovvero che la Sicilia ed i siciliani erano da sempre oppressi e maltrattati. La naturale conseguenza fu di irrobustire la reputazione della mafia. Forse non sapremo mai se si trattò di involontario errore o di strumentale congettura, ma è appurato come la chiave di lettura di Gualtiero celebrò l'inizio di quella che sarà una strategia mafiosa di lunghissimo corso: posizionarsi quale antagonista dello Stato. Da quel momento in avanti, qualsiasi attacco mosso dalle istituzioni a contrasto dell’ideologia mafiosa, anche se solo presunta, finirà per indebolirle, rafforzando il prestigio in termini d’intelligenza e di impunità della vera mafia. Di riflesso, agli occhi di larghe fette del popolo, essa acquisirà una immagine di sistema più giusto ed efficiente del concorrente. (2)


Si delinea l’essenza mafiosa
Ma nel suo resoconto il pubblico ufficiale aggiungeva anche altro, descrivendo connotazioni criminali che renderanno l’organizzazione celebre nel mondo. Egli informava il ministro degli Interni che “molti proprietari”, pur conservandosi “onesti”, si erano alleati “almeno con il silenzio” con la mafia “per il timore di gravi danni”, e che i mafiosi si erano già stretti alle tante famiglie arricchitesi dopo l’unità dell’Italia. In quella storica esposizione di oltre 145 anni fa,  Gualtiero aveva già sintetizzato molto dell’essenza mafiosa: ne aveva descritto la penetrazione nel tessuto sociale e politico; la violenta forza intimidatoria; l’acquisizione diretta o previo alleanze del controllo del territorio. Elementi quali tentacoli di un sistema criminale ancora in erba, non organizzato nel suo insieme, ma già in procinto di scatenare tutte le sue potenzialità.
Un potere che consentirà alla mafia, come denunceranno a più riprese contemporanei dell’epoca, di non essere nella sostanza toccata dalle campagne militari del Governo.
Nell’arco di un decennio, quanto denunciato da Filippo Antonio Gualtiero assume contorni ancora più definiti. Il 29 maggio 1875, il cavalier Soragni ai vertici della prefettura di Palermo, sempre scrivendo al ministero del Governo afferma: “…La mafia…(quella vasta organizzazione che tutto occupa il corpo sociale e con opposti sensi dell’intimidazione e del patrocinio se stessa cerca di sostituire al pubblico potere…), ha la forza del Governo e della legge…”. In quella stessa circostanza inoltre, dalla prefettura siciliana giunge la prima comunicazione ufficiale che distingue la mafia dalla delinquenza comune. Nonostante intere bande di briganti venissero distrutte, “… la mafia causa principalissima del male, è indomita sempre e mantiene vigorosamente se stessa e rinnova le assottigliate schiere dei malandrini …“.
La quasi totalità dei funzionari informò il Governo attraverso rapporti resi pubblici molti anni dopo, come la popolazione siciliana non collaborasse per nulla con la polizia, e quanto i mafiosi beneficiassero del silenzio della gente comune. Gli scritti ponevano in evidenza la tendenza generalizzata da parte dei siciliani a risolvere le questioni fra di loro, e l’estesa corruzione che affliggeva poliziotti e giudici, rendendoli morbidi e remissivi al cospetto di una omertà diffusa.
La classe possidente di Palermo e dintorni del post 1860, oltre a conservare le gerarchie di natura feudataria e “gabellotta“, con il continuo appoggio di esponenti del clero, è dedita a violenze, a imbrogli, a prepotenze, e determina l’intrusione mafiosa nelle elezioni pubbliche e amministrative. Un quadro a dir poco desolante che apre alla introduzione di un’altra importante linea di demarcazione: la distinzione tra la “mafia banditesca”, quale braccio armato, e una “mafia dai guanti gialli“ composta da figure di potere. Una comunicazione ufficiale precedente di un anno a quella del cavalier Soragni, sempre proveniente dalla prefettura palermitana e indirizzata al ministro degli Interni, entra nel merito di questa ulteriore classificazione. E’ la penna del prefetto Rasponi, che in data 31 luglio 1874, distingue “ il mafioso malfattore operante “…  da quello che non si mostra apertamente ma si fa centro delle notizie e delle confidenze riguardanti la premeditazione e l’esecuzione dei reati”; “… Il ricco si avvale del mafioso per serbare incolume dalla piaga del malandrinaggio la sua persona e le sue proprietà, o se ne fa strumento per mantenere quella preponderanza che ora vede venirgli meno per lo svolgersi e progredire delle libere istituzioni”.
La Sicilia sarà testimone in quegli anni di vari esempi dove la mafia dai guanti gialli vince il confronto con la legge: questori collusi che escono prosciolti dalle inchieste a loro carico e procuratori loro accusatori che saranno trasferiti; banditi e baroni uniti nell’attività mafiosa, con i primi arrestati e condannati e i secondi assolti grazie ai “soliti raggiri“; prefetti che con forza cercavano di combattere nobili mafiosi legati alla Real Casa, che dovranno dimettersi dall’incarico a seguito di pressioni alto locate.
Purtroppo anche dinanzi ad una così ampia serie di denunce ufficiali esercitata da prefetti, questori e giornalisti, la massima urgenza in ambito di conservazione dell’ordine pubblico del governo, è sopprimere ogni moto rivoluzionario antiunitario, vero o presunto che fosse.
La questione mafiosa quindi non pare prioritaria, ma non sarà questo l’unico gravoso argomento ad essere trascurato. (3)

Una nazione da costruire da zero

A subire di fatto una cancellazione dall’agenda del Governo, è anche l’elenco delle disastrose emergenze che affliggono l’intero meridione. Il nuovo esecutivo era alle prese con una nazione da costruire praticamente da zero. Una patria ancora dalle sfumature indefinite, costantemente sotto la minaccia di un attacco di stati esteri come l’Austria. Occorreva unificare non solo sulla carta, un territorio dalle Alpi alla Sicilia composto da aree con un passato storicamente difforme e da lingue e dialetti diversi. L’Italia appena costituita era un paese lacerato da ingiustizie sociali e da una povertà spaventosa che si fondeva ad un analfabetismo cronico e diffuso anche al nord. All’interno di questa multiforme rassegna di popolazioni e culture, il meridione rappresentava la porzione afflitta dalle necessità più gravose. Gli scontri armati ed i disordini, assumevano le proporzioni di una vera guerra civile e la miseria si colorava delle tinte più fosche possibili. La povertà in moltissime aree del sud Italia e della Sicilia, diveniva sinonimo di denutrizione e di morte per fame, nonché di epidemie causate dalle malattie infettive per la totale assenza di norme igieniche. Una situazione paralizzata da un debito pubblico dello Stato che raggiungeva cifre terrificanti. Qualsiasi iniziativa di ampio respiro in ambito sociale, di per sé rara per la natura spesso insensibile ai bisogni popolari della classe politica, era finanziariamente destinata a naufragare. Ma più del precario bilancio statale, a minare ogni processo di reale unificazione fu proprio l’assenza di volontà nel comprendere la realtà di ogni singola regione da parte del Governo. Si puntò ancora sulla repressione nel nome della centralità dello stato. Il risultato andò nella direzione opposta da quella desiderata: non solo non germogliò nel popolo siciliano il senso di appartenenza ad una unica nazione, ma si alimentò l’insoddisfazione in masse già provate, che finirono per legarsi maggiormente a chi vicino a loro mostrava di poterli aiutare nel quotidiano. (4)

Mafia “povera” ed inesistente

Un ulteriore errore venne commesso dalle istituzioni centrali, quando a più riprese e lungamente negli anni, si attribuì al fenomeno mafioso una estrazione sociale modesta. Una convinzione che indusse a sottovalutare il problema, nonostante le ripetute informazioni di segno opposto provenienti da prefetti e pubblici ufficiali locali. Una corretta interpretazione del fenomeno, avrebbe consentito una giusta chiave di lettura e la messa a punto delle opportune contro misure. Occorreva colpire i centri nevralgici del potere mafioso locale, invece che generalizzate campagne a tappeto mosse in ordine sparso, ma nulla di questo accadde.
Sin dai primi anni dopo l’unità del paese, non si scorge come le attività illecite siano in mano a uomini potenti e facoltosi. Solo il braccio armato è composto da criminali spesso sprovvisti di alcuna istruzione e reclutati nei bassi fondi urbani o nelle province agricole. Gli affari e gli intrallazzi sono gestiti da nobili, medici, avvocati, religiosi. Sono loro che agevolano o spesso dirigono in prima persona, l’ingresso dei metodi mafiosi nella vita pubblica, politica e amministrativa.
Altrettanto grave poi, fu sminuire l’abilità dei membri di queste organizzazioni che i documenti ufficiali citano come “sette o clan familiari”. L’opinione più comune che circola nelle stanze del potere centrale romano come nei salotti della nobiltà del Nord, lega il termine mafia ad un concetto di generale arretratezza. Gli uomini che vi aderiscono vengono descritti come individui dalla cultura ed intelligenza limitata. Una analisi di per sé inesatta che travalica in una autentica e pretenziosa tesi scientifica. Cesare Lombroso, uno degli intellettuali italiani più celebri del periodo, pubblica nel 1876 “L’uomo delinquente”. In quello scritto egli esige di identificare i criminali attraverso alcuni tratti somatici o profili fisici. Ecco che grandi orecchie sporgenti, fronti basse, braccia lunghe, o altre specificità del genere, assumono i contorni di “stimmate degenerative”. I delinquenti secondo Lombroso, sarebbero il frutto di malformazioni biologiche, casuali degenerazioni che riportano l’individuo ad una fase precedente dell’evoluzione umana. Quella che oggi appare come una teoria demenziale, veniva accreditata da uno degli studiosi più acclamati dell’epoca. Alle sue lezioni universitarie di Torino accorrevano centinaia di persone. Dalla sua viva voce e dai suoi scritti, questa sorta di classificazione si diffonde in tutta la popolazione letterata. Il collegamento con la realtà siciliana sarà immediato, ed i mafiosi finiscono per rientrare pienamente nella catalogazione pseudo scientifica di Lombroso. Una interpretazione accolta con notevole credito in quanto ad alimentare una simile fiducia, contribuiva il disperato bisogno di rassicurazioni da parte dei cittadini del gracile ed in erba Stato italiano. Attribuire alla biologia la responsabilità di un così alto numero di crimini ed omicidi diveniva molto più comodo per tutti.
La mafia era certamente primitiva ma in senso sociale, in quanto beneficiava dell’arretratezza culturale che bloccava la Sicilia al Medioevo. Attorno al suo termine regna una confusione totale, alimentata dalla ignoranza e dal pregiudizio. A trarne beneficio sarà l’organizzazione criminale stessa, che attraverso intellettuali, nobili e religiosi e lei vicini, mescolerà nel torbido sostenendo che la “mafia non esiste”, dando inizio ad un luogo comune destinato a consolidarsi per molti decenni ancora. Persino il vocabolo “Mafia” è ancora soggetto a nomenclature incerte. Come appare nel rapporto del prefetto Antonio Gualtiero, viene spesso sostituito dalla parola “maffia”. Gli stessi artefici della mistificazione riguardante la sua “non esistenza”, si attivano per allontanare la lente dell’opinione pubblica sulle sfumature violente della mafia. Essa verrà descritta come il risultato della fusione di tradizioni e leggende popolari, comportamenti dettati dall’indole di gente fiera, orgogliosa e indipendente, gelosa del proprio passato. Così anche la tendenza a non rivolgersi alle autorità e alla polizia, regolando i conti “ privatamente“ e assistita da una quasi unanime omertà, viene venduta come diffidenza verso gli estranei dopo secoli di dominazioni straniere.
L’etichetta di mafiosi, che il neo governo erroneamente applica sulla pelle di tutti i siciliani inoltre, contribuisce ad allontanare la grande fetta di gente onesta di tutti i ceti, che della malavita è vittima quotidiana. Il dramma di chi in preda a miseria e sfruttamento, non trova comprensione e aiuto negli avamposti istituzionali è diffuso, e vissuto in tragico silenzio.
A prendere il sopravvento al contrario, sarà la visione romantica di una Sicilia onorabile perseguitata da un esecutivo iniquo che agli occhi di molti siciliani, assume i contorni dell’ennesima sovranità forestiera.
E pensare che nelle sue lontane e confuse origini, persino nella mafia si può assaporare un retrogusto di esotismo straniero. (5)

Le regole dell’iniziazione
Nel tentativo di ricomporre il quadro storico in cui ha origine il fenomeno mafioso, dobbiamo accettare la convivenza con alcuni “se“ in diversi paragrafi. Uno di questi è relativo al momento esatto in cui le attività banditesche in genere, prendono le sembianze di organismi articolati nel concetto di mafia come lo intendiamo oggi. “Se“ i documenti a cui si è attinto sono attendibili, i riferimenti a clan o sette giunge da un periodo antecedente il 1860.
Diversi storici ritengono verosimile una ricostruzione che illustra queste associazioni come una evoluzione delle società di tipo massonico, giunte in Sicilia dalla Francia via Napoli attorno al 1820, e secondo altri in periodi ancora precedenti. Altri ancora propongono una trasmigrazione più o meno simile ma di provenienza spagnola. Esse divennero molto popolari tra le schiere di una bramosa classe media astiosa al regime borbonico. Questi movimenti avevano una ispirazione che inizialmente poteva definirsi patriottica o comunque ispirata a contrastare un potere dominante, ma nel loro “scivolare” verso la Sicilia, assunsero i connotati di fazioni politiche più simili alle bande criminali o sette. In un rapporto ufficiale del 1830, si racconta di un circolo carbonaro abile ad aggiudicarsi gli appalti governativi a livello locale. Una specializzazione insita nel dna degli affiliati a partire da epoche remote.
L’origine massonica inoltre, spiegherebbe la comunione con la mafia delle cerimonie d’iniziazione a celebrare l’ingresso dei nuovi membri. Questi incontri dal profondo clima sinistro, avevano lo scopo d’intimorire gli iniziati, di prevenirne la tendenza al tradimento, di creare attorno alla setta un senso di appartenenza che forgiasse i suoi componenti ad una fedeltà sospinta fino all’estremo sacrificio. Il candidato all’ingresso del clan veniva condotto dinanzi ad una schiera di capi e vice capi. Uno di questi lo avrebbe punto con un pugnale, che divenne uno spillo in un epoca più vicina a noi, per poi spalmare il suo sangue al di sopra di una immagine sacra. Essa veniva incendiata nella fase del giuramento di fedeltà e le ceneri finivano sparse a simbolo di morte per ogni traditore.
L’aspetto più sconvolgente è il constatare quanto molti di questi punti, fossero ancora presenti nel racconto della propria cerimonia d’iniziazione da parte di Giovanni Brusca, detto “lo scannacristianni”, l’uomo che premette il pulsante del comando a distanza della strage di Capaci, dove persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta. Brusca dopo la cattura decise di collaborare con la giustizia, e tra le migliaia d’informazioni relazionate, si celava un rito ancora fedele ad oltre cento anni di distanza. Dal racconto di Brusca traspare quella fusione di ansia ed eccitazione nel trovarsi al cospetto di una riunione di così “rispettabili e temuti uomini d’onore”, tra i quali non mancava il boss corleonese Totò Riina. Il padre di Giovanni era boss anch’esso e la scalata del figlio ne risultò quindi agevolata. A consentirgli un ingresso così precoce, il ragazzo era all’epoca appena diciannovenne, contribuì l’inserimento nel proprio curriculum di candidato del primo omicidio già commesso. Il giovane venne interrogato con domande che egli definiva strane: “Te la sentiresti di uccidere un uomo?...Di commettere reati?”. Quesiti ritenuti da lui anomali in quanto Brusca già aveva ucciso e infranto la legge. Si trattava della cerimonia d’iniziazione nella sua fase introduttiva. Le sfumature che circondavano le risposte del giovane, venivano attentamente esaminate e l’entusiasmo che traspariva evidente dal ragazzo convinse gli esaminatori a procedere nel rituale vero e proprio. Gli uomini d’onore si riunirono da soli lasciando fuori dalla stanza il candidato. Di seguito lo fecero entrare da solo senza il padre. Al centro del tavolo attorno al quale gli uomini erano seduti, stava una pistola, un pugnale e un santino. Gli uomini d’onore iniziarono di nuovo ad interrogare Brusca: “Ma se andrai a finire in carcere sarai fedele e non tradirai…? Vuoi far parte dell’associazione chiamata Cosa Nostra?...”. Il giovane assentì con rinnovato trasporto e a quel punto uno dei presenti afferrò la mano di Brusca e con uno spillo punse un dito. “L’iniziando” sparse il proprio sangue sull’immagine del santo, mettendola poi nelle mani giunte a coppa mentre Riina in persona accendeva l’effige sacra. Il capo dei capi trattenendo le mani del giovane sulla fiamma impedendogli di sottrarle per il dolore, pronunciò:”Se tradisci Cosa Nostra, le tue carni bruceranno come brucia questa santina”. (6)

Il Rapporto Galati e l’industria degli agrumi
Le prime informazioni che legano ufficialmente una cerimonia d’iniziazione al fenomeno mafioso, sono contenute in un rapporto inviato al ministro dell’Interno dal dottor Gaspare Galati nel 1875. Il dottor Galati è un apprezzato chirurgo di Palermo e nel 1872 si troverà ad amministrare una tenuta di limoni ereditata dalle sue figlie e dalla loro zia materna. L’appezzamento in questione è situato poco fuori il capoluogo, ed il pezzo forte è costituito da una azienda agricola dedita alla coltivazione di limoni e mandarini. Il “Fondo Biella” era per l’epoca una struttura modello. Quattro ettari di meravigliosi filari irrigati da un sistema all’avanguardia, una evoluta pompa a vapore da 3 CV che richiedeva un operatore specializzato per farla funzionare. La posizione nei pressi di Malaspina, a solo un quarto d’ora di marcia dai limiti cittadini, la collocavano in un punto perfetto per il trasporto dei frutti verso la città ed il porto.
Il commercio degli agrumi nella Sicilia dell’ottocento, costituiva uno dei capisaldi dell’economia. L’esportazione dei limoni siciliani ebbe il suo inizio sin dalla fine del settecento, ma l’autentica esplosione dell’industria agrumaria si registrò intorno alla metà dell’ottocento. Uno sviluppo che ha origini legate allo stile di vita britannico: dal 1795 la Royal Navy introduce l’uso dei limoni come cura contro lo scorbuto, autentica piaga che colpiva i suoi equipaggi. Le preziose vitamine che si nutrivano del sole della Sicilia, costituirono un toccasana per uomini che dovevano trascorrere mesi e mesi in mare, privi di accesso a frutta e verdure fresche. In forma minore ma comunque rilevante per le abitudini inglesi, attorno agli anni ’40 dell’ottocento, si diffuse il commercio del tè Early Grey che utilizzava l’essenza di bergamotto.
Una volta fuori uscito dai confini, il prestigio dell’agrume siciliano è destinato a diffondersi in tutto il mondo. Nel 1834 oltre 400.000 casse presero la via di New York e Londra. Il numero era salito a 750.000 nel 1850 e nell’arco di pochissimi anni oltre due milioni e mezzo di casse veniva scaricato nel solo porto della “Grande Mela”. Un numero sbalorditivo di cui la gran parte proveniente dai filari circostanti Palermo. Quando nel 1860, Garibaldi sbarca in Sicilia, si stima che l’industria degli agrumi isolana fosse la terza per volume di affari dell’Europa intera, superando per introiti la regione dei frutteti che circondava Parigi. Nel 1876, i terreni coltivati ad agrumi garantivano un reddito per ettaro di oltre sessanta volte superiore alla media delle altre colture della Sicilia.
Una piantagione di agrumi dell’epoca pretendeva importanti investimenti iniziali. Occorreva rimuovere i terreni dalle pietre, e per garantire un ottimale sfruttamento dei pendii bisognava terrazzarli. Serviva allestire magazzini dove stoccare attrezzi e prodotti; costruire strade per la logistica, muri di cinta per proteggere i frutteti dal vento e dai furti; una meticolosa attenzione veniva dedicata ai canali di irrigazione, perché la frutta aveva bisogno di sole e di una costante fornitura d’acqua. Una volta impiantati gli alberi bisognavano di cure e di pazienza: si attendeva anche fino ad otto anni prima di produrre i primi frutti, e diversi altri ne dovevano scorrere per ammortizzare le ingenti spese investite. Gli agrumeti erano un magnifico gioiello della natura impreziosito dell’arte umana. Una creazione costosa ad avviarsi, in grado di assicurare enormi profitti, ma altrettanto fragile e vulnerabile da garantire in vita.
Una interruzione pur breve della fornitura d’acqua in momenti delicati della stagione, poteva produrre effetti devastanti. Gli alberi seppur chiusi da muri e recinti, erano disposti in filari su terreni di norma isolati, distribuiti su ampi spazi anche lontani dalle abitazioni di padroni e contadini. Difenderli costantemente dagli atti vandalici era impossibile. La combinazione di estrema vulnerabilità e di un così alto potenziale di rendita, rese le coltivazioni di agrumi uno dei bersagli preferiti dai sistemi mafiosi nella seconda metà dell’ottocento.
La mafia aggredì quel mercato con il suo racket estorsivo e di protezione. (7)


Dietro alle violenze, la mafia dell’Uditore
L’area circostante a Palermo dove si trovava il Fondo Biella del dottor Galati, era al centro dei territori preda del radicamento mafioso del periodo. Il capoluogo vantava nel 1861 oltre 200.000 abitanti, ed era il cuore delle attività politiche, amministrative, finanziarie della Sicilia. A Palermo operava febbrilmente uno dei porti commerciali più importanti del mediterraneo, ed attorno ad esso ruotavano i mercati di tutta l’economia. Tra i potenti e facoltosi uomini d’affari che da tutte queste attività traevano ricchezza, la mafia crebbe e prosperò.
Quando Galati assume il controllo del podere, è ben consapevole della situazione di pericolo. Il precedente titolare era morto d’infarto a seguito di ripetute minacce. L’artefice delle intimidazioni era tale Benedetto Carollo, guardiano del fondo. Egli si vantava di essere il vero padrone della tenuta. Pur non essendolo in realtà si comportava come tale. Carollo conosceva bene le regole del mercato degli agrumi ed era determinato a condurre al fallimento l’azienda per i propri scopi. La catena che consentiva ai frutti di staccarsi dagli agrumeti fino sui banconi dei negozi di tutti il mondo, prevedeva un lungo elenco di intermediari. Raccoglitori, venditori, commercianti, imballatori e agenti, costituivano anelli esposti alle influenze criminose. Gli elevati costi di avvio ed il rischio di annate negative, suggerivano a diversi proprietari la vendita del prodotto con gli agrumi ancora appesi ai rami, diversi mesi prima la loro maturazione. Al Fondo Biella, accadde che per diversi raccolti, qualcuno fece sparire i frutti dalle piante una volta venduti ma prima della raccolta. I compratori si trovavano privi dei prodotti da commerciare ma già acquistati. Tutti erano pronti a giurare che l’autore dei furti era proprio Carollo, che oltre ad impadronirsi del 20-25 per cento dei proventi delle vendite, tentava di rovinare la reputazione dell’azienda sulla piazza per innescarne la svalutazione e ricomprarla ad un prezzo inferiore.
Il dottor Galati prese la decisione di licenziare il suo guardiano, ignorando le molteplici voci che gli suggerivano di non farlo. Pochi giorni dopo la sua assunzione, il sostituto di Carollo venne colpito da numerose pallottole alla schiena mentre si spostava tra i filari. Gli assassini avevano sparato da una struttura appoggiata su pietre posta dietro il muro di cinta dell’agrumeto: un sistema utilizzato di frequente dalla mafia di quel tempo. L’uomo muore dopo il ricovero in ospedale, ma le indagini della polizia furono tentennanti in modo sospetto. Galati trovò difficoltà ad assumere un nuovo guardiano ma alla fine ci riuscì. Nel frattempo una serie di nuove lettere minatorie inondò la sua famiglia. Gli scritti insistevano nel ritenere un errore il licenziamento di “un uomo d’onore” quale era Carollo, e il suo avvicendamento con “una infame spia”. Un linguaggio inedito all’epoca, ma che riletto a distanza di tempo e dopo aver preso coscienza di chi vi fosse dietro alle intimidazioni, appariva chiaro: l’uomo d’onore era uno degli assassini. Il medico denunciò Carollo alle forze dell’ordine quale autore delle lettere minatorie. L’ex guardiano venne arrestato dopo molti giorni e svariate insistenze del medico, ma rilasciato nell’arco di poche ore. L’estrema rapidità con cui il sospettato venne rimesso in libertà, e la reticenza con cui ancora una volta vennero condotte le indagini, indussero Galati a ritenere che anche l’ispettore di polizia fosse colluso con i malviventi. Di certo la lotta per salvaguardare la propria azienda permise al chirurgo di comprendere a pieno la complessità della situazione, e soprattutto di scoprire che i suoi nemici si celavano nella cosca situata all’Uditore, un paese poco distante dall’azienda agricola. Il potente clan mafioso operava dietro la copertura di una associazione religiosa, i “Terziari di San Francesco”. La figura ecclesiale di riferimento dell’associazione, che ufficialmente si occupava di carità verso i bisognosi garantendo l’opera pastorale della Chiesa, era il prete del paese, don Rosario. In realtà il vero leader dei “Terziari di San Francesco”, suo presidente, nonchè capo del clan mafioso, rispondeva al nome di Antonino Giammona. (8)

Antonino Giammona tra i primi boss a noi noti

Giammona era di origini contadine estremamente povere e aveva iniziato a lavorare da bracciante poco più che bambino. La sua scalata sociale collima con i moti che conducono all’Unita D’Italia. Gli anni dal 1848 al 1860 così socialmente instabili, consentirono a Giammona di porre in evidenza tutta la sua scaltrezza e grazie ad influenti amicizie conquistate strada facendo, diventa un uomo importante con solide disponibilità economiche. Pur sospettato di diversi omicidi e di aver legami con altri loschi figuri di Corleone, rifugiatisi all’estero per sfuggire all’arresto, pare immune al cospetto della legge, che nei suoi riguardi si pone con deferente rispetto.
La mafia dell’Uditore era ben nota agli agricoltori della zona, in quanto centrava il proprio potere applicando in forma estesa il racket dell’estorsione e protezione sulla coltivazione degli agrumi. Un potere esercitato in varie forme: obbligando i possidenti terrieri ad assumere i suoi uomini in qualità di fattori, guardiani e mediatori; oppure mettendo in pericolo il raccolto di una azienda agricola, mediante l’operato scorretto di grossisti e portuari; sempre utilizzando la violenza, la mafia falsava le regole del mercato accaparrandosi diritti esclusivi. Una volta agguantate le redini dell’impresa, il clan poteva accontentarsi di un elevato utile parassitario, o di acquisirne la proprietà ad un prezzo fasullo e ribassato.
Lo scontro che il dottor Galati ingaggerà con la mafia di Giammona entrerà in una fase ancora più cruenta. Seguiranno ulteriori minacce scandite da un ultimatum, scaduto il quale anche il secondo guardiano del Fondo Biella cadrà vittima di un attentato. L’uomo dopo il ferimento, denuncerà i suoi attentatori riconoscendo tra loro Benedetto Carollo, ma in seguito finirà per accordarsi con lo stesso Giammona e ritratterà le accuse. Con il tempo si scoprirà che entrambi i guardiani sostituti di Carollo, erano anch’essi mafiosi ma di fazioni avverse a Giammona. Gaspare Galati si rivolgerà a più riprese alla polizia, ne denuncerà la collusione con la mafia, otterrà persino la rimozione dell’ispettore corrotto, ma sarà alla fine costretto a fuggire dal fondo per salvare la vita propria e dei famigliari. Al fianco del boss, si schiereranno altri proprietari, politici, e persino il giudice della Corte d’Appello di Palermo che venne visto cacciare selvaggina in compagnia del buon Carollo. Prima di abbandonare il Fondo Biella, il dottor Galati invierà il proprio resoconto al ministero degli Interni, denunciando il giogo mafioso che soffocava i coltivatori di agrumi nell’area dell’Uditore. Nel rapporto includerà un elenco degli almeno 23 omicidi occorsi all’Uditore nel solo 1874 su una popolazione di 800 abitanti, e gli oltre 10 ferimenti registrati a danno di coloro che si opposero all’organizzazione o nel corso di regolamento di conti tra mafiosi. La delazione si completa con una dettagliata descrizione della scandalosa permeabilità mafiosa accertata nelle istituzioni locali, oltre che di una lunga ed inedita serie di informazioni sulle attività della mafia dell’Uditore, cerimonia d’iniziazione inclusa.
Il documento inviato da Galati non rimarrà inascoltato, ma nessun lieto fine seguirà a quella disperata denuncia. (9)

L’industria della violenza
Dalla rilettura di quanto è giunto a noi della vicenda di Galati, di Giammona e dell’Uditore, si può estrapolare un significativo esempio di quanto si ripeteva in svariate realtà della Sicilia. Ognuna di queste organizzazioni aveva una struttura gerarchica ben precisa. Spesso i componenti non si conoscevano tutti gli uni con gli altri anche se erano frequenti i legami parentali. I vertici erano costituiti da gruppi di uomini che facevano riferimento ad un capo mafia, che poteva essere un nobile o un ricco, legato a politici che lo proteggevano per la legge degli uomini, e spesso ad ecclesiastici che ne certificavano il rango di uomo timorato di Dio. La sua figura rivestiva un ruolo paragonabile all’imprenditore di una azienda. Come l’impresario di questa industria della violenza e del crimine, predilige le strategie commerciali, individua gli obbiettivi fonti di maggior profitto, sceglie su quali vittime agire con maggior violenza e su quali altre allentare la presa. Il capo mafia inoltre, gestisce gli uomini d’onore al proprio servizio, e su di loro esercita un potere di vita e di morte. Molti di essi sono a lui legati e tra loro da rapporti di parentela, aspetto che stringe ancor di più il vincolo che li unisce.
Attraverso l’estorsione, la minaccia armata e l’uccisione di chi si opponeva, vittima o rivale che fosse, i clan si appropriavano di parti dei ricavi di raccolti e attività commerciali, imponevano l’assunzione di loro uomini di fiducia, fino a prendere possesso dell’intera impresa. Mediante il “pizzu“, il pagamento di una somma per ricevere protezione, pena la distruzione di raccolti, l’uccisione del bestiame, o una fucilata, applicavano i loro “sistemi particolari“. 
I campi di applicazione delle attività criminose, si ramificano in tutti quegli ambiti che in Sicilia garantivano profitto, aggredendo oltre le coltivazioni di agrumi anche quelle di cereali, della vite, nonché l’allevamento del bestiame, il commercio di ogni bene, l’estrazione di minerali.
Nel tempo gli appartenenti alle bande mafiose, tramandarono a loro volta il metodo a parenti, amici e soci d’affari, e se finivano in prigione ai loro compagni di cella. Il sistema si diffuse e si allargò, come un virus che contaminò regioni sempre più ampie e lontane dell’isola.  (10)

Il dramma delle zolfare
La rivoluzione industriale che dalla seconda metà del settecento avanzò dall’Inghilterra, per estendersi gradualmente nel resto d’Europa, esigeva un sempre maggiore impiego di materie prime. Ad inizio ottocento, la Sicilia deteneva il monopolio nazionale nell’estrazione dello zolfo, una delle risorse naturali più utilizzate dall’industria. Lo zolfo costituiva elemento essenziale in uno svariato campo di applicazioni, dalla produzione di antiparassitari o pigmenti, alla lavorazione della carta, fino alla fabbricazione di esplosivi. I giacimenti più massicci dell’isola, vennero rinvenuti nel sottosuolo di pianure e colline nelle province di Agrigento e Caltanissetta: scoperte destinate a risollevare a caro prezzo le economie di quelle terre. L’estrazione dello zolfo nella Sicilia sud occidentale e centrale, per una moltitudine di indigenti costituì l’unica speranza di sopravvivenza. La miserabile condizione di vita di molte famiglie non lasciava spazio ad alternative, e per uno stipendio quasi sempre da fame, a migliaia accettarono di lavorare da sfruttati in condizioni disumane. Tra coloro che scendevano nelle miniere, lo zolfo portò ricchezza a pochissimi. A tutti invece, recapitò le tragiche conseguenze del lavorare a contatto con una sostanza velenosa in totale assenza di sicurezza. Nelle regioni minerarie era frequente lo scorgere di sottili ma numerose colonne di esalazioni azzurrastre levarsi dai “calcaroni”, le specifiche fornaci a forma conca dove si compiva la fusione del materiale asportato. I vapori erano il prodotto della lenta combustione del minerale, operazione necessaria ad estrarre lo zolfo in una forma liquida di colore scuro.
Tuttavia, pur se causa dell’inquinamento ambientale, con l’avvelenamento di uomini e animali, i miasmi sulfurei non disegnavano l’aspetto più drammatico. I danni a quello che oggi chiameremmo ecosistema, non erano nulla a confronto della terribile esistenza a cui erano costretti i lavoranti nelle miniere. La struttura dei giacimenti variava moltissimo a seconda della quantità, lunghezza e profondità delle gallerie di estrazione. Variabili condizionate dalla disposizione delle vene del minerale nella roccia, e dalla ripartizione degli appezzamenti in superficie. Ad accomunare molte miniere era la fortissima pendenza delle gallerie che collegavano i pozzi di estrazione. Passaggi fatti di ripidissime e disagevoli scalinate sui cui si spostavano uomini e come vedremo a breve, tanti bambini. Per ragioni da imputare più ai costi di realizzazione, che alle reali possibilità tecniche dell’epoca, erano molto pochi i camminamenti ricavati quasi in piano. La suddivisione dei ruoli tra i lavoranti prevedeva che i “partitanti” o capo operai, delegati dall’amministrazione della miniera, retribuissero i “picconieri” in base al numero di casse di materiale portato in superficie fino ai calcaroni. I partitanti ricevevano poi dal proprietario del giacimento, una percentuale sui ricavi dalla vendita dello zolfo fuso, oltre che estorcere una ulteriore provvigione al picconiere su ogni singola cassa.
I minatori vedevano i loro compagni cadere ogni giorno colpiti da malori e collassi. Cuori e polmoni cedevano schiantati della insostenibile fatica da sopportare per turni di oltre 12 ore in un ambiente saturo di polveri tossiche. Un habitat reso irrespirabile anche dalla elevata temperatura interna, tale da obbligare tutti a lavorare praticamente nudi. Una qualsiasi fiamma all’interno delle aree estrattive poi, innescava mortali esalazioni di anidride solforosa, causa di almeno un centinaio di decessi nel solo 1883, una delle annate non tra le più tragiche. 
Tra le varie, la vergogna più deprecabile consegnataci dall’epoca mineraria delle zolfare siciliane, è sicuramente rappresentata dalle condizioni di lavoro a cui erano costretti i tanti ragazzini arruolati. I ”Carusi”, questo il loro nome, 
bambini di età compresa dagli 8 ai 12 anni, ma molto spesso anche inferiore. Corpi ancora acerbi martoriati dalla fatica, che costituivano l’ultimo e più fragile anello della catena di sfruttamento umano. Il loro compito era di trasportare in superficie il materiale roccioso frammentato dai picconieri. Otto, dieci ore di lavoro e più, lungo buie scalinate con pendenze anche superiori al 60%, caricandosi sulla schiena sacchi o ceste con 25-30 kg di pietre. Per ogni picconiere, lavoravano dai 2 ai 5 Carusi, pagati con stipendi miserabili che finivano direttamente nelle tasche di ancora più poveri genitori. Famiglie nella totale disperazione, capaci di opporsi alle rare riforme legislative che intendevano limitare l’orario di lavoro dei bambini, per non assistere al dissolvimento di una già risicata fonte di guadagno. Le zolfare siciliane quale girone dantesco anche per la diffusa violenza che sfociava in pederastia e pedofilia. In un simile contesto di degrado e sfruttamento, si assisteva ad una degenerazione della brutalità umana a tutto tondo, e anche gli istinti non sfuggivano alla regola colorandosi delle tinte più fosche.
Non troverà modo di sorprenderci quindi, scoprire che a trarre profitto da una simile e disumana economia, saranno ancora una volta gli onorati uomini membri della mafia. (11) (12)

La Fratellanza di Favara

E’ il marzo del 1883 quando a Favara, una piccola città posta al centro dell’area delle zolfare, in prossimità della costa sud ovest della Sicilia, un dipendente delle ferrovie denunciò alla polizia di aver subito l’avvicinamento da parte di un esponente di una società segreta chiamata “Fratellanza”. Le circostanze del tentato approccio, avevano lasciato chiaramente intendere all’uomo, che dietro ai propositi dell’organizzazione si celassero interessi criminali. Una delazione che giungeva al termine di un periodo alquanto turbolento per Favara. Qualche settimana prima, l’omicidio di un uomo all’esterno di una osteria, da parte di due individui incappucciati, aveva innescato una fase di alta tensione. Le indiscrezioni che volevano la vittima membro di una setta criminale, trovarono riscontro dal subitaneo delitto ai danni di un presunto esponente della banda rivale. Questo ultimo venne trovato cadavere con fori di proiettile nella schiena e un orecchio mozzato. Segni inconfondibili di una violenza assecondata ad un rituale preciso. L’incombente guerra tra clan che appariva inevitabile, venne scongiurata da una alleanza d’interessi tra le parti. La polizia venne a conoscenza dell’intera vicenda grazie alle indagini che scattarono all’indomani della dichiarazione del ferroviere. Nel periodo compreso tra marzo e maggio del 1883, a Favara e dintorni vennero arrestate oltre 200 persone. Tra loro anche uno dei leader della Fratellanza, colto nel pieno della cerimonia d’affiliazione a due nuovi iniziati, ed in possesso di una copia dello Statuto dell’organizzazione. L’uomo finì per confessare aprendo un varco sui retroscena che regolavano la vita della Fratellanza. Ne seguì il ritrovamento di decine di scheletri nascosti in luoghi isolati come grotte, pozzi prosciugati, zolfare dimesse. Altre confessioni consentirono il recupero di ulteriori varianti al regolamento della setta, nonché al suo organigramma.
Due anni più tardi nel 1885, all’interno della chiesa di Sant’Anna di Agrigento, straordinariamente attrezzata per l’occasione, si celebrò il relativo processo alla Fratellanza. Oltre un centinaio di imputati furono condotti incatenati al cospetto dei giudici. In tanti negarono ogni accusa, denunciando di aver confessato sotto tortura, ma la loro deposizione non fu tenuta in considerazione. Le sentenze emesse condannarono tutti i Fratelli, una vittoria della giustizia eccezionale per l’epoca, se rapportata alle dimensioni del processo e della struttura criminale condotta alla sbarra. (13)

Oltre la Fratellanza, il radicamento di una cultura
La Fratellanza di Favara costituì il primo caso di vera organizzazione mafiosa portata alla luce ufficialmente dalla giustizia italiana. La polizia ebbe la possibilità di aprire un varco inedito tra le maglie di un fenomeno che mostrava i suoi segni di radicamento anche lontano da Palermo. Si scoprì come nel suo complesso la Fratellanza poteva contare su oltre 500 membri, reclutati in altri centri di estrazione non distanti da Favara. L’organismo della setta mostrava incredibili similitudini con la struttura di Cosa Nostra che Tommaso Buscetta rivelò un secolo più tardi al giudice Giovanni Falcone. I suoi uomini erano suddivisi in “decine”. Ogni decina vedeva ai suoi vertici un capo, conosciuto solo ai suoi componenti, ma ignoto alle altre decine della Fratellanza, salvo che ad unico capo superiore.
Quando le forze dell’ordine ne vennero a conoscenza, la Fratellanza contava solo poche settimane di vita.  Essa era il frutto della fusione di due bande rivali che invece di scontrarsi, decisero più opportunamente di allearsi per beneficiare dei proventi incassabili dalla gestione criminale dell’area delle zolfare. Certamente più antico era il regolamento, pressoché identico, su cui si strutturavano le sette una volta rivali. Regole assolutamente simili a quelle emerse nella vicenda della mafia dell’Uditore, che dettava legge tra gli agrumeti attorno a Palermo. Il capoluogo e la regione delle zolfare, distavano tra loro oltre cento chilometri di impervi sentieri e strade di montagna. La comunicazione tra le due regioni non era agevole. Ciò nonostante la diffusione di regole e metodi mafiosi non fu problematica. Il carcere funse certamente ad università del crimine. Un luogo dove la lunga e obbligata convivenza tra criminali di diversa provenienza geografica, agevolò l’insegnamento e la divulgazione della cultura mafiosa. Ma nessun buon insegnante riesce a tramandare il verbo senza studenti predisposti ad imparare.
L’errore capitale delle forze dell’ordine nel caso della Fratellanza, fu di non scorgere il radicamento di queste regole nel contesto in cui l’organizzazione si inseriva. Iniziazione, giuramenti, omertà, patti di sangue, legami familiari e parentali, rituale degli omicidi, lasciavano trapelare una più profonda matrice culturale. Gli inquirenti sottovalutarono ciò che era sotto i loro occhi, e fu grazie a questo che una volta condannata la Fratellanza, la medesima matrice consenti alla mafia di dominare a lungo la scena delle zolfare attorno a Favara. Eppure la vicinanza tra i metodi della Fratellanza e quelli delle cosche palermitana era già a conoscenza della polizia, ma questa perseverò nella presunzione della propria superiorità intellettuale. La Fratellanza venne definita una cozzaglia di criminali arretrati. Le prerogative con cui venivano emesse ed eseguite le sentenze di morte, senza esenzioni nei confronti di familiari e consanguinei, sempre macabre e violente, furono commentate come “cannibalismo puro”; l’omertà, l’iniziazione, il codice della vendetta, vennero definite dai magistrati elementi di un “barbaro misticismo”.(14)

L’economia siciliana nelle mani della mafia
La Fratellanza era costituita da uomini violenti e senza scrupoli, ma tutt’altro che sottosviluppati. Come accadde negli agrumeti, anche attorno alle zolfare la mafia applicò modalità funzionali e proficue. Dei 107 “Fratelli” condannati nel processo di Agrigento, ben 72 erano lavoranti nelle miniere di zolfo con ruoli di vario genere, dai semplici minatori, ai capi squadra, fino a piccoli proprietari di giacimenti. Nel corso del dibattimento emerse anche la fitta rete di protezione di cui beneficiava la Fratellanza. La rettitudine morale e l’onestà degli imputati, venne sostenuta da un lungo elenco di figure di spicco della scala sociale: proprietari terrieri, nobili e politici. L’egemonia mafiosa sul campo, si manifestava con la disumana catena di sfruttamento di cui i Carusi costituivano l’ignobile culmine. Attraverso il controllo di appaltatori e sub appaltatori, di fatto si controllava l’attività del giacimento di zolfo. I proprietari delle zolfare cedevano i diritti di estrazione a piccoli imprenditori che assumevano dei sovrintendenti pagati a percentuale; a loro volta i sovrintendenti reclutavano vigilanti, guardiani e minatori. I minatori noti anche come picconieri infine, come visto prima ingaggiavano i piccoli Carusi. Per gli standard retributivi dell’epoca, un picconiere guadagnava abbastanza bene. E coloro in possesso di maggiore scaltrezza e brutalità, erano destinati a prevalere.
Lo zolfo era un minerale prezioso scambiato sui mercati internazionali e sottoposto ad una aspra competizione. La violenza quindi, poteva fornire un vantaggio considerevole per battere la concorrenza. Ad ogni livello della scala gerarchica, dal padrone al semplice minatore, la capacità di applicare la forza sistematicamente, garantiva maggiori introiti. Organizzazioni come la Fratellanza che s’impadronirono del controllo di appaltatori, direttori, guardie e picconieri, riuscendo ad istituire cartelli in grado di escludere dal mercato i rivali, onesti o criminali che fossero.
La mafia che si affacciava all’ultimo spicchio del XIX secolo, aveva ben salda la presa su ogni settore dell’economia siciliana. Ancora oggi appare difficile stabilire con certezza la presenza di un unico cartello o di bande che agissero distaccate e magari unite da collaborazioni occasionali. E’ certo che le informazioni in mano alle autorità ufficiali erano già in quegli anni sufficienti per una chiave di lettura più appropriata di quella che la storia ci ha consegnato.
La sintesi di questo fallimento si completerà con il manifestarsi di un fenomeno dalle disastrose conseguenze: l’intrusione della mafia quale componente dello Stato centrale. (15)

Note

(1), (3), Fonte “Breve storia della mafia” – Rosario Minna – Editori riuniti, 1984.

(2), (4), (5), (6), (7), (8), (9), (10), Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – “La genesi della mafia”

(11), (13), (14), (15), Fonte “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana” – John Dickie – Editori Laterza, 2006 – “La Mafia fa il suo ingresso nel sistema italiano, 1876-1890”

(12), "La Sicilia nel 1876" di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino

DotNetNuke® is copyright 2002-2024 by DotNetNuke Corporation