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Presentazione con l’autore  MARCO CESARIO

Coordinata da  Mirca Garuti



“Un fruscio di vento faceva vibrare debolmente la candela che avevo acceso per rischiarare quell’angolo di mondo. Guardavo i miei libri, i fogli, i post-it sul muro, una foto stampata di Zeynep Kuray con la scritta “Libertà”. Volevo addormentarmi ma temevo che gli incubi dei mesi passati riemergessero dai meandri sinuosi del mio inconscio. Mentre scrutavo pensieroso le cime nere delle colline attraverso i vetri della finestra, capii che avrei trovato pace soltanto raccontando ad altri questa storia. Allora, per la prima volta dopo mesi, mi addormentai profondamente e sognai”.

 


Si chiude così l’ultimo libro di Marco CesarioSansur: Censura” (Bianca&Volta Edizioni).  Giornalista e fotoreporter, napoletano di nascita, vive a Parigi, dove collabora con l’Università Chalmers di Goteborg e con diverse riviste e quotidiani online, come Linkiesta e Mediapart. Vista la sua passione per le questioni che riguardano l’area medio orientale, coopera anche con alcuni siti specializzati, come MedArabNews e BabelMed.

"Sansür" è il frutto di un reportage effettuato in Turchia dal Settembre 2011 al Marzo 2012. Racconta il viaggio di Marco nelle pieghe del giornalismo in Turchia, un mondo alle prese con una vera e propria campagna d'intimidazione da parte del governo islamico dell’AKP di Erdoğan che non ama particolarmente la stampa indipendente, la stampa curda e la stampa di sinistra. Retate, processi sommari, prove create ad hoc, per i giornalisti che criticano il potere o che cercano di scoperchiare i calderoni fumanti dei complotti ultranazionalisti ed eversivi, la vita si fa sempre più dura.

“Sansur” è importante per due motivi. Il primo, perché diventa la voce di tutti quei giornalisti, redattori, politici, giovani che a rischio della loro stessa vita e libertà, continuano a portare avanti il loro credo che si può riassumere in due semplici parole: “Verità e Giustizia”. Uomini e donne, per lo più sconosciuti al mondo normale, che diventano protagonisti della storia.
Il secondo motivo, perché racconta quello che succede veramente in Turchia e ne svela i suoi lati più oscuri. Un paese che si dichiara democratico, al passo con i tempi ed in forte crescita economica,  ma senza dire qual è il prezzo che deve pagare il suo popolo.

La Turchia, in fatto d’arresti della carta stampata, supera anche la Cina. Le autorità turche, secondo una recente dichiarazione del ministro degli Interni, in 60anni hanno vietato più di 22.600 libri. Secondo il rapporto dell’IHD ( Associazione per  i diritti umani) nel 2010, 11.994 persone hanno subito un processo per “propaganda d’organizzazioni terroristiche” e nel 2011, 6.504 siti Internet sono stati bloccati,  peggiorando notevolmente la situazione della libertà d’espressione. Secondo l’agenzia Bianet (Rete d’informazione indipendente in Turchia) sono stati confiscati sette quotidiani per 11 volte, vietati o confiscati tre libri, nove manifesti e due banner, ed un libro è stato oggetto d’indagine. Inoltre, le Autorità hanno ammonito 33 canali televisivi 41 volte e 3 volte una radio. La polizia, sempre secondo l’IHD, nel corso del 2011, ha fatto irruzione in ben sedici sedi dei mass media in Turchia.
E così i reporter finiscono dietro le sbarre. Mai accusati di aver criticato il governo: il trucco è denunciarli per la loro presunta appartenenza ad organizzazioni illegali/terroristiche.
Il risultato è scontato: delle oltre 1.300 testate nazionali, giornali, radio, tv, la maggior parte sta diventando filo governativa: una  nuova forma di Auto-censura ed istinto di sopravvivenza. Secondo i dati forniti da CPJ (Comitato per la Protezione dei Giornalisti)  negli ultimi mesi sono stati almeno 50,  i reporter licenziati dopo i fatti di Gezi Park, causa le pressioni del governo Erdogan.
Modena, 05 Dicembre 2013

 

Audio presentazione a Modena 5 dicembre 2013  

 

 

 

 Audio presentazione Perugia 7 dicembre 2013*                  

Questo audio è rilasciato con licenza Creative Commons Attribution 2.5 Italy: fonte Radio Radicale:
http://www.radioradicale.it/scheda/398345/sansur-censura-giornalismo-in-turchia

 

ULTERIORI APPROFONDIMENTI:

LA VERITA' SULLA TURCHIA:
QUELLO CHE I MEDIA NON DICONO ED I POLITICI FINGONO DI NON VEDERE

video



con l’autrice Miriam Marino

coordinata da Mirca Garuti - Alkemia

 

Miriam Marino è un’artista, scrittrice, artigiana, poetessa. E' attivista per i diritti umani e fa parte di 3 associazioni: Ebrei contro l’occupazione, Amici della MezzaLunaRossa Palestinese, Stelle Cadenti – Artisti per la Pace.
Ha pubblicato vari libri di narrativa, poesia e saggi, tra cui “Non sparate sul pianista” romanzo politico sul movimento del ’77. A Modena abbiamo presentato nel 2009 “Handala”, raccolta di articoli e relazioni pubbliche degli ultimi anni e nel 2011 “Gabbie” racconti che parlano di una situazione molto difficile: quella palestinese. e lo fa in un modo profondo e semplice che rispecchia tutto  il suo essere.

Il suo messaggio principale è la conferma che il conflitto Israelo-palestinese non è un conflitto religioso, ma un conflitto di enormi interessi economici, strategici, imperiali-coloniali di controllo e di dominio.
Spesso a Miriam chiedono perché pur essendo ebrea si ostina ad occuparsi di Palestina. La sua risposta la troviamo nella sua introduzione di Handala: “perché il dolore della Palestina ricade su di me”. Non può, Miriam, rimanere indifferente. La questione palestinese però riguarda tutti noi: è una questione morale fondamentale della nostra epoca.


“Festa di Rovine”, 18 racconti dedicati a  bambini palestinesi e irakeni, prima di tutto parla della questione palestinese. Il suo è il tentativo di riuscire ad arrivare al cuore della gente comune, di suscitare interesse, curiosità e dubbi. Soprattutto considerando che parlare di Palestina non è facile e che per arrivare a questo obiettivo, ovvero informare fuori dai domini sionisti, è importante il metodo. Miriam c’è riuscita benissimo, ha scelto la strada più giusta. Ossia,  iniziare con il  racconto di storie vere, storie di persone, con nome e cognome. 
Miriam in questo libro libera la sua sensibilità e il suo dolore, passandoli al lettore, attraverso la semplice condivisione. E quando il dolore diventa insopportabile, allora lei trasforma il suo narrare in ironia o in una fiaba, per riprendere a vivere.


Festa di Rovine vuole essere un omaggio alla memoria delle tante piccole vittime dell’odio e dell’ingiustizia dei potenti della terra.

Lettura di un brano del libro

La presentazione del libro

 

Sabato 9 novembre 2013

Presso la libreria “Il CercaLibro” Viale Delle Medaglie D’Oro 22 - Modena


Libro con autore
MACERIE
di e con Miriam Marino
(Edizioni Città del Sole 2014 )

Introduce Mirca Garuti dell’associazione Alkemia

Raccontare storie, per comprendere la realtà e rendere testimonianza: un libro che attraverso la letteratura arriva alle menti ed ai cuori. Intrecciando cronaca e letteratura, Miriam racconta l'impotenza dei pacifisti israeliani, sullo sfondo delle due Intifade, il cui impegno si assottiglia e s'infrange contro il muro dell'odio e dei grandi interessi. Nessuno spazio di vita è esente dal dolore. Il genocidio dei palestinesi continua, “avvolto nella menzogna e nel silenzio” di quel discorso mediatico che dipinge i conflitti a misura dei potenti.

Miriam Marino, scrittrice, artista ed attivista per i diritti umani è impegnata a dare voce a chi ha meno voce, come i bambini e le persone che si trovano a vivere in Palestina o in Iraq durante la guerra. Lo fa con la sapienza che soltanto una buona scrittura può offrire.

  Ascolta l'audio della presentazione

 

 


IL SARTO DI ULM. UNA POSSIBILE STORIA DEL PCI

Dal XX congresso del 1991, in cui fu decretata la morte del Partito comunista italiano, sono passati vent’anni. Fu una morte deliberata, accelerata dalla volontà di un "nuovo inizio". Quel nuovo inizio non c'è stato.Al suo posto si è verificata la perdita di un patrimonio politico,organizzativo e teorico fra i più complessi e strutturati del panorama mondiale. Un cammino che Lucio Magri ripercorre senza mai perdere di vista gli ineludibili e spesso fatali nessi con gli eventi della scena politica internazionale.

INTERVENTI di VALENTINO PARLATO E LUCIANA CASTELLINA

martedì 27 marzo 2012 - Teatro dei Segni


Miriam Marino
“FESTA DI ROVINE”
Edizioni “Città del Sole”

un libro di racconti ambientati nella Palestina della seconda Intifada
e nell'Iraq bombardato nel 2003

“Voglio cominciare questa narrazione nominando i bambini palestinesi uccisi in questi due anni di conflitto. Perché li nomino? Perché è un modo per ancorarli alla memoria, trarli dall’indifferenza dei tanti annunci “due palestinesi uccisi…” “8 palestinesi uccisi…” che quotidianamente, frettolosamente ci raccontano i telegiornali mentre noi non ascoltiamo nemmeno, la mente altrove, dietro i nostri problemi…perché i palestinesi uccisi sono un fatto che appartiene alla quotidianità e non fanno più notizia. Chi erano quei palestinesi uccisi? Avevano un nome, avevano una vita, una storia? Hanno lasciato una voragine di vuoto e di dolore nel cuore di chi li amava? Nomino i bambini palestinesi perché la loro morte non rotoli via senza lasciare traccia come se non fossero mai esistiti. Perché siano tenuti i conti della tragedia e non scivoli tutto nell’indistinto. Perché sia gridato e aborrito lo scandalo della loro uccisione, perché gli indifferenti e gli ipocriti si fermino a riflettere se era veramente giusto e necessario spargere quel sangue innocente.”

Comincia così “Festa di rovine” un libro di racconti che mette in rilievo soprattutto la sofferenza dei bambini, quelli palestinesi nel corso della seconda Intifada che fa da sfondo alla maggior parte dei racconti e quelli iracheni all'inizio della guerra in Iraq.

“In quel livido aprile del 2002 i soldati di occupazione avevano cominciato a sparare indiscriminatamente nei quartieri della città uccidendo molti civili che si trovavano fuori o nelle loro case, in una Bethlemme ridotta al fantasma di se stessa, vuota nelle strade, spaventata, assediata. La corrente mancava già da diversi giorni e sarebbe mancata ancora a lungo. Farida Hamal che abitava in un quartiere del centro, in una casa di due piccole stanze con i suoi quattro bambini, si avvicinò alla finestra quando sentì gli spari. I soldati spararono non appena scostò la tenda. Farida cadde all'indietro colpita al petto. Accorsi spaventati, Mina di 11 anni, Ibrahim di 9, Yusif di 6 e Bhaia di 4, cominciarono a piangere disperati. Dal pavimento da cui non riusciva ad alzarsi Farida cercava di rabbonire i bambini, ma il sangue usciva copioso e silenzioso dal suo corpo e ne furono intrisi il tappeto, il pavimento, i vestiti di Mina inginocchiata piangente accanto alla mamma mentre Ibrahim attonito teneva per mano la sorellina e Yusif singhiozzava col naso che gli colava.”

Nel primo racconto è narrata la tragedia di 4 bambini cui è stata uccisa la madre mentre il padre si trova in carcere. I bambini resteranno soli con il cadavere perchè durante la seconda Intifada nelle città assediate era impossibile anche seppellire i morti e spesso le loro spoglie restavano insepolte nelle case.

“Il tribunale ha decretato: siano mandati a morte gli ulivi, giustiziate le spighe e impiccato il vento. Sia imprigionato questo “popolo ribelle alla morte” che non vuole mutare in sassi della strada... Ho pietà per i mandorli schiantati che gridano al cielo i loro rami protesi come un’ultima preghiera, per i campi arati dalle ruspe, per i muri abbattuti delle case intrisi di vita di sangue e di lacrime…Un’altra vita sogno che non tenda alla distruzione, il futuro desidero come un intreccio di mani, un abbraccio sopra il sangue, un cielo condiviso… “

Ogni racconto è corredato da un'appendice poetica che ne riprende i motivi e che può essere letta come un secondo testo.
“Ma il peggio venne quando partirono gli ispettori.
-Adesso siamo solo nelle mani di Allah-   mormorò pallida sua madre.
-Non aver paura, Allah Uh Akbar-  la confortò suo padre abbracciandola con gli occhi lucidi. Samar sentì la terra mancare sotto i piedi. Se i suoi genitori avevano paura chi l’avrebbe protetta?  Era un tempo strano. Di attesa. Tutta la città, per quanto ne sapeva Samar, si sentiva come un imputato in attesa della sentenza che poteva andare dall’assoluzione alla condanna a morte. Serpeggiava un’angoscia strisciante che piano piano stringeva il cuore della gente e la faceva sentire già sull’orlo della fossa. E fosse che erano trincee si andavano scavando un po’ dappertutto.   
-Ma se poi la guerra non viene bisognerà riempirle di nuovo tutte quelle buche?-
Alì le dava della stupida, se veniva la guerra altro che quelle buche si sarebbe dovuto riempire, se veniva la guerra…-beh, lasciamo perdere- concludeva seccamente. Ma cos’era dunque la guerra, che bestia spaventosa stava per aggredirli tutti quanti? Quando tratteneva troppo il pensiero su come poteva essere spaventosa la guerra Samar cominciava a tremare, ma poi succedeva qualcosa, un attore venuto da lontano la faceva ridere, o passava un gruppo di colorati buddisti, una manifestazione con tanti cartelli, oppure qualcuno che riusciva a vedere Al Jazira raccontava che c’era stato un colpo di scena.
A volte le sembrava che la sua anima si staccasse dal corpo e gironzolasse volteggiando sopra la città e scrutasse le facce della gente che continuava le sue faccende di sempre ma con un’ombra scura che sovrastava ognuno. Anche lei, Samar, doveva avere quell’ombra scura, ma per fortuna non poteva vederla.
Ora erano finite tutte le possibilità, tutte le speranze. Quel signore arcigno dall’altra parte del mondo dove era giorno quando a Bagdad era notte, aveva detto di aver perso la pazienza e che il tempo era scaduto, avrebbe mandato i suoi soldati ad ucciderli tutti con la guerra. Ormai nessuno parlava più apertamente di guerra, perché era troppo vicina, c’era gente che partiva ma senza quasi darlo a vedere, ci si incontrava e si chiedeva: “Come state? Che farete?” Senza mai nominare la bestia scura della guerra che forse avrebbe potuto sentirli e balzare loro addosso a tradimento. “
I bambini iracheni, il loro terrore, la strage di innocenti è narrata nei racconti “Bambini di Bagdad” da cui è estratto questo stralcio e il seguente:

“Al risveglio le era tornata subito la lucidità, tutto era stato chiaro davanti ai suoi occhi. Si guardò addosso per vedere se aveva le braccia, le mosse, non le facevano male, con lentezza esplorò la parte inferiore del corpo. Una gamba c’era e poteva fare dei movimenti che però le risultavano dolorosi, l’altra invece non la sentiva, e non la vedeva nemmeno, vedeva solo una gran massa di garza insanguinata. Chino su di lei il viso stravolto di suo padre. Voleva chiedergli se aveva perso la gamba, ma si ricordò di Samar e rimase muta. Piano piano cominciò a guardarsi intorno. La corsia dell’ospedale traboccava di bambini feriti. Alcuni faceva impressione guardarli, quasi tutti erano silenziosi, solo qualcuno ogni tanto urlava dal dolore. Più passava il tempo più Ranja soffriva, ma rimaneva zitta per non essere lei, più grande, a piangere mentre bambini piccoli restavano quieti, anche quel piccino di tre anni col ventre squarciato e il corpo pieno di schegge.
Nel silenzio insanguinato e pesante dell’ospedale a un tratto passò lacerante il grido della sirena e l’ospedale fu scosso e scrollato dal bombardamento.”

Anche questi racconti si concludono con una nota poetica:

“…Mi sporgo sull’abisso, vagare vedo ombre stralunate. Credevo di guardare una visione…Misteriosa Bagdad fragile ricamo di eternità, sentivo perfino le melodie del flauto che accompagnano la danza dei dervisci. La città mi veniva incontro, luogo simbolico o assassinato? La madre sciita avvolta nei suoi veli emerge dal fumo con la piccola figlia uccisa sulle braccia. Nel suo volto di pietra, con sgomento, ho riconosciuto me stesso.”.
E' il grido allucinato del poeta che vede “la voce della poesia fragile e forte che muore sotto i cingoli dei carri armati.”


Edizioni “Città del Sole”, disponibile in alcune librerie e nella vendita on line,  presso la casa editrice ed altri siti.

13/02/2012


 

INTERNAZIONALE A FERRARA 2011

CRONACHE DA QUESTO MONDO

 

John Berger critico d’arte, scrittore e pittore britannico
Arundhati Roy scrittrice indiana
Introduce e modera Marino Sinibaldi Rai – Radio3

L’autrice indiana Arundhati Roy non si sente tanto diversa dalle altre donne. Lo scrivere non è per lei una condizione normale – sostiene la scrittrice - ma diventa indispensabile nel momento in cui non può lasciarsi  ridurre al silenzio di fronte a delle situazioni di primaria importanza. “E’ la storia che scegli lo scrittore”. Il suo ultimo libro che, uscirà in Italia nel gennaio prossimo, ci descriverà la cronaca del suo viaggio nel cuore dell’India, rifugio dei guerriglieri naxaliti. La Roy  con questo reportage vuole far conoscere al mondo intero la verità del suo paese. Un paese che diventa, sempre di più, giorno dopo giorno,uno stato di Polizia, con il solo obiettivo di riuscire a sfruttare il più possibile le proprie risorse minerarie a discapito della vita del popolo indigeno. Un popolo definito “terrorista”, ma che cerca solo di difendere la propria terra dalla voracità di questo nuovo tipo di colonialismo industriale-economico.
Arundhati Roy è la più famosa scrittrice indiana contemporanea. Nel 1997 ha vinto il Booker prize con il suo romanzo d’esordio Il dio delle piccole cose (Tea 2007). Da allora la sua attività di scrittrice si è concentrata prevalentemente su questioni politiche e sociali, come il progetto della diga sul fiume Narmada, il programma nucleare indiano e le attività della multinazionale Enron in India. È considerata una delle figure guida del movimento noglobal. In Italia sono stati pubblicati: Quando arrivano le cavallette(Guanda 2009), L’impero e il vuoto. Conversazioni con David Barsamian (Tea 2007), Guida all’impero per la gente comune (Tea 2006), Guerra è pace (Guanda 2002). Vive a New Delhi.

John Berger è un critico d’arte, scrittore e sceneggiatore inglese, nato a Londra nel 1926. Il suo romanzo G. ha vinto il Booker Prize nel 1972. Collabora con El País, il Guardian e The Independent. In Italia ha pubblicato: Sul guardare (Bruno Mondadori 2003), Abbi cara ogni cosa. Scritti politici 2001-2007 (Fusi Orari 2007), Da A a X: lettere di una storia (Scheiweller 2009) e La speranza nel frattempo (Casagrande 2010) con Arundhati Roy e Maria Nadotti.

 

 

 

 


GENOVA: LE PAROLE INTERROTTE
Maurizio Montanari

Come in ‘1984’ di Orwell i fatti di Genova appaiono sempre più come una non storia. Fatta di non persone. Un bolo che non va ne su né giù.

La descrizione che Vittorio Agnoletto ha fatto presentando il suo libro “L’eclisse della democrazia” (scritto a quattro mani  con Lorenzo Guadagnucci) evidenziano quanto quel periodo di “sospensione della democrazia” sia drammaticamente attuale. A Genova l'innocenza si svegliò bruscamente adulta,  finì in qualche modo un epoca e se ne inaugurò un altra.
Genova fu il traumatico passaggio dal tempo in cui era possibile avere uno sparring-patner per esercitare il proprio diritto alla parola, a quello della sospensione del diritto a dire qualcosa. A Genova le giovani e vecchie generazioni dovettero fare i conti con una realtà ben più agghiacciante: l'autorità garante mutò il suo volto per divenire persecutore. Il tutore della legge partorì, come le sentenze hanno dimostrato, dei torturatori. Fu l'interruzione di un normale rapporto dialettico di sviluppo. A Genova morirono le certezze di due generazioni.
Da quel momento in poi, si instilla in ciascuno di noi l'idea che le istanze deputate a proteggerti, possono diventare nemiche. Che la forza può diventare avversa. Genova oggi è una città, per alcuni un ricordo buio, per altri un belletto da impiastricciarsi sul naso.

Colpisce del racconto dell’autore l’ostracismo mediatico al quale la sua opera è stata sottoposta. A quel tempo non c’era tv o giornale che non ne parlasse.  Ci sono stati approfondimenti, discussioni, una luce intensa su un momento storico che oggi è soggetto ad una profonda rimozione di massa. La narrazione dell’autore ha colpito la platea per il deserto che si andava creando attorno a lui e al suo coautore. Un indifferenza equamente distribuita tra la destra e la sinistra. Un opera che difficilmente troveremo recensita nelle pagine dei cosiddetti quotidiani “seri e politicamente corretti”. Agnoletto scava nella carne di quei giorni, affonda il bisturi e scopre parti di corpi diversi legate da fili insospettabili. Collusioni, silenzi, botte.  Non ci furono solo le vessazioni ai  malcapitati ospiti della Diaz, le loro parole strozzate. Non ci fu solo uno uso sistematico della violenza, scelta come tappo per zittire. Ci fu altro. Ci furono silenzi imbarazzanti, depistaggi. Finte molotov  ritrovate  miracolosamente. E dietro tutto lo schifo, ci furono gli uomini. Magistrati che non si sono fatti intimorire e sono andati avanti a schiena dritta.  Giornalisti tenaci e caparbi. Uomini dello Stato testardi e ancora leali. Contorno a tutto un mondo fatto di picchiatori, depistatori, mestatori, fabbricatori  di prove false che hanno vista premiata la loro malacondotta.

Nella parte finale del film “I 3 giorni del condor” troviamo, in un dialogo illuminante, il  motivo per il quale oggi quasi nessuno ne vuole sapere.

« Higgins: Il problema è economico. Oggi è il petrolio, tra dieci o quindici anni il cibo, plutonio, e forse anche prima. Che cosa pensi che la popolazione pretenderà da noi allora?
Joe: Chiediglielo.
Higgins: Non adesso, allora! Devi chiederglielo quando la roba manca, quando d'inverno si gela e il petrolio è finito, chiediglielo quando le macchine si fermano, quando milioni di persone che hanno avuto sempre tutto cominciano ad avere fame. E vuoi sapere di più? La gente se ne frega che noi glielo chiediamo, vuole solo che noi provvediamo».

Leggete il libro, e fatevi un idea del clima col quale Agnoletto e Guadagnucci hanno scritto queste pagine. Leggete e ascoltate l’intervista per rendervi conto che il mondo che viviamo si basa su un apparenza che poggia su verità nascoste, uomini e donne che  non torneranno mai più quelli di prima.

E’ una storia piena di sorci quella non scritta dietro ai fatti di Genova.



     

 

 

 


E M@I L'AMORE
di Fabio Turin



Verona, la città degli eterni innamorati. A mettere in dubbio questo assioma shakespeariano è il protagonista Giacinto, imprigionato all'interno dell'illusione di una vita perfetta. Cos'è l'amore? Un intenso e coraggioso viaggio verso la cruda e inaspettata verità, incrociando personaggi reali e virtuali. Un'intrigante storia moderna di amore e di amicizia, dei problemi legati alla mancanza di comunicazione, ai vicoli ciechi delle mancate scelte, alle passioni travolgenti e alle possibili sfumature che può indossare l'imprevedibile animo umano
Con Fabio è come tornare alla letteratura vera, quella che ci riporta ai nostri studi, un misto di lessico tra classico e moderno.

Il libro è ordinabile in tutti i punti vendita Feltrinelli e si può trovare in più portali on line.



Presentazione del libro

AVVELENATI
QUESTA STORIA DEVE ESSERE RACCONTATA
PERCHÉ UCCIDE LA NOSTRA GENTE

di Giuseppe Baldessarro e Manuela Iatì

Città del sole edizioni

Con la presenza di Mario Andrigo,  procuratore, della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria.

 

“Questa storia possono raccontarla solo i giornalisti e i magistrati indipendenti.Perché in questa storia si concentrano grumi di potere che mettono insieme criminalità, politica, servizi segreti deviati, difficilmente scopribili. Che non riguardano solo il sud, come molti pensano, ma anche moltissime zone del nord Italia”.
Si esprime così Luigi De Magistris, intervenuto a sorpresa alla presentazione del volume Avvelenati durante il Salone del libro di Torino. L’inchiesta dei giornalisti Giuseppe Baldessarro e Manuela Iatì, pubblicata da Città del Sole Edizioni, mette a nudo, secondo l’ex-magistrato, gli intrecci che alimentano il mistero che ancora oggi continua a circondare il traffico dei rifiuti tossici e delle navi a perdere affondate nel mediterraneo. Un libro rigoroso, fondato sui fatti, che mette ordine nella caotica materia di cui si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto. Soprattutto dopo il ritrovamento del relitto di Cetraro, nel settembre scorso, che ha scatenato quella che è stata definita dagli stessi autori una vera e propria follia mediatica, puntualmente registrata in uno dei capitoli del libro. La perizia del Ministero dell’Ambiente, che ha sancito che quella nave in realtà sarebbe un piroscafo affondato durante la seconda guerra mondiale, sembrerebbe aver chiuso il caso. Ma così non è.  Come ha sottolineato lo stesso procuratore Mario Andrigo, della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, le inchieste, giudiziaria e giornalistica, possono svilupparsi in modo diverso e laddove l’attività dei magistrati subisce uno stop, può procedere autonomamente quella dell’informazione seria e rigorosa. “Gli autori hanno avuto coraggio, hanno dimostrato grande indipendenza e obiettività nel trattare una materia non facile”, afferma Andrigo che ricorda anche le intimidazioni subite recentemente da Peppe Baldessarro.

 

«Neanche i cani sporcano la cuccia in cui dormono, ma i mafiosi lo fanno. Da sempre, anche se si riempiono la bocca con parole, come rispetto e onore». Nella prefazione al volume Avvelenati di Giuseppe Baldessarro e Manuela Iatì, Antonio Nicaso è lapidario nell’esprimere una semplice e fredda verità: il traffico di rifiuti ha sporcato irrimediabilmente il mare e le montagne della Calabria, ed è stato una miniera d’oro per le cosche mafiose e per chi, negli ultimi trent’anni, ha lucrato su di esso. Un affare redditizio, facile, silenzioso e che lascia una lunga scia di morti misteriose e senza colpevoli. C’è un sottile filo rosso, infatti, che lega il mistero delle navi dei veleni al business del nucleare. È quello stesso filo che mette assieme l’affare somalo e l’omicidio di Ilaria Alpi, il centro Enea di Rotondella, la strage di Ustica e la morte del capitano Natale De Grazia. Un altro capitolo dei misteri italiani, nel quale si muovono uomini di ‘ndrangheta, pentiti e trafficanti di armi, loschi figuri e figuranti, faccendieri e pezzi deviati dello Stato.

 

 

A sciogliere la fitta trama di questa vicenda è l’inchiesta dei due giornalisti de Il Quotidiano della Calabria e di Sky Tg24, appena pubblicata dalla Città del Sole Edizioni, e che sarà presentata giovedì 6 maggio alle ore 18.00 alla Provincia di Reggio Calabria dal giornalista Giusva Branca. Il volume ripercorre con accuratezza la storia oscura delle navi dei veleni e del traffico di scorie a partire dagli anni 80 fino ad oggi, fino al ritrovamento del relitto di Cetraro dello scorso settembre che ha destato tanto scalpore. Nave dei veleni o piroscafo silurato nel 1917? Tra Regione Calabria e Ministero dell’Ambiente la battaglia si combatte a suon di perizie. A mettere la parola fine sul caso del relitto ritrovato, il rapporto della GEOLAB, pubblicato per la prima volta in questo libro. Ma la storia delle navi dei veleni non può essere chiusa, come qualcuno vorrebbe. Troppi indizi, coincidenze, dichiarazioni, sospetti.
I due giornalisti tracciano un quadro completo dei foschi intrecci, dei vertiginosi giri di denaro, delle connivenze e delle menzogne, fino a fare emergere quello che è apparso agli stessi inquirenti come un “muro di gomma” impermeabile a tutti i tentativi che nei vari anni sono stati fatti per far emergere la verità.  Una verità “avvelenata”, sostengono gli autori. Come avvelenata è stata la gente di Calabria, che muore misteriosamente con un’incidenza di tumori fuori dal normale. «Muore – scrivono Baldessarro e Iatì – a causa del veleno che ha infettato la nostra terra, il mare, l’ambiente in cui viviamo. Il gene della morte è già entrato nel nostro sangue e persino nel dna di un popolo che ha molte colpe, non ultima quella di aver chiuso gli occhi. Ma che, non per questo, merita di essere ucciso nel silenzio».
(tratto da www.ntacalabria.it e strilli.it )

 


Presentazione del libro
GABBIE
di Miriam Marino*
Città del sole edizioni

La giornalista Maria Zema dialoga con l’autrice

“L'autrice ha voluto scrivere, in modo profondo e semplice, di una situazione molto difficile, lasciando da parte il peso ideale, ideologico e storico del conflitto mediorientale. Riuscire a compiere una scelta politica e umana in un mondo e un conflitto così complicato, il sacrificio e le conseguenze che abbiamo patito, noi palestinesi li conosciamo, li apprezziamo, ma non tutti li comprendono…
Miriam Marino sogna un mondo semplicemente senza armi, senza guerre, più giusto e colorato, il mondo possibile nel quale crede, nel quale tutti noi ci riconosciamo ed al quale viene dedicato il pensiero costante che l'umanità possa realizzare solo attraverso la giustizia la promessa di pace.
Abbiamo bisogno di ponti, non di muri”.
Yousef Salman (Delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia)

*Miriam Marino, scrittrice, artista e attivista per i diritti umani, è impegnata in tre associazioni. Ha pubblicato libri di narrativa, poesia e saggistica, tra cui "Non sparate sul pianista" (1978), romanzo politico sul movimento del ’77, il piccolo saggio "Il misticismo nell’arte contemporanea" (1987), le raccolte di poesie sulle donne della "Bibbia Madri d’Israele e Ruth" (1999), "Ingiustizia infinita", racconti sul conflitto israelo-palestinese e "Handala" (2008), raccolta di articoli e relazioni pubbliche degli ultimi anni. Collabora con riviste d’arte e letteratura e ha partecipato ad alcune mostre di arte contemporanea, in Ungheria e in Italia.

 

 

 


 

Presentazione del libro
SCINTILLE
di Gad Lerner*
Feltrinelli

Presenta Prof. Vito Mancuso
Gilgul, nella Qabbalah ebraica, è il frenetico movimento delle anime vagabonde che ruotano intorno a noi quando la separazione del corpo è dovuta a circostanze ingiuste o dolorose. Tanto violenti possono essere i conflitti che attendono gli spiriti rimasti sulla terra, che la tradizione parla addirittura di “scintille d’anime” prodotte dalla loro frantumazione.
Con questo libro inatteso, di straordinaria intensità e autenticità, Gad Lerner ha deciso di addentrarsi nel suo gilgul familiare, nelle “scintille d’anime” della sua storia personale. Suo padre Moshè reca il trauma della Galizia yiddish spazzata via dalla furia della guerra, e mai davvero trapiantata in Medio Oriente. Dietro di lui si staglia enigmatica la figura di nonna Teta, incompresa e dileggiata perchè estranea alla raffinatezza levantina della Beirut in cui è cresciuta Tali, la moglie di Moshè. Ma anche la Beirut degli anni Quaranta, luogo d’incanto senza pari, si rivela un recinto di beatitudine illusoria.
Vano è il tentativo di rimuovere lo sterminio degli ebrei d’Europa e la Guerra d’indipendenza nella nativa Palestina: anche se taciuti, questi eventi si ripercuotono nella vicenda familiare generando malessere e inconsapevolezza. Le anime vagabonde nel gilgul reclamano di essere perpetuate nel riconoscimento, senza il quale non c’è serenità possibile. Il racconto si snoda da Beirut ad Aleppo, fino alla regione ucraina di Leopoli e Boryslaw, lo shtetl in cui perse la vita gran parte dei Lerner, per concludersi sorprendentemente al confine tra Libano e Israele, presediato dai soldati italiani, dove si riuniscono le molteplici nazionalità dell’autore. Così l’indagine sulla memoria e sui conflitti familiari si rivela occasione per un viaggio nel mondo contemporaneo minato dalla crisi dei nazionalismi, tuttora alla ricerca di convivenza armonica. Un itinerario attraverso nuove e vecchie frontiere che scava nel passato per rivelarne il peso sul presente. Una storia appassionante, felicemente sospesa tra biografia e reportage.

*Gad Lerner è nato il 7 dicembre 1954 a Beirut da una famiglia ebraica che ha dovuto lasciare il Libano tre anni dopo, trasferendosi a Milano. Avvicinatosi al giornalismo grazie all’esperienza di “Lotta continua”, ha collaborato a Radio Popolare prima di entrare nella redazione dell’”Espresso” dove scriverà dal 1983 al 1990. Nei primi anni Novanta realizza per la Rai due trasmissioni dedicate alla questione settentrionale: “Profondo Nord” e “Milano, Italia”. Chiamato da Ezio Mauro a “La Stampa” come vicedirettore nel 1993, collaborerà successivamente come inviato e editorialista con il “Corriere della sera” e “Repubblica”. Di nuovo alla Rai con due edizioni di “Pinocchio”, nel 2000 viene nominato direttore del Tg1 ma pochi mesi dopo rassegna le dimissioni. Passato a La7 l’anno successivo, ne dirige il telegiornale, vara con Giuliano Ferrara “Otto e mezzo”, e ormai da sei anni conduce “L’Infedele”. Scrive per “Repubblica”, “Vanity fair” e il mensile missionario “Nigrizia”. Tra i suoi libri: “Operai” (Feltrinelli, 1987); “Crociate. Il millennio dell’odio” (Rizzoli, 2000); “Tu sei un bastardo. Contro l’abuso d’identità” (Feltrinelli, 2005). E’ stato membro del cosiddetto “Comitato dei 45” che ha varato –ma con il suo voto contrario- il regolamento delle elezioni primarie del 14 ottobre per la costituente del Partito Democratico. Eletto nel Collegio 1 di Milano con la lista Bindi, è stato fra gli estensori del Codice etico del Pd. E’ coordinatore del Pd in Valcerrina (Monferrato casalese) dove ha la cascina e coltiva barbera e nebbiolo.




Presentazione del libro
L’ACQUA E’ UNA MERCE
Perché è giusto e possibile arginare la privatizzazione

di Luca Martinelli*
Altreconomia

Con Emilio Molinari - presidente del Comitato Italiano per un Contratto Mondiale sull'Acqua
Presenta Claudia Apostolo – giornalista RAI 3
L’acqua è ormai una merce. E con la benedizione di politici e media si appresta a diventare -da bene comune e diritto di tutti- un affare per pochi. Una torbida verità la cui fonte è la recente riforma dei servizi pubblici locali.  Questo libro ricostruisce la storia della privatizzazione dell’acqua in Italia dal 1994 a oggi, dimostrando come e perché la gestione pubblica degli acquedotti può essere la più efficiente. Per tenere, come scrive Erri De Luca, nel prezioso testo inedito che apre il libro, “il conto delle gocce”. "L'acqua,maggioranza del pianeta e del corpo umano, è un trattato di pace tra l'ossigeno, socio di minoranza dell'aria, e l'idrogeno elemento di maggioranza dell'universo. Se accostati esplodono, intolleranti al contatto, ma in circostanze speciali formano l'acqua. L'acqua è il prodigio della terra, insieme alla luce e al loro primogenito, l'albero. Effetto serra è la specie umana sopra il suolo, non l'anidride carbonica sospesa.

“L’acqua è un bene comune. Privatizzarne la gestione vuol dire mercificare un diritto. Ma un diritto non si vende, semmai si tutela. Se il mercato vuol farci pagare l’acqua, come fosse un prodotto qualsiasi, noi rispondiamo: l’acqua è già nostra, l’acqua è di tutti noi”.

 *Luca Martinelli, è giornalista e redattore del mensile “Altreconomia”. Ha svolto ricerche in ambito universitario sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali. Esperto delle tematiche legate all’acqua, è anche autore di “Imbrocchiamola! Dalle minerali al rubinetto, piccola guida al consumo critico dell’acqua” (Altreconomia, 2010), libro ormai giunto alla terza edizione.
 



 

Presentazione del libro
PALESTINA
Pulizia etnica e resistenza

collana “Crimini contro l’umanità”
di Vittorio Arrigoni, Paola Canarutto, Giorgio Forti etc.
Zambon Editori


Presenta Ugo Giannangeli, avvocato
Introduce Giuseppe Zambon, editore
Intervengono:
Dottoressa Margherita Dametti, esperta di cooperazione internazionale allo sviluppo
Professor Giorgio Forti, membro di ECO Ebrei contro l’occupazione, Professore Emerito alla Facoltà di Scienze Università degli Studi di Milano

“Palestina” è una documentazione testimoniale e fotografica, che si propone di offrire un quadro realistico degli avvenimenti noti come “conflitto israelopalestinese” – definizione fuorviante e riduttiva.
Al lettore vengono dati gli strumenti per leggere e interpretare una realtà che, quanto più viene approfondita, tanto più si dimostra in aperto contrasto con i miti fatti propri dall’immaginario collettivo europeo.

Accanto alle testimonianze dei profughi palestinesi costretti a fuggire dalla loro terra, proponiamo quelle dei soldati israeliani che li hanno cacciati con la forza delle armi e le dichiarazioni dei dirigenti sionisti che hanno pianificato e diretto le operazioni di pulizia etnica.
Un riconoscimento particolare va indirizzato ai “nuovi storici” israeliani che, con coraggio ed abnegazione, talvolta a prezzo dell’esilio, hanno accreditato una versione dei fatti in netto contrasto con quella ufficiale che fino ad ora era stata sostenuta soltanto da esigue minoranze di persone informate.
Speriamo con questo libro di dare il nostro modesto contributo all’affermarsi in Europa di una coscienza critica, che a sua volta induca la maggioranza degli ebrei israeliani a condannare la politica di discriminazione e di terrore del loro governo. Solo in questo modo sarà possibile ripristinare quella pacifica convivenza di popoli e di religioni diverse, che per secoli, prima dell’avvento del sionismo, ha caratterizzato la Palestina.

 



In libreria dal 18 febbraio 2010

Nevio Casadio

NEL SILENZIO UN CANTO

Storie di ingiustizie, dolore e riscatti

Prefazione di Ettore Mo

Marsilio Editori

 

Nel silenzio riaffiorano in tutta la loro unicità. Un reportage d'autore, forte ed emozionante, nei luoghi più poveri del mondo e nell'Italia dimenticata. Suoni di vita e passione emergono nei racconti di persone alla ricerca di speranza, verità, giustizia e misericordia. Per Alda Merini la morte è una dea. Giulio Albanese, prete-reporter, vede Dio negli ultimi. Padre Zanotelli, di fronte all’inferno di Korogocho, nel tormento del dubbio, si chiede: «Dio mio, Dio dove sei?» Le denunce di Gino Strada nell’esperienza di Emergency, risuonano come una preghiera laica, in un grido alla pace. Tra le vittime di ogni giorno, nei luoghi di lavoro del nostro paese, il ricordo di Giuliano, un ragazzo dilaniato alla vigilia di Natale nell’esplosione della fabbrica dove smerigliava macchinette da caffè, è una ballata che ci richiama alla responsabilità. Il viaggio prosegue in India, nelle fabbriche dei mattoni dove le donne-mulo sono schiave insieme ai figli, padri, parenti e mariti. In Albania, nelle fabbriche di abbigliamento intimo, operaie, giovani e anziane, ogni sera vengono denudate dagli imprenditori italiani, <<preoccupati per i furti di slip e reggiseni>>. Ancora, storie di cronisti italiani uccisi, sulla strada del racconto, per una stampa concepita in libertà. Giornalisti sepolti idealmente nel cimitero di Spoon River, dove «tutti, tutti ora dormono sulla collina». Il reportage di Nevio Casadio, si snoda come un romanzo, tenero e violento, di vita reale. Donne, uomini e bambini, abbattuti da prepotenze di ordinaria disumanità, e le persone di buona volontà, chiedono la costruzione di ponti. <<Dopo la fontana, la più grande buona azione è costruire un ponte>>, aveva scritto Ivo Andric nel Ponte sulla Drina.

Indice

Prefazione di Ettore Mo

Introduzione

Il giudizio universale di Dario Bellezza

Il prete e il chirurgo

L’inferno di Korogocho

Le vele di Dino Campana

La temibile dea di Alda Merini

La Ballata di Giuliano

Kanun

Viaggio di un reggiseno

Lo schiaffo del cobra

Morire per raccontare

Stari Most

Nevio Casadio, giornalista, autore televisivo. Tra i diversi giornali, ha scritto per “la Repubblica”, “Oggi” e “Il Mattino”. In Rai ha lavorato con Sergio Zavoli ed Enzo Biagi e ha dedicato a Indro Montanelli programmi ed iniziative speciali, nel centenario della sua nascita. Sempre in Rai ha firmato numerose inchieste e reportage, in Italia e nel mondo. Tra i riconoscimenti, ha vinto il Premio Guidarello per il Giornalismo d’autore e per tre volte il premio Giornalistico Televisivo Ilaria Alpi.


Verdiana Catanzaro, J e V. L'eroe e la principessa

La Zisa-Palermo, pp 352, euro 17

 

 

 

Il regno della magia è un mondo parallelo a quello umano in cui si disputa l’eterna lotta tra il bene e il male. Nel giorno del suo sedicesimo compleanno a Jason viene rilevato di appartenere a quel regno incantato. Da quando scopre la sua vera natura, cioè quella di essere un mago, la sua vita cambia completamente. Inizia per lui una trascinante avventura con incantesimi, streghe e ippogrifi, dove i buoni sentimenti come l’amore e l’amicizia trovano un posto fondamentale nelle vicende che vive.

Verdiana Catanzaro è nata a Palermo diciotto anni fa e questo è il suo primo romanzo fantasy.

 


 

Rosario Norrito, OMBRE DI VETRO

 

 

 

 

“In fondo, tutta la filosofia è stata fatta da uomini che hanno tentato di superare o cancellare i confini posti da altri, ma con scarsi risultati, anzi, dopo vari tentativi, si sono ritrovati con voragini più profonde. Anche un epistemologo di prim’ordine come Popper si era arreso a questa fatalità, al punto di affermare che la scienza è un continuo abbattere confini per poi trovarsene altri da superare. Quanti giganti, che intrapresero il viaggio, sono tornati e hanno potuto raccontare cosa hanno visto? Ma dall’Oltre non vi è ritorno! Semmai qualcuno vi ha messo piede non lo sapremo mai. Se i filosofi possono insegnarci qualcosa è quello, appunto, di andare da un’altra parte per scoprire strade che non sono mai state battute, ma con prudenza perché, una volta imboccate… è finita!”.

Rosario Norrito, insegna filosofia e psicologia nei licei psicopedagogici. È stato conduttore di gruppi nel progetto “Comunicare educando & Educare comunicando” promosso dal l'Ufficio Scolastico Regionale della Sicilia. Esperto in metodologia didattica tiene corsi sulla mnemotecnica e sulle diverse strategie per un apprendimento efficace. Ha ottenuti diversi riconoscimenti in ambito pittorico e poetico. Nel concorso letterario “Città di Monza 2000” con l'opera La notte bianca è risultato tra i vincitori.


 

 

 

 

Alessandro Berselli
CATTIVO
R O M A N Z O B R E V E
Collana Babele Suite // diretta da Luigi Bernardi //
PerdisaPop // euro 9,00 // pagine 128 //
Isbn 978 88 8372 469 5 //

 

 

 

 

 

 

 

 

Luca Parmeggiani ha diciassette anni. Scuola, ragazze, musica: sembrerebbe un ragazzo come tanti, ma ciò che mostra non è che una maschera. Il suo diario racconta ben altro: l’ambizione di consumare violenza e crimine, l’indole e l’intelligenza algidadi un cattivo autentico.
La storia è narrata dal protagonista, con una maleducazione che diventa originalità narrativa, creatività grafica e linguistica. Il risultato è una scrittura di per sé attraente, ricca di trovate e soluzioni inattese. La leggerezza di questo linguaggio si oppone allo spessore della vicenda narrata, al centro della quale arriva presto l’omicidio, con le sue conseguenze.
La vicenda è del tutto verosimile. Il personaggio rivela e rappresenta il contesto in cui si muove, che è quello di un ambiente medio borghese in apparenza perbene. Dietro c’è la vita reale dei ragazzi, i loro sentimenti, il sesso, la droga, la routine: la carrellata sui gesti e i pensieri conserva tutti gli ingredienti di una storia adolescenziale, con tanto di rancori generazionali e rabbie ontologiche. In questo quadro, il crimine si innesta senza bisogno di espedienti o spiegazioni troppo facili.
Libero dal controllo degli adulti, sempre assenti o distratti, Luca Parmeggiani suona in una band, va a scuola, bacia le ragazze e semplicemente delinque. Il suo percorso di consapevolezza sembra assente: il romanzo non affianca al delitto l’abisso di nessun castigo, se non quello, incerto, che potrebbe venire dalla legge dello Stato. Non c’è quindi nessun processo di redenzione, c’è piuttosto l’incoscienza di un giovane uomo contemporaneo, esperto di finzione, ambizioso in modo illogico, preoccupato anzitutto del proprio desiderio.
Dopo una carriera da umorista e il successivo approdo alla narrativa nera, con Cattivo Alessandro Berselli sorprende i lettori creando un personaggio indimenticabile, raccontato con uno stile audace, innovativo, gestito con straordinaria padronanza.


In libreria dall’8 luglio 2009.


 

MERIDIANOZERO

NEWSLETTER 5/2009



A Thornhill, poco fuori Londra, c’e’ una grande villa in decadenza. Un tempo le sue stanze risuonavano di un canto melodioso, ma ora non si ode che silenzio. Gli interni sono bui e i muri scrostati, la pioggia goccia monotona dai soffitti. L’affascinante Madame Mardy, giunta anni prima dalla Francia a seguito del marito, con la sua voce delicata e i suoi modi garbati, e’ scomparsa.

Ma c’e’ qualcosa di inquietante nel modo in cui la donna, negli ultimi tempi, si era fatta impalpabile e quasi evanescente, prima di sparire del tutto. C’e’ qualcosa di angosciante nel vuoto che ha lasciato nel paese.

A14, sezione Delitti Irrisolti. Al sergente senza nome piace lavorare da solo, e di andare a Thornhill viene incaricato lui. Qui trova un’accoglienza gelida, un clima di opprimente omerta’. Alla piccola stazione di polizia locale gli uomini di paglia in divisa volgono lo sguardo altrove, sperando in segreto che quel detective sgangherato mandato dalla capitale non colga nei loro occhi il luccichio sinistro dei corrotti.

Il caso sembra fatto apposta per lui, e per i suoi metodi di indagine: atteggiamento provocatorio, maniere rudi, nessun rispetto per i superiori. Ma un grande rispe tto per la dignita’ e la sofferenza umana: “Sarebbe troppo semplice accontentarsi di giustizia e logica. Che cosa ce ne faremmo senza la pieta’?”. Grazie a questi modi schietti, il sergente sapra’ farsi strada in quella provincia impietosamente descritta, dalle fabbriche chiuse alle campagne desolate, dai vecchi alcolizzati del pub ai giovani senza futuro. Per scoprire, al fondo dell’indagine, un segreto crudele come lo stesso male di vivere, spietato come la follia dell’amore.

Nel terzo capitolo della saga della Factory, Raymond approfondisce la dissoluzione del poliziesco classico per regalarci un noir metafisico, intriso ancora una volta del dolore delle vittime.




“La cosa piu’ stupefacente di Robert Irwin e’ la sua originalita’, che sfida qualunque definizione. Tutto quello che posso dire dire e’ che assomiglia a un incrocio tra “Le mille e una notte” e “Il nome della rosa”. Magico, bizzarro e sconvolgente.”

(Ruth Rendell)


“E’ quello che avrebbero fatto Borges e Philip K. Dick se avessero unito gli sforzi.”

(David Langford)


Baliam e’ stato inviato dalla corona francese al Cairo per spiare i movimenti della corte mamelucca. Ma in quella citta’ multiforme e insidiosa si trova a perdersi tra la realta’ e il sogno, cadendo vittima dell’Incubo Arabo, un terribile incantesimo che tormenta atrocemente il sonno e che al mattino non lascia traccia del suo passaggio.

Mentre cerca di de cifrare la sottile rete di intrighi politici che avvolge il Cairo, Baliam resta coinvolto nel mistero che sta terrorizzando l’intera citta’. Chi e’ la pallida Fatima della Morte, che con un pugnale toglie la vita ai giovani che cedono al suo fascino fatale?

Baliam cerca di fuggire dalla citta’ scarlatta, ma a ogni tentativo il suo cammino lo riporta sempre al punto di partenza. La citta’ e’ un labirinto onirico e surreale, un mondo sotterraneo popolato da prostitute e maghi egiziani, dervisci ridenti e ordini di cavalieri lebbrosi: figure ibride e fantasmagoriche che non sono mai cio’ che sembrano.

A meta’ strada tra “Le mille e una notte” e una novella di Borges, il romanzo di Irwin riesce a unire, in un traboccante immaginario, la sensualita’ dei sogni pieni di eros, i paradossi filosofici e la leggerezza del divertimento. Un gioco attraverso l’universo dei simboli e l’ebbrezza delle illusioni, dove ogni figura riverbera nel suo inquietante riflesso.




"UN COMMISSARIO MAIGRET FINLANDESE"


Pulp

Un noir finlandese, o meglio un esplicito racconto di violenza giovanile, una storia di giovani criminali rigorosamente descritta attraverso un’ottica istituzionale. L’autore e’ stato commissario di polizia, e infatti tutta questa vicenda - che ha per protagonisti due ragazzi - nonostante la costante pieta’ di cui e’ intrisa ogni pagina, e’ lontana chilometri dai motivi che possono spi ngere due giovani a uccidere. Si tratta di un uccidere senza motivo, proprio perche’ la narrazione, nonostante sembri asettica quanto un resoconto giudiziario o un’autopsia, e’ invece radicalmente di parte. Chi scrive non concepisce neppure i motivi e le emozioni di Mikael e Leo, la loro visione tragica dell’esistenza. C’e’ solo il rammarico di un adulto che osserva due giovani vite sprecate, due figli che non sono riusciti a diventare buoni cittadini finlandesi. E non a caso Joensuu individua scientificamente le colpe di questi crimini: due famiglie indegne, violente o indifferenti, che l’autore addita a veri colpevoli. Due famiglie inadatte a educare.

La gente muore per un’infinita’ di ragioni, e il romanzo poliziesco ha sublimato le ragioni della morte a indagine che neppure si conclude con lo scioglimento del delitto, ma deborda contaminando l’investigatore e assumendo il contesto del caso criminale a paradigma sociale. C’e’ da chiedersi se Joensuu ritenga che la societa’ nordica, in questo caso fredda come il suo clima, sia giunta a un definitivo disfacimento, se la polizia che fronteggia questi ragazzi violenti e senza ideali sia l’ultimo baluardo di una concezione paternalista destinata a estinguersi, se la famiglia sia diventata assolutamente incapace di riprodurre il modello sociale; e se gli adolescenti (come alieni) intendano portare l’intero corpo sociale all’autodistruzione

“Harjunpaa e il figlio del poliziotto” apre diverse domande sulle societa’ nordiche, sulla ricchezza, sullo stato sociale. Domande che solo un romanzo che sin dall’inizio parla di morte e’ in grado di porre.

Domenico Gallo




“Scusate il disturbo” di Christopher Brookmyre (Meridiano zero) e’, malgrado sia stampato su carta, un action movie. O, piu’ precisamente, la parodia (una parodia colta, intelligente, sapida, divertita) di un action movie: vale a dire una storia che, inscenando un certo tipo di eventi (sparatorie inseguimenti esplosioni raffiche di mitra assalti frontali eccetera) assume una posizione critica rispetto alle narrazioni incentrate su quel tipo di eventi, portando la narrazione sul terreno della comicita’.

Non che ad inscenare sparatorie inseguimenti esplosioni raffiche di mitra assalti frontali seguiti (o preceduti) da altre sparatorie ulteriori inseguimenti eccetera, ci sia niente di male. Un po’ d’azione lubrifica le storie e le fa scorrere piu’ veloci, sulla pagina e sullo schermo.

(...)

Comunque: c’e’ una bella differenza tra condannare un genere senza appello (in questo caso, gli action movie), e inscenarne la parodia. Di solito, chi giudica i film d’azione alla stregua di dosi massicce d’anestetico iniettate nel tessuto cerebrale degli spettatori (e conseguentemente li disprezza), non li conosce affatto (ne’ i film, ne’ gli spettatori) e di rado ne ha visto qualcuno fino alla fine (di film d’azione). Ebbene, (...) noi nel romanzo di Brookmyre troveremo una buona dose di distacco e ironia; ma non di disprezzo. All’autore, si capisce leggendo Scusate il disturbo, gli action movie piacciono: anche se con ogni probabilita’ egli apprezza maggiormente quelli in cui persona ggi ed eventi non vengono presi troppo sul serio.

La storia di Scusate il disturbo: c’e’ un tizio, Gavin Hutchison, arricchitosi col turismo dei minus habens (il tipo di turisti che impazziscono se non trovano la pizza napoletana in Bangla Desh), che decide di trasformare una piattaforma petrolifera piazzata nel bel mezzo del Mare del Nord (classico scenario da action movie), in villaggio turistico galleggiante, e d’invitare all’inaugurazione quella manica d’infami dei suoi ex compagni di scuola del St. Michael’s College, che all’epoca appunto della scuola lo trattavano come lo “sfigato per eccellenza” (ce n’e’ uno in ogni classe, mi dicono). A dire il vero, questi fetentissimi ex compagni sono una sfilata di fenomeni da baraccone mica male (sono tentato di citarvi qualche esempio clamoroso, ma mi trattengo per non sciuparvi il gusto: se proprio vi viene la curiosita’, spulciatevi la rassegna stampa). Si ha la sensazione che Brookmyre costruisca, in effetti, i suoi personaggi apposta per sbeffeggiarli: e, per mezzo di tali sbeffeggiamenti, irridere le piu’ sciocche e idiosincratiche abitudini di vita britanniche. Insomma: quel pizzico di satira sociale che non guasta mai, e che nella letteratura in lingua inglese ha innumerevoli illustri predecessori (che pero’, curiosamente, inglesi non sono mai: tanto per dire, Swift era irlandese, Thackeray nato in India, e Christopher Brookmyre e’ scozzese). Comunque, nel bel mezzo della “vacanza” sulla piattaforma petrolifera irrompono in scena i terroristi piu’ sgangherati che si siano mai visti, e il resto (ch’e’ un sacco di roba, ma lo lascio raccontare all’autore) viene di conseguenza. Cio’ che piu’ mi ha colpito, positivamente, di Brookmyre e’ la sua capacita’ d’infilare u na dopo l’altra situazioni pulp e dialoghi deliranti, senza mai ripetersi; o comunque, ripetendosi ben di rado (e, credetemi, e’ difficile giocare con il pulp senza diventare noiosi in fretta). Si capisce, leggendo questo romanzo, che l’autore si e’ divertito come un matto a scriverlo e l’ha scritto avendo ben chiaro in testa l’obiettivo di far sganasciare i suoi lettori, senza per questo considerarli dei decerebrati. Si sa che ognuno si diverte come puo’, e che l’umorismo e’ un fatto ben personale, tanto che cio’ che diverte uno puo’ risultare fastidioso a qualcun altro. Cio’ che posso dirvi e’ che io, con “Scusate il disturbo”, mi sono letteralmente schiantato dal ridere a ogni pagina o quasi: merito del fatto che l’autore, da bravo parodista, non ha scrupoli nell’alzare continuamente la posta (al punto di mettere in scena persino uno sgangherato filosofo dell’action movie, l’irresistibile Ally McQuade).




Negli anni Venti era diventato in Italia il nemico pubblico numero uno.

Ricercato dalla polizia di Nord e Sud, Sante Pollastri ha faticato per costruire la sua carriera. Ma alla fine ce l’ha fatta, diventando uno dei piu’ grandi banditi di tutti i tempi, sempre in bilico tra cronaca e leggenda. A ricordarlo nel corso degli anni, soprattutto per la sua amicizia con il ciclista Costante Girardengo, ci hanno pensato tempo fa una canzone di De Gregori, “Il bandit o e il campione”, e piu’ recentemente Marco Ventura, con “Il campione e il bandito”, edizioni il Saggiatore.

Ora arriva in libreria per Meridiano Zero “Il diavolo custode” di Luigi Balocchi un romanzo che ripercorre la vita e le azioni di un uomo che fa parte a suo modo della storia del nostro Paese. Perche’ c’ e’ chi nasce angelo, chi diavolo. E chi tutt’e due, come Sante Pollastri.

Ma il libro non e’ una semplice biografia. Del resto, attingere ad una vita del genere significa gia di per se’ mettere un piede nel romanzo. Sante Pollastri, classe 1899, originario di un luogo sinistramente noto come Novi Ligure, comincio la sua carriera di ladro rubando carbone per proteggersi dal freddo. Anarchico orgoglioso, bandito nelle vite dei ricchi per dare ai poveri, non esito a sparare nel 1926 in Lomellina uccidendo insieme alla sua banda due carabinieri. La carriera fu stroncata un anno dopo. Ma sempre in grande, cosi come aveva vissuto fino ad allora. A catturarlo, infatti, nella metropolitana di Parigi il 10 agosto 1927 fu il celebre commissario Guillaume. Proprio lui. Il funzionario della Surete’ al quale Simenon si ispiro per il suo Commissario Maigret.




Jacques Cavallier, quarantacinquenne ex-agente della giudiziaria, un passato da dimenticare alle spalle, ha lasciato la polizia e si e’ imposto l’esilio in provincia. Qui passa le giornate scrivendo articoli di poco conto per un mo desto quotidiano, e le nottate ascoltando vecchi LP della “Sun Records”, andando in giro sulla sua vistosa Ford V8 e scolando bottiglie. I colleghi del giornale gia’ lo danno favorito tra i possibili successori dello stanco caporedattore Tellier; poi, un giorno, le ombre lunghe di un torbido passato, un passato da poliziotto di citta’ dal grilletto facile e dalla dubbia moralita’, offuscano la sua tranquilla esistenza da giornalista di provincia.

Una serie di ingenti versamenti bancari effettuati da uno sconosciuto, l’intempestiva visita di una vecchia fiamma e di un ex-collega, la scomparsa del vecchio Chess, ex-funzionario della giudiziaria, e un attentato ai suoi danni richiamano Cavallier all’azione, ma alla fine, a dargli la forza di riesumare l’automatica dal fondo di un cassetto, sara’ l’amore per la bionda ventenne Anita...

“In fondo alla notte”, romanzo brevissimo, intenso e odoroso di polvere da sparo (senza per questo risultare pirotecnico nel senso spettacolare, fantastico e anti-realistico del termine) mantiene un andamento ultra-serrato e inesorabile...

I retroterra politici “suggeriti” e mai “dichiarati”, la corruzione e la tendenza al compromesso diffuse all’interno degli organi di polizia, abbozzate con pochi tratti, la dolente evocazione della tensione tra istinto e senso del dovere da parte di un personaggio che, una volta, in un passato remoto ma non sepolto, ha ceduto alla tentazione di “fare giustizia” piuttosto che “tutelare la legge”, completano un romanzo misuratissimo e stilisticamente perfetto.

Lasciamo che siano gli altri ad istituire facili paragoni tra l’esperienza dell’autore come ispettore della polizia parigina e la visione disincantata del mondo espressa nei suoi romanzi; ormai sappiamo c he il realismo letterario e’ frutto di uno sguardo particolare, non il risultato prevedibile a priori di una serie di eventi personalmente vissuti, e poi Pagan non ha bisogno di espedienti di questo tipo: i suoi intrecci e la sua prosa parlano per lui.

Fabrizio Fulio-Bragoni


Angelo Petrella - NAPOLI NERA - Euro 7,00


Un cagnaccio di poliziotto che morde per far male

Violenza, droga, sesso: il mondo malato della corruzione


Un romanzo breve come un colpo di pistola. Si legge in un paio d’ore ma come un viaggio all’inferno rimane dentro a lungo, a macerare. Amaro come l’aceto che non diventera’ mai vino d’annata. E’ “Cane rabbioso”, opera prima del napoletano Angelo Petrella, uno che non ha peli sulla lingua; e se ne vanta. La scrittura rapida, incisiva, urticante e’ il suo vessillo di battaglia, all’insegna del nero piu’ oscuro e profondo.

L’animale del titolo e’ un poliziotto dai metodi poco consoni: si fa pochi scrupoli a rapinare, violentare e, all’occorrenza, uccidere. Non e’ spinto da vendetta ma da interessi personali. Dentro di se’ non alberga la minima etica. Chi si para sulla sua strada se ne pente. In un modo o nell’altro.

L’incipit e’ distruttivo: cinico e nichilista, lo stile di Petrella azzanna alla gola. Potrebbe sembrare pulp, ma va ben oltre, grazie alla rabbia sincera che proietta sui personaggi e sui loro crimini. Ci sono si’ sangue ed eccessi ma e’ soprattutto questione di livore, di pu ro e semplice odio. “Cane rabbioso” e’ una fucilata in pieno petto, diretto come un montante, un pugno pero’ di chi gioca sporco, nelle risse da strada, non di chi si e’ allenato per un match di boxe. Niente regole, niente protezioni.

Sporco, scorretto, a tratti addirittura disgustoso, e’ l’ultima parola, senza possibilita’ di ritorno, in tema di noir. Necessario nella forma, schietta come un dialogo da prigione, si avvicina molto all’essenza stessa della brutalita’. Astenersi perditempo e puri di cuore, il materiale per duri questa volta e’ davvero estremo.

Matteo Di Giulio


Carl Hiaasen - CROCODILE ROCK - Euro 17,50


Hiaasen - il Manifesto, 15.03.2009


Una colonna sonora per il coccodrillo della buon giornalismo

Delizioso! E se non e’ frequente usare un aggettivo del genere per un romanzo, e’ sicuramente ancor piu’ raro farlo con un thriller. Tra i pochi esempi possibili forse potremmo mettere la serie degli ineffabili cinque del recentemente scomparso Donald Westlake. Ma proprio ai migliori romanzi humor-polizieschi di Westlake puo’ essere paragonato questo Crocodile rock di Carl Hiaasen, autore americano che ha avuto il picco della popolarita’ da noi in occasione dell'uscita cinematografica di Striptease, film del 1996 di Andrew Bergman con Demi Moore e Burt Reynolds tratto da un suo omonimo romanzo. Oggi riprende ad occuparsi di lui la casa editrice padovana Meridiano zero traducendo Basket Case, del 2002. E si tratta, come detto all'inizio, di un romanzo delizioso dove s'in trecciano non solo crimine e umorismo, ma anche niente affatto scontate considerazioni sul giornalismo e sul panorama economico in cui si muove la stampa, e dimostrando una grandiosa passione per la musica rock, quella vera, fatta di note, sudore, sangue e sesso (e tanta droga), non i quattro quarti tutti uguali delle musichette scritte apposta per scalare le classifiche. E in questo il parallelo che viene in mente e’ con lo scrittore francese Jean-Claude Izzo, che pure per altro non potrebbe essere piu’ diverso, ma che come Hiaasen lascia respirare al lettore la musica che egli e i suoi protagonisti ascoltano, non concedendo mai un riferimento facile ai nomi da classifica ma costruendo un continuo gioco di rimandi che deliziano l'appassionato vero. Hiaasen si fa pure aiutare, per il testo della canzone al centro dell'intrigo poliziesco, da Warren Zevon, scomparso poi l'anno seguente.

Tutto comincia da un “coccodrillo”, ovvero da un necrologio (da qui anche il titolo italiano) che Jack Tagger, giornalista in disgrazia di un quotidiano di provincia della Florida, deve scrivere sulla scomparsa durante un immersione di James Stomarti, alias Jimmy Stoma, ex cantante e leader degli Slut Puppies, una band che nella finzione del romanzo avrebbe influenzato addirittura i Red Hot Chili Peppers prima di sciogliersi e scomparire dalla volubile attenzione dei fan. L'istinto da cronista di Tagger fiuta l'intrigo intervistando la moglie - giovane stellina del pop balzata alla notorieta’ per aver girato un video col pelo pubico bene in vista - e la sorella di Stoma, che si mantiene con chat-line a luci rosse. Districandosi tra improbabili guardie del corpo e produttori improvvisati, tra vecchie star del rock col cervello bruciato, ma soprattutto dribblando i nuovi proprietari del quotidiano, Tagger scopre un hard disk con le registrazioni a vari o livello di mixaggio di un nuovo album solista di Stoma. Al centro di tutto la canzone Shipwrecked Heart che avrebbe potuto diventare un formidabile hit.

Se gia’ l'intreccio si preannuncia un divertente slalom tra gli eccessi del rock e i virtuosismi delle indagini giornalistiche, al centro di tutto c'e’ la figura del protagonista: da un lato capace professionista dell'informazione e percio’ frustrato in massimo grado nel fare un lavoro che consiste nel ricucire brandelli di articoli d'archivio per poter descrivere brevemente l'esistenza di celebrita’ locali teste’ scomparse; dall'altro nevrotico ossessionato dalla morte che continua a paragonare la propria eta’ a quella del decesso di celebrita’ della musica e della letteratura. Un appassionato infine di musica, tanto da conoscere tutta la musica pop americana e da riconoscere un'artista fasullo quando lo vede. Insomma un eroe recalcitrante, terrorizzato dalla possibilita’ di vedere un cadavere ma col sangue freddo sufficiente per colpire in testa un rapinatore con un varano congelato. E la cosa piu’ improbabile e divertente e’ che sara’ proprio Jack a decidere da ultimo delle sorti del giornale, rivendicando in modo “romantico” la priorita’ delle notizie vere - esattamente come quella del rock vero - sugli affarismi e sugli arrivismi reciproci di editori e presunte star.

Francesco Mazzetta



L.R. Carrino - ACQUA STORTA - Euro 10,00

L.R. Carrino - ACQUA STORTA/LA VERSIONE DELL'ACQUA - Euro 18,00


Hannah Arendt la chiama banalita’ del male, qui al Sud si chiama sistema o camorra, status sociale e giuridico. L’incoscienza che accompagna il vivere e che lo spinge alle derive di cio’ che e’ possibile definire male. La banalita’ di questo male, la camorra appunto, e’ lo sfondo, lo stato delle cose che Luigi Romolo Carrino in “Acqua Storta” ci rivela. L’assurdo, il contraltare e’ la condizione dell’omosessuale al suo interno, anomalia non solo all’interno di un organizzazione criminale, ma anomalia del vivere.

“Acqua Storta” e’ una storia d’amore, passione, sudore e carne. Possiamo anche pensare alla contemporaneita’ delle unioni impossibili come quella di Romeo e Giulietta. Il pregio di questo lavoro e’ il flusso passionale di un pensiero insistente e scarno com’e’ la scrittura di Carrino. Certe volte l’amore e’ storto non perche’ non nasca diritto, ma perche’ la condizione di colui che ama e’ di dipendenza totale e assoluta dall’oggetto del desiderio.

La dipendenza di questi rudi amanti e’ totale e assassina. L’amore e’ un’anomalia nell’epoca in cui tutto e’ permesso, tranne il fuoriuscire dalle regole non scritte di un pezzo di societa’ legale e non, che nega l’omosessualita’. Giovanni ‘Acqua Storta’, si puo’ permettere le puttane, la droga, l’omicidio, la truffa, ma non l’amore. Sua moglie e’ la sua verita’, il suo esser marito e basta non lo salva, ma e’ l’unica donna che puo’ salvargli la vita. Madri, donne, travestiti e figli che invocano quelle stesse madri nel momento in cui vogliono essere uomini.

Ispirato ad un episodio di cronaca e ampliato in “La versione dell’acqua”, sempre nel 2008, anno di edizione con un Cd in allegato contenente classici partenopei con timbri jazz. Questa versione ci permette di entrare ancora piu’ a fondo dell’inferno passionale di un amore impossibile. Non e’ Saviano, ma lo ringrazia.

Per coloro che amano le domande e i brividi del mare agitato.

Francesca Grispello




il Trentino, 20.12.2008


Trent’anni di eclettica carriera, da poeta e musicista, sempre nel sogno di creare un’antieroica letteratura del rock in Italia "Soffiando vita" come scrive Matteo Strukul, su "formule apparentemente estranee alla lingua italiana".

Antesignano non solo nel rock italiano (apri’ un "celtic pub" nel 1986 a Verona: e l’Irlanda canto prima delle mode nella celebre “Il cielo d’Irlanda” poi portata al successo dalla Mannoia), coraggioso incursore letterario nella musica, Massimo Bubola vanta diciannove album (live e compilation inclusi), un felice sodalizio con Fabrizio De Andre’ e il figlio Cristiano, un successo meno nazionalpopolare di quanto si potrebbe credere. I numeri non sempre s’accompagnano ai giusti riconoscimenti.

Strukul ripercorre tutta la sua carriera in questo libro-intervista pubblicato da Meridiano Zero.

Il giornalista padovano evidenzia con chiarezza come la produzione dell’artista vada letta non per pubblicazioni isolate , ma quasi fosse un canzoniere: "I suoi album sembrano continuare l’uno nell’altro, non ci sono cesure nette insomma, si assiste piuttosto a una sorta di ideale continuazione".

Carlo Martinelli

 


 

 

 CONSUMARE CON RISPETTO...

 ...per consumare meglio e meno
 

Cosa distingue noi opulenti occidentali da un umile abitante del sud del mondo?la cultura?l’educazione?lo stipendio?l’igiene?prima di tutto il luogo di nascita che non dipende da nessuno di questi parametri ma semplicemente dal destino. Nessuno sceglie dove e quando nascere ma questo semplice atto di vita influenza per sempre il destino di una persona. I nati fortunati dovrebbero esprimere la loro riconoscenza aiutando i nati sfortunati e questo è possibile diventando consumatori critici e attenti. Invece di seguire le mode dovremmo crearle, invece di accontentarci di frugali etichette nutrizionali dovremmo lottare perché le aziende siano obbligate a dichiarare il loro comportamento nei confronti di lavoratori e ambiente, offrendo dati trasparenti sulle materie prime. I riflettori si illuminano solo su casi eclatanti come quello di Eluana (di competenza “privata”) ma la morale e l’etica dovrebbero occuparsi anche degli innumerevoli soprusi che ogni giorni milioni di cristiani e non cristiani subiscono a causa della loro sfortunata sorte (o forse i poveri dovrebbero accettare il loro destino con filosofia?). Non assistere di persona ad un crimine non ci rende automaticamente innocenti e chiudere occhi e orecchie non placherà le urla degli innocenti ma ne diminuirà semplicemente il volume. Smettiamo di comprare facile e senza coscienza ma impegniamoci ogni giorno a rispettare gli uomini, le donne, i bambini, le piante e gli animali che più o meno volontariamente ci permettono di mantenere il nostro esuberante stile di vita.

 GUIDA AL CONSUMO CRITICO si pone come strumento capace di illuminare un mondo tenuto oscuro grazie al consenso di governi, istituzioni e mass media; nel libro troverete verità , bugie, comportamenti scorretti, poca trasparenza e tanto altro viene messo in atto da aziende e multinazionali di vari settori economici. Il volume mette al vaglio bevande, biologico, detersivi, latticini, pane, prodotti per l’infanzia e tanto altro influenza ogni giorno i nostri acquisti; si scopre, senza troppo stupore, che la multinazionale piu’scorretta e da boicottare e’ la Nestle’ mentre pochi sono i marchi con la fedina completamente pulita.

Alcuni esempi di marchi 'onesti'
 IGIENE PERSONALE: Equosolidale, Esprit Equo, Officina Naturae, Natyr, Lympha.
 PRODOTTI PER INFANZIA: la meno peggio risulta essere la Ecor
 SUPERMERCATI: non ci sono superstiti
 BIOLOGICO: Alce Nero, Iris e Officina Naturae
 CAFFE’ CACAO TE’: Alce Nero, Altromercato, Equosolidale, Liberomondo
 

 Il libro e’ suddiviso in 5 parti: Consumo responsabile, Analisi delle imprese, Settori sotto la lente (con dettagliate griglie di confronto fra le varie aziende prese in esame), Imprese al vaglio e Approfondimenti sui simboli in etichetta e sugli imballaggi.

 La guida e’ frutto di un delicato e approfondito lavoro di ricerca e documentazione svolto dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (Pisa). Il centro e’ parte integrante di un progetto sociale costituito da un gruppo di famiglie che si occupano di disagio e ingiustizia a livello nazionale e internazionale. Chiunque fosse interessato a diventare un consumatore rispettoso può acquistare la guida online sul sito www.emi.it al prezzo di 16 euro per 592 pagine di informazioni pratiche e complete oppure potete consultarlo liberamente presso il GAS di Reggiolo (per info:www.cestadiartemide.altervista.org) o presso la redazione de L’Eretico. Sito correlato all'argomento: www.bilancidigiustizia.it
 

Tratto da L'Eretico (Mar/09)


 

Gruppo Palestina del Forum Sociale di Modena in collaborazione con Ass. Alkemia e Shahrazad Edizioni

 
 
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Un’infanzia ebraica durante la guerra
di Marcel Liebman

 
 

Nato ebreo, non è solo una testimonianza di ciò che furono le persecuzioni antiebraiche, ma un lucido contributo per comprendere una delle pagine più nere e controverse della storia. E’ importante oggi riscoprire opere come questa, dove razzismo e xenofobia riemergono arroganti con nuove e vecchie forme, nuove e vecchie vittime.

 
 
 
 

Lunedì, 10 novembre 2008, ore 17,30.
Presso: Libreria Feltrinelli, Via Cesare Battisti 17, Modena.

 
 
 

Giorgio Forti presenta:
Jean Vogel Coord. Istituto Marcel Liebman di Bruxelles

 



DIETRO IL BURQA

Un oggetto coperto in movimento
(la vita di due donne in Afghanistan e la loro fuga per la liberta’)
di Mirca Garuti

Le letture estive sono spesso divertenti, non impegnative, rilassanti, come i giorni trascorsi nel più completo relax dalla vita quotidiana.

Il tempo ritrovato, però ci permette, a volte, di approfondire temi importanti, addentrandoci dentro la vita di persone diverse da noi, in un mondo lontano.

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Così è stato per il libro “Dietro il Burqa” di Batya Swift Yasgur, edizioni Clandestine. Scrittrice ebrea-americana di romanzi e saggi, Batya è l’autrice di America: A Freedom Country, un libro pubblicato dal “Lutheran Immigration and Refugee Service”. Nel giugno del 2001, per la realizzazione di un progetto, ebbe l’opportunità d’incontrare, per un’intervista, Hala, sorella minore della protagonista del libro. Questo progetto aveva lo scopo d’informare l’opinione pubblica americana, sui modi usati dalle Autorità per l’immigrazione, nei confronti degli immigrati arrivati in America senza permesso di soggiorno. Il sistema americano prevedeva, infatti, l’immediata carcerazione in centri di detenzione dove, i tempi dei controlli e delle verifiche, potevano anche durare anni. La giornalista e scrittrice, ascoltando dunque la storia di Hala, sentì subito la necessità di doverla rendere pubblica: troppi drammi si nascondevano dietro a chi era solo alla ricerca di asilo! In un secondo momento, dopo l’incontro con la sorella maggiore Sulima, aveva capito che doveva pubblicare, per completare il racconto, anche la sua storia che era ancora più significativa e drammatica. Rimase dunque profondamente colpita da tutto quello che le due sorelle avevano dovuto sopportare, per poter conquistare la libertà di vivere. Di fronte alla dura lotta per la sopravvivenza di molti profughi, i problemi quotidiani che affliggono la maggior parte delle persone “normali” svaniscono nel nulla. E’ una considerazione che si verifica, quando si prende coscienza delle vere difficoltà che esistono. La condizione di donne che vivono nei paesi occidentali, libere di camminare per strada senza essere molestate, di lasciare i capelli al vento, di parlare con chiunque, di pregare o no secondo la propria scelta, di sposare chi si ama, si contrappone a quell’oppressa di migliaia di donne afgane e non. Tutto questo non ci può assolutamente lasciare indifferenti!

L’Afghanistan, da paese quasi sconosciuto, è stato poi sbattuto in prima pagina, catturando l’attenzione mondiale, dopo la tragedia del 11 settembre.

Gli occidentali hanno iniziato ad avere veramente paura. Qualsiasi mussulmano era un potenziale terrorista. Le parole “talebano” e “burqa” erano diventate d’uso comune, anche se spesso il loro significato era del tutto ignorato. Gli immigrati erano i capri espiatori della rabbia americana. Non si faceva più alcuna distinzione tra il popolo oppresso afgano ed i seguaci talebani di Bin Laden. All’inizio di settembre, il Congresso americano aveva approvato alcune facilitazioni per i rifugiati, ma dopo quel fatidico giorno 11, le leggi sull’immigrazione sono diventate più rigide e severe.

“Dietro il burqa” rappresenta quindi la vita di due sorelle, i cui veri nomi non sono citati, per la loro sicurezza personale. Questo libro non vuole solo essere una denuncia per la violazione dei diritti delle donne ma cerca, attraverso il racconto della cultura afgana e delle sue tradizioni, di farci capire questa realtà a noi lontana e spesso incomprensibile. Stimola, inoltre, il desiderio di conoscere, di fare, di agire e regala forza e speranza per un lontano ma forse possibile cambiamento. Si parla molto dell’Afghanistan, ma tante volte non si sa neppure dove sia collocato geograficamente e né tanto meno si sa la sua storia. Il fulcro principale è l’Islam. L’autrice, attraverso il suo racconto, riesce ad evidenziarne i diversi modi in cui è possibile viverlo.

Sulima, nata nel 1954, ha vissuto, fino a dieci anni, una vita allegra spensierata, felice. Era la “prediletta” del padre! Fotografo di professione, aveva una mente brillante, arguta, leggeva e apprendeva in continuazione. Si sentiva attratto dall’ideologia comunista: discuteva di Marx e Lenin, dell’uguaglianza economica tra le persone e dell’oppressione dei ricchi sui poveri. Era attenta alle esigenze fisiche della sua famiglia, ma non dava molta importanza, però, alle loro necessità psicologiche. Sulima, fin da ragazzina, avvertiva però un malessere, circa la sua condizione di donna. Non capiva la disparità del loro trattamento nei confronti degli uomini. “ Perché le donne devono chiedere il permesso agli uomini per uscire? Perché è la cosa giusta da fare. Perché devono fare tutti i lavori di casa? Perché questo è il loro compito. Perchè devono ascoltare gli uomini? Perché così dice il Corano.” Così la sua infanzia fu un insieme d’orgoglio e paura.

“L’ingiustizia era il prezzo dell’amore, e l’amore di mio padre era la cosa più importante”

L’infanzia però finì con il mutamento del padre. Il viaggio alla Mecca, non per pellegrinaggio ma per lavoro, segnò ugualmente l’inizio di un incubo. La sua filosofia di vita cambiò per seguire la strada giusta, la via dell’Islam. Non fu più gioviale, affettuoso ed ordinò alle sue donne di casa di coprirsi la testa. Naturalmente la risposta di Sulima non fu l’obbedienza silenziosa, ma fu invece quella della disubbidienza. “Compresi la fine arte del nascondimento, mentre seppellivo i miei veri sentimenti sotto il velo della mia devozione figliale. Imparai ad odiare l’Islam. Dichiarai guerra alla religione che aveva avvelenato l’anima di mio padre”. Iniziò così il periodo di ribellione. Riuscì a far parte del WDO, prima organizzazione democratica per i diritti delle donne in Aghanistan, che si affermò con l’aiuto del partito comunista. Era parte attiva del movimento, teneva comizi e cercava di reclutare un maggior numero di donne disposte a lottare per la libertà. Aveva però capito che per essere libera di agire doveva trovare un compagno comprensivo da sposare, altrimenti sarebbe sempre stata succube della volontà del padre o del fratello. La ribellione però si paga, sempre. Le punizioni paterne furono violente: dalla segregazione in casa, dal divieto di usare il telefono, dalle frustate con la cinghia, fino all’allontanamento da Kabul. Ma Sulima resiste. Nel 1978 ci fu la rivoluzione Marxista.


La presenza sovietica non fu però del tutto positiva.

Ci furono grandi riforme, come l’imposta sui latifondi, il controllo delle doti e l’introduzione dell’età minima per il matrimonio. L’istruzione fu intensificata attraverso un’ampia campagna di scolarizzazione rivolta a uomini, donne e bambini di tutte le età. L’errore dei comunisti fu però quello dell’indifferenza per le necessità del popolo afgano. Le riforme possono anche essere efficaci, ma se sono semplicemente imposte, senza tenere in considerazione le condizioni di vita, le abitudini di quelle persone, difficilmente saranno accettate.

Sulima ebbe, in quel periodo, l’incarico, tanto sognato, di coordinatrice dei programmi educativi femminili. Doveva convincere le donne ad imparare a leggere e a scrivere, creando anche il materiale didattico appropriato. Come donna afgana sapeva delle enormi difficoltà che avrebbe incontrato e, prima di tutto, per non umiliare le persone che dovevano imparare, creò dei testi scolastici specifici per adulti. Ora, doveva solo entrare in contatto con la sua gente e, per ottenere fiducia, si presentava umile, con il velo in testa e una copia del Corano, sotto il braccio. I risultati furono molto buoni, ma si scontrò presto con i vertici del partito comunista. “ Il comunismo per cui ho combattuto tutta la vita non si può limitare a qualche riforma e a programmi di insegnamento. Sono cose importanti, ma sono solo una parte. Il comunismo è soprattutto uguaglianza fra le persone. Libertà. Diritto di esprimere in pubblico il proprio punto di vista. Non mettere in prigione la gente senza motivo, solo perché hanno osato esprimere un’opinione diversa.” Nel 1979 fu rimossa dal suo incarico e fu costretta ad andare, ogni giorno, all’ufficio “punizioni”. Ancora una volta era agli arresti domiciliari, costretta a rinunciare all’insegnamento.

La mia abilità nel lavorare per l’uguaglianza era stata soffocata dalle stesse persone che avevo sempre aiutato e per cui in passato ero stata imprigionata da mio padre”. Fu arrestata tre volte, finì sulla lista nera e, se voleva continuare a vivere, con il marito e la figlia, doveva lasciare definitivamente il paese. Lasciò l’Afghanistan nel 1979 per, come prima tappa, la Germania.

Più tardi iniziarono, in maniera molto pesante, anche le persecuzioni religiose. In questa situazione è naturale che, il desiderio di vendetta e di un ritorno all’Islam, trovasse terreno fertile. I mujihaddin, miliziani della Jihad (guerra santa) diedero così inizio alla rivolta. Gli Stati Uniti, in tutto questo, ebbero un ruolo fondamentale, in quanto fornirono le armi ai ribelli. I leader americani, infatti, incitavano i mujihaddin a prendere le armi contro il nemico comunista, in difesa della loro religione, perché questo era il volere di Dio.

Mentre Sulima lasciava il paese, Hala iniziava, invece la sua vita. Nata nel 1970, trascorse la sua prima infanzia amata e protetta dalla sua numerosa famiglia. La morte del padre allentò le severe regole che invece avevano terrorizzato Sulima. Le donne di casa smisero di indossare il velo, pregare era diventata una scelta e non più una imposizione. Negli anni settanta, con i comunisti al potere, le condizioni delle donne migliorarono. Non raggiunsero di certo l’uguaglianza con gli uomini, per la tradizione culturale, ancora molto radicata nel paese, che le discriminava, ma avevano ottenuto la stessa istruzione, prima riservata solo ai maschi. I comunisti crearono le classi miste ed un programma universale per tutte le zone dell’Afghanistan. Hala, quindi non si sentiva angosciata, come Sulima, da questa differenza con i maschi, forse anche perché, a causa degli scontri esplosi tra il regime governativo ed i ribelli, il suo compito era solo quello della sopravvivenza.

I mujihaddin avevano, intanto, invaso il paese e le loro vite.

Inizialmente sembrava che volessero solo cancellare l’influenza dell’invasore straniero, ma le loro azioni non avevano niente di ideologico. Cominciarono a perseguitare chiunque o qualsiasi cosa che avesse anche il più piccolo coinvolgimento con il comunismo. Anche l’istruzione superiore veniva considerata un prodotto della corruzione occidentale! Presto l’anarchia regnò in tutto il paese, soprattutto nelle zone più isolate. Il terrore si unì ad una crudele povertà. Chi lavorava prima per il governo, se non era ucciso, era disoccupato. Chi aveva un titolo di studio non poteva più praticare la sua professione. Per una donna anche uscire di casa era diventato molto pericoloso. La gente era affamata. I mujihaddin diedero inizio,anche,a feroci incursioni notturne, nelle abitazioni di chi era sospettato. Tutto questo portò molte donne al suicidio per evitare, appunto,di essere vittime dell’aggressore. Uscire di casa per recarsi a scuola o al mercato richiedeva una minuziosa pianificazione nei più piccoli dettagli. Ogni ora vissuta in classe a studiare, come in passato, era come una piccola affermazione di speranza per il futuro.

I russi si ritirarono dall’Afghanistan nel 1989,ma Kabul fu l’ultima città ad essere conquistata dai mujihaddin, nel 1992. Hala si considerava una vera musulmana, però questo non l’avvicinava di certo ai suoi aggressori. La fede per i mujihaddin si fondava sul terrore, la coercizione, la punizione e l’odio. La religione invece, per Hala, era una cosa sua personale, era una forza di pace, di amore, non ostilità o guerra.

I mujihaddin erano divisi in sette fazioni. All’inizio, per sconfiggere il nemico occidentale, erano uniti, ma subito dopo la vittoria, avevano iniziato a combattersi a vicenda. Ognuno di loro voleva il controllo assoluto della città. La vita doveva continuare e la sopravvivenza dipendeva solo dalla volontà di andare avanti. I mujihaddin erano selvaggi e feroci ma, rispettando le loro regole,forse, c’era ancora una piccola speranza. Ma non fu così.

Una nuova fase si stava preparando per l’Afghanistan e per Hala: i talebani.

Iniziò nel 1994, quando conquistarono Kandahar. All’inizio sembravano appartenere ad una delle tante bande in circolazione, ma poi fu evidente che si trattava di un vero e proprio esercito. Sono stati definiti “studenti del Corano”. Studenti pushtun. Figli di contadini che non avevano mai conosciuto la luce, il telefono, vissuti in condizioni miserevoli. Sono cresciuti nelle scuole coraniche, le madrassas, trasformate poi in centri più complessi e polivalenti. Nelle madrassas, dove prima si beveva solo thè, cominciarono ad arrivare scarpe, vestiti e cibo in scatola. Dei trecento o quattrocento allievi, solo una decina erano alfabetizzati, il resto rimaneva analfabeta. L’altra novità era data dall’istruzione militare impartita agli allievi nei campi organizzati dall’esercito pakistano. Andavano in combattimento con una motivazione religiosa, con l’onore di condurre una nuova guerra santa. La ragione della loro invincibile avanzata consisteva anche in una accurata programmazione degli interventi, non solo militari, ma anche economici e politici ed una stretta comunicazione tra il Pakistan e l’Afghanistan.

Non sono stati portatori di idee istituzionali, ma hanno solo ripristinato norme comportamentali e pene medievali. Cominciarono con il chiudere tutte le scuole femminili ed alcune maschili. Costrinsero gli uomini a farsi crescere la barba. Vietarono l’uso della radio, della televisione, di suonare ed ascoltare musica e di assistere a qualsiasi spettacolo cinematografico o teatrale. Le donne non solo dovettero indossare l’hijab, il lungo abito con sotto i pantaloni, ma persino il burqa, un pesante fardello adatto a coprire tutto il corpo dalla testa ai piedi, lasciando, come apertura, solo un piccolo rettangolo retato davanti agli occhi. Non poteva essere vero. Si trattava di un regime simile al terrore senza luce. Non c’era nessun rapporto tra questo furore ideologico e gli insegnamenti sunniti. All’inizio del 1995 avevano già assunto il controllo di sette delle ventotto province afgane. Il popolo però non capì subito le loro intenzioni, furono, infatti, accolti come salvatori, con gioia e gratitudine, impegnati solo a ristabilire l’ordine e la legge. Anche la madre di Hala si mostrava fiduciosa: “ Non possono essere peggio dei mujihaddin, almeno stanno proteggendo le donne, dicendo loro di stare in casa. Alla fine riporteranno il nostro paese all’antico ordine”. La polizia religiosa, nuovo organismo di controllo, aveva iniziato ad ispezionare ogni angolo della città alla ricerca di trasgressori delle regole imposte. Hala era disperata, si sentiva in trappola, reclusa forzata, per legge,nella sua stessa casa, era come tornare indietro. Ogni giorno c’erano nuove restrizioni. Fu proibito truccarsi, anche sotto il burqa, mettersi lo smalto alle unghie, di indossare calze bianche e scarpe con i tacchi e, in seguito, qualsiasi calzatura che producesse rumore. Le finestre delle abitazioni che davano sulla strada dovevano essere tinte di nero e nascoste da spesse tende, per impedire ai passanti di cogliere le forme delle donne all’interno. L’esperienza di Hala nell’indossare il burqa fu scioccante. “ il senso di soffocamento e il caldo, sotto quel pesante fardello, erano insopportabili”. Si guardava allo specchio, era praticamente irriconoscibile e indistinguibile dalle altre donne. Non era più una persona, ma un oggetto coperto in movimento. Le cure mediche per le donne divennero inesistenti. Il tempo si era fermato. Tutto era avvolto nella disperazione e in una totale immobilità. La noia di ogni giorno, causata dall’essere confinata in casa senza nessuna occupazione, servì solo a farle prendere atto dell’angoscia che aumentava sempre di più dentro di sé. Bisognava tenere viva la speranza, la mente, solo in questo modo si poteva forse sopravvivere. L’unica cosa che poteva fare era quella di tornare al suo passatempo preferito: l’insegnamento ai bambini. Iniziò con i due figli dei suoi vicini di casa, ma la sua scuola crebbe in fretta, la richiesta era alta, e dopo solo quattro mesi, aveva circa sessanta studenti divisi in due sessioni di studio. Tutti correvano grossi rischi, ma il desiderio di apprendere da una parte, e la necessità di dare, di sentire ancora la vita dall’altra, erano più forti della paura. L’irreparabile non si fece molto attendere: tre membri della polizia religiosa si presentarono per un controllo, per verificare se, i loro sospetti potevano, in qualche modo, corrispondere a verità. La prima visita fu solo di domande. Ma tornarono, nel pomeriggio, in quattro e armati. Questa volta, Hala non ebbe scampo e fu brutalmente picchiata. Se ne andarono, ma con la promessa di tornare a prenderla. Le rimaneva, quindi, un’unica possibilità: la fuga.

Riuscì, aiutata da amici, a lasciare l’Afghanistan.

L’America – una speranza di libertà.

E qui ebbe modo di conoscere il vero volto dell’America. Un paese dove non c’era molto spazio per le persone disperate costrette alla fuga dai loro destini. Un paese “ignorante” di fronte alle situazioni esistenti al di là dei loro confini. In attesa di essere giudicata e di prendere visione della sua richiesta d’asilo, doveva essere reclusa in un centro di detenzione. Il suo nuovo abbigliamento fu una bella tuta arancione e il suo nome fu “427”. Hala però era l’immagine della clandestina fortunata: parlava un po’ l’inglese, sapeva quello che doveva chiedere ed aveva l’aiuto della sorella, già cittadina americana. “ Soltanto gli americani sono sicuri di arrivare in tribunale. Non noi – le ricorda un’altra reclusa – Noi siamo stranieri. Non siamo nessuno e non abbiamo gli stessi diritti. Sono gli ufficiali in aeroporto i nostri giudici. Se non gli piaci, via. Ti ritrovi sul primo volo di ritorno all’inferno.” La maggioranza infatti dei clandestini non conosce i termini corretti e non è in grado di raccontare la propria situazione, capita spesso quindi che la polizia per l’immigrazione, li possa rispedisce indietro al loro paese d’origine. La fortuna di Hala fu anche quella di aver avuto la possibilità di attivare dei canali giusti per riuscire ad arrivare ad una conclusione abbastanza rapida, come per esempio la Commissione Legale per i Diritti Umani e l’attenzione di una televisione locale. Le altre detenute nella sua stessa condizione, non ebbero un simile trattamento, molte di loro rimasero per anni in carcere ed altre stanno ancora aspettando di arrivare ad una sentenza definitiva. Hala ottenne l’asilo nel gennaio del 1999.

L’Islam è ciò che vive nel suo cuore e non quello che copre la sua testa.




GUERRA AL TERRORE

VIOLAZIONE SENZA CONFINI

Presentazione dei libri di Amnesty International

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Intervengono: Andrea Matricardi, Riccardo Noury, Guido Olimpo,
Coordina: Carla Costamagna Martino

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IL SIONISMO. UNA STORIA POLITICA E INTELLETTUALE

1860-1940

Presentazione dell’ultima pubblicazione di GEORGES BENSOUSSAN

Sionista. L’aggettivo suona come un insulto. La realtà di un ideologia e di un movimento nazionale sostanzialmente atipico, il rifiuto risponde con il maschio d’infamia, ma non ci dice che cosa esso sia e, ancor meno, che cosa sia stato. Il sionismo è a tal punto sepolto sotto stati di riprovazione che oggi è difficile determinare serenamente che cosa fu, in quali condizioni nacque, l’humus che lo nutrì e la pluralità dei suoi significati

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(tratto da Michele Nani – Docente di storia dell’Europa contemporanea, facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Padova Barnaba Maj – docente di filosofia presso la facoltà di lingue e letterature straniere dell’Università di Bologna

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Ernesto Che Guevara Un uomo, un padre, un combattente.

In occasione della fiera internazionale del libro, al Lingotto di Torino, Aleidita March Guevara, figlia di Ernesto Guevara, ha presentato il libro “Evocación” scritto dalla madre Aleida March. Racconta le vicende politiche e personali legate a Ernesto Guevara, meglio conosciuto come il Che, che sposò nel giugno del ’59 e dal quale ebbe quattro figli.

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Il racconto di Aleidita è emozionante, ci parla del Che uomo, padre, combattente.

Durante la sua intervista, oltre a sottolineare, più volte, la virtù e l’orgoglio del popolo cubano, offre un’immagine del Che diversa dal semplice rivoluzionario. Un’immagine evocativa ricca di affetto e profondo rispetto per le scelte operate.

Presentazione del libro  mp34.gif frecce_02.gif


“Di futuri ce n‘è tanti”

Daniele Barbieri e Riccardo Mancini

casa editrice Avverbi
(164 pagine, 14 euri: www.avverbi.it).

Sono otto sentieri di lettura nella fantascienza, affrontando utopie e incubi, per uscire da un futuro senza sogni. Al centro del libro questi temi: le città, i robot, i computer, i cyborg, le religioni, le sessualità, le prigioni e le nuove forme del potere.

introduzione

La cospirazione fantascientifica

di Valerio Evangelisti

È splendido dover scrivere la prefazione a una sorta di guida alla fantascienza. Un genere della letteratura (ma non solo: del cinema, della televisione, dei videogiochi, della pubblicità...) mille volte dato per morto. E mille volte risorto, a mo’ di Dracula nei film della Hammer.

Ma che la fantascienza letteraria sia in crisi non si può negare. Il fenomeno è presente ovunque. Urania, che vendeva cinquantamila copie due decenni fa, oggi ne vende un decimo. Negli Stati Uniti, che non furono la patria del genere (europeo al cento per cento) ma sicuramente la culla della sua divulgazione popolare, le riviste più prestigiose o hanno cessato le pubblicazioni, o si sono trasferite su Internet. Quelle che resistono in forma cartacea, come la Isaac Asimov’s SF Magazine, vendono quanto Urania, però in un Paese ben più grande dell’Italia.

Del resto, di recente è morto Robert Sheckley in quasi completa miseria, privo delle cure che il costosissimo sistema sanitario americano non gli assicurava (malgrado varie collette a suo favore nel Vecchio Continente). Gli scrittori di fantascienza che ho conosciuto – e sono tanti, notissimi da noi – di sicuro non nuotano nell’oro, anche perché negli Stati Uniti sono pressoché dimenticati. Fanno eccezione solo quelli che hanno trovato fonti alternative di reddito, come Robert Silverberg (che con la firma Ron Hubbard ha fondato Scientology e scritto molti tomi della serie apocrifa Battaglia per la galassia), Harlan Ellison (sceneggiatore televisivo molto richiesto, al pari di Richard Matheson), Dan Simmons (passato al romanzo storico e alla riscrittura in chiave fantasy delle opere omeriche), George R.R. Martin (transitato brillantemente al fantasy puro e semplice).

Invece chi è rimasto fedele all’invenzione fantascientifica fatica a campare. Specie i personaggi che seppero rivoluzionare la science fiction, come Norman Spinrad, che oggi vivacchia alla meglio a Parigi, o l’anziano e malato Samuel Delany. Chi non è morto è povero o poverissimo, e può contare solo sul magro sostegno proveniente dai Paesi dell’Est dove, come nell’Italia del secondo dopoguerra, la fantascienza è ancora vista come sinonimo di modernità. Drammatico il caso di Frank Belknap Long, autore non eccelso ma vecchio amico di H.P. Lovecraft (li separavano solo le idee politiche: Long era comunista, mentre Lovecraft passò dall’estrema destra alla socialdemocrazia solo nel suo ultimo anno di vita). Una decina di anni fa si spense, come Émile Zola, nell’appartamentino di due stanze che occupava a New York, ucciso dalle esalazioni di una stufetta.

Eppure tutti costoro Once Were Warriors: erano dei grandi. Gli sconvolgimenti che avrebbero portato nell’immaginario di popoli vicini e lontani non li sospettavano nemmeno. I capiscuola della fantascienza letteraria – non solo quelli citati ma anche gli Isaac Asimov, i Robert Heinlein, i Van Vogt, i Pohl, i Simak della generazione precedente, e poi i Tenn, i Dick, i Leiber, i Simak, gli Sturgeon, i Knight eccetera – stavano, dalle pagine di riviste a poco prezzo, sconvolgendo i sogni collettivi e, ancor di più, la percezione del presente.

Non inseguivano, come è divenuto abitudine oggigiorno, la fantascienza cinematografica. Il cinema si attardava su versioni puerili dell’invasione aliena, modellate sulla Guerra dei mondi di H.G. Wells. Gli scrittori si spingevano avanti di decine di migliaia di anni, descrivendo conflitti futuri (molto simili a quelli del loro presente) oppure ipotizzando società alternative ma perfettamente logiche, assolutamente diverse da quelle illogiche e favolistiche ipotizzate dalla fantasy, all’epoca minoritaria. Non a caso, nella fantascienza si gettarono a capofitto autori marxisti come Mack Reynolds (prima di lui, un buon numero di comunisti come Nat Schachner o il menzionato Long; in parallelo a lui, autori della sinistra radical come Philip K. Dick; posteriormente, libertari quali Ursula LeGuin, Michael Swanswick, James Morrow e decine d’altri).

Prendeva corpo una narrativa che trattava di sistemi, di economie globali, di società complete e conflittuali, di utopie in apparenza lontane ma ferreamente ancorate alla contemporaneità. Non me ne voglia chi giudica il noir (che personalmente adoro, in Hammett, in Manchette, in Izzo e in tanti altri) il “genere” per eccellenza. La fantascienza ha espresso molto di più. Al punto che a un certo momento si è fatta società. Si è come sciolta, ha aderito al reale e alle sue espressioni mediatiche, che aveva accuratamente previsto, anche nelle sue distorsioni.

È entrata in seria crisi, nella sua forma narrativa, solo quando qualcuno (qui personalizzo quello che in realtà è un trend socio-culturale di lungo periodo) bruscamente ha deciso che fosse proibito sognare secondo logica. Che non vi fossero alternative al presente, e che ogni proiezione razionalmente utopica portasse alla catastrofe. Finiti i sogni, finite le opzioni, finita la fantascienza. Esiste un reale unico e immodificabile, cui tutti si devono disciplinare. Ormai, nella narrativa fantascientifica, si tratta di scegliere tra Elizabeth Moon, pessima imitatrice di Heinlein, e l’australiano Greg Egan, autore di roba illeggibile, che può essere compresa solo da analfabeti molto intuitivi, visto che il suo valore letterario è nullo.

Invece questa guida di Barbieri e Mancini è un severo richiamo alla fantascienza autentica. Quella che mi fece sognare ma anche riflettere. Che diede forma alla mia personalità, ma non solo alla mia. Occorreva, al tempo delle utopie negate e del realismo piatto e opportunista, che qualcuno tornasse a esplorare i momenti in cui l’immaginazione si è spinta più lontano e ha descritto, in forme metaforiche o allegoriche, il mondo in cui viviamo. Non per adattarvisi, bensì per superarlo.

Preghiamo per la rinascita di un genere narrativo che fece dell’intelligenza la sua bandiera, e si piegò solo quando l’intelligenza fu bandita dall’ambito della società, della politica, dell’ideologia. Consola il pensare che alla Rivoluzione francese seguì sì Termidoro, e fu lunghissimo: l’epoca napoleonica ne fu un po’ la continuazione, e ciò che le seguì fu peggio. Ma nel 1830 le bandiere dell’utopia erano nuovamente sulle barricate.

Tornerà anche la fantascienza adulta, irridente e sovversiva. Per apprestare le armi future, nulla di meglio che riflettere sulle sue trascorse conquiste. Il ramo più vitale della narrativa di genere ha una caratteristica propria solo della grande letteratura: sa parlare a generazioni diverse e distanti. Con ciò prepara sotterraneamente l’inevitabile riscossa.

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