QUELLA
NOTTE ALLA THYSSEN-KRUPP
Segnalato
da Mario
"Turno
di notte vuol dire che monti alle 22. Sono abituato. Quel mercoledì
sera, il 5 dicembre, sono arrivato come sempre un quarto d'ora prima,
ho posato la macchina, ho preso lo zainetto e sono entrato col mio
tesserino: Pignalosa Giovanni, 37 anni, diplomato ragioniere, operaio
alla Thyssen-Krupp, rimpiazzo, cioè jolly, reparto finitura.
Salgo, guardo il lavoro che mi aspetta per la notte e vedo che ho
solo un rotolo da fare".
"Allora
vado prima a trovare quelli della linea 5, devo dire una cosa ad
Antonio Boccuzzi, ma poi arrivano gli altri e si finisce per parlare
tutti insieme del solito problema. Il 30 settembre la nostra fabbrica
chiuderà, a febbraio si fermerà per prima proprio la 5,
stiamo cercando lavoro e non sappiamo dove trovarlo. Duecento se ne
sono già andati, i più esperti, i manutentori, molti
alla Teksfor di Avigliana. Noi mandiamo il curriculum in giro, con le
domande. L'azienda se ne frega, la città anche. Chiediamo agli
amici, ai parenti operai che hanno un posto. Chi può cerca
altre cose, Toni "Ragno" dice che ha la patente del camion
e prova con le ditte di trasporti: gli piacerebbe, tanto ogni giorno
fa già adesso 75 chilometri per arrivare all'acciaieria e 75
per tornare a casa. Bruno ha deciso, il 29 chiude con la fabbrica e
apre un bar con Anna, Angelo ha provato a farsi trasferire alla
Thyssen di Terni, la casa madre, ma poi è tornato indietro per
la famiglia. Parliamo solo di questo, come tutte le notti, abbiamo il
chiodo fisso. E' brutto essere giovani e arrivare per ultimi. La
Thyssen qui in giro la chiamano la fabbrica dei ragazzi, perché
dei 180 che siamo rimasti il 90 per cento ha meno di trent'anni. Ma
questo vuol dire che quando tutt'attorno chiude la siderurgia e
Torino non fa più un pezzo d'acciaio che è uno, chi ti
prende se sai fare solo quello? Eppure siamo specializzati,
superspecializzati, non puoi sostituirci con un operaio qualsiasi che
non abbia fatto almeno 6 mesi di formazione per capire come si lavora
l'acciaio. E infatti ci pagano di più, uno del quinto livello
alla Fiat prende 1400 euro, qui con i turni disagiati, la
maggiorazione festiva, il domenicale arrivi a 1700 anche 1800 senza
straordinario. Non ti regalano niente, sia chiaro, perché
lavori per sei giorni e ne fai due di riposo, quindi ti capitano un
sabato e domenica liberi ogni sei settimane, non come a tutti i
cristiani. Ma la siderurgia è così, lavoriamo divisi in
squadre e quando smonta una monta l'altra perché le macchine
non si fermano, 24 ore su 24, questo è l'acciaio. Che poi, se
ci fermassimo noi si ferma l'Italia perché siamo i primi,
senza l'acciaio non si vive, dai lavandini all'ascensore, alle
monete, alle posate, siamo la base di tutta l'industria
manifatturiera, dal tondino per l'edilizia alle lamiere per le
fabbriche, agli acciai speciali. E quando parlo di acciaio intendo
l'inox 18-10, cioè 18 di cromo e 10 di nichel, roba che a
Torino si fa soltanto più qui da noi, che è come l'oro
visto che il titanio viaggia a 35 euro al chilo e noi facciamo rotoli
da sei, settemila chili. Eppure tutto questo finirà, sta
proprio per finire, Torino resterà senza, siamo come le quote
latte. E' chiaro che ne parliamo tutte le sere, come si fa? Comunque,
a un certo punto, sarà mezzanotte e mezza, io saluto tutti, e
dico che vado a fare quel rotolo che mi aspetta. Salgo, e lì
sotto comincia l'inferno. E' una parola che si usa così, come
un modo di dire. Ma avete un'idea di com'è davvero l'inferno"?
Se
a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero.
Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i
nomi dei partigiani, andare oltre le tombe monumentali della "prima
ampliazione", girare a sinistra dove ci sono i nuovi loculi. Lì
in basso, come una catena di montaggio, hanno messo Antonio
Schiavone, 36 anni (detto "Ragno" per un tatuaggio sul
gomito), morto per primo la notte stessa, Angelo Laurino, 43 anni,
morto il giorno dopo come Roberto Scola, 32 anni. Subito sotto,
Rosario Rodinò, 26 anni, che è morto dopo 13 giorni con
ustioni sul 95 per cento del corpo e Giuseppe Demasi, anche lui 26
anni, ultimo dei sette a morire il 30 dicembre dopo 4 interventi
chirurgici, una tracheotomia, tre rimozioni di cute con innesti e una
pelle nuova che doveva arrivare il 3 gennaio per il trapianto, ed era
in coltura al Niguarda di Milano. Ci sono i biglietti dei bambini
appesi con lo scotch, come quello di Noemi per Angelo, ci sono le
sciarpe della Juve, mazzi di fiori piccoli col nailon appannato
dall'umidità, un angelo azzurro disegnato da Sara per Roberto,
quattro figure colorate di rosso da un bambino per Giuseppe, tre Gesù
dorati, due lumini per terra. Attorno alle cinque tombe, una striscia
azzurra tracciata dal Comune le separa dagli altri loculi. E' un'idea
del sindaco Sergio Chiamparino e del suo vice Tom Dealessandri, una
sera che ragionavano sulla tragedia della Thyssen. Se tra un anno,
cinque, dieci, qualcuno vorrà ricordarla, parlarne, partire da
quei morti per discutere sulla sicurezza nel lavoro, ci vuole un
posto, e non ci sarà neppure più la fabbrica, non ci
sarà più niente: mettiamoli insieme, quelli che non
hanno una tomba di famiglia; hanno lavorato insieme e sono morti
insieme. Quelle fotografie di ragazzi sono le uniche tra i loculi, le
altre sono di vecchi e dove non c'è la foto c'è la
data: 1923, 1925, 1935, 1919, anche 1912. Intorno, un telone nasconde
lo scavo di una gru nel campo del cimitero, si sente solo il rumore
in mezzo ai fiori, ma c'è lavoro in corso. Siamo a Torino,
dice un guardiano, è la solita questione: lavoro, magari
invisibile, ma lavoro.
"Dunque,
ero da solo, con la gru in movimento. Il mio lavoro si può
fare così. Alla linea 5 invece il turno montante era completo.
Mancavano due operai, ma si sono fermati in straordinario Antonio
Boccuzzi e Antonio Schiavone, anche se avevano già fatto il
loro turno, dalle 14 alle 22. Quella tecnicamente è una linea
tecnico-chimica per trattare l'acciaio, temprarlo e pulirlo per poi
poterlo lavorare. Stiamo parlando di una bestia di forno a 1180
gradi, lungo 40-50 metri, alto come un vagone a due piani, e lì
dentro l'acciaio viaggia a 25 metri al minuto se è spesso e a
60 metri se è sottile, per poi andare nella vasca dell'acido
solforico e cloridrico che gli toglie l'ossido creato dalla cottura
nel forno. La squadra di 5 operai sta nel pulpito, come lo chiamiamo
noi, una stanzetta col vetro e i comandi. Ci sono anche il capoturno
Rocco Marzo e Bruno Santino, addetto al trenino che porta il rullo da
una campata dello stabilimento all'altra. Manca poco all'una. So
com'è andata. Il nastro scorre a velocità bassa,
sbanda, va contro la carpenteria, lancia scintille, l'olio e la carta
fanno da innesco, c'è un principio di incendio. Loro pensano
che sia controllabile, come altre volte. Escono dal pulpito, si
avvicinano, provano con gli estintori, ma sono scarichi. Un
flessibile pieno d'olio esplode in quel momento, passa sul fuoco come
una lingua e sputa in avanti, orizzontale, è un lanciafiamme.
Non li avvolge, li inghiotte. Boccuzzi è proprio dietro un
carrello elevatore per prendere un manicotto, e quel muletto lo
ripara salvandolo. Vede un'onda, sente la vampa di calore che lo
brucia per irradiazione, ma si salva. Gli altri sono divorati mentre
urlano e scappano. Piomba in finitura il gruista della terza campata,
corri mi dice, corri, è scoppiata la 5, sono tutti morti. Non
ci credo, ma si avvicina urlando, è bianco come uno straccio e
sta piangendo. Corro, torno indietro, metto in sicurezza la gru,
corro, non penso a niente, corro e li vedo".
I
tre funerali sono diversi. Prima lo choc, il dolore, la paura. Poi la
rabbia. Egla Scola, che ha vent'anni e due figli di 17 mesi e tre
anni, in chiesa ha urlato verso la bara di Roberto: vieni a casa,
adesso. La madre di Angelo Laurino gli ha detto: ora aspettami. Il
padre di Bruno Santino, anche lui vecchio operaio Thyssen, l'abbiamo
visto tutti in televisione gridare bastardi e assassini, con la foto
del figlio in mano. Il giorno della sepoltura di Rocco Marzo, arriva
la notizia che è morto Rosario Rodinò, dopo quasi due
settimane di agonia. Ciro Argentino strappa la corona di fiori della
Thyssen, i dirigenti dell'azienda entrano in chiesa dalla sacrestia,
se ne vanno dalla stessa porta. Fuori ci sono soprattutto operai, in
duomo come a Maria Regina della Pace in corso Giulio Cesare, come
nella chiesa operaia del Santo Volto con la croce sopra la vecchia
ciminiera trasformata in campanile.
Attorno,
il fantasma della Torino operaia che fu. Qui dietro c'erano una volta
la Michelin Dora, la Teksid, i 13 mila delle Ferriere Fiat dentro i
capannoni della tragedia, poi venduti alla Finsider dell'Iri, che
negli anni Novanta ha rivenduto alla Thyssen. Che adesso chiude.
Sequestrata per la tragedia, con i cancelli chiusi e un albero
trasformato in altare ("ciao, non siamo schiavi", ha
scritto un operaio della carrozzeria Bertone), già adesso
l'impianto della morte è uno scheletro vuoto, inutile, proprio
dove la città finisce e comincia la tangenziale, con le
montagne piene di neve dritte davanti. La gente conosce il posto
perché lì c'è un autovelox famoso per sparare
multe a raffica.
Ma
non sa la storia della Thyssen. Ciro dice che un pezzo di Torino non
sapeva nemmeno dei morti, e alla manifestazione c'erano trentamila
persone, ma era la città operaia, e pochi altri. Come se fosse
un lutto degli operai, non una tragedia nazionale. Anzi, uno scandalo
della democrazia. Chi lavora l'acciaio sa di fare un mestiere
pericoloso, dice Luciano Gallino, sociologo dell'industria, perché
macchine e materiali che trasformano il metallo sovrastano ogni
dimensione umana, con processi di fusione, forgiature a caldo,
lamiere che scorrono, masse in movimento. C'è fatica, rumore,
occhio, tecnica, esperienza, senso di rischio, concentrazione. E
allora, spiega Gallino, proprio qui nell'acciaio non si possono
lasciar invecchiare gli impianti e deperire le misure di sicurezza,
non si può ricorrere allo straordinario con tre, quattro ore
oltre le otto normali. Invece l'Asl dice oggi di aver accertato 116
violazioni alla Thyssen. Le assicurazioni Axa lo scorso anno avevano
declassato la fabbrica proprio per mancanza di sicurezza, portando la
franchigia da 30 a 100 milioni all'anno. Per tornare alla vecchia
franchigia, bisognava fare interventi di prevenzione, tra cui un
sistema antincendio automatico proprio sulla linea 5, dal costo di
800 milioni. From Turin, ha risposto l'azienda, dopo che Torino avrà
chiuso.
"Il
primo è Rocco Marzo, il capoturno, che aveva addosso la radio
e il telefono interno, bruciati nel primo secondo. Appare
all'improvviso, al passaggio tra la linea 4 e la 5. Non avevo mai
visto un uomo così. Anzi sì: dal medico, quei tabelloni
dov'è disegnato il corpo umano senza pelle, per mostrarti gli
organi interni. La stessa cosa. Le fasce muscolari, i nervi, non so,
tutto in vista. Occhi e orecchie, non parliamone. Non mi vede, non
può vedere, ma sente la mia voce che lo chiama, si gira,
barcolla, cerca la voce, mi riconosce. "Avvisa tu mia moglie,
Giovanni, digli che mi hai visto, che sto in piedi, non li far
preoccupare". Lo tocco, poi mi fermo, non devo. Ha la pelle, ma
non è più pelle, come una cosa dura e sciolta. Un
operatore di qualità continua a saltarmi attorno, cosa
facciamo? Mando via tutti quelli che piangono, che urlano, che sono
sotto choc e non servono, non aiutano. Dico di non toccare Rocco, di
scortarlo con la voce fuori: gli chiedo se se la sente di seguire i
compagni, di seguire la voce. Va via, lo guardo mentre dondola e
sembra cadere a ogni passo, mi sembra di impazzire. Mi butto avanti,
tutta la campata è piena di fumo nero, bruciano i cavi di
gomma, i tubi con l'acido, i manicotti. Vedo Boccuzzi che corre in
giro a cercare una pompa, mi vede e mi urla in faccia: "Li ho
tirati fuori, li ho tirati fuori. Ma Antonio Schiavone è vivo
e sta bruciando lì per terra". In quel momento Schiavone
urla nel fuoco. Tre grida. E tutte e tre le volte Toni Boccuzzi cerca
di gettarsi tra le fiamme e dobbiamo tenerlo, ma lui ripete come un
matto: "Il fuoco lo sta mangiando". Dico di portarlo via,
fuori. Mi volto, e mi sento chiamare: "Giovanni, Giovanni".
Non ci credo, guardo meglio, non si vede niente. Sono Bruno Santino e
Giuseppe Demasi, due fantasmi bruciati, consumati dal fuoco eppure in
piedi. Non mi sentono più parlare, non sanno dove andare, in
che direzione cercare, sono ciechi. Poi Demasi si muove, barcolla
verso la linea 4 tenendosi le mani davanti, come se fosse preoccupato
di essere nudo. Mi avvicino e lo chiamo, si volta, chiama Bruno.
Guardo la loro pelle scivolata via, non so cosa dire e loro mi
cercano: "Giovanni, sei qui vicino? Guardaci, guardaci la
faccia: com'è? Cosa ci siamo fatti, Giovanni?"
Dicono
gli operai che i sette, alla fine, sono morti perché da tempo
erano diventati come invisibili. Si spiegano con le parole di Ciro
Argentino e Peter Adamo, trent'anni: l'operaio ovviamente esiste,
cazzo se esiste, manda avanti un pezzo di Paese, e soprattutto a
Torino lo sanno tutti. Ma esiste in fabbrica e non fuori, nel lavoro
e non nella testa della politica. Ma lo sapete voi, aggiunge Fabio
Carletti della Fiom, che nell'assemblea del Pd appena eletta a Torino
non c'è nemmeno un operaio? Che in tutto il Consiglio comunale
ce n'è uno, perché il sindacato si è trasformato
in lobby e ha minacciato di fare una lista operaia separata, supremo
scandalo per la sinistra? Dice Peter che l'invisibilità la
senti tutto il giorno, quando vai a comprare il pane, quando esci la
sera. Per le storie veloci con le ragazze in discoteca, fai prima a
dire che sei un rappresentante, vai più sul sicuro. Non è
rifiuto o disprezzo, aggiunge Davide Provenzano, 26 anni, è
che sei di un altro pianeta. Credono di poter fare a meno di te. Da
bambino, spiega, vedevo con mio padre al telegiornale le notizie sul
contratto dei metalmeccanici, "undici milioni di tute blu
scendono in piazza", adesso, non si sa quanti siamo, un milione
e sette, uno e otto? Il sindaco Chiamparino sa di chi è la
colpa: quelli che pensano alla modernità come a una
sostituzione, l'immateriale, l'effimero al posto del manifatturiero,
mentre invece è moderno chi gestisce la complessità, la
fine di una cosa con l'inizio dell'altra, sopravvivenze importanti e
novità salutari. "Chiampa" dice che lui non potrebbe
dimenticare gli operai, la sua famiglia viene dalla fabbrica, il
figlio di suo fratello ha la stessa età e fa il lavoro dei
ragazzi della Thyssen, però è vero che si lamenta
perché i riformisti non usano più quella parola,
operaio. E tuttavia non si può tornare agli anni Settanta.
E
la città non è indifferente, non si può misurare
il funerale operaio col metro del funerale dell'Avvocato, in quel
caso la partecipazione era anche un modo di dire "io c'ero",
mentre qui voleva dire "voi ci siete". E poi, pensiamo
sempre a Mirafiori, dove cresceva l'erba sull'asfalto, tutto era
abbandonato, e tutto è rinato. Il sindaco ha aiutato
Marchionne, l'amministratore delegato Fiat ha aiutato Chiamparino. I
due si vedono qualche sera per giocare a scopa col vicesindaco e un
ufficiale dei carabinieri, ma in pubblico si danno del voi, perché
questa è Torino. Anche se Marchionne voleva strappare, e
andare al funerale operaio della Thyssen. Poi si è fermato,
dice, per paura che la sua presenza diventasse una specie di comizio
silenzioso. Ha radunato i suoi e ha detto: che non capiti mai qui. Un
incidente può sempre scoppiare, ma non per incuria verso la
tua gente e il suo lavoro. Mai, mettetemelo per scritto. Solo in
Italia, spiega ancora Marchionne, operaio diventa una brutta parola,
nel mondo indica quelli che fanno le cose, le producono.
E
tuttavia, avverte il professor Marco Revelli, Torino è sempre
più Moriana di Calvino, la città con un volto di marmo
e di alabastro e uno di ferro e di cartone, e una faccia non vede più
l'altra. Gli operai della Thyssen, anche per la loro età, non
hanno riti separati, tradizioni private, fanno una vita perfettamente
visibile nella sua normalità. Dopo la fabbrica si incontrano
indifferentemente alla Fiom o al Mc Donald's di via Pianezza, Peter
ha la moglie laureata e vede tutta gente del suo giro, ai funerali
hanno messo musica dei Negramaro, hanno portato anche la maglia di
Del Piero. Ma ti dicono che l'invisibilità sociale li rende
deboli, la debolezza e la solitudine portano a scambiare straordinari
per sicurezza, il Paese li convince di vivere in una geografia
immaginaria, dove per dieci anni ha contato solo la cometa del
Nordest, solo l'illusione del lavoro immateriale, solo il consumatore
e non il produttore, e persino la parola lavoro è stata poco
per volta sostituita da altre cose: saperi, competenze,
professionalità. Questa fragilità - culturale?
Politica? Sociale? - li espone. Il cardinal Poletto, che ha fatto
l'operaio da ragazzo (il mattino in officina, il pomeriggio in
canonica) ha detto ad ogni funerale cose semplici ma solide perché
autentiche: la città ha reagito ma non basta, serve un
sussulto, la ricerca sacrosanta del profitto non può
danneggiare la sicurezza o addirittura la vita di chi lavora. La
sinistra ha detto meno del cardinale.
"Nessuno
sa cosa fare davanti a una cosa così. Due compagni di lavoro
carbonizzati, e ancora vivi. Uno ha preso due giacconi, glieli ha
buttati addosso. "Giovanni aiutaci - dicevano - portaci via".
Ragazzi, ho provato a rassicurarli, l'importante è che siate
in piedi, io non so se posso toccarvi, non posso prendervi per mano,
ma vi portiamo fuori, vi facciamo da battistrada. Due passi, e trovo
per terra Rosario Rodinò, Angelo Laurino e Roberto Scola.
Statue di cera che si sciolgono, l'olio che frigge, non c'è
più niente, i baffi di Rocco, i capelli di Robi, solo la voce.
Mi accoccolo vicino a Laurino, gli parlo. Si volta: "Dimmi che
starai vicino ai miei". Scola ripete che ha due figli piccoli,
"non potete farmi morire". Rodinò sembra più
calmo: "Non pensare a me, io sto meglio, occupati di loro".
Poi, quando ritorno da lui mi chiede: "Come sono in faccia? Cosa
vedi?" Arrivano i pompieri, poco per volta li portano via. Un
vigile mi dice che stanno morendo, ma il fuoco gli ha mangiato le
terminazioni nervose, per questo resistono al dolore. Non so se è
vero, non capisco più niente, ho quei manichini davanti agli
occhi. Prendo un pompiere per il bavero, e gli urlo che Schiavone è
ancora a terra da qualche parte, devono salvarlo. Mi dice che lo
hanno portato via e che devo andarmene, perché il fumo sta
divorando anche me. Stacchiamo la tensione a tutta la linea,
blocchiamo il flusso degli acidi, dei gas, dell'elettricità.
Tutto si ferma alla ThyssenKrupp, probabilmente per sempre. Non ho
più niente da fare".
Al
cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di
Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di
Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per
Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non
comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le
hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è
un modo per riconoscerli, per renderli visibili.