Il Peres center addestra i palestinesi ad accettare la superiorità ebraica
(occhiello su homepage di Haaretz)
Un monumento a un tempo perduto e a speranze perdute
di Meron Benvenisti*, Ha’retz, 30.10.08
Shimon Peres lo ha fatto con stile, come al solito. La celebrazione del decimo anniversario del Peres Center per la Pace
è stato un evento brillante, pieno di celebrità internazionali e di
artisti famosi, e naturalmente includeva la poesia scritta dall’ospite
principale che iniziava, “Oh, mio Dio, è tempo di pregare”.
Il punto
culminante dei festeggiamenti è stato l’inaugurazione della Casa del
Peres Center a Jaffa, un edificio magnifico di grandi blocchi verdi,
costato 15 milioni di dollari, tre volte la stima iniziale. L’edificio
è senza finestre, ha l’aria condizionata dappertutto ed è reso
inaccessibile dai quartieri limitrofi, abitati da una popolazione araba
povera. Si affaccia sul mare, come se ai suoi costruttori fosse stato
suggerito che le possibilità di pace si trovano ad ovest, al di là del
mare, e non all’ est, dove abitano nemici vicini.
La magnificenza e
l’eleganza, purtroppo, oscurano il senso di una opportunità perduta.
Gli eventi dei giorni della costituzione del Centro Peres per la Pace
nell’ottobre 1997, indicano con forza la cultura politica che aveva
favorito la pace; che era piena di fiducia nella possibilità di
arrivare alla pace; e sfidava l’approccio di Benjamin Netanyahu, che
aveva battuto Peres e fatto tutto il possibile per silurare gli accordi
di Oslo. Oggi i festeggiamenti non possono nascondere il fatto che del
campo della pace rimane soltanto un modesto residuo, che una industria
di pace funziona per forza di inerzia e che coloro che ne sono
coinvolti inventano scuse per la loro attività e tutto ciò suggerisce
l’idea che stanno trasformando la pace in uno strumento per perseguire
i loro scopi personali.
Solo col senno di poi siamo in grado di
vedere i danni funesti fatti dagli accordi di Oslo, che hanno ispirato
Peres nell’organizzare il Centro: gli accordi, invece di
determinare un cambiamento nello statu quo, sono diventati un pilastro
di un regime de facto binazionale (chiamato “occupazione”), che si è
istituzionalizzato in regime permanente. Gli Accordi di Oslo sono
l’infrastruttura legale destinata alla divisione della Cisgiordania in
cantoni, che permette il controllo israeliano sul 60% del territorio
(Area C) come pure l’infrastruttura costituzionale per l’esistenza di
una Autorità Palestinese virtuale. La ‘pletora’ di titoli assunti dai
suoi leaders e le uniformi ufficiali dei suoi soldati rendono possibile
mantenere la falsa illusione della natura temporanea del regime di
controllo israeliano e pertanto di perpetuarlo.
Nell’attività del
Centro Peres per la Pace non c’è nessuno sforzo palese compiuto per un
cambiamento dello status quo politico e socioeconomico nei Territori
Occupati, ma proprio l’opposto: gli sforzi sono fatti per addestrare la
popolazione palestinese ad accettare la sua inferiorità e prepararla a
sopravvivere sotto le costrizioni imposte da Israele per garantire la
superiorità etnica degli ebrei. Con atteggiamento colonialista, il
centro presenta un olivicoltore che scopre i vantaggi della
commercializzazione cooperativa; un pediatra che riceve un formazione
professionale negli ospedali israeliani; un importatore palestinese che
impara i segreti del trasporto delle merci attraverso i porti
israeliani che sono famosi per la loro efficienza; e, naturalmente,
gare di calcio e orchestre miste di israeliani e palestinesi, che danno
una falsa immagine di coesistenza.
Non c’è possibilità che gli
attivisti e amministratori del Centro Peres possano partecipare alla
lotta quotidiana dei raccoglitori palestinesi di olive; ai frustranti
sforzi di trasportare i malati in fase critica attraverso i
checkpoints; o di rompere l’assedio economico e il blocco navale di
Gaza. Il Centro Peres per la Pace non pubblica relazioni sulla
catastrofica situazione economica dei palestinesi e non mette in
guardia sulle responsabilità di Israele per questa situazione; dopo
tutto, non è un club di anarchici che odiano Israele ma di persone
rispettabili che contribuiscono principalmente alla pace nel
finanziamento generoso di eventi scintillanti ai quali partecipano.
E’
sempre stato sostenuto che il contributo principale, e forse
rivoluzionario, degli accordi di Oslo non sta nella “dichiarazione di
principi”, ma nel riconoscimento reciproco fra il movimento nazionale
palestinese e lo Stato di Israele. Ma questo reciproco riconoscimento
che ha trasformato i palestinesi da entità terrorista in una entità
legittima agli occhi degli israeliani fu cancellato sulla scia degli
attacchi suicidi e della violenza dell’intifada Al Aqsa, dopo la quale
il punto di vista pre-Oslo è tornato.
Ora gli ebrei stanno
consegnando agli arabi una dichiarazione di divorzio, voltando loro le
spalle, imprigionandoli dietro muri sigillati e checkpoints, ponendoli
‘volonterosamente’ sotto loro custodia e pregando che il Mediterraneo
si prosciughi o che possa essere costruito un ponte per ricongiungerli
direttamente all’Europa. Questa mentalità ha creato nel passato
decennio due strutture monumentali, il cui significato simbolico è più
grande del loro valore funzionale: il muro di separazione e il
nuovo aeroporto internazionale Ben Gurion. Il primo è stato progettato
per nascondere i palestinesi e cancellarli dalla nostra consapevolezza,
mentre il secondo serve come via di fuga e base per un ponte aereo
verso l’Occidente.
Il terzo monumento che è stato costruito in
questo decennio, la Casa della Pace Peres di Jaffa, li unisce come
memoriale di un tempo e di speranze perdute e l’unica cosa che rimane è
di unirsi alla preghiera di Peres: ”Allora mandiamo un Raggio di
Speranza per una nuova via”.
* Meron Benvenisti
Nato
nel 1934 a Gerusalemme da padre sefardita e madre ashkenazita, è uno
scienziato e uomo politico israeliano. Svolse mandati amministrativi a
Gerusalemme fra il 1971 e il 1978, con particolare riferimento alla
zona Est e alle sue vicinanze arabe. E’ un critico acuto della politica
israeliana riguardo la Striscia di Gaza, e più in generale della linea
Sharon. Sostiene l’idea di uno stato “binazionale”, scrive per
Ha’aretz, The Guardian e Le Monde Diplomatique e ha pubblicato diversi
libri sul tema: West Bank Data Project: A Survey of Israel’s Policies
(1984), Intimate Enemies: Jews and Arabs in a Shared Land(1995), City
of Stone: The Hidden History of Jerusalem (1996). L’ultimo è Sacred
Landscape: Buried History of the Holy Land Since 1948 (University of
california press, 2002) più la recentissima autobiografia Son of the
Cypresses: Memories, Reflections, and Regrets from a Political Life
(2007).
Con Danny Rubenstein ha pubblicato The West Bank Handbook: a Political Lexicon (1986).
Da un articolo del Manifesto di M. Giorgio (24/11/2006):
“Meron
Benvenisti […] punta l’indice contro il pacifismo di maniera.
Benvenisti, in un commento su Haaretz, ha accusato Grossman di aver
parlato a nome di quella parte della popolazione ashkenazita, laica,
nazionalista e vagamente socialista - che continua a pensare che il
modello israeliano era perfetto ma si è rovinato dopo l’occupazione di
Cisgiordania e Gaza nel 1967. L’intellettuale ha sottolineato che
Grossman non ha condannato la decisione del governo Olmert di scatenare
una guerra contro il Libano (nella quale peraltro lo scrittore ha
perduto un figlio, Uri) ma la sua gestione. «In ciò la sinistra si è
unita a coloro che lamentano la perdita della capacità di deterrenza,
in modo da preparare Israele per nuovo round di battaglie», ha scritto
Benvenisti. «Dove era (nel discorso di Grossman) l’appello alla lotta
contro l’ingiustizia provocata dal muro, dall’assedio attuato con posti
di blocco in Cisgiordania e contro Gaza, dove era l’appello contro
l’uccisione di donne e bambini, la distruzione delle istituzioni
dell’Anp, la deportazione di famiglie palestinesi perché prive di
documenti?», ha concluso.”
da http://www.nazioneindiana.com/2008/03/21/laltra-faccia-di-israele/