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a cura di Mirca Garuti


 

LEGALIZZAZIONE DELLE COLONIE ISRAELIANE
NEI TERRITORI PALESTINESI

Dopo l'approvazione della Knesset (parlamento israeliano) della legge sulla legalizzazione delle colonie realizzate sul territorio palestinese, abbiamo discusso di questo ulteriore pericolo per la pace in Medio Oriente e per i territori di Palestina. Tra gli organizzatori era presente il movimento globale per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), a favore della libertà, la giustizia e l'uguaglianza del popolo palestinese. Un'organizzazione per i diritti umani inclusiva, non violenta, che rifiuta ogni forma di razzismo e di discriminazione razziale.
Questo ha provocato una reazione di indignazione da parte delle comunità ebraiche di Modena e non solo che, attraverso la consigliera comunale del PD, Federica Di Padova, del senatore Carlo Giovanardi (GAL) ed altri esponenti politici locali, ha chiesto il ritiro del Patrocinio da parte del Comune di Modena perchè da loro considerata terroristica e antisemita.(V.articoli di stampa).
Il BDS è nato nel 2005, per la volontà della stragrande maggioranza delle organizzazioni della società civile palestinese. Ispirata dal movimento contro l’apartheid in Sudafrica, si avvale della collaborazione di numerosi militanti di origine ebraica e di forme di lotta democratiche basate sul convincimento a boicottare tutti i prodotti provenienti dal territorio palestinese oggi illegalmente occupati. E'ormai un diffuso movimento internazionale fermamente schierato contro le ideologie politiche, le leggi, le politiche e le pratiche che promuovono il razzismo e il sionismo. Il pilastro ideologico razzista e discriminatorio del regime israeliano di occupazione, colonialismo e apartheid, che ha privato il popolo palestinese dei suoi diritti umani fondamentali a partire dal 1948. (vedi BDS Italia)

 

LE FOTO DELL'EVENTO

 

Durante la serata sono intervenuti:

Miriam Marino    Ebrei contro l'occupazione

 

 

 

 

 

 

Fausto Gianelli        Giuristi Democratici

 

 

 

 

 

 

 Moni Ovadia       

audio  

video messaggio

 

 

 

 

Bassam Saleh        Presidente Ass.ne Amici dei Prigionieri Palestinesi

 

 

 

 

 

 

Mai Alkaila          Ambasciatrice Palestinese in Italia

 

 

 

 



 

Portavoce BDS - Bologna 

 

 

 

 

Le domande del pubblico

 

 

 

 

 

  

Iniziativa organizzata da:
Alkemia – Ass.ne Modena incontra Jenin – Ass.ne per la Pace Modena – BDS Bologna – CGIL Modena - GAVCI - Nexus E.R. - Overseas – Pax Christi Modena
con il patrocinio del Comune di Modena

(Martedì 28 marzo 2017 - Sala Ulivi – Istituto Storico di Modena)


IL POPOLO PALESTINESE
 Viaggio di solidarietà con i palestinesi rifugiati in Libano

(1° parte)

Il Comitato ”Per non dimenticare Sabra e Chatila”, come tutti gli anni dalla sua costituzione (2000), si è recato in Libano per rendere memoria al massacro avvenuto nel 1982. Questo viaggio però è stato diverso. E' stato triste, sofferto, per la mancanza di un amico, di un compagno, Maurizio Musolino, scomparso pochi giorni prima della nostra partenza. Maurizio non era presente fisicamente, ma lo era con il suo amore per il popolo palestinese e libanese. Il Comitato è stato creato da Stefano Chiarini, giornalista de “Il Manifesto”, insieme ad altri intellettuali e giornalisti italiani, libanesi e palestinesi, proprio per mantenere viva la memoria di quel massacro e per ribadire che nessun popolo può vivere sulle terre strappate ad altri con la forza. Maurizio, dopo la morte improvvisa di Stefano (2007), ha continuato la sua opera con il supporto di tanti altri compagni ed attivisti. Ora il testimone è nelle nostre mani ed abbiamo il dovere di continuare a percorrere questa strada, specialmente in questo momento storico molto critico e pericoloso per la sopravvivenza dei diritti e dignità di ogni essere umano. Il Comitato internazionale “Per non dimenticare Sabra e Chatila” ricorda sempre che la questione palestinese, una terra occupata, un popolo in fuga, una giustizia negata è al centro della crisi mediorientale. Oggi si parla sempre meno di Palestina. Oggi si parla di Daesh, di Siria, Iraq e Turchia. Il Medio Oriente è un immenso crogiolo di stati in guerra. Ai profughi palestinesi si affiancano  tanti altri profughi che scappano da guerre, fame, dittature, alla ricerca di una vita dignitosa, nell'indifferenza o addirittura nel respingimento da parte dei paesi occidentali. Un occidente, responsabile di tutto questo, impegnato a ridisegnare i confini di questi stati  per accaparrarsi le loro risorse. La paura dell'altro, fomentata specialmente  da partiti di destra, porta ad innalzare sempre più muri e barriere in nome di una fantomatica sicurezza per proteggere e salvaguardare la propria indipendenza. Si creano, invece soltanto divisioni, separazioni fra esseri umani in base alla nazionalità, alla religione, all'etnia. Mentre il mondo sta impazzendo tra guerre infinite e nuove alleanze che si creano tra le grandi potenze (Usa, Turchia, Russia, Israele, Arabia Saudita, Qatar...) i popoli, in special modo i curdi e i palestinesi, sono solo pedine nelle loro mani sacrificati sull'altare delle trattative. Non è possibile accettare la cancellazione di questi popoli. Loro stessi non lo faranno mai e chi sente ancora di avere un'anima democratica deve essere al loro fianco urlando il loro diritto di esistere. Per questo motivo il Comitato internazionale “Per non dimenticare Sabra e Chatila” continua ad organizzare viaggi nei campi profughi palestinesi in Libano permettendo così a centinaia di persone di conoscere e capire questa realtà. Raccontare significa “Non dimenticare”


I palestinesi registrati presso l'UNRWA (Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) in Libano sono circa 450.000 e vivono in 12 campi distribuiti sul territorio. Il dramma dei palestinesi risale alla prima guerra arabo-israeliana, con la nascita dello Stato d'Israele, anno della Nakba palestinese, con l'espulsione di circa 750.000 persone. Una parte decise di andare via spontaneamente, pensando che fosse solo per poco tempo confidando nella forza dell'esercito arabo, altri invece furono coinvolti personalmente nelle ostilità. Nella prima fase della guerra (novembre '47-maggio '48) fuggirono per scelta le persone più agiate, come commercianti, insegnanti, medici, funzionari ecc.. causando la chiusura di negozi, ospedali, uffici, scuole, provocando disoccupazione e povertà. Nella seconda parte della guerra (maggio'48-gennaio '49) gli arabi rimasti furono obbligati a fuggire. I comandanti israeliani avevano ricevuto l'ordine di “liberare” molti villaggi e città dai suoi naturali abitanti, i palestinesi, per permettere l'insediamento di ebrei per il nuovo Stato ebraico. Circa la metà dei rifugiati (350.000) andò in Giordania, 200.000 nella Striscia di Gaza, 120.000 in Libano, 60.000 in Siria e 4.000 in Iraq. Alla fine della guerra, Israele accettò il rimpatrio solo di 100.000 palestinesi. Una cifra irrisoria. I rifugiati vennero sistemati in campi profughi nei vari stati arabi senza diritti e senza casa, ad eccezione della Giordania che offrì la cittadinanza ed il diritto a lavorare. L'11 dicembre 1948, l'Assemblea delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione n. 194 che consentiva a chi lo desiderava, il diritto al ritorno  nelle loro terre, mentre quelli che non volevano rimpatriare avrebbero avuto diritto ad un risarcimento per le proprietà perdute. Risoluzione che ad oggi  è rimasta scritta solo sulla carta. Tutte le proprietà palestinesi abbandonate sono state subito acquisite dai nuovi immigrati provenienti dall'Europa e da alcuni paesi arabi. Un arabo per un ebreo. La guerra dei sei giorni del 1967 provocò poi altri spostamenti aumentando così il numero dei profughi in giro per il mondo. Oggi si calcola che ci sono circa sette milioni di rifugiati tra la Giordania, West Bank, Striscia di Gaza, Libano e Siria. E' utile ed anche curioso sapere come la contro parte recepisce il problema dei profughi palestinesi. Da leggere l'articolo “Il curioso caso dei profughi palestinesi” di Tiziana Marengo apparso sul sito “L'Informale”. Prima di tutto spiega la differenza che c'è tra profugo, migrante e rifugiato. Per la Marengo i palestinesi che prima del ‘48 abitavano le terre dell’attuale Stato di Israele, non sono da considerarsi “profughi”, ma  “rifugiati”. Si citano le differenze  delle due agenzie dell'Onu: UNHCR e UNRWA. (Il lungo filo della memoria 1°parte). Infine, si chiede perché il numero dei profughi  palestinesi sia così cresciuto dal 1947 ad oggi. L'articolo finisce con questa domanda: “Ci si chiede se davvero la causa della violenza in Medio Oriente fosse Israele, ora invece chiediamo: ma siete sicuri che il problema palestinese derivi da Israele? ed esiste davvero un “problema palestinese” o questo è creato a tavolino solo in pura finalità anti-isreliana?” Il Diritto al Ritorno, come si vede, è una questione aperta di difficile risoluzione. Bisogna però ricordare che ci sono due Diritti al Ritorno: uno concesso agli ebrei e quello negato ai palestinesi. Il pensiero della Marengo riflette il pensiero comune d'Israele: “Israele viene messo sotto accusa a causa di un numero enorme di persone che vivono nella impossibile attesa di un ritorno alle case che avevano abbandonato (una cosa è trattare il ritorno di 100.000 persone, altra, impossibile, il rientro di 6 milioni di persone); e dal lato dei rifugiati è dannoso poiché questo “status” implica una cultura della dipendenza, della lamentela, della rabbia senza alcuna via d’uscita. Nessuno dei rifugiati palestinesi ha invece interesse a cambiare status, queste persone hanno trovato una situazione che gli garantisce cibo, educazione, casa (continuiamo a chiamarli campi profughi ma sono città!), tutto gratuito perché pagato con le sovvenzioni internazionali da tutto il mondo.”
La realtà descritta in questo articolo non corrisponde  alla verità, a quello che i palestinesi sono costretti a subire tutti i giorni sia in Cisgiordania, Gaza, Libano, Siria e Giordania. Israele addossa tutta la responsabilità agli stati in cui si trovano i palestinesi, non parla mai di Occupazione. Israele ha occupato una terra non sua, non per darla al suo popolo, ma per creare unicamente uno Stato ebraico. Non sono stati i palestinesi a volere l'aiuto dell'agenzia Onu “Unrwa”, come non sono stati loro a voler tramandare lo “status di profugo”  per linea maschile a tempo indeterminato.

La domanda comune di chi affronta per la prima volta questi viaggi è sempre la stessa: come fanno i palestinesi a resistere? Come è possibile tutto questo? I palestinesi non hanno tante scelte a disposizione: resistere o morire. Le risposte a queste domande si possono dare solo attraverso una corretta informazione che purtroppo manca. Basta sapere che in Israele i libri scolastici descrivono una realtà distorta del presente ed una falsificazione del passato. Il libro “La Palestina nei libri scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione, di Nurit Peled-Elhanan (EGA-Edizioni Gruppo Abele).  “Il mio obiettivo – afferma l'autrice nell'articolo apparso sul Il Manifesto il 21 ottobre 2015 - era svelare l’architettura della propaganda sionista, un modello che si propaga a educazione, arte, letteratura, archeologia, musica, teatro. Tutte le discipline sono reclutate per dare vita a una storia comune che ovviamente il popolo israeliano non ha, provenendo da ogni parte del mondo”. Lo studio di Nurit Peled non è rivolto al sistema educativo israeliano nel suo complesso, ma aiuta a capire un'ideologia che ha lo scopo di disumanizzare il popolo palestinese e la cancellazione e l'omissione della narrativa araba. Attraverso lo studio di 17 libri diversi di geografia, storia e studi civici, usati nelle scuole pubbliche israeliane dal 1997 al 2009, l'autrice dimostra la sua tesi: “la scuola è il primo mezzo di creazione della memoria collettiva, di una narrativa nazionale per un popolo ed uno Stato frammentato”. La “mentalità da accerchiamento”,  spiega  l’autrice, permette alle autorità di modellare l’individuo, accompagnarlo nel cammino da studente a soldato a lavoratore verso la forma mentis desiderata. La Nakba, la catastrofe del popolo palestinese, non è citata o è giustificata. Nelle scuole - continua Nurit - in pratica non imparano niente sul Medio Oriente, perché lo stato di Israele è loro proposto come parte dell'Europa, né imparano nulla dei loro vicini o delle nazioni confinanti. Neppure della storia degli ebrei negli altri paesi. L'unica cosa che imparano sono i progrom, l'olocausto e il fatto che il sionismo ha salvato gli ebrei dai cristiani. Rappresentazione quest’ultima che potrebbe funzionare per l’Europa dell’Est ma non per i paesi arabi”. Dalla lettura dei libri di testo israeliani si capisce che "i palestinesi costruiscono i loro edifici illegalmente perché non vogliono pagare le tasse e che vivono in modo primitivo perché non amano la modernità". Il palestinese è disumanizzato, descritto come selvaggio a cavallo di asini o cammelli, non educato, “geneticamente terrorista, rifugiato o primitivo”.  “In nessuno dei libri di testo viene trattato, verbalmente o visivamente, alcun aspetto culturale o sociale positivo del mondo palestinese – scrive ancora l’autrice – né la letteratura, né la poesia, né la storia o l’agricoltura, né l’arte o l’architettura”. E' necessario, quindi, che anche nelle  scuole italiane sia data un'informazione oggettiva dei fatti, presenti e passati e che si ristabilisca il fatto storico fondamentale: le persecuzioni degli ebrei, la Shoah sono un crimine europeo. I palestinesi non ne sono assolutamente responsabili. Il conflitto israelo-palestinese è il più antico e pericoloso.

Tutto questo succede perché i nostri paesi restano nel più completo silenzio ad osservare senza prendere posizione.  Anche noi ne siamo complici. Dobbiamo fare di più. Lo diceva sempre  il nostro  amico e compagno Maurizio Musolino in tutti i suoi interventi sulla questione palestinese:
“L'occupazione ha mille sfumature, che si incuneano nella quotidianità della vita rendendola disumana. Non è qualcosa di astratto, di indefinito, ma si sostanzia con soprusi e privazioni, con l’obiettivo di spezzare la resistenza e la volontà del popolo che la subisce. Ed è precisamente questo che sta accadendo in Palestina, dove Israele impone a uomini e donne, colpevoli solo di rivendicare la propria dignità, una segregazione razziale intollerabile. L’Occupazione è negazione della vita, pulizia etnica, volontà deliberata di sradicare un popolo dalla sua terra per renderlo qualcosa di indefinito. E lo fa con la complicità di stati e governi che ora con aiuti diretti e ora con silenzi colpevoli sostengono nei fatti l’Occupazione. Il diritto al ritorno diventa quindi uno degli elementi che sostanziano l’idea di popolo e di autodeterminazione della Palestina. Un elemento che unifica tutto il popolo palestinese, che supera le barriere e le divisioni di schieramenti e di partiti che oggi indeboliscono la resistenza contro l’occupante israeliano.”

I rifugiati palestinesi che si trovano in Libano sono quelli che vivono condizioni economiche e sociali molto dure, senza nessun diritto, né alla proprietà, al lavoro, alla sanità e allo studio, a differenza invece da quelli che vivono in Siria o in Giordania. Quasi tutti i campi sono stati inizialmente fondati nel 1948 dalla Croce Rossa, mentre l'Unrwa inizia a fornire i suoi servizi nel 1950. I campi profughi in Libano si sviluppano in tre fasi. La prima, dal '48 al '69, sono soggetti alla giurisdizione militare libanese; la seconda, fine '69, iniziano i primi scontri tra l'esercito libanese e la resistenza dei fedayyin ed  campi passano sotto il controllo della resistenza palestinese; la terza, con la guerra civile libanese (1975-1990) i campi sono coinvolti negli scontri e subiscono bombardamenti, assedi e distruzione. Per capire i quindici anni di guerra libanese è necessario dividerla in cinque fasi:
1975-1976 fase palestinese – lo scontro è soprattutto tra palestinesi e cristiani
1976-1978 fase siriana – intervento dei siriani come mediatori che, appoggiando ora una parte ora l'altra, in realtà vogliono impadronirsi del potere libanese
1978-1982 fase israeliana – invasione del Libano da parte d'Israele, occupazione del sud del paese e massacro di Sabra e Chatila
1982-1990 fase integralista – discesa in campo di Hezbollah
1988-1989 fase della guerra intercristiana – lo scontro è tra le varie fazioni  della destra maronita seguita alla “Pax siriana” che ufficializza la presenza dell'esercito di Damasco in Libano attraverso un trattato di alleanza.

20/12/2016      

Leggi la 2° parte


 Text/HTML Riduci

DILEK OCALAN (deputata HDP)

"Noi proseguiamo la nostra lotta perchè vincerà la pace"

18 dicembre 2016

Giunta in Italia per ricevere la cittadinanza onoraria al presidente Apo Ocalan dalla Municipalità di Reggio Emilia, Dilek Ocalan, deputata del HDP del parlamento Turco, incontra la comunità kurda modenese e prova a raccontare l'attuale situazione in Turchia. La deriva fascista del governo turco e la feroce repressione attuata verso il suo popolo.



L'intervento di Dilek Ocalan

 

 

 

 

 

L'intervento di Dilek Ocalan in Kurdo

 

 

 

 

 

 

Le domande del Pubblico

 

 

 



 Stampa   

7° Premio Stefano Chiarini 2016
“PALESTINA: PER NON DIMENTICARE”
Modena, Sabato 6 febbraio 2016 ore 15,30
presso LA TENDA, Viale Molza angolo Viale Monte Kosica

Come raggiungerci

ORE 20.00 CENA DI SOLIDARIETA' CON LA PALESTINA iscriviti! 

Il Premio Chiarini, dedicato alla figura del giornalista de "Il Manifesto" Stefano Chiarini, si propone di istituire un riconoscimento all’impegno sul tema del Medio Oriente e in particolare della Palestina, con una speciale attenzione per il mondo dei media e della cultura e dello sport. Quest'anno sarà attribuito a RENZO ULIVIERI, noto allenatore di squadre di calcio come Sampdoria, Perugia, Modena, Bologna, Torino, Napoli etc. per l'impegno dimostrato nei confronti del popolo Palestinese con la sua diretta partecipazione a stage di scuola calcio presso i campi profughi palestinesi in Libano.
Verranno consegnati, inoltre, riconoscimenti alla dottoressa Swee Ang, che negli anni della guerra civile libanese e della strage di Sabra e Chatila lavorava presso il Gaza Hospital a Sabra; all'artista Franca Marini per la realizzazione di un video-artistico realizzato con il popolo palestinese a Gaza. Un messaggio non solo di pace per questo popolo ma un'evoluzione di linguaggi e di ricerca costante sull'immagine volta alla ricerca, attraverso l'arte, di un nuovo metodo di comunicazione tra tutti i popoli; al giornalista Arcangelo Badolati, Direttore Scientifico Corso della Pedagogia della Resistenza UNICAL (Università Calabria).

Ospite d'onore: Abu Said al Khamsa, sindaco di Ghobeiry (Beirut - Libano)

Un ricordo di Stefano Chiarini di Giorgio Stern dell’associazione “Salam ragazzi dell’Ulivo di Trieste”.

Con la partecipazione di:
Abu Wassim, coordinatore di Beit Atfal Assomoud per il sud del Libano, Bassam Saleh responsabile per l'Italia di Al Fatah; Tommaso Di Francesco, condirettore del quotidiano “Il Manifesto”; Ellen Sirgel (USA) infermiera al Gaza Hospital il giorno della strage nei Campi Profughi di Sabra e Chatila (Beirut – Libano) ed altri importanti giornalisti e rappresentanti di associazioni nazionali ed internazionali.

Nel corso dell'iniziativa sono previsti interventi musicali del jazzista Luca Garlaschelli

Verranno inoltre proiettati in anteprima reportage realizzati nei campi profughi in Libano, Giordania e Cisgiordania, risultato di tre viaggi realizzati in contemporanea ad Agosto scorso da numerosi volontari giornalisti, amici di Stefano, etc.

info: Mirca (3393758378), Flavio (3332987481)

A cura di Alkemia, Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, La Tenda
con il Patrocinio e contributo del Comune di Modena


 

GUERRILLA RADIO
Romanzo grafico targato Round Robin Editore
 

 

Racconto incentrato sulla figura dell’attivista e reporter indipendente Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza nel 2011. Lo sceneggiatore e disegnatore di Roma racconta la genesi di questo nuovo progetto all’insegna del “comic journalism” nato con la collaborazione della famiglia di Vik.

 


Intervengono:
Stefano Piccoli - autore
Tommaso Di Francesco - Condirettore de “Il Manifesto”
Mirko Bonini - fumettista  della redazione di Alkemia

Conduce Mirca Garuti – Redazione Alkemia

 

 
La presentazione del libro

 



Le domande del pubblico

 

   

 


IL MIO VICINO...AD EST
Reportage dai campi profughi in Medio Oriente

interventi di:
Mirca Garuti – Resp. Medio Oriente del periodico d'informazione on-line “Alkemia.com”
Novara Flavio – Direttore Responsabile di “Alkemia.com”

Presenta: Alessandro Medici - Associazione Notti Rosse

Attraverso Reportage e testimonianze dirette dai campi profughi in medio oriente cercheremo di approfondire e comprendere ciò che sta accadendo oltre i confini della fortezza Europa, per ribadire: “basta muri, frontiere e sfruttamento”.

 

 

 

Presentazione di Alessandro Medici - Associazione Notti Rosse

 

 

 

 

 

 



Mirca Garuti: la situazione dei campi profughi palestinesi in Libano

 

 

 

 

 

 



 

Novara Flavio: Giordani: terra di profughi palestinesi, siriani, iracheni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il dialogo con il Pubblico

 

 

 

 

 


Organizzato da:

ASSOCIAZIONE

presso Nuovo Circolo Arci - Via Liberazione 66, 42013 Casalgrande (RE)

21/11/15


NO BORDERS
PER LA LIBERTA' DI CIRCOLAZIONE, CONTRO LE GUERRE,
OLTRE LA SOLIDARIETA'
LA NECESSITA' DI AGIRE DOPO LO SGOMBERO DI VENTIMIGLIA

In occasione della “Settimana Nazionale di Azioni” promossa dalla Coalizione Internazionale Sans-papiers, Rifugiati e Richiedenti Asilo CISPM (17/24 ottobre), l'assemblea pubblica di sabato 24 ottobre intende portare un contributo nel rafforzamento della rete di solidarietà, delle lotte per la libertà di circolazione e di residenza e contro le politiche anti migranti e la costruzione dei vari muri e del Regolamento Dublino.
Interverranno:

introduce: Attilio Ratto

 



 

Emilio Quadrelli  USB Genova

  

 

 

 

 

 

 

 

Flavio Novara -  Comitato “Per non dimenticare il diritto al ritorno” viaggio nei campi profughi palestinesi in Giordania

  

 

 

 

 

 

 

 

 

Mirca Garuti - Comitato “Per non dimenticare Shabra e Chatila” viaggio nei campi profughi palestinesi in Libano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Raja - Unione Democratica Arabo-Palestinese (UDAP)

  

 

 

 

 

 

 

 

Felice - Esponenti del movimento No Border di Ventimiglia

  

 

 

 

 

Aboubakar Soumahoro Coalizione Internazionale Sans-papiers, Rifugiati e Richiedenti asilo CISPM / Confederazione USB

  

 

 

 

 

 

MANIFESTO DELL'EVENTO A CURA USB GENOVA:
I Paesi a capitalismo avanzato hanno fatto dell'Africa e del quadrante mediorientale  un teatro di guerra.   Vetrina e sperimentazione di un conflitto che, ogni giorno che passa, rischia di diventare sempre più totale. Lo spettro di un nuovo conflitto mondiale è dietro l'angolo. Queste terre, depredate delle loro risorse economiche, in gran parte materie prime strategiche per le società multinazionali, sono portate al collasso finanziario e quindi, come nella più classica delle politiche colonialiste, poste “sotto tutela” da una qualche coalizione politico – militare occidentale.
Non diversamente si comportano quando determinati territori rappresentano interessi geopolitici e geostrategici di fondamentale importanza. Un esempio su tutti quello del popolo palestinese il quale, dopo essere stato scacciato dalla propria terra con il pieno sostegno di gran parte dei potentati imperialisti occidentali, è costretto a sopravvivere sotto il tallone di ferro delle armi israeliane. Occupazione, guerra, saccheggio sono, da tempo, il pane quotidiano di cui si nutre il popolo palestinese. Oltre 5 milioni i palestinesi costretti a vivere nei campi profughi, anche nella loro terra.


Per un motivo o per l'altro gli eserciti del Primo mondo hanno occupato territori interi, costringendo milioni di persone alla fuga disperata. Persone che ora premono ai nostri confini.
Sulla loro pelle, il capitalismo ha trovato un nuovo modo per arricchirsi. Da un lato appaltando la loro gestione, spesso non dissimile da quella del “sorvegliato speciale”, alle varie aziende del cosiddetto terzo settore; dall'altro reintroducendo l'ottocentesca condizione del “lavoro coatto”. Infatti, la grande trovata delle Amministrazioni locali, è stata quella di appaltare, a costo zero, i lavori socialmente utili ai rifugiati. In questo modo vitto e alloggio diventano sostitutivi del salario. Tutto ciò puzza di schiavismo lontano un miglio. Ben dovrebbe saperlo il nostro sindaco Marco Doria il quale vanta fama, anche se non troppo eccelsa, di storico nonché di economista. Inutile dire che, in un momento di crisi sociale come l'attuale, declinare al “lavoro coatto” i lavori socialmente utili è un modo, neppure troppo celato, di favorire e amplificare la “guerra tra i poveri” finendo con il favorire non poco la destra apertamente xenofoba e razzista. Palesemente questo tipo di  “assistenza istituzionale”  non sarà mai  attaccata, come è avvenuto a Ventimiglia.

Lo sgombero del presidio No Borders di Ventimiglia del 30 settembre scorso rappresenta la brutale repressione  di una forma di solidarietà non tollerata perché contiene in sé stessa la lotta e il grido di accusa contro la ferocia del sistema anti sociale dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Quello sgombero ha dimostrato che non è tollerata alcuna auto organizzazione, alcuna solidarietà vera e attiva. Ma l'esperienza di Ventimiglia si sta ripetendo in molti altri luoghi (Lampedusa, Calais, Parigi,...), perché  difendere pace, libertà di circolazione, salario, diritti e welfare per tutti, combattere l'Europa della troika deve essere il cuore delle azioni per  proseguire nella lotta.

In occasione della “Settimana Nazionale di Azioni” promossa dalla Coalizione Internazionale Sans-papiers, Rifugiati e Richiedenti Asilo CISPM (17/24 ottobre), l'assemblea pubblica di sabato 24 ottobre intende portare un contributo nel rafforzamento della rete di solidarietà, delle lotte per la libertà di circolazione e di residenza e contro le politiche anti migranti e la costruzione dei vari muri e del Regolamento Dublino.

 

Confederazione USB-Liguria.                                Per contatti: liguria@usb.it
Sabato 24 ottobre alle ore 15.00, presso il CAP, via Albertazzi, 3 r - GENOVA


DIRITTO AL RITORNO
I racconti delle missioni in Giordania, Libano e Cisgiordania

Il diritto al ritorno diventa uno degli elementi che sostanziano l’idea di popolo e di autodeterminazione della Palestina. Un elemento che unifica tutto il popolo palestinese, che supera le barriere e le divisioni di schieramenti e di partiti che oggi indeboliscono la resistenza contro l’occupante israeliano. E’ stata questa iniziale costatazione, nello stesso tempo elementare e sconvolgente, che ha portato donne e uomini che ritengono che il diritto al ritorno sia un punto irremovibile e centrale per il futuro del popolo di Palestina a mettere in campo per questa estate una proposta che si è concretizzata con l’invio di missioni nei luoghi della diaspora palestinese. Questo è il racconto di quei viaggi in Libano, Giordania, Cisgiordania.

 

coordina:


 

Bassam Saleh


  

 

 

 

 


interventi:

 

 

Lucio Vitale (delegazione Cisgiordania)

  

 

 

 

 

 

 

Marta Turilli (delegazione Libano)

 

 

 

 

 

 



 

Flavio Novara (delegazione Giordania)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTERVENTI DEGLI OSPITI: Usb, Pcdi, Prc, Rete dei Comunisti  

 

 

 Le conclusioni di:


 

Maurizio Musolino

  

 

 

 

 

 

 

Sabato 10 ottobre 2015, ore 17:30 - Casa del Popolo - Torpignattara


PROTESTE IN LIBANO: MENTRE I POTENTI BALLANO,
IL POPOLO IN SCIOPERO DELLA FAME

di Mirca Garuti

ASCOLTA L'AUDIO


Il centro di Beirut si riempie di manifestanti. Centinaia di persone chiedono cambiamenti al governo libanese. Sabato sera 19 settembre Beirut era in stato di guerra. Le vie del centro, una volta  luogo di divertimento, di relax e di shopping, chiuse da filo spinato,  gersj  e alti muri di cemento difesi da un grande numero di polizia armata. Il palazzo del Parlamento è circondato da filo spinato letteralmente coperto dalla spazzatura gettata dai manifestanti in segno di protesta.
Alla sera, quando ormai quasi tutti i manifestanti se ne sono andati, alcuni ragazzi sono intenti a pulire la strada dai residui della manifestazione di questo pomeriggio. Alcune tende sono ancora montate da chi ha deciso di restare per la notte o di proseguire nello sciopero della fame.
Mi avvicino con cautela,  chiedo il permesso di scattare alcune fotografie e di poter intervistare qualcuno per capire meglio la situazione che sta attraversando il Libano in questo ultimo periodo. Vicino alla tenda di uno scioperante della fame, capeggia uno striscione con scritte arabe che elencano le richieste dei manifestanti:
1) stipendi adeguati al costo della vita
2) nuova legge elettorale
3) nuove elezioni presidenziali
4) restituzione dei fondi ai comuni indipendenti per risolvere il problema dei rifiuti.
All'interno della tenda mi concede un intervista un ingegnere agronomo che è da 15 giorni in sciopero della fame. Ha lavorato per vent'anni presso il Ministero dell'agricoltura e tra due anni andrà in pensione con 400 dollari al mese. Alla mia prima domanda sulla situazione politica attuale e sulla natura della loro protesta, lascia rispondere il Direttore seduto li a fianco:
“Noi facciamo parte di un sindacato autonomo di lavoratori del pubblico impiego. In Libano nonostante ci siano ben 500 sigle sindacali che rappresentano tutte le categorie di lavoratori, praticamente quasi tutte sotto il controllo del governo. A seguito della guerra civile iniziata nel 1975 e conclusa nel 1991 con gli accordi di TA'IF tra l'Arabia Saudita e la Siria”.
I deputati libanesi firmarono un accordo chiamato “d'intesa nazionale” che disegnò un equilibrio dei poteri istituzionali libanesi e riconobbe anche la presenza dell'esercito siriano in Libano. Una guerra durata 15 anni con combattimenti, tensioni, massacri che ha procurato più di 150.000 morti tra militari e civili ed un aumento di una diaspora libanese nel mondo.
La crisi di governo attuale anche secondo i vari partiti politici incontrati, giornalisti ed analisti, si potrà risolvere solo attraverso un accordo esterno regionale ed è da escludere la possibilità di una nuova guerra civile perchè nessuna forza presente in Parlamento ha un interesse ad evocarla.
“Finita la guerra civile – continua il Direttore – si sperava in un cambiamento, ma non è stato così. E' stato colpito il settore pubblico a beneficio di quello privato, aumentando la corruzione e perdendo i diritti della persona. Nel 2005 con la morte di Rafiq al-Hariri, causata da un attentato davanti all'Hotel St.George di Beirut, cadeva la coalizione filo siriana con i sauditi, dando vita a due correnti: una chiamata “8 marzo”, sostenitrice di una politica vicino alla Siria e “14 marzo” per l'Arabia Saudita. Fino alla morte di Hariri la coalizione ha condiviso il potere, poi successivamente è avvenuta una spaccatura che però ha comunque consentito ad entrambi di mantenere i propri legami economici nel paese”.


Nell'arco di questi ultimi 25 anni, fino al 2011,  ci sono state continue lotte, ma da quando in Tunisia il popolo voleva far cadere il governo, questo movimento ha cercato di ottenere in medesimo risultato. Sono riusciti a portare in piazza oltre 30.000 persone ed i rappresentanti di categoria dei servizi pubblici hanno cercato di organizzare un coordinamento per chiedere miglioramenti di vita, come l'aumento degli stipendi.
“Il governo però non ha risposto ed è per questo che ci troviamo in questa situazione da un mese. Questo significa solo il fallimento di un governo che non ha saputo dare risposte di fronte ad un semplice problema: la spazzatura. Siamo sommersi dai rifiuti, non si trova una soluzione. Pochi giorni fa hanno chiuso il centro storico ed un commerciante ha detto che questa area deve essere riservata solo ai ricchi. In risposta a ciò, è stato organizzato, ogni sabato, un mercato di Beirut per tutti gli esclusi”.
Questo movimento è iniziato il 22 agosto. “All'inizio c'era un po' di confusione, ognuno aveva le sue richieste da presentare al governo, ma dopo una settimana, siamo riusciti a formare un coordinamento su alcuni punti che trovavano il consenso di tutti”.  
Il problema dei rifiuti, in realtà, è un problema che riguarda i comuni che si sono appropriati dei fondi destinati a questo servizio, per usarli per varie speculazioni.
“Noi chiediamo che questi soldi  ritornino ai comuni. Domani, sabato 21 settembre, ci sarà un altra manifestazione e così sarà anche per le altre successive settimane. Si sta sfruttando l'attuale spaccatura del governo che ha dato coraggio e la gente ha rotto il silenzio e la paura. La polizia all'inizio è stata molto violenta, ci sono stati molti feriti, ora però, si è un po' calmata”.


Diversi sono i loro obbiettivi: da quelli più semplici, come l'aumento degli stipendi, il problema dei rifiuti o l'eccessivo costo della vita, a quelli di più alta connotazione politica come la richiesta di nuove elezioni, cambiamento politico e nuova legge elettorale che superi lo Stato Confessionale e le quote di rappresentanza di matrice religiosa.
“Noi come movimento comunista guardiamo con sospetto entrambe le coalizioni del 8 e 14 marzo, anche se queste forze parlamentari cominciano a capire che le nostre richieste non sono del tutto negative ed è iniziato un dialogo”.
Il problema riguarda 150.000 tonnellate di rifiuti che non si sa dove possano essere accantonati soprattutto perché in Libano non esiste un progetto o programma volto al riciclaggio. Tra poco riprenderanno anche le università e i manifestanti sperano anche nell'aiuto degli studenti.
“Noi non vogliamo solo benefici per Beirut ma per tutto il Libano dal nord al sud. Chi governa questo paese sono le banche. Il debito pubblico del Libano è salito a 70.000 miliardi di dollari. Tutto il debito è solo delle banche e quello prodotto da Hariri. Tutti oggi devono ubbidire all'economia”.

Quasi a confermare questo, una musica assordante di festa proviene proprio dall'ultimo piano di un palazzo adiacente al presidio.
“Le banche vogliono farsi sentire in questa situazione. E' così ogni sera. Dall'alto dei suoi palazzi, accendono la musica e festeggiano, mentre noi, qui in piazza lottiamo e facciamo lo sciopero della fame. Il nostro obiettivo è quello che chi deve pagare sono solo le banche e non noi”.

Davanti al Parlamento era stato eretto un muro di mattoni dove i ragazzi scrivevano slogan e disegni, ma nell'arco di 24 ore, è stato subito rimosso e sostituito con del filo spinato.
“Questo modo di governare, quello che ha prodotto in tutti questi anni disoccupazione, miseria, stipendi bloccati, ha solo un significato: un gran fallimento. Noi vogliamo cambiare questo tipo di politica. Il governo non sa cosa fare. Unica soluzione è tornare ad un sistema civile senza il sistema confessionale in essere“.
L'ingegnere nel frattempo sembra avere un sussulto e vuole intervenire. Nonostante i suoi 15 giorni di sciopero della fame ci sembra stia bene.
“Io sono un dipendente pubblico. Tutto il settore pubblico dal 1996 ha gli stipendi bloccati, mentre i prezzi dei beni sono aumentati del 121%. Fino al 1996 il debito pubblico era pari a 30 – 35mila miliardi di dollari, poi è pressoché raddoppiato. Quando nel 2012 abbiamo chiesto un aumento degli stipendi, la risposta è stata negativa alludendo al fatto che le entrate del governo erano poche, giusto il contrario per le uscite. Non c'era abbastanza liquidità. Il bilancio di uno Stato deve prevedere due cose: un'entrata di tasse ed una giusta uscita di spese oculate. Perché i ministri non pagano le tasse? Perché si devono fare favori ed elargire soldi alle varie confessioni? Chi sta al governo sono i principi della guerra civile, oggi governatori, che si sono accordati con le banche per spartirsi i soldi e quello che resta, lo si dà al popolo. Chi ha partecipato alle prime manifestazioni – prosegue infervorandosi - appartiene alla classe media, classe che il governo vuole annientare. Se la classe media non si muove, non si muove niente, per questo bisogna continuare nella lotta. Dal 2012 al 19 luglio 2014 ci sono state alcune trattative con il governo che doveva presentare delle proposte. Il parlamento però, ha chiesto una proroga di sei mesi e, alla fine, dopo mille tagli alle proposte da parte delle varie commissioni, non è rimasto nulla. Solo l'idea delle proposte. Per questo si ritorna alla lotta.”
Lascio la tenda con estrema apprensione per il loro futuro, per il futuro di questo paese che ha tanto sofferto e che non riesce a trovare giusta pace.  I governi occidentali dovrebbero riflettere seriamente sulla loro grande responsabilità.

19 settembre 2015 - Beirut


PER NON DIMENTICARE IL DIRITTO AL RITORNO: 

MISSIONI IN PARTENZA DALL'ITALIA

di Maurizio Musolino

LA DELEGAZIONE DI ALKEMIA SARA' PRESENTE IN GIORDANIA!

L’occupazione ha mille facce, mille sfumature, che si incuneano nella quotidianità della vita rendendola disumana. L’occupazione non è mai un qualcosa di astratto, di indefinito, ma si sostanzia con soprusi e privazioni, con l’obiettivo di spezzare la resistenza e la volontà del popolo che la subisce. Ed è precisamente questo che sta accadendo in Palestina, dove Israele impone a uomini e donne, colpevoli solo di rivendicare la propria dignità, una segregazione razziale intollerabile. E lo fa con la complicità di stati e governi che ora con aiuti diretti e ora con silenzi colpevoli sostengono nei fatti l’Occupazione.


L’Occupazione è quindi negazione della vita: impossibilità di lavorare, curarsi, studiare, avere affetti e l’elenco potrebbe continuare, lunghissimo. L’Occupazione è anche pulizia etnica, volontà deliberata di sradicare un popolo dalla sua terra per renderlo altro, un qualcosa di indefinito, un nulla. Il sionismo questo lo ha messo in pratica da sempre, fin dai quei drammatici giorni dopo la seconda guerra mondiale, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati dalle loro case attraverso il terrore e la devastazione. Da lì iniziò la diaspora di questo popolo, campi profughi senza diritti ospitati malvolentieri dagli Stati limitrofi, ignorati da un Occidente opulento e egoista, condannati a non poter ritornare nelle loro case da una comunità internazionale sorda, cieca e muta. In poche parole: complice del crimine che si stava perpetuando.


Il diritto al ritorno diventa quindi uno degli elementi che sostanziano l’idea di popolo e di autodeterminazione della Palestina. Un elemento che unifica tutto il popolo palestinese, che supera le barriere e le divisioni di schieramenti e di partiti che oggi indeboliscono la resistenza contro l’occupante israeliano.


E’ stata questa iniziale costatazione, nello stesso tempo elementare e sconvolgente, che ha portato donne e uomini che ritengono che il diritto al ritorno sia un punto irremovibile e centrale per il futuro del popolo di Palestina a mettere in campo per questa estate una proposta che si concretizza con l’invio di missioni nei luoghi della diaspora palestinese. Le missioni all’inizio dovevano essere cinque: Libano, Cisgiordania, Gaza, Siria e Giordania, ma la ferocia del conflitto che da anni insanguina la Siria ha da subito reso impraticabile questa ipotesi. Nei giorni scorsi un altro pezzo della missione ha dovuto subire una dolorosissima amputazione: Gaza. Dal Cairo la striscia di terra al sud della Palestina è irraggiungibile e il valico di Rafah è chiuso. Il Sinai, sempre più teatro di guerra fra il governo egiziano e le varie milizie presenti sul territorio, è diventato terra di nessuno, una sorta di “campo minato” insuperabile che giustifica agli occhi di una comunità internazionale miope l’ingiustizia criminale contro Gaza, sempre più prigione a cielo aperto per oltre un milione e mezzo di donne e uomini.


Durante i bombardamenti di un anno fa emerse la condizione impossibile in cui vive Gaza; si era parlato di apertura di valichi, di possibili porti e di aeroporti. Finito l’ennesimo massacro e abbassate le telecamere però nulla è cambiato, anzi se possibile tutto è cambiato in peggio e questo meriterebbe una seria riflessione da parte del movimento di solidarietà con la Palestina per non rimandare una mobilitazione efficace alla prossima guerra o al prossimo massacro. Bisogna mettere in campo fin da settembre una iniziativa in grado di superare tutti i nostri particolarismi e personalismi, per chiedere l’immediata fine dell’embargo e l’apertura di un corridoio che consenta ai palestinesi di Gaza di poter entrare e uscire senza dover sottostare alle angherie e alle prepotenze del governo di Tel Aviv.


La missione "Per non dimenticare il Diritto al ritorno" comunque non si ferma e partirà per le tre destinazioni alla fine della prossima settimana (13-15 agosto), forte della consapevolezza che nessun risarcimento potrà mai ripagare le sofferenze e le privazioni di decenni di diaspora. Il riconoscimento di questo diritto è l’unico modo per dare una soluzione all’occupazione delle terre palestinesi.


Il 18 agosto da tre luoghi simbolo, tre campi palestinesi, ricorderemo al mondo che l’occupazione ha generato un esodo forzato del popolo di Palestina e che oggi ci sono palestinesi profughi in Libano così come in Giordania, Siria, Iraq e altri Paesi – non ultimo il nostro Occidente - ma che ci sono palestinesi rifugiati nella stessa Palestina.


L’ebraicizzazione di Israele – punta più alta del programma neocoloniale del sionismo – esclude il diritto al ritorno dei non ebrei, e dunque dei palestinesi nati in quelle stesse terre e dei loro discendenti. La nostra presenza in quei paesi vuole denunciare questo trattamento intollerabile e razzista.


Il tema del diritto al ritorno per il popolo di Palestina, ignorato da troppi, dentro e fuori il mondo arabo-mediorientale, non può più essere eluso o messo da parte in nome di altre e pretestuose compatibilità. Le tre delegazioni ricorderanno le vittime delle stragi e porteranno ai palestinesi solidarietà politica e sostegno umano.


Vogliamo che l’iniziativa che ci accingiamo ad intraprendere, in collaborazione con i nostri amici palestinesi, con i quali da anni lavoriamo insieme nel Comitato internazionale "Per non dimenticare Sabra e Chatila" e con il quotidiano libanese Assafir, sia il momento centrale di un percorso che deve prevedere iniziative su tutto il territorio italiano – tanti incontri si sono svolti in tutta Italia nelle scorse settimane - con al centro “il diritto al ritorno”. La nostra presenza in Libano, Cisgiordania, Giordania, è finalizzata a denunciare una realtà inaccettabile e drammatica che ha origine, appunto, dall‘occupazione della Palestina.


Maurizio Musolino (Comitato Per non dimenticare il diritto al ritorno)

 


NEWROZ 2015

LA RESISTENZA DEL POPOLO CURDO

JIN JIYAN AZADI'

(Donna – Vita – Libertà)

di Mirca Garuti

 

Il Newroz 2013 è stato caratterizzato dalla speranza, chiusa dentro ogni cuore del popolo curdo, di poter intraprendere una vera strada verso la pace. Tutti, quel 21 marzo a Diyarbakir, aspettavano la lettura della lettera del leader storico, Abdullah Ocalan. Una folla oceanica era in attesa di sentire le sue parole:

- “ E’ tempo che le armi tacciano e che le idee parlino"

- “ E’ il momento che la politica vada oltre le armi”

- “ E’ tempo che le nostre forze armate si ritirino oltre il confine”

- “ Questo è un nuovo inizio, non è una fine”

- “ E’ l’inizio di una nuova lotta in favore di tutte le minoranze etniche”

- “ I turchi e i curdi hanno inaugurato insieme il Parlamento nel 1920”

- “ Abbiamo costruito insieme il passato e adesso abbiamo bisogno di mantenerlo insieme”

 La road-map, documento straordinario, è il cuore dei colloqui segreti tra Abdullah Ocalan e lo Stato turco, un processo iniziato nel 2009 e interrotto a metà del 2011.

Si sviluppa su tre diverse fasi:

  • La filosofia della pace” mette in primo piano lo sviluppo di una nuova costituzione che possa dare una definizione di “cittadinanza libera da ogni tipo di riferimento etnico”, fondata su una “completa democrazia” e sui “principi della giurisprudenza internazionale”,

  • Il piano d’azione” prevede il ritiro delle forze del PKK al di là del confine turco dal 21 marzo fino alla fine del mese di luglio. Il “ritiro” afferma però Ocalan deve essere reciproco ed approvato dal parlamento. Erdogan ha affermato che il processo di pace “inizierà de facto quando i membri del PKK si ritireranno in un altro paese”.

  • L’ultima parte “eventuali problemi e conclusioni” dovrebbe mettere fine al processo di pace.

Ma se pensiamo ai molteplici tentativi di dialogo, come ad esempio, all'apertura curda del 2009, alle trattative di Oslo del 2011 oppure agli innumerevoli tentativi di “cessate il fuoco” da parte del Pkk dal 1993 ad oggi, una vera pace rimane solo un'illusione.

Il 2014 e 2015 sono stati, invece, gli anni nei quali il mondo ha scoperto il popolo curdo e la lotta per i suoi diritti e libertà. Non perché si è reso consapevole del loro dramma che continua dal 1924, anno in cui ha inizio la sua repressione, ma solo per l'intensificarsi della guerra civile in Siria. La minoranza curda è sempre stata usata da chi era al potere per raggiungere i propri scopi ed interessi.

Dopo il collasso dell'impero Ottomano, l'azione diretta della Turchia

I curdi sono, infatti, la più ampia nazione al mondo priva del proprio stato e le prime vittime degli accordi coloniali. Dopo il collasso dell'Impero Ottomano da parte dei colonialisti britannici e francesi, la storia ci parla della creazione di stati nazioni che divide la regione del Kurdistan in quattro paesi: Iran, Iraq, Siria e Turchia.  L'accordo Sykes-Picot del 1916 ignora totalmente il diritto di sovranità dei curdi sulla propria terra. Questo non ha portato che molti decenni di massacri, oppressione ed assimilazione.

Mustafa Kemal Ataturk, militare e primo Presidente della Turchia, inizia nel Kurdistan la lotta di liberazione nazionale turca contro la dominazione occidentale e l'occupazione greca. Ataturk, appellandosi alla solidarietà curda-turca, nel corso del conflitto greco-turco, chiede anche il supporto dei capi tribali e religiosi curdi. Dal 1921 al 1924 ci fu quindi un forte contrasto tra la maggioranza della popolazione curda che sosteneva il movimento kemalista e gli intellettuali che sostenevano invece il movimento di liberazione curdo. Questa differenza dimostra la debolezza del movimento nazionale curdo in quel periodo ed indica che il popolo curdo preferiva un Kurdistan autonomo all'interno della Turchia, in accordo con il popolo turco.

Il governo di Ankara fu indotto ad occuparsi per la prima volta del “problema curdo” a seguito della ribellione curda nella regione di Dersim tra il novembre 1920 ed aprile 1921. La ribellione iniziò tre mesi dopo il trattato di Sevres e aveva l'obiettivo dell'indipendenza nei vilayet di Diyarbakir, Elazig, Van e Bitlis.

Dopo la firma del Trattato di Losanna del 1923 (gli art.38 e 39 sono applicabili ai curdi e viene concessa a tutti gli abitanti della Turchia piena protezione della loro vita e libertà senza distinzione di nascita, nazionalità, lingua, razza o religione), il potere kemalista sentendosi forte ed avendo consolidato la sua posizione a livello internazionale, cambiò la sua politica nei confronti dei curdi. Nel 1924 fu approvata una legge che proibiva l'uso della lingua curda, vietando le pubblicazioni e l'insegnamento in tale lingua. Dopo il 1930 il governo turco intensificò la sua politica di sterminio e assimilazione della popolazione curda. Fu promulgata una legge che contemplava la deportazione di intellettuali e capi curdi nelle aree occidentali della Turchia.

Il Kurdistan veniva diviso nel 1934 in tre aree (nel 1932 invece erano quattro). Un'area doveva essere completamente evacuata e veniva anche smembrata la struttura socio-economica della tribù che non era più riconosciuta come entità giuridica. L'intenzione era quella di disperdere e distruggere i curdi come nazione. Inizia così l'occupazione del Kurdistan. Nonostante una protesta internazionale, il governo turco, non solo continuò ad applicare questa legge, ma andò ben oltre! Le forze armate turche, nel periodo dal 1924 al 1938, furono impegnate in 17 campagne militari tutte direttamente o indirettamente connesse alla soppressione delle rivolte curde. Nel 1937 il governo turco, comprendendo di essere incapace di controllare e governare da solo questa popolazione, firmò un patto con Iran, Iraq e Afghanistan di natura anti-sovietico, indirizzato contro il movimento nazionalistico curdo da adottare in un'azione comune.

La provincia di Dersim nell'Anatolia orientale, era la più colpita dall'evacuazione forzata e dalla richiesta del governo turco di consegnare le armi. La popolazione dell'area, curda Alevita, insorge in una delle più sanguinarie rivolte della storia della Turchia moderna. Dersim, (oggi Tunceli) rappresenta il cuore ribelle del Kurdistan, anche se fino alla rivolta del 1937/38, la sua popolazione non aveva mai reagito in maniera molto violenta. Nel 1935 Ataturk disse: “La questione di Dersim è la questione prioritaria della nostra politica interna. E' necessario che il governo sia dotato di un'autorità ampia e illimitata per eliminare ad ogni costo questa ferita interna, questo repellente ascesso”. Dopo quasi tre anni dalle minacciose parole pronunciate dal Presidente, le autorità del governo turco misero in pratica il desiderio dello stesso Presidente.

Mentre l'aviazione turca radeva al suolo interi villaggi, l'esercito dava fuoco alle foreste che ricoprivano le vallate della regione. Molti abitanti furono rinchiusi in grotte e arsi vivi. Venne usato gas asfissiante. Le acque del fiume Munzur scorsero, per giorni, rosse di sangue. I morti furono 50-60 mila. Furono deportati circa tremila notabili e 100 mila abitanti nella Turchia occidentale. I leader della rivolta furono giustiziati nella piazza centrale della città. Una generazioni di bambini cresciuti negli orfanotrofi fu sottoposta ad una sistematica operazione di turchizzazione. Il nome dell'operazione era “Tunceli” (pugno di ferro), nome poi lasciato alla città a monito per l'eternità.  L'area rimase in stato d'assedio fino al  1946 e fu vietato l'accesso agli stranieri fino al 1965. Il Presidente turco Erdogan il 23 novembre 2011, durante una riunione di partito, ha presentato le sue scuse “a nome dello Stato” per i fatti di Dersim, definendoli “massacri”. Fatto inusuale nella storia turca. Si dubita, infatti, della sincerità del presidente, anche perché nel 2006 il ministero della Cultura impedì qualsiasi forma di distribuzione del documentario “Dersim 38” per non danneggiare “l'ordine e la morale pubblica e l'onore delle persone”.

Fino ad uno/due anni fa si parlava, a livello mediatico, solo della repressione subita dai curdi in Turchia  sotto il governo di Erdogan, mentre ora, emergono anche i curdi che vivono in Siria. Purtroppo ci vuole una guerra, ci vogliono morti e distruzione affinché il mondo scopra la realtà delle cose. Quando si parla di Kurdistan, bisogna considerare che non parliamo di uno Stato nazionale regolato da leggi ed usi uguali per tutta la popolazione, ma di una Regione e di un popolo che dal 1923 deve lottare per conservare la sua propria identità nazionale.

Il Kurdistan siriano geograficamente è considerato un'appendice del Kurdistan turco, essendo formato da tre aree all'interno della Siria, divise da territori arabi: la regione di Dagh (montagna dei curdi) a nord ovest di Aleppo; la regione di Jarablus e Kobani a nord est di Aleppo; Cezire tra il Tigri e l'Eufrate, un triangolo al confine turco-iracheno.

Siria terra di scontri

I curdi in Siria sono la più grande minoranza etnica del paese (circa 2 milioni) concentrati prevalentemente nel nord e nord-est ma anche ad Aleppo e Damasco, grazie soprattutto all'accordo di Ankara nel 1921 tra Turchia e Francia che fissava la frontiera turco-siriana in base alla linea ferroviaria Aleppo-Baghdad.

Qamişlo (Kurdistan occidentale) e Nusaybin (Kurdistan turco) erano in precedenza una sola città, ma dopo il passaggio della ferrovia, Qamişlo si trovò in terra siriana e Nusaybin in terra turca. Molti villaggi, comuni e città furono divisi in due. Le tribù, le famiglie, decine di migliaia di curdi che vivevano sulla stessa terra si trovarono separati da barriere di filo spinato e mine. Solo in questi ultimi anni sono stati in grado di incontrarsi di nuovo. Questo autentico dramma, vissuto da migliaia di curdi, è ancora oggi oggetto di documentari e programmi televisivi trasmessi in occasione di festività religiose.

I curdi, durante la prima guerra mondiale, furono vittime di politiche repressive e i loro territori divisi, ad opera delle grandi potenze che non ne riconobbero l’esistenza, né i diritti.

Sotto mandato francese (1920-1941) la Siria diventò il rifugio naturale dei profughi curdi di Turchia e Iraq che fuggivano dalle repressioni in atto nei due paesi. La Siria conquistò l'indipendenza nel 1946 e, in questo contesto, i curdi avevano una buona posizione nel paese, anche perché compresero che sarebbe stato più utile abbandonare l'obiettivo dell'indipendenza per arrivare ad un sistema di governo nazionale che gli preservasse l’identità etnica. Da evidenziare però c'è una particolare situazione: mentre da una parte le comunità curde, che si trovano ai confini turco-iracheni mantengono le caratteristiche nazionali, dall'altra, i gruppi curdi che sono nelle aeree interne siriane sono stati gradualmente arabizzati.

Il Partito democratico Kurdistan-Siria (Pdks) fondato nel 1957, persegue il riconoscimento dei curdi come gruppo etnico distinto con diritti culturali. Con la nascita, invece, della Repubblica araba unita (Rau) l'unione tra Siria ed Egitto nel 1958, le autorità siriane cercarono di ostacolare le attività politiche e culturali curde. Iniziarono gli arresti e le condanne con l'accusa di attività contro l'unione araba. La Siria si separa l'anno dopo dall'Egitto, ma la repressione anti-curda rimane.

La storia del popolo curdo in Siria è passata tra fasi positive e in accordo con il partito Baath, ed altre negative e tragiche. Per contrastare il “pericolo curdo” e salvare l'arabismo della regione, il governo mette in pratica nel 1962 il piano chiamato della “cintura araba”. Piano che prevede l'espulsione della popolazione curda residente nella regione di Cezire, lungo la frontiera con la Turchia, e la loro sostituzione con arabi. I curdi espulsi furono mandati più a sud ma di preferenza “dispersi”. L'esecuzione del piano prosegue però lentamente, sia per non attirare l'attenzione del mondo e sia per la reazione violenta dei contadini curdi che non volevano lasciare i loro villaggi.

La situazione dei curdi nel Kurdistan occidentale ((Kurdistana Rojava) peggiora nel 1963 con l'arrivo al potere, con un colpo di Stato, del partito Baath che intensifica l'arabizzazione dei curdi. Un decreto di 12 articoli pianificò ufficialmente questa politica che portò all’insediamento degli arabi nella regione curda costringendoli all’esilio. L’amministrazione attirò gli arabi offrendo loro facilitazioni economiche e facendoli stabilire in villaggi arabi al fine di tagliare le comunicazioni tra i villaggi curdi rimanenti. Si trattò di una cacciata «incrociata» nel paese: i curdi cacciati dalla regione vennero deportati nelle regioni arabe al centro della Siria. In Siria così come in Turchia, la lingua curda fu proibita sulla stampa e nella società. I nomi delle città e dei luoghi storici curdi furono arabizzati. 300.000 curdi furono privati dei loro diritti fondamentali, come il diritto di essere naturalizzati. Oltre al genocidio culturale, il regime siriano non ha smesso di impegnarsi nelle aggressioni fisiche. Questa politica colpisce soprattutto i contadini, che costituiscono l'80% della popolazione, che devono abbandonare la loro terra e cercare lavoro a Damasco, in Turchia e Libano. Il Piano della “cintura araba” viene abbandonato nel 1976, ma non vengono evacuati i 41 nuovi villaggi arabi.

 Abdullah Öcalan, leader del popolo curdo, ha vissuto più di venti anni in Siria, (1979-1998) dove ha sviluppato il movimento di liberazione del Kurdistan, ha coinvolto direttamente i curdi del Kurdistan occidentale (Kurdistana Rojava) e ha sostenuto la riflessione e la strategia delle loro organizzazioni. Attualmente i curdi del Kurdistana Rojava, attraverso la loro organizzazione, hanno fondato autorità locali autonome.

Negli anni ottanta i curdi erano una forza di sostegno al regima bathista senza però ricevere alcuna concessione sul piano culturale e dei diritti umani. I curdi siriani erano preoccupati dall'instabilità della loro situazione. Come avviene nelle altre parti del Kurdistan, la popolazione curda rimane ai margini della ricchezza prodotta in Siria, subendo una forte discriminazione nelle opportunità di lavoro. Nei primi anni novanta in Siria ci sono circa settemila prigionieri politici curdi, molti dei quali saranno rilasciati con l'amnistia del 1995. In questi anni le relazioni tra Siria e Turchia hanno vissuto forti momenti di tensione dovute alla strumentalizzazione della questione curda da parte del regime di Hafez al Assad per ottenere dalla Turchia concessioni su questioni strategiche come la gestione delle riserve idriche del Tigri e dell'Eufrate. Sotto pressioni e ricatti internazionali e per evitare un confronto armato con la Turchia, il governo siriano firmò un trattato di sicurezza, l'accordo di Adana (1998) che sancì la fine dell'appoggio di Damasco al Pkk. Abdullah Ocalan fu arrestato poco dopo in Kenya e consegnato alla Turchia.

Solo nell'estate del 2000, si aprì una nuova fase di disgelo e tolleranza tra la nuova dirigenza di Bashar Al Assad e il popolo curdo. “Un'armonia” di breve durata, perché nel 2004 a Qamislo, nel corso di una partita di calcio, le forze governative siriane con l'aiuto di nazionalisti arabi attaccarono con estrema violenza i curdi. Le manifestazioni di protesta durarono dieci giorni e ci furono 32 morti, centinaia di feriti e 2000 arresti.

Il dominio della famiglia Assad e l'inizio della guerra civile.

La Siria è governata da cinquant'anni dalla famiglia Assad in un costante stato d'emergenza, di censura e di intimidazione. La rete televisiva Al Jazeera, durante i primi mesi della primavera araba, definì la Siria “il regno del silenzio” perché non si sentiva nessuna voce di protesta o dissenso. A differenza di Egitto e Tunisia, la Siria non ha una popolazione omogenea rispetto alla religione ed all'etnia. C'è una maggioranza sunnita che convive con grandi minoranze cristiane, curde e alawiti (una setta islamica vicina agli sciiti di cui fa parte la famiglia Assad e gran parte dell'elite economica e militare del paese).

In Siria non sempre ha regnato il silenzio, specialmente quando i Fratelli Mussulmani negli anni ottanta occuparono la città di Hama, nella parte orientale del paese. L'assedio durò 27 giorni. Si calcola che l'occupazione abbia causato la morte di almeno 10 mila persone – 40 mila secondo altre stime. Negli anni successivi ci furono altre piccole insurrezioni, soprattutto con i curdi che abitavano nel nord del paese.

Le proteste in Siria ebbero inizio il 6 marzo 2011 a Daraa, una città a maggioranza sunnita a 110 chilometri a sud di Damasco verso la Giordania. A Daraa la situazione era molto difficile. Oltre alla povertà e disoccupazione, la città era invasa di profughi arrivati dal nord del paese a causa della siccità a cui il governo non era riuscito a porre rimedio. L'atmosfera in alcuni paesi arabi era tesa e le notizie che circolavano, in quel momento, erano di libertà: folle di persone erano scese in piazza ed erano riuscite a rovesciare il governo tunisino ed egiziano.

Un gruppo di ragazzi dai 11 ai 16 anni scrisse alcune frasi con uno spray rosso sui muri di quattro scuole: “il popolo vuole rovesciare il regime” - “è il tuo turno, dottore”. Il giorno dopo le scritte sui muri furono coperte da vernice bianca e immediatamente, polizia ed agenti dei servizi segreti si misero sulle tracce dei responsabili. Una quindicina di ragazzi furono arrestati. I giorni passavano ma i ragazzi non venivano rilasciati. I genitori iniziarono allora una protesta, ma venivano scacciati. La CNN riporta una frase di un ufficiale: “Dimenticatevi dei vostri figli. Se volete davvero dei figli, dovreste cominciare a pensare di farne degli altri. Se non sapete come fare, possiamo farvelo vedere noi”. La notizia, nonostante la censura, superò il silenzio. Alcuni prigionieri politici iniziarono uno sciopero della fame. I ragazzi di Daraa non erano più soli. Uno dei responsabili di Amnesty International per la Siria ha affermato: “Arriva il punto in cui l'insulto non è più sopportabile. Il popolo smette di inginocchiarsi e risponde”.

Il 15 marzo, infatti, per la prima volta in Siria, migliaia di persone scesero in piazza per protestare contro il governo. Ci sono state manifestazioni silenziose dove la gente camminava tenendo in alto le foto dei parenti, amici scomparsi, altre invece più dure dove le persone urlavano slogan contro il regime e ci furono scontri con la polizia. Il regime rispose con durezza. Ci furono ancora molti arresti, ma mentre il governo aumentava lo scontro, aumentavano anche le proteste.

Il 18 marzo, dopo la preghiera del venerdì, i cortei si erano diffusi in quasi tutte le città del paese con la partecipazione di migliaia di manifestanti. La polizia rispose caricando le folle con lacrimogeni ed idranti. In un giorno furono uccise sei persone. Dopo una piccola tregua, il 25 marzo ripresero le proteste. A Daraa marciarono contro il governo più di 100 mila persone e almeno una ventina furono uccise dalle forze di sicurezza. Nel corso del mese di aprile, il governo schierò l'esercito contro i dimostranti ed autorizzò l'uso di armi da fuoco e carri armati per disperdere la folla nelle strade e piazze. Contemporaneamente il governo fece piccole concessioni, come ad esempio quella di revocare lo stato d'emergenza in vigore da 50 anni.

All'inizio di maggio la repressione era diventata estremamente feroce. Il numero delle persone uccise durante le dimostrazioni era salito a più di mille. Questo però non arrestò la rabbia del popolo. I manifestanti, soprattutto nel nord del paese, cominciarono ad assaltare le caserme delle forze di sicurezza ed a impossessarsi delle loro armi. Iniziò la reazione dei soldati. Alcuni di loro, costretti a sparare sulla folla, iniziarono a disertare ed unirsi ai manifestanti.

Il 29 luglio, quattro mesi dopo le prime proteste, un gruppo di ufficiali disertori proclamò la nascita dell'Esercito Libero Siriano (FSA). E' guerra civile.

Tra la fine del 2011 e l'inizio del 2012 la guerra diventa sempre più violenta. I ribelli ricevono finanziamenti da parte di alcuni paesi arabi per iniziare ad acquistare armi più sofisticate. Il regime comincia a fare un uso massiccio di armamenti pesanti, in particolare durante l'assedio di Homs, “la capitale della rivolta”. Così è chiamata dai ribelli.

A luglio gli scontri si intensificano anche a Damasco. A questo punto iniziano a verificarsi importanti cambiamenti all'interno dello schieramento dei ribelli. Cominciano ad arrivare combattenti stranieri, spesso già esperti militari. Alcuni scelgono l'Esercito libero (FSA), altri invece danno vita a nuove brigate e bande autonome. Un gruppo di combattenti provenienti dall'Iraq che aveva combattuto con Abu Musab al Zarqawi, capo di al Qaida in Iraq, insieme ad altri miliziani, formarono il 23 gennaio 2012 il Fronte al Nusra, un gruppo estremista islamico. Inizialmente le forze più laiche della FSA combatterono insieme ad al Nusra, ma poi successivamente i loro rapporti si deteriorarono perché al Nusra si dimostrò migliore nel trovare fondi all'estero ed a reclutare volontari. Tra la fine del 2012 e l'inizio del 2013, numerosi esperti cominciarono a definire “guerra per procura”, quello che stava accadendo in Siria. Attraverso gruppi di miliziani integralisti islamici locali, nel conflitto erano entrati in competizione alcuni paesi arabi sunniti che finanziavano i ribelli, con altri paesi (Iran) e gruppi (Hezbollah) che appoggiavano invece il governo Assad.

Nei primi mesi del 2013 il regime siriano era riuscito a vincere nei confronti della FSA. In campo jihadista invece era in atto una scissione, causa vari scontri tra la leadership siriana ed i miliziani ISI (Stato Islamico dell'Iraq), guidati da Abu Bakr al Baghdadi. Nell'aprile 2013 Al Baghdadi proclamò la nascita dell'ISIS (Stato Islamico dell'Iraq e del Levante). La divisione definitiva ci fu nel febbraio del 2014.

I gruppi islamici in guerra per la dominazione sunnita sul Medio Oriente

Nel 2001 il mondo conosceva Osama bin Laden che guidava il movimento di Al Qaida. Dopo la sua uccisione, in un raid americano in Pakistan il 2 maggio 2011, subentrò un medico egiziano, Ayman al-Zawahiri. Altra figura emblematica per capire lo sviluppo di questo movimento, è Abu Musub al-Zarqawi, un giordano che negli anni ottanta e novanta era stato, all'interno dei mujaheddin e di al Qaida, uno dei rivali di Bin Laden.

Al Qaida era nata per essere un movimento sunnita che doveva difendere i territori abitati dai musulmani dall'occupazione occidentale. Al Zarqawi, invece, decise di fondare un gruppo con obiettivi diversi. Voleva creare un califfato islamico esclusivamente sunnita, attraverso una campagna di sabotaggi continui e costanti in alcuni stati musulmani creando una rete di “regioni della violenza” nelle quali la popolazione locale fosse obbligata a sottomettersi alle forze islamiste occupanti. Nel 2003, per esempio, il suo gruppo fece esplodere un autobomba in una moschea nella città irachena di Najaf durante la preghiera del venerdì: rimasero uccisi 125 musulmani sciiti.

Nel 2004, nonostante le differenze, il suo gruppo si avvicinò ad Al Qaida, diventando il gruppo di Al Qaida in Iraq (AQI), unicamente perché l'affiliazione portava vantaggi ad entrambi.

Nel 2006 Al Zarqawi fu ucciso da una bomba americana. Il suo posto fu preso da Abu Omar al-Baghdadi che fu ucciso poi nel 2010. Attualmente guida l'organizzazione Abu Bakr al-Baghdadi. Il gruppo di al-Baghdadi, nel 2011, aveva ripreso potere anche per le politiche violente e settarie che negli ultimi quattro anni, il primo ministro sciita dell'Iraq, Nuri al-Maliki aveva attuato nei confronti della popolazione sunnita.

Nell'aprile 2013, grazie anche alla guerra in Siria con nuove prospettive d'espansione sul suo territorio, il gruppo Al Qaida in Iraq divenne Stato islamico dell'Iraq e del Levante (ISIS). Il Levante è l'area del Mediterraneo orientale: Siria, Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro. L'ambizione dell'ISIS è molto forte e ampia. La brutalità dell'ISIS era nota a Al Qaida già nella guerra in Siria tanto che nel febbraio 2014 Zawahiri espulse l'ISIS da al Qaida.

La guerra civile in Siria dopo i primi tre anni non ha portato alla vittoria nessuna delle due parti in causa. Il regime ha ottenuto importanti vittorie grazie agli aiuti dei suoi alleati (Iran e Hezbollah), mentre l'opposizione è divisa. La parte moderata, l'Esercito Libero Siriano ha l'appoggio internazionale e riceve rifornimenti da paesi arabi come Arabia Saudita e Qatar, ma deve combattere, oltre il governo, anche contro i vari gruppi dei ribelli islamici e in particolare contro l'ISIS. All'inizio del 2015 le due forze principali in Siria sono rimaste il governo di Assad e l'ISIS. Il governo controlla la gran parte delle zone costiere a maggioranza cristiana o alawita, oltre che Damasco e gran parte del sud del paese. L'ISIS, invece, controlla un terzo del paese nella parte nord orientale ed ha stabilito la sua capitale a Raqqa. Qui ci sono le principali risorse petrolifere che hanno assicurato al gruppo un costante flusso di denaro. L'Esercito Libero Siriano controlla una piccola area intorno alla città di Aleppo e alla città di Dar'a. Lo scorso ottobre l'ISIS ha cercato di conquistare la città di Kobane, controllata da curdi siriani.

Le conseguenze del Colonialismo Occidentale

La domanda più ricorrente che ci si pone è quella di come sia stato possibile un'ascesa così forte da parte di questi gruppi jihadisti in Medio Oriente. Dove sono i movimenti radicali, i gruppi studenteschi, le organizzazioni femministe, le lotte di liberazione nazionale, i movimenti operai, contadini ed intellettuali di sinistra? Cosa è successo per rendere i gruppi jihadisti gli attori principali in grado di cambiare la geopolitica della regione? Forse la risposta ha radici profonde all'interno della storia coloniale ed imperialista dell'area. In occidente si segue l'avanzata dell'ISIS in Iraq e in Siria senza preoccuparsi di analizzare il ruolo che hanno avuto in questo caos i rispettivi governi. Per non parlare poi di come molti media rappresentino la popolazione della regione solo come dei fanatici divisi tra etnie e religione.

Guardando la storia del Medio Oriente, forse si può cercare una risposta nelle politiche dei poteri coloniali dall'inizio del 20° secolo ad oggi. Il prossimo anno, infatti, ricorre il centenario dell'accordo Sykes-Picot (1916) che divise l'Impero Ottomano in stati nazioni artificiali. Un secolo di dominio coloniale seguito poi da governi corrotti in mano ai Signori del petrolio e controllati dalle potenze imperiali. Questo controllo è poi aumentato nel periodo della Guerra Fredda per prevenire l'influenza dell'ex Unione Sovietica nella regione. E' iniziata così una crociata contro la sinistra. Decine di migliaia di membri di partiti, sindacati e movimenti studenteschi, nel corso degli anni '80, sono stati uccisi nelle prigioni iraniane, turche, siriane, irachene, egiziane e di altri paesi della regione. E' in questo periodo che sono sorti i primi gruppi jihadisti. Nell'ultimo decennio, questi gruppi, in particolar modo dopo l'occupazione dell'Afghanistan e dell'Iraq, hanno ottenuto uno status legittimo tra le persone come coloro che combattono “gli invasori stranieri” e “gli infedeli”. Tutto questo ha trasformato la regione mediorientale in un campo di sterminio dove gli estremisti islamici possono condurre la loro lotta senza creare problemi nei paesi occidentali.

Dopo l'ondata delle guerre imperialiste iniziate ufficialmente dopo l'11 settembre 2001, è emersa la possibilità di promuovere un Islam moderato in accordo con l'economia mondiale neo liberale. Il governo dell'AKP di Erdogan in Turchia rappresentava proprio quel modello di stato islamico moderato che con le sue politiche economiche neo liberali poteva riconciliare la rabbia del popolo contro l'Occidente e operare come agente del capitale nella regione. E' diventato così il futuro del Medio Oriente. Questo ha consentito al governo turco di guadagnare maggior potere e fiducia nella propria rivendicazione a ruolo guida della comunità islamica sunnita globale. In realtà ha solo portato ulteriore devastazione e violenza tra sunniti e sciiti.

Il sostegno della Turchia insieme ai paesi del Golfo, ai gruppi jihadisti in lotta contro Assad, ha volutamente fatto sprofondare la Siria in un caos totale con l'obiettivo di distruggerla. La Turchia, infatti, ha peggiorato la situazione trasformando se stessa e le province confinanti con la Siria, in un luogo di transito degli estremisti islamici. E' stata anche accusata di fornire supporto logistico e militare ai gruppi jihadisti: l'ISIS e il Fronte Al-Nusra sono quelli che hanno beneficiato di questo sostegno. Questo avviene sotto gli occhi delle nazioni occidentali che di fatto non ribadiscono che respingere e sconfiggere l'ISIS e il suo Califfato nero è prima di tutto una lotta antifascista in difesa della libertà e l'emancipazione dei popoli.

L'ISIS, fin dall'inizio di questa guerra in Siria, è diventato il flagello per il Kurdistan, il Medio Oriente ed il mondo intero.

  

I curdi e la libertà in Siria

I curdi del Kurdistan occidentale (Kurdistan Rojava) e quelli che vivono all'interno della Siria hanno sempre corso il rischio, insieme a tutti gli altri curdi delle altre nazioni confinanti, di scomparire. Soprattutto come popolo, a causa delle politiche negazioniste di cui sono stati oggetto. La rivolta popolare contro il regime siriano ha contribuito ad aprire la strada per un cambiamento della situazione, attirando l'attenzione del mondo su questa piccola parte del Kurdistan. Questa regione è diventata la chiave per risolvere la questione curda e un modello di organizzazione politica per tutto il Medioriente. Questo perché da alcuni anni, nel Rojava, è in corso un processo politico di trasformazione della società e da quando il conflitto siriano si è trasformato in guerra civile, il movimento curdo guidato dal PYD (Partito di Unione Democratica) ha preso il controllo di gran parte della regione. E' infatti nel novembre 2013, che il PYD ha dichiarato la piena autonomia e proposto una costituzione chiamata Carta del Contratto sociale.

Kurdistan occidentale: nasce il Movimento della Società Democratica

La regione autonoma del Kurdistan occidentale è divisa in tre cantoni, ciascuno con il proprio autogoverno democratico e autonomo: Cizire, con più di un milione di abitanti e la sua ricchezza del sottosuolo è la più importante della regione. I giacimenti di petrolio della regione Rimelan-Cizre sono i più importanti (Rimelan ha lo stesso potenziale di Kirkuk). Kobane, regione agricola situata davanti alla pianura di Suruc, nel Kurdistan del Nord (Turchia), attraversata dall'Eufrate, uno dei maggior fiumi della Mesopotamia, abitata da più di 500.000 curdi. Efrin, a causa delle migrazioni interne, ha raddoppiato la sua popolazione stimata sui 500.000 abitanti. Tutti e tre i cantoni sono dotati di assemblee popolari e forze di autodifesa, le YPG (miste) e la YPJ (solo da donne). La Carta del Contratto Sociale è la costituzione più democratica che la popolazione di questa regione abbia mai avuto. La Rojava può essere considerata un modello di un confederalismo democratico nel Medio Oriente nel quale ogni comunità ha il diritto all'autodeterminazione e all'autogoverno.

La zona orientale è stata per molto tempo controllata dall'esercito governativo, ma poi, a causa delle continue infiltrazioni di bande terroriste e jahdiste, contro gli abitanti, specialmente curdi, il 12 luglio 2012 è stipulato un accordo tra le varie formazioni curde, in particolare tra il Consiglio Siriano Curdo (CNSC) ed il partito PYD (ramo siriano del PKK) per adottare una linea comune per la difesa della popolazione locale. L'opposizione armata del CNS (Consiglio Nazionale Siriano) e del ELS (Esercito Libero Siriano) accusano i curdi di essere alleati del governo di Assad, perché il Presidente siriano, strategicamente, ha concesso ai curdi, dopo solo qualche settimane dall'inizio delle rivolte, fino a quel momento considerati stranieri, la cittadinanza della regione orientale dell'Hasak. Certamente la rivolta popolare contro il regime di Assad è stata l'occasione per i curdi di portare la propria lotta ad un livello superiore. Il movimento, pur partecipando attivamente alla rivoluzione e facendo tesoro della sua esperienza storica, ha intrapreso un corso indipendente, prendendo le distanze sia dalle forze del regime e sia dalle forze di opposizione. Si presentano come la terza forza che può proporre una soluzione al conflitto. Per rimanere mobilitati politicamente ed attivi nella rivoluzione i curdi decidono quindi di creare il Movimento della Società Democratica (TEV-DEM) e l'Assemblea Popolare del Kurdistan occidentale (MGRK).

La strategia curda è quella di organizzare la propria resistenza sviluppando una propria politica indipendente. La rivoluzione del 19 luglio 2012 gli ha permesso di prendere gradualmente il controllo di tutte le assemblee comunali mettendo in atto il suo piano strategico sviluppato in tre fasi. La prima, diretta a prendere il controllo delle zone rurali e dei villaggi collegati al Comune, la seconda verso le istituzioni civili e servizi pubblici connessi allo Stato e la terza al controllo di tutte le città curde. Dal 19 luglio 2012, il movimento curdo era pronto per entrare nella terza fase della sua strategia. Dopo Kobane, sono state liberate tante altre città, come anche quartieri curdi delle città siriane di Aleppo, Raqqa e Hassaké. In due-tre mesi tutte le collettività locali curde sono andate nelle mani del popolo, ad eccezione di Qamislo, la più grande città della regione.

Il mese di luglio rappresenta per il popolo curdo un punto di svolta importante della sua storia:

Il 2 luglio 1979, il suo leader Abdullah Ocalan varca il confine del Nord Kurdistan per andare in Kurdistan occidentale aprendo così la strada per una rivendicazione identitaria.

Il 14 luglio 1982, quattro quadri del PKK, detenuti nel carcere di Diyarbakir, iniziano uno sciopero della fame, che li condurrà alla morte, per protestare contro il sistema carcerario, le pressioni e la tortura contro i curdi. Questa nuova forma di resistenza si è poi diffusa in tutto il Kurdistan portando la voce del popolo curdo a tutto il mondo.

Il 19 luglio 2012, i curdi, dopo aver cacciato le forze del regime, prendono la gestione del governo locale delle città del Kurdistan Rojava per mettere in pratica i principi della “autonomia democratica”, tra cui il controllo politico, l'amministrazione della giustizia e delle attività economiche e socio culturali, le questioni riguardanti i diritti delle donne e l'organizzazione delle forze di legittima autodifesa.

Gli eventi del 19 luglio hanno anche rafforzato l'unione dei tanti partiti politici curdi, permettendo quindi al PYD, la forza più grande della regione, insieme ad altri sedici partiti, in una riunione dell'Assemblea del popolo del Kurdistan occidentale, di creare l'Assemblea nazionale curda della Siria (ENKS). Il 24 luglio le due assemblee hanno poi annunciato la fondazione dell'Alto Consiglio Curdo, riconosciuto da centinaia di migliaia di curdi scesi in piazza per festeggiare questo importante momento. Successivamente l’Alto Consiglio Curdo ha istituito tre comitati: il “Comitato della diplomazia”, il “Comitato dei Servizi Sociali” e “Comitato della Difesa”.

Curdi e integralisti del Califfato: uno scontro senza esclusione di colpi

Dalla metà del 2013, i curdi delle tre regioni autonome della Siria settentrionale sono stati impegnati in un conflitto armato contro l'ISIS, ma questo non ha suscitato molto interesse nell'opinione pubblica internazionale. Era considerato solo un sotto conflitto distinto all'interno del grande conflitto siriano. Solo quando, il 10 giugno 2014, le forze estremiste dell'ISIS hanno conquistato Mosul (Iraq) il mondo ha aperto gli occhi. Tra giugno e la fine di luglio l'ISIS si è concentrato poi nuovamente sul Kurdistan occidentale con l'intenzione di massacrare la popolazione del Cantone di Kobane. Tutto il popolo curdo si è mobilitato in massa dando sostegno alle forze delle YPG e YPJ favorendo così una resistenza storica. Trovando resistenza a Kobane, l'ISIS ha provato un'offensiva nella regione di Cizire nella città di Hasakah che si trova vicina al confine siriano-iracheno. Dopo giorni di combattimento, l'ISIS è stata costretta ad arretrare. Dopo queste disfatte i gruppi terroristi si sono diretti verso il Kurdistan iracheno.

Il 3 agosto l'ISIS ha attaccato una delle zone più antiche e sacre della nazione curda, Sinjar (Singal), massacrando curdi yezidi, senza nessuna differenza tra civili e combattenti. Le forze peshmerga nell'arco di 24 ore hanno abbandonato le loro postazioni e l'ISIS ha preso il controllo della città. Il numero dei morti, feriti, dispersi è ancora ignoto, ma si parla di 1500-2000 civili morti. A seguito di questi attacchi, più di 50.000 yezidi sono scappati verso le montagne di Sinjar e più di 300.000 tra donne, bambini e anziani sono stati sfollati. Migliaia di donne sono state rapite e ridotte in schiavitù o sono state vittime di stupri. I rifugiati in montagna sono poi rimasti isolati ed hanno dovuto affrontare la fame e la sete. Quasi 300 bambini sono morti per fame e disidratazione e molte donne hanno preferito il suicidio piuttosto che finire nelle mani dell'ISIS. Questo brutale attacco ha spinto le unità armate delle YPG ad intervenire dal Kurdistan occidentale per proteggere i civili in fuga ed aprire un corridoio umanitario per la popolazione bloccata in montagna. Ciò ha salvato molte vite ed ha impedito all'ISIS di controllare zone più ampie del territorio.


L'appoggio non tanto segreto della Turchia all'ISIS

Lo stato islamico è tornato ad attaccare anche con armi pesanti, come i carri armati T-72, la popolazione curda del cantone di Kobane (15 settembre 2014) utilizzando anche armi consegnate dalla Turchia. Decine di villaggi sono attaccati con i cannoni. L'obiettivo è quello di fare un altro massacro come quello della popolazione yezidi. Le forze di difesa YPG e YPJ stanno resistendo mentre il governo dell'AKP di Erdogan sta sostenendo queste bande. Il confine turco rimane chiuso ai profughi, mentre invece è aperto per i miliziani dell'ISIS. Se la comunità internazionale vuole fermare l'ISIS bisogna intervenire sulla Turchia. L'Ufficio d'informazione del Kurdistan in Italia (UIKI) lancia un appello al Governo italiano, all'Europa ed alle organizzazioni umanitarie per un intervento verso la Turchia affinché cessi di appoggiare l'ISIS. A metà di ottobre, con l'intensificarsi dell'attacco a Kobane, qualcosa cambia. Gli Usa, per frenare l'avanzata dell'Isis, ha iniziato una serie di bombardamenti aerei e, attraverso i suoi velivoli, ad inviare anche armamenti al PYD. Una decisione che ha trovato una forte contrarietà da parte delle autorità turche che hanno sempre considerato le PYD una organizzazione terroristica. La politica interna della Turchia è infatti legata al futuro della questione curda del Medioriente. L'obiettivo di Erdogan è quello di impedire di ristabilire un governo autonomo a Kobane. La speranza della Turchia è che l'Esercito Libero Siriano, che lotta contro Assad, prenda il controllo di Kobane. Il premier Ahmet Davutoğlu ha dichiarato che Ankara non vuole al proprio confine “nè il PYD, né il regime di Assad e nemmeno l'ISIS”. L'atmosfera in Turchia resta tesa. Durante varie manifestazioni curde a favore di Kobane, iniziate il 6-7 ottobre e continuate per più giorni, hanno perso la vita oltre 40 persone in scontri con la polizia e gruppi vicini al PKK e ad islamici radicali. Per il momento, dopo la terza settimana di assedio dell'ISIS al cantone di Kobane, Ankara assiste impassibile al graduale indebolimento delle unità curde di difesa popolare (YPG). Numerosi carri armati dell'esercito turco sono stati posizionati sulle alture interessate ai combattimenti, tutti puntati verso la regione curda. Una linea di confine di oltre 100 chilometri. La Turchia teme la presenza di “regioni autonome curde” ai propri confini per la possibilità che questo possa estendersi anche nelle sue regioni sudorientali. Le condizioni di Ankara per dare aiuto a Kobane sono quelle di rinunciare, da parte del PYD, a pretese autonomiste e di smettere di collaborare con il regime di Assad. La Turchia avrebbe anche chiesto a Washington la possibilità di istituire una zona cuscinetto al confine con la Siria ed una dichiarazione di una “no fky zone”. Il portavoce della Casa Bianca ha però ribadito il rifiuto di questa richiesta, ribadendo che l'obiettivo continua ad essere solo l'ISIS. Il co-leader del PYD, Muslim ha però dichiarato che il partito curdo è riuscito ad accordarsi su molti punti con il governo di Ankara. Quello che i curdi attendono è “l'autorizzazione a passare dai confini turchi per poter portare aiuti a Kobane dagli altri cantoni”. Ma, alla fine la Turchia non ha mantenuto le sue promesse. E' immorale che da una parte una città sia minacciata da un massacro e dall'altra ci siano solo gli interessi di alcuni stati.

Dopo 133 giorni di resistenza Kobane è libera! “E' la vittoria della linea della libertà sull'oscuro ISIS”, queste sono le parole del Comando Generale YPG. I combattenti delle YPG e YPJ, giovani uomini e donne del Kurdistan e tutti i volontari che li hanno raggiunti da tutto il Kurdistan ed altri paesi, si sono battuti con molto coraggio ed hanno opposto una forte resistenza al terrore. Questa vittoria è il frutto della rivoluzione del Rojava. “Questa è stata una battaglia tra l’umanità e la barbarie, tra la libertà e la crudeltà e tra i valori comuni dell’umanità e i nemici dell’umanità. È la correttezza, lo spirito di libertà e il libero volere dei popoli e dell’umanità, che hanno vinto questa battaglia”, ha sottolineato ancora il Comando Generale YPG.

L'anno 2014 è stato molto importante per il Kurdistan e le popolazioni del Medio Oriente. Uno dei comandanti delle YPG, Cemil Mazlum sottolineando che l'ISIS, in superiorità tecnica e numerica, si è scontrata con la filosofia di Ocalan, con lo spirito di sacrificio ed una forte organizzazione delle forze curde, ha dichiarato: “Inoltre, abbiamo capito il nemico in modo corretto e anticipato che cosa avrebbe potuto fare. Su questa base, ci siamo preparati per attacchi e barbarie di qualsiasi livello, e abbiamo combattuto il nemico con una chiara superiorità morale e coraggio. Le bande di ISIS erano superiori a noi per quanto riguarda le tecniche, le braccia e il numero di militanti, ma la determinazione eroica, la motivazione, l’impegno e il coraggio dei combattenti delle YPG/YPJ sono stati il nostro più grande vantaggio contro l’ISIS. Di fatto, Kobanê ha assistito allo scontro fra la superiorità tecnica e un popolo in lotta per la propria libertà, che finora ha vinto la guerra”.

Il ruolo delle donne nel conflitto e nella società curda

Le donne hanno avuto un ruolo molto importante in questo contesto. Le Unità di protezione del popolo contano circa 45mila unità, il 35% sono donne (quasi 16mila). C'è in gioco il posto che le donne occupano nel mondo e per questo le guerriere sono orgogliose di aver imbracciato le armi, così come lo sono le loro madri. A Kobane la guerra è una scelta obbligata per chi ha cura della propria vita e libertà, di quella dei compagni, della regione e delle idee. Queste donne stanno portando avanti anche una battaglia sul fronte interno per affermare il loro diritto a conquistarsi la libertà. La partecipazione alla guerra le ha portate a sentirsi uguali, hanno preso a difendere se stesse con il rischio di morire, senza nessuna predilezione al martirio. A loro la guerra non piace, come non piace uccidere, lo dicono nelle tante interviste rilasciate a giornalisti. Una combattente racconta, infatti, che pulire il suo fucile non era difficile, ma per riuscire a sparare ha dovuto combattere la paura. Ogni donna, prima di tutto, ha dovuto fare i conti con se stessa e con la sua normale passività di fronte alla vita quotidiana. Mentre rivendicano di essere una brigata di sole donne che vivono in modo del tutto indipendente, rivendicano e praticano anche l'uguaglianza ed insegnano qualcosa agli uomini. La loro lotta ha qualcosa di sovversivo che forse non sarà decisiva da un punto di vista militare, ma lo sarà da quello politico. La straordinaria resistenza delle donne curde non nasce dal nulla, ma ha radici molto lontane. E', infatti, doveroso ricordare la figura di Sakine Cansiz (assassinata con le sue compagne Fidan Dogan e Leyla Saylemez a Parigi il 9 gennaio 2013) che insieme a poche altre compagne negli anni '70 diede inizio all'auto-organizzazione delle donne nel movimento curdo.

“Erano anni molto difficili, dove si viveva in clandestinità e lottando sia contro lo Stato turco e la sua feroce repressione, sia contro la sinistra turca che non vedeva di buon occhio il movimento curdo, definendolo “nazionalista”, sia contro i pregiudizi sociali dell'epoca interni alla stessa società curda, che voleva per le donne un destino già scritto di mogli e madri. Un lavoro che le è costato lunghi anni di prigione, torture, esilio. Ma che è la vita che Sakine Cansiz aveva scelto per sé, l'unica che avrebbe potuto condurre.” [Dal libro “Tutta la mia vita è stata una lotta” di Sakine Cansiz 1°volume]

Gli occhi della delegazione Italiana

E' in questo contesto che la delegazione italiana come Osservatori internazionali è arrivata il 18 marzo scorso in Kurdistan, suddivisa in vari gruppi per poter raggiungere più luoghi del territorio del Kurdistan turco. La delegazione di cui facevo parte era la “Delegazione di Van” e, Kobane era la nostra meta finale (22 marzo) insieme agli altri gruppi.

  

Partiamo la mattina presto da Diyarbakir per raggiungere la cittadina di Suruc vicina al confine siriano a 45 km a sud ovest della città di Urfa. Oggi è un importante distretto agricolo famoso per la produzione del melograno. Incontriamo nella sede del Municipio il responsabile della Commissione della diplomazia del partito DTK (Congresso della Società democratica) di Diyarbakir, Mustafa Dogal. Senza troppi giri di parole, ci comunica subito che raggiungere Kobane è praticamente impossibile, le autorità turche non concedono permessi. Dogal si trova a Suruc da cinque mesi con un ruolo da diplomatico. Il nostro programma per oggi prevede, dopo questa breve introduzione sulla situazione odierna, un sopralluogo vicino al confine dove potremo vedere Kobane ed una visita ad un campo profughi.

La città di Suruc conta 101.000 abitanti e dall'inizio della guerra, sono arrivati in tutta la provincia di Sanliurfa, a cui Suruc appartiene, 126.000 profughi. La popolazione si è praticamente raddoppiata. Il numero totale delle persone fuggite da Kobane che si trovano nel territorio del sud est turco è di 180 mila. Dalla liberazione di Kobane sono riusciti a tornare alle loro case nel Cantone circa 50.000 persone. Il rientro è organizzato, tre volte alla settimana, dai responsabili dei campi con il partito locale e con le famiglie. Le persone sono così accompagnate al confine con l'aiuto di mezzi di trasporto presi a noleggio. “Dal 1945 - continua Dogal - Turchia, Siria, Iran e Iraq, quattro paesi sotto le Nazioni Unite, continuano a praticare un embargo verso il popolo curdo. Sono 70 anni. L'unica soluzione da fare è quella di esercitare una forte pressione sulle Nazioni Unite, prima si farà e prima la Turchia sarà costretta a cambiare la sua politica. Ogni persona che viene qui e non passa a Kobane, quando torna indietro se non fa niente, se non dice niente, serviranno ancora altri 70 anni per cambiare qualcosa. Tutto è nelle nostre mani”. Dogal si raccomanda, quando andremo al confine, di non osare troppo, di non andare troppo vicino al confine. E' una zona militare, c'è l'esercito turco, soldati, e sono pazzi. In passato, alcune persone sono state uccise solo perché si sono avvicinate troppo. La Turchia non ha riconosciuto ai profughi curdi di Kobane lo status di rifugiati e per questo non è intervenuta in questa emergenza. La municipalità di Suruc ha accolto invece per cinque mesi la popolazione di Kobane, non come rifugiati, ma come parenti, liberi di scegliere se restare o tornare alle proprie case.

Il trattato di Losanna ha diviso il confine separando di fatto persone della stessa famiglia da uno stato ad un altro. A chi resta, la Turchia però non rilascia un permesso di lavoro. Suruc ha prestato aiuto sia a quelli che sono rimasti e sia a chi è tornato a Kobane. Da ricordare infatti che Kobane per l'80% è ancora distrutta, specialmente la parte occidentale con molti corpi di combattenti insepolti ed ordigni esplosivi non disinnescati. A Suruc si trovano 6 campi profughi, di cui 5 gestiti dalla municipalità ed uno dalla protezione civile del governo turco, messo in piedi quattro mesi dopo la fine della guerra con Kobane liberata. La municipalità non ha ricevuto nessun aiuto né dalle Nazioni Unite e né dalla Turchia. Gli aiuti sono arrivati da 103 diverse municipalità e da diverse organizzazioni turche ed europee, niente dal governo turco o da governi europei. “I governi europei - afferma Dogal - rappresentano ufficialmente il governo turco. Il campo profugo turco è in realtà come un campo militare ed occorre un permesso per entrare e uscire. Il governo turco pretendeva inoltre che i rifugiati lasciassero i campi gestiti dalla municipalità di Suruc per trasferirsi in quello ufficiale turco. Ma era troppo tardi. I rifugiati volevano solo tornare alla loro case o a quello che ne era rimasto.”

La relazione di Dogal prosegue con toni più politici soprattutto inerenti al conflitto siriano.

“E' più interessante parlare dell'intera coalizione che parlare solo del bombardamento delle Nazioni Unite sulla Siria. Quando hanno iniziato a bombardare l'ISIS – continua Dogal – era tardi, ma è sempre meglio che niente. Le forze di coalizione dovrebbero continuare, perché come popolo curdo non abbiamo abbastanza potere militare, ma come coraggiosi, abbiamo potere. Abbiamo bisogno di attrezzature, le YPG/ YPJ hanno bisogno di più armi, l'Isis ha grandi armi, ma nonostante questo sono stati sconfitti e, grazie al coraggio curdo e alla resistenza”.

Per 70 anni, a causa delle divisioni, dei confini e dei regimi dittatoriali non è stato possibile creare un'unità curda. Il popolo curdo è stato volutamente diviso per evitare una reale unificazione. Per quanto riguarda il rapporto con i Peshmerga, arrivati dall'Iraq, Dogal è molto diplomatico. Afferma infatti che il loro aiuto è stato minimo, ma è solo l'inizio. E' stato un passo importante per la costruzione di una unità dei curdi.

“Senza unità i curdi non possono essere così potenti, come dovrebbero esserlo, e non solo i curdi da soli, i fratelli come voi, come noi – prosegue Dogal - Voi venite dall'Italia, ma le vostre radici sono qui, tutta la civiltà è nata in Mesopotamia. Se si legge la storia, le persone si sono mosse in Europa e negli Stati Uniti partendo dalla Mesopotamia, tra il Tigri e l'Eufrate. Bisogna tenere in considerazione le proprie radici. Il popolo curdo non sta combattendo solo per il popolo curdo, ma combattiamo per la democrazia in tutto il mondo. Se l'area che dovrebbe essere controllata dai curdi, sarà controllata dai curdi, l'intero mondo sarà al sicuro. Se l'occidente aiuterà il popolo curdo a controllare questa area, i fondamentalisti non potranno più manovrare in quest'area. Per questo bisogna supportare il popolo curdo affinché controlli questa zona e non solo contro l'Isis di oggi, ma anche contro quelli che verranno, perché spesso cambiano solo il nome, ma restano gli stessi. Il popolo curdo è l'assicurazione dell'intero mondo”.

Per quanto riguarda la questione del PKK (Partito del Lavoratori del Kurdistan), Dogal ci chiede: “Se il PKK è considerato un gruppo terroristico, perché la coalizione sta combattendo con loro? La storia aveva detto che Nelson Mandela era terrorista, ma poi cosa è successo? Il popolo curdo non è terrorista ed il mondo lo capirà. Dopo Kobane ed il massacro degli yezidi, lo capirà, tardi, ma capirà. Il popolo curdo non ha mai voluto occupare un altro territorio, non ha mai voluto seguire l'esempio dell'Isis in nessuna terra. Quello che il popolo curdo vuole è solo vivere nella sua terra, sul suo terreno con dignità ed onere, come gli altri popoli. Quello che vogliamo è la democrazia per l'intero mondo e per le donne”.

Sul processo di pace e sulle dichiarazioni di Ocalan, Dogal si esprime solo a livello personale.

“Le autorità turche negli ultimi trent'anni hanno trovato sempre delle scuse per non concedere l'autonomia al popolo curdo, come per esempio, attribuire la responsabilità al PKK perchè non accetta di deporre le armi. Il PKK però negli ultimi tre anni ha portato avanti “il cessate il fuoco” ma il governo turco non ha fatto nessun passo verso una riconciliazione. Il governo turco ora afferma che se il PKK abbandona la Turchia, è pronto a concedere al popolo curdo i suoi diritti. Sul processo di pace si sono aperte delle differenze di posizione tra Erdogan ed il primo ministro turco, ma siamo vicino alle nuove elezioni politiche ed è una consuetudine per Erdogan, per prendere più voti, rilasciare dichiarazioni che poi non metterà mai in pratica. Ad Erdogan piace il potere, vuole dimostrare a tutti chi è il Re, ma chi l'ha messo su lo può anche buttare giù. Tutto questo è normale per Erdogan, ma è lui che non è normale!”.

    Audio Mustafa Dogal 


In direzione di Mesher a due passi dal confine e dal conflitto

La delegazione, subito dopo l'incontro con il diplomatico Mustafa Dogal nella sede del Municipio di Suruc, si dirige verso il confine con Kobane raggiungendo il villaggio di Mesher.

Mesher è infatti l'ultimo centro urbano turco prima della frontiera, tra Suruc e la Siria. Mesher e Kobane si guardano, si salutano, si aiutano, distano solo tre chilometri e, con l'aiuto di un binocolo o di uno zoom di una macchina fotografica si può guardare dentro alle case o di quello che è rimasto in piedi.

  

  

 Arriviamo al confine. Scendiamo dal pulman. Alla nostra destra c'è una grande collina verde dove ci sono alcune pecore che tranquillamente mangiano l'erba, non sembrano sorprese o preoccupate, per loro è solo una silenziosa giornata di sole senza spari. Sulla strada ci sono camionette e militari che imbracciano fucili o Kalashnikov. Sono giovanissimi, ci guardano un po' curiosi, ma abituati a questi occidentali che vogliono passare per vedere quello che resta di questa guerra. L'emozione mi prende allo stomaco, alla testa, dimentico lo zoom della mia macchina fotografica sul pulman, solo una volta a casa capisco che ho perso un'occasione per scattare delle fotografie più intense. Il tempo a nostra disposizione è poco. I miei compagni di viaggio iniziano a correre per raggiungere un punto migliore e il più vicino possibile allo spazio a noi consentito, dove riprendere o scattare immagini. C'è confusione, si sente gridare a qualcuno di tornare indietro, qualcun'altro vuole una foto con un soldato, ognuno esprime come vuole i propri sentimenti. Appena tre chilometri mi separano da Kobane, da quello che è rimasto della “Stalingrado del Medio Oriente”, così è stata chiamata Kobane dai primi giornalisti che sono riusciti ad entrare al termine dei quattro mesi di combattimento. Da qui riesco a vedere i palazzi, le case distrutte, le automobili, i furgoni abbandonati oltre il confine turco dai profughi in fuga e, sullo sfondo in lontananza, anche la bandiera delle YPG. Siamo tutti su questa linea con le macchine fotografiche e cineprese a guardare case distrutte. Penso ai combattenti, agli abitanti di Kobane, al loro tentativo di rivoluzionare la società esistente attraverso la proposta di una nuova costituzione chiamata “Carta del Contratto sociale”. Un documento laico, egualitario e anticapitalista. Alcuni principi sono già stati messi in pratica, come l'uguale divisione delle cariche amministrative fra uomini e donne, le forze di difesa speciali di sole donne (YPJ), la coesistenza sullo stesso territorio di etnie e religioni diverse.

Domani noi tutti torneremo alle nostre case e poi? Una domanda mi attraversa la mente mentre mi guardo attorno: “ma perché solo ora tanta gente è qui oggi? Perchè negli altri anni, per festeggiare il Newroz insieme al popolo curdo in Kurdistan, eravamo circa una trentina di persone, mentre in questo viaggio siamo in 120? Occorre una guerra, una devastazione per far muovere le persone? Ma poi mi dico che in fondo non c'è bisogno di affrontare un viaggio per essere vicino e supportare i diritti del popolo curdo e, il gran numero di persone presenti in quest'occasione, è solo per dimostrare al mondo intero, ma specialmente, al governo turco che siamo in molti a schierarsi con il popolo curdo, con la loro determinazione, coraggio e resistenza. La loro lotta deve essere anche la nostra. Dove mi trovo ora è “La linea” descritta da Serena Tarabini il 15 gennaio scorso nel suo racconto di un viaggio sul confine turco-siriano. Ricordare le parole di Serena è un omaggio per tutti quelli che hanno vissuto sulla propria pelle questa aggressione.

“La linea” si compone tutte le mattine a Mesher, villaggio collocato fra la cittadina di Suruç, ultima enclave urbana turca prima della frontiera, e la Siria. Un aggregato di poche case che lambisce il confine, dalla quale ciò che succede a Kobane si vede e si sente. Uno in mezzo a tanti altri, ma che si distingue. Le sue poche centinaia di abitanti, a cui si sono aggiunte una quarantina di famiglie fuggite da Kobane, assieme a ex combattenti, volontari, simpatizzanti, visitatori internazionali che vi transitano, ogni mattina formano una lunga linea rivolta verso una Kobane dalla quale si alzano colonne di fumo e provengono i suoni delle mitragliatrici e delle granate, mentre il ronzio degli aerei della coalizione si avvicina o si allontana. Nella “linea” decine, a volte centinaia di persone, rivolgono il loro omaggio ai combattenti di Kobane, scandendo slogan e innalzando canti di lotta. Un gesto simbolico pieno di orgoglio, di storia, di forza e di coraggio. Un rituale non privo di pericoli quando si svolge a pochi metri dal confine e si è sotto il tiro dell’esercito turco: un’attivista curda di 28 anni, Kader Ortakaya, a Novembre vi ha perso la vita, colpita alla testa da una pallottola sparata da un soldato. Questa catena umana che corre parallela lungo il confine, fa anche da linea di congiunzione fra due fronti di resistenza, quello militare che si svolge dentro Kobane, dove le Ypg e le Ypj, le truppe di liberazione maschili e femminili curde combattono l’Isis a costo della vita, e quello umanitario dall'altra parte della frontiera, dove si sono rifugiate le decine di migliaia di profughi provenienti da Kobane. “La linea” è uno dei tanti gesti che fanno di Mesher un luogo speciale, un osservatorio permanente sugli sviluppi del conflitto e un presidio di solidarietà dai caratteri simili a quelli della “comune”. Ma non c’è solo Mesher, tutta questa zona ha qualcosa di eccezionale....«Questa guerra non è la nostra guerra» ci dice Fatma, nome di fantasia per una dei 20 membri eletti al governo del cantone di Kobane e responsabile dell’ordine e della sicurezza a Suruç. «Chiunque si definisca un democratico dovrebbe sostenere questa nostra resistenza, perché stiamo combattendo contro l'Isis, che sono dei fascisti e dei terroristi»... Sono tante le linee che ho visto in questo viaggio: quelle formate dalle tende dei campi profughi, dalle macchine che fuggitivi siriani sono stati costretti dall'esercito turco ad abbandonare lungo il confine, dalle ambulanze che trasportavano morti e feriti, dalle persone in attesa di un pacco o di una visita medica, dal fumo delle esplosioni, sono tante linee le strade che tagliano l’infinita pianura mesopotamica. E poi la linea di frontiera, irta di filo spinato, brulicante di carri armati e uomini in divisa. Che continua con tutte le linee di frontiera dell’Europa e del mondo: innocenti righe tracciate su un pezzo di carta, nella realtà selettive e crudeli barriere sulle quali si infrangono le speranze e la vita di chi fugge dall'orrore.

Foto di Giorgio Barbarini

  

I combattimenti sono cessati, Kobane è libera ed ora si contano i danni della devastazione. La guerra contro l'Isis ha avuto un costo molto alto. Il Consiglio esecutivo della provincia di Kobane ha costituito un Comitato con il compito di documentare tutti i danni subiti. E' stato quindi redatto un rapporto (http://www.uikionlus.com/rapporto-sui-danni-nel-cantone-di-kobane/) nel quale sono dettagliate tutte le necessità di cui Kobane ha bisogno per riprendere una vita normale. Tutto è stato distrutto: infrastrutture, ospedali, agricoltura, istruzione, economia e capitale sociale.

 

Immagini  Suruc 

 

Lasciamo la linea del confine per raggiungere uno dei sei campi profughi a Suruc: Suruc Belediyesi – Kobani – Cadir Kenti. Siamo accolti all'ingresso da tanti bambini curiosi. Il campo è abbastanza grande con tante tende grigie ben allineate. Possiamo girare liberamente all'interno del campo e ci dividiamo per non essere troppo invadenti nei confronti delle persone che lo occupano. La prima sensazione in queste occasioni è di disagio. Le nostre intenzioni, il nostro impegno è sincero, ma potremmo essere fraintesi nel momento in cui non incidiamo sulle prese di posizione dei nostri governi. Entro nel campo e subito una dolcissima bambina dai capelli castani con una giacca rosa, mi prende la mano e mi accompagna a conoscere il campo per tutto il tempo a nostra disposizione. Comunichiamo a gesti, avrei voluto conoscere la sua famiglia, sapere con chi si trovava lì, ma purtroppo, per la differenza linguistica, le mie domande sono rimaste insoddisfatte. Noto, come ci aveva raccontato il diplomatico Dogal, molti spazi vuoti, segno che molte tende sono state smontate per l'inizio delle operazioni di rientro a Kobane. La mia impressione è stata positiva perché mi trovavo di fronte ad una situazione d'emergenza messa in atto semplicemente dalla buona volontà di persone per aiutarne altre in estrema difficoltà. Questo non è il solito campo profughi dove vengono ammassate moltitudini di persone per un tempo indefinito, qui si tratta di un campo allestito per aiutare chi sta scappando da una guerra, si tratta dello stesso popolo e come tale è considerato. Sono liberi di scegliere se restare o ritornare alle proprie case. Le parole diventano inutili di fronte a tutto ciò, forse le immagini rendono meglio la situazione. Porto nel cuore con me il viso di quella bambina sorridente e spero che sia ora con tutta la sua famiglia nella sua casa a Kobane, come del resto, anche per tutte le altre persone presenti nel campo. L'unico rimprovero e delusione è quello di non aver potuto sapere le storie di quelle persone, delle loro paure, speranze, richieste d'aiuto. Non era programmato un incontro esplicativo con alcuni rappresentanti del campo.


 
Immagini del campo profughi

22/05/2015

Fonti:

- Dal libro”Storie dei curdi” di Mirella Galletti

- sito “Osservatorio Balcani e Caucaso”

- sito “Uiki Onlus” I curdi in Siria

- sito “il Post”: tre anni di guerra in Siria – quatto anni di guerra in Siria – che cos'è l'Isis

-sito “Info Aut” La rivoluzione in Rojava

-sito “Ossin.org” La minoranza curda nella crisi siriana


NEWROZ 2015

reportage fotografico di Mirca Garuti


 

 

  

   INCONTRO CON TUHAD-DER  - VAN 



 

 

 

 

   NEWROZ VILLAGGIO CUBUKLU - VAN 

 

 

 

 

 

 NEWROZ VILLAGGIO UNCULAR - VAN 

 

 

 

 

 

 

  NEWROZ VAN

 

 

 

 

 

 

  IL LAGO DI VAN 

 

 

 

 

 

 

  IN VIAGGIO DA VAN A DIYARBAKIR 

 

 

 

 

 

 

 

 

  NEWROZ DIYARBAKIR 

 

 

 

 

  SURUC AL CONFINE CON KOBANE 

 

 

 

 vedi anche FOTO KOBANE


Sesta edizione Premio Stefano Chiarini 2015
“PALESTINA: IL DIRITTO AL RITORNO”
Modena, domenica 1 febbraio 2015 ore 10,00
presso LA TENDA, Viale Molza angolo Viale Monte Kosica

come raggiungerci...

Le foto dell'evento:


Il Premio Chiarini, dedicato alla figura del giornalista del Manifesto Stefano Chiarini, si propone di istituire un riconoscimento all’impegno sul tema del Medio Oriente e in particolare della Palestina, con una speciale attenzione per il mondo dei media e della cultura. Quest'anno sarà attribuito a Moni Ovadia, attore teatrale, drammaturgo, scrittore, ricercatore, cantante e interprete di musica etnica e popolare di vari paesi, per il suo impegno per la diffusione, attraverso la sua arte, della questione palestinese. Consegnato, inoltre, un riconoscimento al Gruppo musicale “I Kalamu” band calabrese di musica folk-rock  per il loro impegno nella costante lotta alle mafie ed alla ricerca di una comunicazione tra tutti i popoli.

Hanno inoltre partecipato: Moni Ovadia, Mai Alkaila Ambasciatrice Palestinese in Italia, Sirkku Kivistu, attivista pro-PalestinaFinlandia, Kassem Aina, presidente Comitato internazionale per il diritto al ritorno (Libano), Mohammed E.A.Eleyan, Dipartimento Affari profughi Olp, giornalisti, amici di Stefano e rappresentanti di associazioni nazionali ed internazionali, etc.

 

Presentazione e apertura

di MIRCA GARUTI

               



 

 

 

 

 

SIRKKU KIVISTU,

attivista pro-palestina Finlandia
traduzione  Raffaele Spiga

       



 

 

 

 

 

GIANPIETRO CAVAZZA

Vicesindaco e Assessore alla Cultura e all'istruzione di Modena

   

 

 

 

 

 

 

 

“DIRITTO AL RITORNO”
Video realizzato dalla redazione di Alkemia

La vita del popolo Palestinese, dai campi profughi dal Libano a Gaza.
La felicità e il dolore di chi da troppo tempo attende di poter tornare a casa, di poter esistere e di essere riconosciuti, secondo il diritto internazionale, come legittimi proprietari di un territorio oggi occupato da Israele.


 

 

 

MAI ALKAILA

Ambasciatrice Palestinese

   

 

 

 

 

 

 


 

OSAMA QASIM AL RIMAWI

Giovani Mussulmani Italiani (GMI - Modena)

  

 

 

 

 

 


 “RICORDO DI STEFANO CHIARINI”

KASSEM AINA – Pres.Te Com.Inter. per il Diritto al ritorno  (Libano)

Traduzione di Bassam Saleh

 

  

 

 

 


 

“LETTURA ARTICOLO DI STEFANO CHIARINI

ERMANNO BUGAMELLI

  

 

 

 

 

 

 

Presentazione

“per non dimenticare Sabra e Chatila...”

di MAURIZIO MUSOLINO

 

  

 

 

 



 

MOHAMMED E. A. ELEYAN - Dipartimento affari profughi OLP

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LETTURA POESIA DI DAWISH

OSAMA QASIM AL RIMAWI - TAKWA HADDAD (in Italiano)

 

  

 

 

 

Premiazione

MONI OVADIA


Attore teatrale, drammaturgo, scrittore, ricercatore, cantante e interprete di musica etnica e popolare di vari paesi, viene riconosciuto il premio chiarini 2015 per il suo impegno per la diffusione, attraverso la sua arte, della questione palestinese. Moni Ovadia, oggi è considerato uno dei più prestigiosi e popolari uomini di cultura ed artisti della scena italiana. il suo teatro musicale, ispirato alla cultura yiddish, che ha contribuito a fare conoscere e di cui ha dato una lettura contemporanea. Moni Ovadia è anche noto per il suo costante impegno politico e civile a sostegno dei diritti e della pace ed è un punto di riferimento per le giovani generazioni.
recentemente sul gesto del pontefice ha affermato che: «il pugno di francesco è lungimirante» e la battuta del pontefice non è casuale né ingenua: «è stato un modo con cui non solo ha chiarito che come papa difende la chiesa ma anche che non è indifferente al ridicolizzare le fedi, il tutto però sdrammatizzando. oggi si tende a commentare tutto in diretta. dovremmo cominciare a riattivare l'uso del cervello e lasciare da parte le budella».

Le sue dichiarazioni dopo la premiazione:
“..vorrei fare molto di più perché nella coscienza di ogni persona per bene, nella coscienza di un uomo che riconosce i valori centrali dell'umanità, il dramma del popolo palestinese è una ferita aperta. Nella nostra coscienza di esseri umani, di cittadini europei, di cittadini del mondo e dovrebbe essere una ferita aperta anche nella coscienza ebraica...”

Audio:
   

Audio fotografico:


Premiazione
GRUPPO MUSICALE KALAMU


Band calabrese di musica folk- rock in costante impegno di lotta alle mafie ed alla ricerca di una comunicazione tra tutti i popoli. i testi spaziano dai temi sociali a brani di carattere intimistico. Tra impegno ed ironia per parlare a tutti in una costante ricerca di comunicazione.

Audio:  

Video della premiazione:

 

    


ANDREA PICCININI - Ricordo della Professoressa Ada Lonni di Torino 

Azione BDS – RAFFAELE SPIGA (comitato Boicottaggio Disinvestimenti Sanzioni -  Bologna)

Missione “Diritto al Ritorno” 2015 - GUSTAVO PASQUALI

  

La festa finale con “Bella Ciao”:

 

I DISEGNI DEI BAMBINI DEL CAMPO PROFUGHI CHATILA (LIBANO)

Laboratorio di arte e ritratti di Roberta Ravoni

 

  

 

 

A cura di Alkemia, Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, LaTenda


 

(scarica o ascolta l'audio della giornata)

LE FOTO DELLA GIORNATA di Mirca Garuti

Non è stata una domenica qualsiasi quella del 29 novembre scorso  a Lucca. L'Auditorium San Romano ha accolto molti militanti, attivisti e intellettuali per partecipare ad un confronto su quale progetto futuro per una resistenza non violenta alla repressione israeliana e quale percorso intraprendere affinché siano riconosciuti i diritti dei palestinesi e il ritorno dei profughi.
Durante la giornata è stato inoltre lanciato,  per evitare, come chiaramente espresso da Norberto Julini, che “tra un anno ci ritroviamo qui a fare la conta dei danni e le medesime analisi”, un obiettivo: lavorare affinchè anche il nostro governo riconosca lo Stato di Palestina.
Una giornata dunque intensa, ricca di focus di analisi e confronto che meritava di essere raccontata e che abbiamo cercato di sintetizzare.
Apertura dei lavori e di Norberto Julini (Pax Christi) e i saluti di Ilaria Biechina, Stefano Baccelli (Presidente prov. di Lucca) e la Direttrice UNRWA Italia.

 

AUDIO INIZIO LAVORI


FOCUS - LA CAMPAGNA “PONTI E NON MURI” DIECI ANNI DOPO: LA SOCIETA' CIVILE INTERNAZIONALE SI RACCONTA...

L'esperienza diretta di chi opera sul campo è tra le parti più importanti di questo focus. Dalla denuncia della voluta distruzione di una scuola costruita dagli italiani a Gaza, non durante un raid aereo ma con l'avanzata di terra dell'esercito israeliano e il rifiuto di chiedere i danni, votando contro ad una mozione presentata in parlamento; al racconto in collegamento dalla Cisgiordania, di Patrik ultimo cooperante dell'ISM colpito al petto mentre difendeva, durante il raccolto, i contadini palestinesi. Anche Stephanie Westbrook ha elencato i successi della campagna BDS nel mondo e della necessità che questa campagna di boicottaggio diventi attiva per distruggere il regime di apartheid, come del resto è stato fatto per il Sud Africa. Soprattutto perché sono i palestinesi stessi che ce lo chiedono. Stefano Gambini ha poi ricordato, come illustrato nella dichiarazione dell'ONU, che le falde acquifere di Gaza, a causa della rottura delle fognature, rischiano entro il 2020 di essere  inutilizzabili.

Don Nandino Capovilla incontra:
Massimo (rapp.te di Operazione Colomba)
Stefano Gambini (cooperante a Gaza)
Josè Henriquez (segr,ario di Pax Christi international)
Maya (rapp.te ISM)
Annibale Rossi (rapp.te di Vento di Terra)
Stephanie Westbrook (leader del BDS)


 

AUDIO COLLEGAMENTO CON PATRIK

 

 


AUDIO DELL'INCONTRO 1p

AUDIO DELL'INCONTRO 2p

 

 

 

 

 

 

OMAR SULEIMAN: LE POESIE DI DARWISH


 

 

 

FOCUS – LA COMUNITA' INTERNAZIONALE: COME LE NAZIONI UNITE STANNO LAVORANDO PER LA PACE, LA GIUSTIZIA, I DIRITTI UMANI

Il focus non poteva che cominciare che con il saluto dell'ambasciatrice palestinese in Italia e la descrizione dettagliata ed aggiornata di Ray Dolphin, dove attraverso la proiezione di carte e specifiche descrizioni grafiche, ha evidenziato la lampante violazione dei diritti internazionali soprattutto in riferimento agli insediamenti israeliani e le zone di totale controllo dove i Palestinesi non possono neppure entrare. Per esempio, in Cisgiordania  le zone dove non solo è vietato l'accesso ma anche la coltivazione da parte dei Palestinesi, sono l'85%. Ha  parlato, subito dopo, della realizzazione di oltre 400 km di muro su un totale di  700 km che, nonostante abbia ottenuto il permesso dalla Corte Internazionale per la sua realizzazione all'interno dei territori d'Israele, è stato compiuto su suolo palestinese.
Nicolò Rinaldi ha espresso, invece, la difficoltà all'interno del Parlamento Europeo di riuscire ad avanzare una seria discussione sulla questione Palestinese, non solo a causa del peccato originale dell'Olocausto, ma anche per i troppi legami commerciali relativi ad armamenti e tecnologia con il governo israeliano. Altra motivazione è che comunque Israele viene considerata un enclave, un presidio occidentale in una terra araba. Un lavoro parlamentare che, a fatica, comincia a dare qualche frutto e prova di andare oltre il semplice versamento di circa 900 milioni di euro all'UNRWA. Cosa che, al contrario, non fanno i governi arabi, anche se, prima o poi, dovranno affrontare.
Luisa Morgantini ha elencato i valori e i risultati della lotta non violenta nei territori occupati soffermandosi, in particolare, sulla pochezza del messaggio di Ban ki-Moon che mantiene equidistanza tra i due contendenti mettendo sullo stesso piano oppressori ed oppressi. Un atteggiamento che evidenzia l'impossibilità per le Nazioni Unite di poter avere un ruolo decisivo nei processi di pace e nella realizzazione di due popoli in due stati.

Renato Sacco, coord.re naz. Pax Christi, incontra:

 

Ray Dolphin (rapp.te dell'ONU e dell'OCHS)

 

 

 

 

 

 

Nicolò Rinaldi (Parlamentare Europeo)

 

 

 

 

 

Luisa Morgantini (ex pres.te parlamento europeo)

 

 

 

Presentazione del progetto “1000 biglietti per Gaza” dall'associazione “InvictaPalestina”

InvictaPalestina  ha organizzato il primo concorso nazionale di Arte Contemporanea “I popoli che resistono”.  Le 40 opere, omaggiate dagli artisti, saranno poi estratte al termine della vendita dei biglietti.  L'obiettivo è quello di raccogliere  2.500 euro da destinare alla ricostruzione di Gaza.
 




FOCUS - LA POLITICA ISRAELIANA TRA OCCUPAZIONE E MASSACRO: LE PAROLE PER DIRLO

Gideon Levy: “Una cosa va detta subito e senza esitazione: quello che Israele, il mio Paese, vuole fare è accaparrarsi più terra possibile. E questa non è una questione complessa, come spesso si dice. E’ molto semplice: dal ’48 gli ebrei colonizzano la terra palestinese e le loro politiche non sono cambiate. E questo ha un nome: colonialismo. Oggi, poi, dobbiamo parlare chiaramente di un vero regime di apartheid. … Con il mio lavoro voglio documentare tutto, perchè un giorno, quando tutto sarà finito, gli israeliani non possano dire 'non sapevamo'. Sono nato e vissuto a Tel Aviv sentendomi una vittima e non certo un occupante e ho pensato questo fino agli anni '80, quando ho cominciato a lavorare per Haarez, che mi ha inviato nei Territori Occupati. Solo lì ho cominciato a vedere e a capire. Come chiamereste un regime in cui uno dei due popoli gode di tutti i diritti mentre l'altro non ha nulla? Io lo chiamo apartheid”.
Moni Ovadia invece affronta il problema che “in Europa siamo tenuti sotto ricatto violentissimo attraverso l'uso ideologico ideologico della Shoah, come critichi l'occupazione o le azioni del governo israeliano, immediatamente parte subito l'insulto o la maledizione. Moni risponde alle accuse di antisemitismo, di essere nemico del popolo ebraico, di ebreo che odia se stesso. Il tutto senza mai rispondere alle mie argomentazioni”

Grazia Careccia intervista:

GIDEON LEVY (giornalista israeliano)  

 

 

 

 

MONI OVADIA (attore e intellettuale)  

 

 

 

 

 

 

Le risposte di Ovadia e Levy alle domande del Pubblico 

 


 

 

 

FOCUS – UNA LUNGA STORIA DI RESISTENZA: COME E' CAMBIATA LA RESISTENZA PALESTINESE IN 12 ANNI DI MURO DI APARTHEID

Gli ultimi anni raccontati ed analizzati da un importante intellettuale arabo e rappresentate dell'OLP in Italia, Washim Dahmash  e da Mohammed Khatib coordinatore dei comitati per un opposizione non violenta al governo Israeliano nei territori occupati. Due punti di vista che pur partendo da due diversi modi di agire politico ed attivo,  giungono alla medesima conclusione:  liberare il popolo palestinese dall'oppressione israeliana.

Anna Clemente intervista:
Mohammed Khatib (cood.re comm.lotta popolare non violento palestinese)
Washim Dahmash (prof.re lingua e letteratura araba a Cagliari)



AUDIO DELL'INCONTRO  

 

 

 


WASHIM DAHMASH Legge le poesie di Darwish


 

 

 

Per altre informazioni o approfondimenti:
http://www.bocchescucite.org/giornata-onu-una-voce-nel-deserto-i-video-e-gli-interventi-di-lucca-2014/

https://www.youtube.com/channel/UCop3V1dXcqFYbhewDp0vEEA


 

FERMATO IL GENOCIDIO A GAZA

STOP AL MASSACRO


In tutta, TUTTA, la Palestina stasera si festeggia. Non si festeggia solo il cessate il fuoco, che sarebbe il minimo, dopo 51 giorni di particolare ferocia che solo chi è sporco di putrida malafede dalla testa ai piedi non riesce a chiamare col giusto nome di crimine di guerra.
Non si festeggia solo il cessate il fuoco ma si festeggia la vittoria.

GAZA ha pagato caro ma ce l'ha fatta. Non è finita, è solo il primo passo, ma è il primo passo significativo. Per la prima volta le divisioni interne sono state messe all'angolo e stasera TUTTI i palestinesi, di qualunque colore sia il loro stendardo, stanno festeggiando nelle strade, nelle piazze, perfino tra la polvere delle rovine prodotte dagli F16 che con accanimento disumano hanno tagliato la vita a circa 2200 persone.
C'è qualcosa che né Israele ne i suoi lerci alleati, compresi quelli di casa nostra, hanno saputo sconfiggere: la forza della dignità e insieme la straordinaria forza della vita che ha risposto per ogni bimbo ucciso con 10 bimbi nati per raccoglierne il testimone.

L'Unicef alcuni giorni fa comunicava che in un mese e mezzo Israele aveva fatto strage di 450 bambini (poi purtroppo saliti a circa 520) ma comunicava anche la nascita, nello stesso periodo, di 4.500 bambini vivi e belli, nonostante le condizioni terribili in cui avvenivano i parti.
Di molti dei bambini uccisi abbiamo le immagini delle loro risate, dei loro vestiti di festa o del loro compleanno, immagini solari che si sono decomposte sotto le bombe che hanno frantumato quei corpi. Se la legalità internazionale avesse fatto il suo corso, se Israele non fosse stato rifornito di armi, peraltro vietate come le "dime", quei bambini seguiterebbero a ridere e i 2.200 morti e i 10.800 mutilati e feriti non ci sarebbero stati.
Se ci sarà finalmente un banco degli imputati, Israele non dovrebbe sederci da solo, chi lo ha sostenuto ne dovrebbe condividere le responsabilità.
*
Intanto nelle strade si ride, si canta e si respira l'aria della vittoria. Ma mentre si festeggia è bene non dimenticare che molte carogne, anche di piccolo cabotaggio, oltre a quelle di maggiore autorevolezza, dopo aver esaurito il repertorio della "corruzione nell'Anp" si sono sbizzarrite su Hamas, spendendosi in fantasiose affinità con l'Isis al fine di impedire un sostegno unitario alla lotta che si è svolta a Gaza per la libertà e la dignità di tutto il popolo palestinese.
Seguendo il tormentone dettato ai media e recitato con maggiore o minore abilità da quasi tutti i nostri opinion maker, in una sorta di coazione a ripetere che ha contagiato anche molte persone oneste, abbiamo letto e sentito che la colpa dell'eccidio stava nei razzi lanciati da Hamas e dalla Jihad.

Abbiamo visto scambiare i ruoli tra vittime e carnefici e tra occupati e occupanti. Abbiamo sentito parlare di scudi umani senza mai una parola di condanna verso Israele che ignorando la loro eventuale (e mai dimostrata) funzione di scudi li ha regolarmente assassinati.

Abbiamo saputo che grazie a quella debolezza umana che a volte porta un disperato a farsi spia, alcuni capi di Hamas sono stati uccisi radendo al suolo le case in cui si trovavano e con chiunque vi si trovasse dentro. Non abbiamo mai sentito ipotizzare che se i capi dell'IOF fossero stati uccisi bombardando le loro case sarebbe stato l'equivalente di ciò che Israele stava regolarmente facendo a Gaza e "occasionalmente" anche in Cisgiordania. Hamas non aveva le armi per farlo, ma se le avesse avute avremmo di nuovo sentito dire dai nostri geni della comunicazione che uccidere un capo dell'IOF è un atto di terrorismo mentre uccidere un capo di Hamas è atto giusto e pertanto non punibile.

Abbiamo sentito i difensori di Hamas ripetere che Hamas spara solo dei razzetti più o meno innocui e abbiamo sentito i suoi accusatori dire che Hamas ha armi raffinate e pericolosissime. Proviamo a riflettere senza faziosità: se Hamas avesse avuto solo razzetti la situazione oggi sarebbe come nel gennaio 2009 dopo piombo fuso. Hamas non ha certo le armi di Israele, ma ha qualcosa di più che quattro razzetti innocui e, da chiunque li abbia avuti, li ha utilizzati per dire a Israele che Gaza non è più un agnello sacrificale che si può sgozzare senza rischiare neanche un graffio. Anche dal sud del Libano è arrivato un avvertimento a Israele, era l'equivalente armato delle manifestazioni pacifiche che si sono svolte nel mondo, diceva così: Gaza non è sola, ci siamo anche noi.

Abbiamo sentito dire che Israele doveva difendersi dai gazawi che scavavano i tunnel, ma, come per un'interruzione di corrente raziocinante, i nostri analisti dell'informazione non hanno mai ricordato mai che i tunnel sotterranei sono il portato dell'assedio illegale che rende Gaza un campo di concentramento.

Abbiamo sentito dire che i soldi arrivati alla dirigenza di Hamas finivano in lussuose ville mentre il popolo era alla fame. Ora, mentre una parte dei tunnel veniva distrutta dagli F16 israeliani, veniva detto che mentre il popolo era alla fame i dirigenti di Hamas facevano costruire i tunnel. Insomma non erano più le ville ma i tunnel gli affamatori del popolo gazawi e, ovviamente, non l'assedio. Per cui Israele, usciva regolarmente assolto.

Ma oggi la Palestina è in festa perché sa che attraverso tutti quegli uomini, quelle donne, quei bambini massacrati senza accettare di genuflettersi è stato detto al mondo VOGLIAMO LA LIBERTÀ perché è NOSTRO DIRITTO. Vogliamo che vengano rispettati i diritti umani perché, appunto, sono i nostri diritti.
*
Oggi godiamo con tutto il popolo palestinese questa vittoria costata tanto sangue, ma senza dimenticare che se Israele non finirà davanti alla Corte penale internazionale, si sentirà libero di ripetere le sue periodiche mattanze e il sacrificio di Gaza non sarà servito a molto.
Gaza oggi ha vinto e tutta la Palestina ha vinto, sprecare la vittoria sarebbe un altro crimine.

Da Facebook post di Patrizia Cecconi - 27 Agosto 2014 -


Gaza, tregua permanente annunciata alle ore 19 del 26 agosto, dopo 51 giorni di aggressione sionista, che ha causato 2200 morti e più di 11000 feriti, e distrutto quartieri interi comprese scuole chiese e moschee.  Ha vinto la resistenza del popolo palestinese a Gaza, una sconfitta della macchina da guerra israeliana. Hanno vinto l'unità delle forze della resistenza insieme alla eroica volontà popolare di sfida e fermezza.  L'unità della delegazione unitaria Olp, Hamas e Jhad islamica. Grazie a tutti quelli che hanno sostenuto e creduto nella capacità della fermezza del popolo palestinese e nella sua giusta lotta contro l'occupazione sionista della Palestina. Attendiamo ora l'attuazione dell'accordo, che prevede: la fine dell'aggressione israeliana, l'apertura dei valichi, la ricostruzione di Gaza, l'aumento a 6 miglia fino a 12 miglia, a fine anno, delle acque territoriali per la pesca, la cancellazione  della zona di sicurezza ai confine con Israele. Le altri questioni, aeroporto e porto,  saranno discusse entro un mese. La lotta del popolo palestinese continua: boicottaggio dei prodotti israeliani, lotta popolare contro il muro, la colonizzazione, l’occupazione ed ebraicizzazzione di Gerusalemme, la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi e per aumentare il livello delle istituzione internazionali per processare i criminali di guerra israeliani.

Da facebook post di Bassam Saleh
- 27 agosto 2014 -

 


GAZA SOTTO LE BOMBE

L'offensiva di terra, i bombardamenti e l'uccisione della popolazione civile. Donne e bambini di Gaza “avvisati” dall'esercito israeliano cinque minuti prima di essere uccisi. Le descrizioni, i racconti e le riflessioni durante e dopo la distruzione dei tunnel di Hammas e delle scuole per l'infanzia volute dai volontari italiani. Le immagini della disperazione e di quelli uccisi dai bombardamenti israeliani nonostante accolti nei rifugi messi a disposizione dall'ONU.

Altri servizi:

UNA COOPERANTE IN PRIMA LINEA - di Meri Calvelli

TUTTA COLPA DI HAMMAS  - di Gideon Levy

L'INCUBO DI GAZA - di Noam Chomsky

IL GOVERNO ISRAELIANO HA PERMESSO L'ASCESA DI HAMMAS - di Isaan Tharoor/The Washington Post

LETTERA ALLA FAMIGLIA DELLA MILLESIMA VITTIMA - di Ilan Pappè

ONG ITALIANE : MASSACRO SILENTE 

LA LETTERA  SUL MASSACRO DI GAZA - di Javier Bardem

GAZA, I PIU' COLPITI SONO I BAMBINI - di Marco Cesario

GLI ERRORI DELLA LEADERSHIP DI ABBAS - di Amira Hass

ISRAELE NON VUOLE LA PACE - di Gideon Levy 

LA VOCE DI UN MEDICO SOTTO LE BOMBE DI GAZA 

UNA DISCUSSIONE MANCATA IN CONSIGLIO COMUNALE DI MODENA (03/07/14)


INTERVISTA DA GAZA A MICHELE GIORGIO
10 luglio 2014 - ore 11.20 – Radio Città Aperta

Il volto della Guerra e le opinioni dalla voce del Giornalista de Il Manifesto presente a Gaza e intervistato dai giornalisti di Radio Città Aperta.

  

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DIRETTA DA GAZA SU ATTACCO ISRAELIANO (Nenanews)


ISRAELE E CURDI IRACHENI:
UN CONNUBIO ALL’INSEGNA DEL PETROLIO
(E DELLA TRADIZIONE DI ABRAMO)

di  Marco Cesario


Mentre l'Iraq si sfalda, lo Stato Islamico (ex ISIL) proclama il ritorno del califfato ed Abu Bakr Al-Baghdadi s'autoproclama califfo del neonato stato e Wali (leader) di tutti i musulmani, i rapporti economici tra Israele e i Curdi d'Iraq rifioriscono, segno di una fin troppo discreta (e segreta) amicizia che rivede la luce proprio in queste ultime convulse settimane in cui il Medio Oriente sta letteralmente esplodendo e gli equilibri stanno cambiando velocemente.

 Nel deserto lasciato dalla ritirata dell'esercito iracheno (che ha abbandonato tank, blindati e jeep ai jihadisti che avanzavano senza incontrare resistenza), i Curdi, grazie all'efficiente apparato dei combattenti, i Peshmerga (letteralmente "coloro che affrontano la morte") hanno consolidato la propria autonomia regionale riuscendo con un'operazione scaltra e rapida a evitare, nella débacle dell'esercito iracheno, di perdere il controllo di un centro nevralgico d'importanza fondamentale come la città di Kirkuk, uno dei maggiori centri d'estrazione petrolifera d'Iraq ma anche capitale storica per i Curdi, al centro di frizioni tra Bagdad ed Erbil.

Israele dal canto suo, sin dall'inizio dell'offensiva dell'ISIL, ha seguito con crescente timore il formarsi di un califfato islamico in Medio Oriente. La sua stessa esistenza è minacciata. Nella dizione "al-Shams" ovvero "la Grande Siria" è incluso tutto il Levante dunque anche Israele. E c'è un altro fronte oltre la Siria e l'Iraq: la Giordania, anch'essa minacciata dall'avanzata delle truppe jihadiste. Non è un caso che il re hashemita Abdallah di Giordania, temendo uno sforamento delle truppe dello Stato Islamico in territorio giordano, abbia dispiegato l'esercito lungo i confini con l'Iraq.

Governo Regionale Curdo: verso la creazione di uno stato consolidato?

In questo contesto d'instabilità i Curdi stanno legittimando il proprio ruolo nella regione, forti di un'autonomia amministrativa e desiderosi di ottenere, sul lungo periodo, una vera e propria indipendenza politica. Per proteggere il proprio territorio i Curdi dispongono di un esercito composto da oltre 350 mila combattenti.

La regione autonoma curda, oltre a disporre di un forte esercito, controlla direttamente il valico di frontiera con la Turchia tanto che gli stessi cittadini iracheni non curdi non sono autorizzati ad entrare nella regione se non sono 'invitati' (da sponsor curdi).

Sui palazzi governativi è issata e sventola non la bandiera irachena ma quella curda, si parla e s'insegna il curdo (e la lingua araba s'eclissa). Insomma se il consolidamento del Governo Regionale Curdo (Hikûmetî Herêmî Kurdistan) è un dato di fatto, le recenti mosse del leader curdo Barzani, di fronte al precipitarsi degli eventi in Iraq, ha accelerato questo processo: in primo luogo la decisione di vendere petrolio in maniera indipendente dal governo di Baghdad (attraverso un oleodotto in Turchia) ma anche il controllo strategico della città di Kirkuk ed infine il referendum per l'indipendenza (che però è questione molto più complicata).

Le dichiarazioni del ministro degli esteri israeliano Lieberman e dello stesso premier israeliano Benjamin Netanyahu ("Il popolo del Kurdistan, moderato e affidabile, merita l'indipendenza politica") vanno in questo senso.
Israele, di fronte al collasso dell'Iraq e alla minaccia di uno stato sunnita nemico, vedrebbe di buon occhio la creazione di uno stato indipendente curdo nella regione. La chiave di questa posizione è il petrolio che Israele può acquistare direttamente dal Kurdistan il quale può trasformarsi in un insperato alleato nella regione.

Petrolio curdo in Israele

Cruciale per il governo regionale curdo è infatti vendere il proprio petrolio, bypassando l'autorità centrale del governo d'Iraq, attraverso un oleodotto indipendente. In quest'ottica è stata lanciata la nuova rotta d'esportazione verso il porto turco di Ceyhan, nella Turchia meridionale, che ha ampliato in maniera esponenziale l'export di petrolio curdo.
La vendita diretta del petrolio curdo a terzi ha provocato attriti enormi con Bagdad che sostiene che quel petrolio invece appartiene all'Iraq e deve essere venduto solo attraverso il Ministero del Petrolio di Bagdad. Dal canto loro i Curdi portestano contro Bagdad quando quest'ultimo vende petrolio a terzi senza che il Governo Regionale Curdo benefici dei dividendi della vendita.

I giacimenti curdi producono attualmente circa 120.000 barili al giorno, ma nel tempo la produzione potrebbe raggiungere i 300.000 barili. Insomma una manna dal cielo per Israele, in questi giorni impegnato nella più violenta operazione militare contro Gaza e Hamas sin dai tempi di Piombo Fuso.

Un esempio lampante di quello che potrebbe consolidarsi come pratica nel tempo è ciò che è avvenuto alcune settimane fa: un carico di petrolio curdo che ha navigato per settimane nel Mediterraneo nelle cisterne della petroliera Altai (battente bandiera liberiana) ha finito per attraccare nel porto di Ashkelon (Israele) dove sono stati scaricati milione di barili di petrolio prodotti nelle regioni curde dell'Iraq settentrionale. Dato che per anni i Curdi hanno cercato invano di raggiungere un accordo con il governo centrale sulle quote e la condivisione dei ricavi, in mancanza di un accordo, il governo regionale curdo si ritiene autorizzato a vendere il petrolio a qualsiasi acquirente, anche ad Israele, il vecchio e discreto alleato, il quale accetta di buon grado il petrolio curdo.

Curdi iracheni ed Israele: un'amicizia discreta nel nome di Abramo

I legami storici tra Israele e Curdi, mai ufficializzati ma sempre presenti, risalgono agli anni '60 quando cioè agenti dei servizi segreti israeliani erano dislocati in territorio curdo iracheno per aiutare le autorità locali. La cooperazione si è intensificata con la caduta di Saddam Hussein e soprattutto grazie alle imprese israeliane che negli anni hanno penetrato il mercato curdo iracheno ed anche in ambito militare i peshmerga curdi hanno ricevuto adeguato addestrmento anche da parte di unità d'élite di commando israeliani.

C'è poi la tradizione secondo la quale gli Ebrei ed i Curdi avrebbero un antenato comune: il patriarca della Bibbia Abramo. E' un'antica credenza dei Curdi d'Iraq infatti quella che Abramo fosse d'origine curda.
Una tradizione vuole infatti che Abramo nacque ad Edessa (Urfa), nell'attuale Turchia, a soli 40 km dall'attuale frontiera siriana mentre tutta la sua famiglia proverrebbe da Carre (l'attuale Harran, sita nel Kurdistan turco).
Il padre di Abramo, Terah, secondo la Bibbia, lasciò Ur per sistemarsi e morire proprio ad Harran. Esistono poi parallelismi tra Israele e il Kurdistan, entrambe nazioni non arabe 'accerchiate' da nemici che s'oppongono alla loro esistenza e indipendenza.

I Curdi d'Iraq guardano inoltre ad Israele come esempio di uno stato indipendente fondato su un potente esercito in grado di fronteggiare e sconfiggere più nemici (vedi Guerra dei Sei giorni). Dal lato israeliano uno stato curdo nella regione potrebbe diventare, per ragioni economiche, politiche e strategiche, un alleato prezioso, forse il più prezioso, per il proprio futuro.

11 Luglio 2014 su www.eastonline.eu


OMICIDI IN PALESTINA
A MODENA IN CONSIGLIO COMUNALE UNA DISCUSSIONE MANCATA

di Mirca Garuti


Ancora una volta a Modena, in Consiglio comunale, la questione del conflitto Israelo-Palestinese è stata affrontata in modo superficiale e priva d’approfondimento. E’ sufficiente leggere l’Ordine del giorno, approvato il 3 luglio scorso, relativo agli ultimi avvenimenti che stanno sconvolgendo la terra di Palestina.
Si condanna l’assassinio dei quattro ragazzi senza prendere in considerazione che questo è solo la conseguenza dell’occupazione della Palestina da parte d’Israele e della cultura dell’odio alimentata dalla continua espansione delle colonie, insediamenti illegali, e dei continui soprusi perpetrati ai danni del popolo palestinese.
Troppo comodo commemorare quattro morti in Palestina ed esprimere anche l’incoraggiamento “a non smettere di perseguire la strada della ricerca della pace in Medio-oriente”. Il capogruppo del PD Paolo Trande e i consiglieri Federica Di Padova e Marco Forghieri, dovrebbero documentarsi e non usare strumentalmente fatti di cronaca per conquistarsi il ben volere dei cittadini. Sono state omesse, per esempio, le aggressioni da parte di alcuni estremisti della comunità ebraica di Roma nei confronti di manifestanti filo palestinesi, come non sono stati condannati gli spari contro la sede dell’Ambasciata Palestinese a Roma.
Si condanna, quando non si può fare altrimenti, ma il silenzio della comunità internazionale è evidente, come ha dichiarato Don Nandino Capovilla di Pax Christi, “…non stiamo parlando di uno scontro tra due eserciti, non stiamo parlando di un campo di battaglia. Il Patriarca attuale è stato chiarissimo in questi giorni - “Basta con questa logica di vendetta” - ma da parte della comunità internazionale, è necessaria una ripresa della chiarificazione, perché senza un congelamento immediato della colonizzazione, senza un ripristino dei diritti per tutti, nella stessa terra, l’incubo si avvolge solamente in una spirale, che può solo portare ad un peggioramento della situazione”.
L’informazione deve essere corretta e quell’Ordine del Giorno non lo è. Si cita “cordoglio e ferma condanna per i quattro giovani “barbaramente assassinati”. In verità, in merito alla morte dei tre giovani coloni israeliani, non c’è assolutamente chiarezza: gli esiti delle autopsie non sono stati rivelati, non si sa da chi siano stati rapiti, nessuno ha rivendicato questo atto politico. Chi aveva interesse a “rapire” questi tre coloni, in un momento in cui le forze politiche palestinesi avevano trovato un’unità nazionale e nuove elezioni?
Nel testo si definisce “arabo” il quarto giovane barbaramente assassinato, forse il nuovo Consiglio comunale ha paura di usare la parola “Palestinese” perché tale termine si parifica a quello di “terrorista”?
Mohamed Abu Khedir è un ragazzo palestinese del campo profughi di Shuaffat.
La commemorazione delle morti non centra nulla con le parole del Ministro degli esteri italiano, condivise dal Consiglio Comunale di Modena, che fa appello “affinché tutte le parti mostrino che chi attenta alla sicurezza di Israele non potrà prevalere minando la via del dialogo, unica speranza di pace vera e duratura nella regione”.  Ma, esprime così solo una posizione politica evidente nei confronti d’Israele giustificando ogni sua azione. Nulla è stato espresso nei confronti d’Israele, come invece ha fatto Amnesty International, rispetto all’escalation di violenza esercitata sulla popolazione civile nei territori occupati. Rastrellamenti, raid notturni, perquisizioni, blocchi stradali, completa chiusura di molte città, bombardamento sulla striscia di Gaza. Invasioni e assalti a campi profughi, ad oltre 1000 case, università e ad ambulatori medici. Sequestrati illegalmente più di 500 cittadini palestinesi, tra cui molti minorenni..
Solo attraverso la richiesta dell’applicazione delle numerosissime risoluzioni ONU, mai rispettate da Israele, gli Entri locali e le comunità internazionali possono dare un vero contributo ai processi di pace tra Palestinesi ed Israeliani.

07/07/2014

Comunicato Stampa del  Documento dell'O.D.G Consiglio comunale Modena


PALESTINA:  TERRA DI VIOLENZA UMANA
di Mirca Garuti


Ascoltare in queste ore i vari servizi che passano per la televisione, da quella nazionale a Rainews o Euronews, è veramente penoso! Nessuno deve gioire per la morte che coinvolge  altri esseri umani, questo è vero, ma, le morti di questi tre coloni ebrei israeliani, si collocano in un contesto molto particolare. Guardare il volto di Benjamin Netanyahu che chiede “vendetta”, che si rivolge ad Hamas, ritenuto l’unico responsabile di queste uccisioni, definendoli “bestie”, ma, nessuno, proprio nessuno, si è fatto la domanda del perché? Il  mondo guarda Israele, piange i tre ragazzi uccisi, ma chi piange tutte le vittime che ha fatto Israele dal 1947 ad oggi? Non ci troviamo di fronte ad una nazione “normale” che vive in pace con il suo popolo, ma si tratta di uno Stato che  occupa un altro Stato da ben 66 anni. Uno Stato, vittima di un massacro, che continua, a sua volta, ad uccidere, a ferire, a deportare e ad arrestare innocenti. Uno Stato che continua a non rispettare tutte le Risoluzioni emesse dall’ONU, che usa la Detenzione Amministrativa a suo gradimento, che non rispetta i diritti dei minori, che toglie l’energia e l’acqua agli abitanti di queste terre. Uno Stato che è in guerra da sempre, perché vuole piena autonomia su tutta la Palestina. Uno Stato che in nome della sua “sicurezza” è riuscito ad avere l’appoggio di quasi tutto il mondo e negare al popolo palestinese il diritto all’autodeterminazione nel proprio paese. Cosa dovevano fare i palestinesi dal 1947 ad oggi? Per Israele solo andarsene, è ovvio, andare a chiedere ospitalità negli altri stati arabi e zitti e muti. Ma le cose non sono andate così. I Palestinesi si sono difesi, hanno combattuto, ma specialmente, hanno resistito e resistono ancora in attesa che il mondo non abbia più paura di ammettere che lo Stato d’Israele è uno stato sionista, fascista e razzista. Non è necessario elencare qui tutte le operazioni militari e massacri ideati dal governo d’Israele contro il popolo palestinese sia nella sua terra e sia in altri stati, come il Libano, perché niente è stato casuale, tutto era programmato dall’inizio di questa storia. L’obiettivo era terrorizzare la popolazione e creare una destabilizzazione permanente tra i vari stati arabi al fine di diventare la maggior potenza in Medio Oriente.

Dal 12 giugno scorso, giorno della scomparsa dei tre coloni, Gilad Shaer (16 anni), Naftali Frenkel (16 anni) e Eyal Ifrach (19 anni) nei pressi dell’insediamento di Allon Shvut, nell’area colonica di Etzion tra Betlemme ed Hebron, l’esercito d’occupazione israeliano ha sferrato una violenta offensiva militare contro i palestinesi. Invasioni ed assalti in varie città e campi profughi: i soldati entrano nelle case, staccano la luce, sfondano le porte e, con la scusa di cercare prove del rapimento, procedono a saccheggi e devastazioni. Più di 1000 case hanno subito questa sorte, come è successo anche alle scuole, università ed ambulatori medici. Sono stati sequestrati più di 500 cittadini palestinesi e 8 sono stati uccisi.
Chi ha ucciso i tre coloni ha minato la causa palestinese proprio nel momento in cui si era formato un nuovo governo d’unità nazionale, quindi, a chi giova tutto questo? Questa voglia di vendetta non giustifica queste rappresaglie, punire un’intero popolo per un crimine commesso da pochi responsabili, forse… ancora non si sa la verità!

La vendetta è già iniziata, sia in Israele e sia in Italia.

Mohamed Hussein Abu Khdeir, 17 anni, palestinese che viveva nel campo profughi di Shuafat è stato trovato in un bosco a Gerusalemme Est, completamente bruciato. Il giovane, questa mattina, è stato bloccato e costretto a salire su un auto nera da un gruppo di coloni estremisti, mentre stava per entrare in moschea per pregare. Il suo corpo è stato trovato un’ora dopo in un’altra zona della città.
Nel centro di Gerusalemme coloni impazziti continuano a gridare “Morte agli arabi”. Ma…. qualcuno ha detto loro che stanno occupando una terra che appartiene ad altri? Come si comportano i coloni nei confronti della popolazione autoctona? Si sono chiesti a chi giova la morte dei tre ragazzi?
A Roma, in Piazza Venezia, ieri, squadristi sionisti hanno aggredito e picchiato violentemente un giovane solo perché aveva al collo una kefiah. In serata altri sei giovani sono stati brutalmente assaliti e  feriti.
Lunedì  30 giugno, sui muri esterni dell’Ambasciata palestinese a Roma sono apparse scritte ingiuriose, mentre, il giorno dopo verso le 20,30 da una macchina in corsa sono stati esplosi alcuni colpi di arma da fuoco contro la sede diplomatica.

Gli insediamenti illegali delle colonie non si fermano. Presto, infatti, sarà costruita nell’area dove sono stati ritrovati i corpi dei tre coloni, una nuova colonia israeliana, dal nome Maalot Halhul,

Quanti ancora dovranno morire per “pareggiare” i conti?

La causa di tutta questa situazione rimane sempre e solo una: l’Occupazione della terra di Palestina.


02/07/2014


PALESTINA:IL NUOVO GOVERNO NAZIONALE TRA ASPETTATIVE E OCCUPAZIONE ISRAELIANA

Ascolta l’intervista con la saggista e analista di questioni mediorientali Cinzia Nachira

Ha giurato il 2 giugno il nuovo esecutivo di unità nazionale palestinese, presieduto da Rami Hamdallah. Il governo di tutto il popolo palestinese, è stato definito, poiché nasce dopo la riconciliazione fra Hamas, che dal 2007 governa la Striscia di Gaza, e al-Fatah, il movimento palestinese più moderato che controlla la Cisgiordania.
Ha il compito di portare Cisgiordania e Gaza alle elezioni entro l’anno. Ma i parlamentari sono costretti a tenere le riunioni in videoconferenza, viste le restrizioni imposte dall’occupazione di Israele che tiene sotto assedio la Striscia di Gaza e frantuma la Cisgiordania a causa delle colonie e dei check points.
Intanto la lotta dei prigionieri politici palestinesi si fa sempre più dura: a decine sono ricoverati in ospedale dopo oltre un mese di sciopero della fame, Tel Aviv pensa a una legge per alimentarli contro la loro volontà anche se l’associazione dei medici israeliani si dice contraria parlando di “metodo di tortura”.

 

 

Dal sito Radio Onda D’Urto
04/06/2014


L'OCCUPAZIONE, LA SOCIETA' ISRAELIANA E I MEDIA
Intervista con Gideon Levy

di Marco Cesario

 
"Il nodo del conflitto israelo-palestinese sono le colonie a cui i governi di Tel Aviv non vogliono rinunciare. Ma finché non lo faranno, non ci sarà pace in Medio Oriente".


 Tel Aviv -  La sede del quotidiano israeliano Haaretz si trova al termine di una lunga strada alberata e dagli appezzamenti di verde estremamente curati. Il verde dei giardini, di un colore così vivace stride con l'architettura circostante, fatta di palazzi fatiscenti, mostri di cemento sventrati e anneriti dallo smog, complessi edilizi semi-abbandonati della peggiore architettura degli anni '60 e '70. All’improvviso, in mezzo ad un nugolo di case costruite quasi senza senno, spunta un elegante edificio Bauhaus o una villetta curata di due o tre piani circondata da maestosi alberi, fiori e giardini. E' qui che incontro Gideon Levy.


L'accordo Hamas-OLP sarebbe un'ottima notizia se funzionasse” dice a Pagina99 Gideon Levy, Vincitore dell'Emil Grunzweig Human Rights Award nel 1996, del premio della Fondazione Anna Lindh (2008) per un articolo sull'uccisione di Palestinesi da parte dell'esercito israeliano e del Peace Through Media Award nel 2012. Levy tiene una rubrica su Haaretz dal titolo “Twilight Zone” in cui fa resoconti dettagliati sulle attività dell'esercito israeliano nei territori occupati. E' una delle voci critiche più autorevoli d'Israele.


Il 29 Aprile scorso è scaduto il termine dei 9 mesi decisi nello scorso luglio a Washington, sotto la spinta del presidente Obama e di John Kerry, per trovare un accordo di pace tra israeliani e palestinesi. Un nuovo fallimento?


In realtà non si tratta di 9 mesi ma di 45 anni. Il vero processo di pace è infatti iniziato agli inizi degli anni '70. Ogni volta si tratta sempre sullo stesso tema. E ogni volta non si riesce a trovare un accordo. Non credo si possa realmente giungere a un accordo tra le parti. E la ragione è semplice: fin quando Israele non deciderà di mettere fine all'occupazione non si potrà mai raggiungere alcun accordo. E' chiaro come il sole. Il problema è che Israele non ha intenzione di rinunciare ai territori occupati. E' questo è il nodo del problema, il centro della discordia. Tutto il resto è di minor entità. Non credo che il governo di Netanyahu voglia rinunciare ai territori e non credo che alcun altro governo dello stato d'Israele voglia, con sincerità ed onestà, assumersi questa responsabilità.
 
Il negoziatore capo palestinese Saeb Erekat ha addossato la colpa del fallimento al premier Netanyahu mentre per quest'ultimo la trattativa è finita anche di fronte al fatto che l'Anp non voglia riconoscere Israele come "Stato ebraico". Ora s'aggiunge l'accordo di unità nazionale tra OLP e Hamas, quest'ultima definita da Israele, Usa e Ue un'organizzazione terroristica.


In primo luogo non sono sicuro che quest'accordo funzionerà perché già in passato ne sono stati siglati diversi, poi saltati. Credo che questo essere divisi sia il principale problema ed il più grande errore dei palestinesi. Dividendosi fanno il gioco del governo israeliano che cerca in ogni modo di dividerli. I palestinesi del '48 da quelli del '67, gli abitanti di Gerusalemme da quelli della Cisgiordania, di dividere i cittadini della Cisgiordania da quelli di Gaza, di dividere i palestinesi della diaspora da quelli residenti in Palestina ed infine di dividere Hamas dall'OLP. Ovviamente tutto ciò non è solo responsabilità degli israeliani. Io spero che questa volta l'accordo non fallisca e che i palestinesi trovino davvero un'unità. Ma resto molto scettico. Se funzionasse questa sarebbe un'ottima notizia per chiunque voglia la pace perché infine si avrebbe un solo interlocutore palestinese. Mi sembra chiaro che se Hamas s'allea con l'OLP vuol dire che accetta, direttamente o indirettamente, di trattare con Israele.
 
L'ANP ha annunciato l'adesione a 15 trattati internazionali e ha manifestato l'intenzione di aderire ad altri 60.


L'adesione a questi trattati è perfettamente legittima, l'autorità palestinese ha pieno diritto. Israele costruisce colonie senza sosta e ciò non costituisce un problema. E quando l'ANP s'appella alla comunità internazionale – il che che costituisce non solo un suo diritto ma anche un suo dovere - Israele dice che si tratta di una “decisione unilaterale”. Per me questo è totalmente inaccettabile. L'ANP ha pieno diritto ad aderire ai trattati internazionali.
 
Come vede il ruolo d'Israele nel Mediterraneo?


Israele risiede in una zona geografica in cui la maggior parte dei paesi non ne accetta l'esistenza. Ma non bisogna dimenticare che Israele fa di tutto per non essere accettato. Israele ha infatti un'unica ispirazione: quella di essere un paese europeo, americano, occidentale, un paese che nonostante la sua posizione geografica, volta completamente le spalle al mondo arabo-musulmano. Israele non solo intrattiene pessimi rapporti con i propri vicini ma cerca di evitare qualunque contatto con la cultura e la lingua araba, la sua musica, la sua storia. La cultura araba è praticamente un tabù in Israele. Mentre io credo sinceramente che invece di voltare le spalle al mondo arabo, Israele dovrebbe rivolgere il suo sguardo verso di esso perché ciò avrebbe anche conseguenze politiche importanti. Un esempio è la Turchia. L'unico paese nel Medio Oriente che accetta l'esistenza d'Israele (e con il quale i rapporti commerciali e turistici sono più che floridi), un rapporto rovinato in seguito alla questione della Freedom Flotilla. Mi chiedo: era davvero necessario che il governo israeliano agisse in quella maniera?
 
In quanto giornalista critico del governo lei è molto esposto. Come vede il ruolo dei media critici nella società israeliana?


I media in Israele hanno molta influenza. La maggior parte dei media collaborano attivamente alla filosofia dell'occupazione territoriale. Molte volte penso che senza i media israeliani l'occupazione non sarebbe durata tanto. I media collaborano attivamente con questo stato di cose negando l'occupazione, nascondendola, disumanizzando e demonizzando i palestinesi. Io rappresento un'esigua minoranza come commentatore all'interno dell'opinione pubblica israeliana. Devo dire che il mio giornale, Haaretz, rappresenta una specie di isola in Israele in quanto a libertà ed indipendenza dell'informazione. Ma non so quantificare l'impatto dell'informazione che io ed il giornale su cui scrivo abbiamo sull'opinione pubblica. Posso solo dire con certezza che Israele senza Haaretz sarebbe un posto molto peggiore in cui vivere.
 
Dal Sito "Pagina 99"
31/05/2014

Reportage di Marco Cesario a Gerusalemme:


http://www.eastonline.eu/it/opinioni/open-doors/gerusalemme-la-citta-della-discordia


http://ita.babelmed.net/cultura-e-societa/103-israele/13421-vita-quotidiana-a-gerusalemme-est-sgomberi-demolizioni-e-discriminazioni.html

 

APPELLO DI GIDEON LEVY AL BOICOTTAGGIO DI ISRAELE


RICORDANDO LA NAKBA
1948-2014

di Mirca Garuti

 


Il 16 maggio a Modena, abbiamo voluto ricordare i 66 anni della Nakba Palestinese.
La Catastrofe. L’espulsione del popolo palestinese, dalla sua terra, dalle sue case, dai suoi villaggi. Espulsione eseguita dall’esercito israeliano per cercare di raggiungere l’obiettivo del movimento politico europeo, chiamato sionismo, che puntava alla colonizzazione della Palestina. Il conflitto israele-palestinese è un conflitto politico tra un movimento coloniale ed un movimento di liberazione nazionale, non è un conflitto religioso. Israele è l’occupante di una terra che non gli appartiene.

La Nakba è stata ricordata anche in tantissime altre città italiane, come Roma-Firenze-Bologna-Milano-Monza-Cagliari-Salerno, con tante iniziative diverse, ma tutte, con un unico scopo: quello di RICORDARE E NON DIMENTICARE.

Ci sono alcuni momenti storici molto significativi da dover ricordare per capire quello che è successo.

Dichiarazione Balfour, 2 novembre 1917 - Il ministro degli esteri Lord Balfour trasmette una lettera per conto del governo inglese al vice presidente dell’organizzazione sionista: "Caro Lord Rothschild, sono lieto di trasmetterle, a nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni ebraico-sioniste, esaminata e approvata dal gabinetto. Il governo di Sua Maestà vede con favore la creazione in Palestina di una “sede nazionale” per il popolo ebraico e intende fare tutti i suoi sforzi per favorire la realizzazione di questo obiettivo, essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, o i diritti e lo status politico goduti dagli ebrei in ogni altro paese”
In quel momento il popolo ebraico era composto di 50.000 immigrati, mentre le comunità non ebraiche erano 750.000.
In questa dichiarazione i palestinesi, diventano i “non ebrei”. I palestinesi così “non esistono”, questa è la politica sionista. Da una parte, quindi, la popolazione palestinese (araba musulmana e cristiana) che non intende farsi spogliare dei suoi diritti, e dall’altra un gruppo di ebrei sionisti che, contro anche il parere della maggioranza degli ebrei del mondo, vuole impadronirsi della Palestina per creare uno Stato ebraico, dal quale sarebbe rimasto escluso, per definizione, chi non fosse stato ebreo.

Il 29/11/1947, l’Assemblea Generale dell’ONU con la Risoluzione 181, raccomanda la spartizione della Palestina in due stati: uno, arabo-palestinese e l’altro ebraico ed una zona internazionale di Gerusalemme sotto la giurisdizione dell’Onu. La parte araba con 1.250.000 arabi-palestinesi occuperà solo il 42,88% del territorio, mentre quella ebraica con 600.000 ebrei il 56,47%. Già da questi numeri si capisce dove si vuole arrivare.

Gli ebrei erano considerati gli “immigrati europei”. Molti di questi immigrati, giunti negli anni ’30, erano tedeschi in fuga dal nazismo e, quasi tutti, erano istruiti, colti, appartenevano ad una alta classe borghese.

Il 15 maggio 1948, decaduto il Mandato britannico sulla Palestina, le forze sioniste guidate da Ben Gurion autoproclamarono la costituzione dello Stato d’Israele ed iniziò l’espulsione senza tregua della popolazione palestinese. Le milizie delle organizzazioni terroristiche sioniste ebraiche, l’Haganà, l’Irgun, la Banda Stern, assalirono città e villaggi palestinesi, massacrando gli abitanti, distruggendo le abitazioni, costringendoli alla fuga incalzandoli verso i confini degli stati limitrofi.

Una leggenda sionista di questo periodo, sostiene che, in realtà, si è trattato di un “esodo spontaneo” dei palestinesi. E’ vero solo nel senso che, quando abbandonarono le loro abitazioni, specie negli anni 1947-48, lo hanno fatto solo perché sollecitati in modo molto pesante e con la promessa di un ritorno, da parte dalle autorità britanniche, o ingannati, negli anni successivi, dalle promesse di un esercito della salvezza giordano.

La Nakba fu una catastrofe di massa.

A seguito della Nakba, le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 194 che sanciva il Diritto al Ritorno dei profughi palestinesi ai luoghi d’origine, e/o il risarcimento dei danni materiali e fisici subiti. Diritto che poi fu riconfermato nelle successive Risoluzioni n. 242 – 237 del 1967 e 338 del 1973.

Con la Nakba si ebbe l’espulsione di 815.000 palestinesi su un totale di 1.400.000
Si può parlare di “Pulizia etnica della Palestina”, in quanto le vittime sono persone che sono fuggite per paura.
I palestinesi del ’48 furono le vittime di una politica sistematica di espulsione in massa, attuata dalle forze ebraiche con la violenza, con il terrorismo e massacri contro civili.
L’idea della pulizia etnica è presente nell’ideologia dominante del movimento coloniale sionista fin dalle sue origini.
L’obiettivo dei sionisti era: il massimo di terra con il minimo possibile di arabi. Senza l’espulsione di 800.000 palestinesi, lo Stato ebraico non si sarebbe potuto creare.

L’occupazione della Palestina è stata paragonata ad uno stupro, da una giornalista israeliana, corrispondente del quotidiano Ha’aretz, Amira Hass.

Il diritto al ritorno è un diritto nazionale e inalienabile.
Il diritto al ritorno dei Rifugiati palestinesi è il nucleo della causa palestinese.
Israele nega il diritto al ritorno alle case d'origine per 7,4 milioni di rifugiati palestinesi e persone sfollate. Nel frattempo, Israele si adopera per il reinsediamento dei rifugiati palestinesi in esilio e la sua leadership sempre più chiede il riconoscimento internazionale dello Stato di Israele, come stato ebraico esclusivo.
I palestinesi vivono sotto controllo militare in Cisgiordania, sotto assedio nella Striscia di Gaza, sotto discriminazione istituzionale all'interno di Gerusalemme ed in condizioni strazianti in esilio.
I palestinesi, che in passato avevano trovato rifugio in Siria, stanno vivendo una seconda catastrofe. Stanno subendo la guerra e la distruzione della loro vita a Yarmouk, Nierab, Sit Sainab, Khan Al Shiekh, Dar'a ed altri luoghi in tutta la Siria, dove risiedevano i rifugiati palestinesi. I palestinesi, sfollati per la seconda volta in paesi come il Libano, Giordania, Turchia ed Egitto, sono costretti ad affrontare ulteriori umiliazioni e condizioni insopportabili che portano a tentare una
fuga, via mare, come atto disperato ed estremo. Fuga che spesso finisce con la morte di centinaia di profughi palestinesi senza nessun riconoscimento pubblico.
Il 66 per cento del popolo palestinese è rifugiato in altri paesi o sfollato all’interno del suo stesso paese.  Il diritto al ritorno è dunque una condizione necessaria per raggiungere l'autodeterminazione del popolo palestinese frammentato ed esiliato.
Il Diritto internazionale conferisce ai rifugiati palestinesi il diritto al ritorno volontario alle loro case, al restauro delle loro proprietà e al risarcimento. Questo diritto inalienabile non può essere oggetto di negoziazione o baratto.
La Risoluzione delle Nazioni Unite 181 (1947 ) che ha determinato la divisione della Palestina in due stati, ha portato allo spostamento tra 750.000 e 900.000 palestinesi. La Comunità internazionale ha definito la sua responsabilità per la protezione e l'assistenza umanitaria ed ha sancito il diritto al ritorno nelle case d’origine di tutti i rifugiati e profughi palestinesi, con le Risoluzione dell'Assemblea Generale 194 (1948) e la Risoluzione del Consiglio, 237 (1967).
 
La repressione militare dell’esercito israeliano d’occupazione, continua. L’ininterrotta espropriazione di terre palestinesi, la costruzione del muro dell’apartheid, l’edificazione delle colonie ebraiche, l’ebraicizzazione di Gerusalemme Est, le infinite azioni di punizione collettiva con le quali si martirizza la popolazione civile palestinese, hanno tutte lo scopo dichiarato di continuare la pulizia etnica dei Territori Occupati. Tutto questo, naturalmente, avviene con il silenzio dei governi europei che preferiscono firmare accordi di cooperazione nel campo militare e della ricerca con Israele, stabilendo rapporti privilegiati economici e culturali, piuttosto che denunciare ed impedire la morte, la violenza, i soprusi, la strage del popolo palestinese.


Contributi:

link per vedere le foto della giornata del 16 maggio a Modena: https://www.flickr.com/photos/48807279@N03/sets/

video : http://bambuser.com/v/4622417

racconti:  Ayn Al-Zaytun  

       Deir Yassin - 9 aprile 1948

                  El Ramle


Quinta edizione Premio Stefano Chiarini 2014

“PALESTINA: IL DIRITTO AL RITORNO”
Modena, sabato 8 febbraio 2014 ore 15.30
presso LA TENDA, Viale Molza angolo Viale Monte Kosica

Il Premio Chiarini, dedicato alla figura del giornalista del Manifesto Stefano Chiarini, sarà attribuito al gruppo Modena City Ramblers per il loro impegno per la diffusione, attraverso la loro presenza e musica, della questione palestinese. Verrà consegnato anche un riconoscimento al Dr. Angelo Stefanini docente all’Università di Bologna presso il Dip.to di Scienze Mediche e Chirurgiche e Direttore scientifico del Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale, per la dimostrata competenza ed oggettività nel campo dell’informazione sulla situazione umanitaria in Palestina e la realtà della vita nei territori occupati. (...)

 

CRONACA DELLA GIORNATA DI PREMIAZIONE


A GAZA PER IL DIRITTO AL RITORNO

di Mirca Garuti e Flavio Novara

Era il dicembre 2009 quando, in occasione della Gaza Freedom March, abbiamo provato ad entrare a Gaza ma siamo stati subito bloccati al Cairo dalla polizia di Mubarac. Quest'anno, invece, la delegazione “Per non dimenticare...il diritto al ritorno” composta da ventisette volontari tra cui i tre modenesi, Goretta Bonacorsi, Mirca Garuti e Flavio Novara, è riuscita ad entrare a Gaza nonostante l'embargo. Grazie anche al contributo, presenti al Cairo nei primi giorni, di altri due modenesi Franco Zavatti e Ivano Poppi. Obiettivo è stato consegnare gli aiuti (offerte economiche e medicinali) all'ospedale Al Awda e manifestare solidarietà con il popolo palestinese ribadendo il loro diritto a tornare nelle terre d'origine. (...)

 

UNA TESTIMONIANZA DIRETTA  DA GAZA

di Mirca Garuti

Un gruppo di donne e uomini, pochi giorni fa, è entrato nella Striscia di Gaza. Si tratta della delegazione italiana “Per non dimenticare… il diritto al ritorno”. L’obiettivo era quello di denunciare il trattamento razzista ed intollerabile del governo israeliano nei confronti del popolo palestinese, a cui vieta il diritto di ritornare nelle loro terre d’origine. La Striscia di Gaza, un pezzo della Palestina occupata, si trova, da molti anni, sotto assedio, costretta alla fame, all’oscurità e privata dell’autodeterminazione reale e della libertà. (continua…)

LEGGI LA CRONOSTORIA DI QUEI GIORNI ANCHE SU FACE BOOK


L’AGGRESSIONE A MARCO RAMAZZOTTI STOCKEL

LE CONSIDERAZIONI DOPO LA TRISTE NOTTE ALLA SINAGOGA/
CENTRO CULTURALE DI VIA C. BALBO


di Marco Ramazzotti Stockel *


Quando é il servizio d'ordine della Comunità a decidere chi possa partecipare ad un evento e chi possa parlare, siamo caduti nella violenza fascista. Il fatto che questo servizio risponda al presidente della comunità é ancora più grave.
 
Quando sono stato aggredito, solo due persone, non ebree, sono venute in mio soccorso, Pasqualina Napoletano e Andrea Amato. Dov'era Tobia Zevi? Io ho risposto ad un invito di Tobia Zevi. Lui ha tranquillamente abbandonato il suo invitato ai violenti. Vera tempra morale. Il PD ha qualcosa da dire?
 
Che tendenzialmente la Polizia sia schierata non contro gli iper-sionisti violenti ma a loro difesa, mi fa pensare che siamo messi molto male.
 
Le accuse di antisemitismo a tutti quelli che non accettano le politiche di Israele é una accusa ridicola. Il problema a Roma non é l'antisemitismo, ma la violenza fascista di alcuni membri della comunità ebraica. L'accettazione ad occhi chiusi delle politiche di Israele é cecità!
 
Che questa gente si senta difesa dal Presidente della Repubblica é molto grave.
 
Una prima conclusione dell'episodio: ebrei che escono dalla comunità. Una seconda: la minaccia di creare una seconda comunità, la divisione degli ebrei romani. Una terza: la rabbia di questi poveri violenti (ripeto: poveri violenti) contro chi scrive e chi pensa la dice lunga sulla loro capacità di analisi, sulla loro capacità di far politica analizzando il mondo in cui viviamo.
 
Ma che succederà quando Israele dovesse cambiare politica? Contro chi vorranno dirigere le loro violenza?
 
Le contraddizioni interne ad Israele non sono immediatamente visibili, ma sono gigantesche agli occhi di chi segue gli avvenimenti in Medio Oriente. I negoziati di pace vanno avanti a rilento ed é probabile che finiscano male. Ma intanto gli USA, con Obama e Kerry, hanno preso grandi distanze dalla politica israeliana. Il mondo ebraico americano cambia profondamente e rapidamente, ma i sionisti - anche quelli nostrani - non sembrano accorgersene.
 
Il mondo muta a gran velocità, ma il presidente Pacifici, i dirigenti della comunità ebraica, il rabbino capo Disegni aiutano la loro gente a capire le novità?
 
Nessun programma televisivo, nessun “talk-show”, si azzarda a discutere dei rapporti tra Italia, Israele, Mediterraneo, Medio Oriente. Eppure si tratta di discutere degli interessi strategici dell’Italia e del futuro dell’Europa.  Guerre, rivoluzioni, grandi trasformazioni, politiche energetiche, ma non se ne parla. Ebraismo, sionismo, Islam, diritti umani, diritto internazionale, convivenze: temi che non interessano?
 
Un ebreo come me é chiamato traditore. Con gli altri ebrei che denunciano le politiche di Israele, siamo i veri difensori dell'ebraicità e del popolo di Sion. Denunciamo le politiche sioniste perché sono l'origine di una ondata di antisemitismo a livello mondiale. Questo é il vero pericolo.
 
Le politiche sioniste sono una profonda corruzione della cultura ebraica.  Il sionismo è mettersi al centro del mondo e, allo stesso tempo, chiudersi con Israele al mondo. Con la sua violenza, ha isolato gli ebrei dal resto del mondo. Troppi ebrei nascondono le loro origini culturali per paura. Dovremmo avere politiche che valorizzino la nostra cultura, ma la comunità preferisce la violenza, l’intolleranza.
 
In ultimo: sono italiano. Non intendo essere metà e metà: metà israeliano e metà italiano. Le mie battaglie politiche le faccio qui, per gli ebrei italiani e per i palestinesi che mi sono vicini come gli ebrei italiani. Uno dei violenti che mi ha sbattuto fuori dal Centro di via Balbo e che probabilmente mi ha colpito alla testa, urlava che suo cugino era stato ucciso in un attentato in Israele. Allora facciamo la mattanza dei Palestinesi? E i Palestinesi non si sentiranno legittimati ad una mattanza di Ebrei? Dove finiremmo? Il mio problema è, piuttosto, da dove rincominciamo.
 
Ci vuole coraggio a capire, a ragionare, a negoziare. Io lo faccio da italiano ebreo e lo faccio anche per difendere la comunità che mi chiama traditore.
 

 
Ieri sera, domenica, nella trasmissione "Che tempo che fa" é stata presentato un libro della figlia del giudice Chinnici, ucciso dalla mafia. Desidero fare alcune mie considerazioni, collegando lotta alla mafia e quel che é successo alla sinagoga / centro ebraico di via Balbo a Roma.
Come ogni ragazzo ebreo, ho dovuto pensare e ripensare, assaporare il sapore di morte e l' orrore dell'Olocausto. Nel silenzio, di nascosto. Ogni ebreo vive il suo Olocausto: la sensazione di non avere diritti, non essere una persona, essere un giocattolo nelle mani di persone crudeli e inumane.
Ho partecipato, nel mio piccolo, alla lotta alla mafia, facendo controlli al mercato della frutta e verdura di Palermo, nel 1973.
Sono convinto che la legalità sia una delle risorse della lotta di classe, a casa nostra, e della lotta internazionalista per l'indipendenza dei popoli e la giustizia nei rapporti internazionali.
Credo nelle istituzioni, anche se possono lavorare più o meno bene. Ma sta a noi cambiarle in meglio.
Sono nato nell'epoca delle indipendenze africane, sono cresciuto in Africa e questa lotta per le indipendenze mi ha profondamente marcato. Anche qui, le posizioni dei coloniali e dei neo-colonizzatori si misuravano e si scontravano con il diritto all'indipendenza e allo sviluppo dei popoli colonizzati e dei neo-indipendenti.
Vivere con gli Africani musulmani mi ha posto immediatamente il problema di scegliere tra una concezione della vita razzista o non razzista. Non potrei mai tradire i miei amici/amiche e compagni/e africani e musulmani: ho condiviso molto con loro e lo farò fino alla fine.

Legalità, lotta contro il razzismo e contro l'apartheid.

Coscienza della propria identità politica - italiano di sinistra, culturale - ebreo.

Tutto questo - per un minimo di coerenza - significa, per me, lottare per i diritti dei Palestinesi e contro ogni Islamofobia.
I Palestinesi hanno avuto negata la loro indipendenza. La legalità internazionale é stata violata infinite volte a danno dei Palestinesi. Vivono da sessanta anni sotto l'attacco di un regime coloniale, razzista, che si regge sull'apartheid e che li vuole liquidare etnicamente. E gli Israeliani? si considerano le vittime del mondo. Tutto si giustifica perché c'é l'anti-semitismo.

Ma chi crea anti-semitismo?

I Palestinesi di oggi sono gli ebrei di ieri.

Ho vissuto, per 5 anni in Angola, l'aggressione dei Sud Africani dell'apartheid contro gli Angolani e io ero dalla parte degli Angolani. Ma il Sud Africa aveva il suo più potente appoggio militare in Israele (la bomba atomica, i carri armati, i caccia-bombardieri ....). Combattendo il Sud Africa, combattevo inevitabilmente contro Israele. Ma era anti-semitismo? No, era lotta per il diritto all'indipendenza, contro il militarismo, per una vita pacifica, contro il razzismo. Israele ha avuto e ha politiche disumane. Non é difendibile.
Israele, con le sue politiche disumane, mette in pericolo gli ebrei di tutto il mondo. Combattere le politiche sioniste é anche combattere per una vita vivibile per gli ebrei.
I sionisti della Comunità di Roma si rendono colpevoli di violenza (mi hanno colpito alla testa così forte che sono caduto per terra), di ricatto morale (sei un traditore, sei fuori dalla comunità perché non la pensi come Sharon e Netanyahu), hanno preso la giustizia nelle loro mani, non riescono a dialogare se non con coloro che sono sempre d'accordo con loro. I sionisti tradiscono la cultura ebraica.
Cercherò in tutti i modi di spiegare, nelle mie conferenze, la differenza profonda tra ebraismo e sionismo e la mia vicinanza con le vittime del sionismo.

Continuerò a combattere il sionismo di Israele come quello nostrano.
Se non avessi questo atteggiamento,  dovrei vergognarmi di me stesso.

20/01/2014

*Antropologo e laureato in Giurisprudenza, Fellow del Churchill College di Cambridge, Gran Bretagna. Studi negli USA, Francia, Portogallo.
Sposato con due figli (è nonno). E’ cresciuto in un paese musulmano. Ha lavorato in 25 paesi africani, 3 asiatici, 1 latino-americano e 10 paesi occidentali. Ha lavorato in 12 paesi musulmani. I suoi committenti sono stati ONG, imprese, governi europei e africani, agenzie delle NU. Lavora prevalentemente su progetti di sviluppo, dalla loro concezione fino alla loro valutazione finale. E’ direttore tecnico di cantieri di sminamento. Ha insegnato in Angola e in Mali. Vive in Italia. Fa parte della Rete ECO (ebrei contro l'occupazione)


FOTO REPORTAGE

LIBANO 2013 DAI CAMPI PROFUGHI PALESTINESI

di Mirca Garuti

                      


(Leggi la Seconda parte)

IL LUNGO FILO DELLA MEMORIA
I PROFUGHI PALESTINESI in LIBANO

di Mirca Garuti
(terza parte)


  


Il sud del Libano rappresenta la resistenza e la lotta per la libertà contro tutte le invasioni. Per i profughi palestinesi, il sud è, nello stesso tempo, gioia e dolore. Gioia, perché qui hanno trovato un rifugio dalla violenza israeliana. Dolore perché, senza diritti, sono costretti a difendersi. Vivere lottando soprattutto perché la loro terra, le loro case ed i loro parenti sono irraggiungibili, nonostante si trovino a pochi chilometri di distanza. Un sogno, un miraggio.
Il viaggio nel sud del Comitato inizia da Sidone. Sidone (Saida in arabo), cittadina portuale a circa quaranta chilometri da Beirut, è circondata da bananeti ed agrumeti. Sidone, un tempo città fenicia ricca ed importante, è oggi capitale del sud del Libano e rappresenta il simbolo della resistenza patriottica libanese e del Movimento di Liberazione Nazionale di tutto il mondo arabo. Con il suo Castello del Mare costruito dai crociati, le sue moschee, i caravanserragli, i suq con i soffitti a volta, è una delle località più affascinanti del Libano.

 


Come primo appuntamento, la delegazione rende omaggio alla memoria del Martire Maarouf Saad, difensore di tutte le classi sociali più deboli e povere, ucciso nel 1975 dalle forze fasciste di destra libanesi, durante una manifestazione di protesta dei pescatori. Il suo assassinio segna l’inizio della guerra civile libanese che scoppierà due mesi più tardi.


Siamo accolti dal figlio, Osama Saad, deputato del partito panarabo nasseriano, uno dei partiti fondamentali per il Libano, specialmente a Sidone. Offre sostegno ed appoggio a tutti i popoli del mondo che si trovano sotto occupazione. In Libano, la loro lotta è rivolta a cambiare il sistema politico vigente per arrivare ad una giustizia sociale, contro la destra libanese. Osama, inoltre, è molto attento a tutte le questioni che riguardano il Medio Oriente e le sue analisi sono sempre precise ed interessanti. Aveva, infatti, già previsto, due anni fa, che le così dette “Primavere arabe”, col tempo, avrebbero avuto delle involuzioni. E così è stato.

(http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/OSAMASAADAMODENA/tabid/1274/Default.aspx)

Audio Musolino spiega Osama

 

  

Osama Saad, nei giorni successivi, ci ospita nuovamente a Sidone. Dopo aver visitato la meraviglia del Castello del Mare, ci fa conoscere la Fondazione Maarouf Saad. Al suo interno, si trova la scuola nazionale di Sidone, frequentata da 182 studenti palestinesi, libanesi ed ora anche siriani che vivono a Sidone. Questa scuola fu costruita da un emiro nel 1920. Quando a Sidone arrivarono i turchi e l’emiro fu esiliato in Toscana, la scuola venne regalata ai francesi quando iniziarono il loro mandato in Libano. Qui, infatti, ha vissuto il console francese sino a quando, cessato il suo dominio, la scuola diventò un ospedale governativo.



 

Siamo accolti da un gruppo di scolari che ci danno il benvenuto, leggendo scritti e poesie.

    Audio fondazione Saad

 

 

 

La delegazione del comitato visita il Centro culturale Maarouf Saad. Sono presenti varie forze nazionaliste, islamiste, organizzazioni non governative e nasseriane.

  Osama Saad apre l’incontro: “Il cammino della resistenza, attraverso tutte le sue varie forme, compreso anche la lotta armata, continua in tutto il mondo arabo. Siamo sicuri della nostra vittoria contro l’occupazione sionista e capaci di smantellare il sistema sionista della terra araba fino alla liberazione della Palestina. Noi consideriamo questo sistema, razzista, aggressivo, espansionistico e, per questo lo combattiamo. Quando venite qua, al nostro fianco, ci sentiamo più forti e coraggiosi. Combattiamo lo stesso nemico. La nostra lotta è comune contro l’imperialismo, il sionismo e la reazione di una parte del mondo arabo. Vinceremo questa comune battaglia, anche nella nostra regione, per una democrazia, una libertà, una vita dignitosa, affinché tutti possano avere la giustizia sociale che stiamo cercando.”
Maurizio Musolino, come portavoce del Comitato, riafferma il motivo del nostro viaggio: ricordare e raccontare. “Veniamo qui – dice Maurizio – anche per chiedere diritti per i vivi, per i palestinesi che vivono all’interno dei campi. Sappiamo che i libanesi sono al nostro fianco. Insieme dobbiamo lottare per questo e per chiedere il riconoscimento del Diritto al Ritorno, perché i palestinesi devono poter ritornare alle loro case. Il nostro pieno appoggio è per la resistenza libanese. Siamo per un Libano libero ed indipendente da qualsiasi influenza.”
Dopo i consueti discorsi d’apertura, ascoltiamo alcuni interventi da parte del pubblico presente in sala. Katia, rappresentante del partito nasseriano: “Noi vogliamo la pace in tutto il mondo, in modo particolare nei paesi arabi. Siamo pronti a lavorare con voi per affrontare il nemico sionista e americano, per dire Basta a queste aggressioni. Abbiamo il diritto di vivere in pace.”
Si susseguono altre dichiarazioni, testimonianze e richieste, ma si possono riassumere in una sola. Sono profughi da 65 anni. Chiedono che noi, popolo europeo, facciamo pressione sul governo libanese, affinché possa loro garantire diritti civili e sociali. “Abbiamo il diritto di vivere con dignità finché non riusciamo a tornare nelle nostre terre, nelle nostre case, in Palestina”.
Un partecipante a quest’incontro, si alza e chiede. “ Qual è la vostra conclusione, dopo tanti anni che venite qua? Siete convinti che, prima o poi, il sionismo cesserà? E che la Palestina ritornerà ai palestinesi?" Maurizio risponde: “In questi giorni abbiamo visto tanti campi e incontrato amici.  Abbiamo sentito la forza e l’ostinazione a non arrendersi, anche in situazioni molto difficili, come, per esempio, nel campo di Naher El Bared, oppure in situazioni di sovraffollamento che rendono la vita nei campi praticamente impossibile. Nonostante tutto questo, abbiamo visto la capacità di continuare a fare cultura, per non dimenticare le origini del popolo palestinese, trasmettendole da generazione a generazione. Contro questa determinazione nessuno può vincere. Siamo sicuri che i palestinesi vinceranno, anche se oggi possono sembrare i più deboli. Il mondo cambia. Vent’anni fa l’esercito israeliano sembrava invincibile. Nel 2006, invece, proprio qui in Libano, si è dimostrato il contrario. Si poteva fermare”.

Audio teatro culturale Saad


A Sidone la delegazione incontra anche l’ex sindaco, Abdul Rahman Bizri. Molti partecipanti del Comitato hanno già avuto in passato il piacere di conoscerlo, in modo particolare, subito dopo la guerra dei trentatré giorni del 2006. Saida, terza città del Libano, capitale del sud, è l’esempio della resistenza e della solidarietà. Durante quella guerra il Comune non è stato mai chiuso, anzi, è stato trasformato in un centro di smistamento al servizio dei profughi. Tutti a Saida avevano aperto le porte delle proprie case per aiutare chi era in fuga dalla guerra, compreso i campi profughi palestinesi. Il campo di Ain El Helweh, per esempio, definito dal governo americano “un covo di terroristi” aveva ospitato circa 10.000 persone, senza alcuna distinzione di etnia religiosa.
L’ex sindaco Bizri saluta il Comitato: “Ci sono persone nuove, e questo è un bene, perché significa che questa causa sta andando avanti.”
Bizri fa un piccolo accenno alla figura di Ariel Sharon. Afferma che, nonostante sia morto, la richiesta della sua condanna di fronte ad un tribunale internazionale deve continuare.  Si tratta di una condanna per i crimini che sono stati commessi, una condanna morale che oggi è indispensabile. Intorno alla figura di Sharon è sorto un mistero: non esiste la certezza che sia morto. Nessuna comunicazione ufficiale. Alcuni sostengono che le autorità israeliane aspettino condizioni politiche migliori per poter diffondere la notizia. Altri ancora sostengono che si tratta solo di voci infondate, che Sharon sia ancora ricoverato e che si trovi in uno stato vegetativo da quel 4 gennaio 2006.
L’ex sindaco è però curioso di sapere da noi quali sono le nostre sensazioni e cosa abbiamo notato di diverso rispetto agli anni precedenti. Cosa è cambiato in fondo nel paese dei cedri? I nuovi problemi sono legati alla situazione in Siria, alle migliaia di profughi che sono arrivati in Libano, al sovraffollamento dei campi palestinesi, mentre i vecchi problemi sono sempre quelli relativi ai non diritti dei profughi palestinesi in questa terra ed alla questione palestinese in generale.
 Bizri descrive al Comitato la situazione in Libano per la conseguenza della guerra in Siria. Per la prima volta, si è riunito un Comitato congiunto di tutte le organizzazioni del campo di Ain El Helweh, a cui hanno partecipato tutte le forze palestinesi sia interne e sia esterne al campo, compreso anche quelle islamiste. Lo scopo era quello di fare in modo di “tenersi fuori” da possibili interventi esterni. "Secondo cifre ufficiali – continua l'ex sindaco – il Libano ha ospitato da 700.000 a 800.000 siriani (Bizri non vuole fare delle differenze tra siriani e palestinesi-siriani, perchè sono tutti fratelli, per lui sono semplicemente siriani), in verità, i numeri veri oscillano da 1.000.000 a 1.200.000 persone uscite dalla Siria.” Bizri si occupa anche, all'interno del governo libanese, di monitorare la percentuale di malattie infettive rispetto alla situazione generale sanitaria. La richiesta di vaccini è, infatti, aumentata ed ha raggiunto il milione. Questo dato è significativo perchè rispecchia il numero delle persone presenti. La crisi siriana non ha solo effetti politici e di sicurezza, ma anche sociali. “Se ci sarà un attacco militare - prosegue Bizri – dovremo prevedere l'arrivo di tantissimi altri profughi, per questo motivo stiamo tenendo sotto controllo questo fenomeno. A Sidone sono state ospitate 5000 famiglie e se si considera che ogni famiglia siriana/palestinese è composta di 7/8 persone, sono presenti quindi circa 30/40.000 “ospiti”. Di tutta questa moltitudine, 4/5000 persone si trovano all'interno del campo di Ain El Helweh. Una situazione dunque esplosiva!”
Bizri espone la sua analisi sulla Siria. “La Siria è come tutti gli altri stati arabi. Al suo interno c'è di tutto: corruzione e mancanza di democrazia e di controllo. La Siria ha bisogno quindi di riforme democratiche per la libertà e di un controllo sullo stato attraverso libere elezioni. A differenza di altri paesi arabi, in Siria ci sono garanzie sociali, sanità e istruzione per tutti ed inoltre è iniziata un’apertura economica.  La sua colpa è data dalla politica interna: è uno di quei paesi che non ha mai firmato trattati di pace con Israele, ha ospitato organizzazioni in disaccordo con Israele, (es.Hamas), ha appoggiato la resistenza libanese e sostenuto tutte le resistenze del mondo arabo. All'interno della Siria c'era un'opposizione nazionalista che poteva essere molto importante, ma è stata messa a tacere. Esiste poi la parte peggiore che è quella che rifiuta la società civile, cercando di portare tutto verso un estremismo insopportabile. Al confine della Turchia con la Siria gruppi estremisti si stanno massacrando tra loro. A causa della profonda crisi siriana, dopo un lungo periodo di leggi fuori controllo, dove ognuno poteva fare ciò che voleva, sembra che si stia tornando ad un equilibrio strategico a livello di potenze mondiali. Questo ci può dare un po’ più di speranza di poter evitare un’altra guerra. In Libano volevamo avere, nei confronti della Siria, un’unica posizione, volevamo le riforme all’interno della Siria, mantenendo però intatta la sua posizione politica e strategica per il ruolo che aveva nel mondo.”
Abbiamo infine chiesto all’ex sindaco di Saida alcune informazioni sulla Legge elettorale in Libano.
“Il Libano – afferma l’ex sindaco – corrisponde a ciò che è spiegato in un libro uscito negli Stati Uniti “The Revenge of Geography (La rivincita della geografia)”, dello scrittore Robert Kaplan*. Questo dimostra che esiste un rapporto organico tra la Siria ed il Libano e la possibilità che il Libano si possa staccare dalla Siria è finita con la guerra del 1967. Perché il Libano non ha partecipato alla guerra, è stato neutrale, ha seguito la classe politica d’elite, l’occidente, mentre, invece, doveva partecipare al conflitto. Poteva, forse, subire una sconfitta, come gli altri paesi arabi, ma a quel punto, poteva nascere un nuovo Libano. Da quel momento, invece, è finito lo Stato libanese.  Il paese dei cedri decise di seguire l’estero, la classe politica maronita che poi lo porterà alla guerra civile nel 1975. Non ci saranno imminenti nuove elezioni finché non sarà chiarito il quadro regionale che decide."

Audio Ex sindaco Sidone

 

*"Se volete conoscere la prossima mossa di Russia, Cina o Iran, non leggete i loro giornali né domandate cosa hanno scoperto le nostre spie: piuttosto consultate una mappa. La geografia può rivelare gli obiettivi di un governo tanto quanto le sue riunioni segrete. Più dell’ideologia o della politica interna, ciò che di base definisce uno stato è il punto che occupa sul pianeta. Le mappe colgono gli eventi fondamentali della storia, della cultura e delle risorse naturali. Con il medio oriente in tumulto e una transizione politica turbolenta in Cina, date un’occhiata alla geografia per capirci qualcosa. In teoria, la geografia, come mezzo per spiegare la politica mondiale, è stata messa in ombra da economia, globalizzazione e comunicazioni elettroniche.
Mentre alcuni continuano a premere per un intervento in Siria, è utile ricordare che lo stato moderno che porta quel nome è un fantasma geografico di ciò che fu dopo la caduta dell’impero ottomano, che includeva quelli che sono oggi Libano, Giordania e Israele. Persino quella vasta entità era più una vaga espressione geografica che un luogo ben definito. Nonostante ciò, il moderno stato siriano, per quanto tronco, contiene tutte le divisioni interne della vecchia regione ottomana. Fin dall’indipendenza, nel 1944, la sua composizione etnico-religiosa, con alawiti nel nord-ovest, sunniti nel corridoio centrale e drusi nel sud, lo rende una Yugoslavia araba in gestazione. Questi frazionamenti sono ciò che per lungo tempo ha reso la Siria il cuore pulsante del panarabismo e lo stato più estremo nel respingere Israele. La Siria potrebbe placare le forze che da sempre minacciano di smembrare il paese, solo facendo appello a un’identità araba radicale, andando oltre il richiamo della setta. Questo non significa però che la Siria debba ora sprofondare nell’anarchia, perché la geografia ha molte storie da raccontare. Sia la Siria sia l’Iraq hanno radici profonde in specifici terreni agricoli che risalgono a millenni fa, rendendoli meno artificiali di quanto non si possa supporre. La Siria potrebbe comunque sopravvivere come una sorta di equivalente del XXI secolo di una Beirut, Alessandria e Smirne degli inizi del XX secolo: un mondo levantino di identità multiple, unito dal commercio e ancorato al Mediterraneo. Le divisioni etniche basate sulla geografia possono essere superate, ma solo se prima ne riconosciamo l’eccezionalità." ( stralci tratti dal libro di Robert D. Kaplan “The Revenge of Geography” - Copyright Wall Street Journal, per gentile concessione di MF/Milano Finanza. - Traduzione Studio Brindani- settembre 2012)

 

Il nostro viaggio nel sud continua verso Tiro (Sour) che si trova a 80 km da Beirut con destinazione Qana. Lungo il percorso, in prossimità del fiume Litani, che durante l’occupazione israeliana dal 1978 al 2000 parte delle sue acque furono utilizzate per irrigare Israele e, durante la guerra del 2006, fu luogo di scontro tra l’esercito israeliano ed Hezbollah, superiamo la Rocca del Castello di Beaufort. Si tratta di un vecchio avamposto militare, conteso da quasi tutti gli invasori negli ultimi 1000 anni, in cima ad uno dei più elevati crinali della regione e lo si può vedere da molte miglia di distanza. Le sue origini risalgono al periodo bizantino. Tra le sue mura sono passati i protagonisti della storia del Libano: crociati, sultani, re, guerriglieri, invasori stranieri. Tutti hanno voluto mettere la propria bandiera sulle torri del castello. Nel 1920 sventolava la bandiera francese. Era il periodo del protettorato che finì, nel 1943, con l’indipendenza del Libano. Nel 1976 fu invece conquistata dai guerriglieri palestinesi dell’Olp e difesa dai ripetuti attacchi sia da parte dei cristiani-maroniti e sia dagli israeliani. Nel 1982, durante la feroce invasione del Libano da parte d’Israele, fu occupata dall’esercito israeliano che vi mantenne un presidio fino alla sua ritirata, nel maggio 2000. Durante la loro ritirata, prima dell’abbandono, per distruggere le tracce della loro occupazione, fecero saltare in aria parti del Castello, ignorando la precisa richiesta del governo libanese di rispettare il sito storico già pesantemente danneggiato.

  

Dopo Tiro, in direzione sud-est a 14 km, raggiungiamo il piccolo villaggio sciita di Qana. E’ una fermata obbligatoria, per ricordare i tanti massacri avvenuti qui da parte dell’esercito israeliano.
Durante il viaggio, Maurizio Musolino racconta che cosa rappresenta Qana non solo per i palestinesi e libanesi, ma anche per tutti noi, assumendoci il compito di portare la loro voce al di fuori di questi confini.

Audio Maurizio Qana

Va ricordato il massacro avvenuto all’interno della così detta “Operazione Grappoli d’ira” iniziato l’11 aprile 1996, dal primo ministro israeliano Shimon Peres per fermare la resistenza Hezbollah, interrompendo così il processo di pace in corso (Accordi di Oslo). L’attacco durò 16 giorni. Peres era convinto che solo l’uso di un massiccio bombardamento dal cielo, terra e mare, avrebbe potuto dissuadere la popolazione dall’appoggiare le milizie di Hezbollah che combattevano per la liberazione dei territori occupati del Libano. L’aggressione fu particolarmente violenta: secondo stime attendibili furono impiegate 35.000 bombe. Il 18 aprile, circa 800 persone si rifugiarono a Qana, all’interno della base delle forze di pace delle Nazioni Unite. La base fu bombardata con attacchi ripetuti e mirati: morirono 102 persone e 120 rimasero ferite. Fu un vero e proprio massacro: bruciati vivi, corpi deturpati e sfigurati, carne e sangue fusi con l’acciaio, bambini decapitati.  Subito gli israeliani cercarono di far credere che non sapessero dell’esistenza dei civili all’interno della base, ma poi, secondo le indagini condotte dalle Nazioni Unite, la verità fu che Israele bombardò deliberatamente il bunker del campo.

“Il 18 aprile 1996, alle 14:10, i cannoni israeliani aprono il fuoco sulla postazione del reparto fijiano delle forze di peace-keeping a Favjiya-Qana dove hanno cercato riparo i circa 800 abitanti del villaggio che non sono riusciti a fuggire. Si tratta in prevalenza di bambini, donne e vecchi. Gli israeliani lanciano sui tre rifugi circa 12 scariche di proiettili da 155mm, donati loro dagli USA. Tali proiettili sono progettati per esplodere a 7 metri d’altezza per poter uccidere il maggior numero di persone o produrre amputazioni letali.  7 bombe colpiscono, con voluta precisione, i ripari del battaglione fijiano. La carneficina è spaventosa. In ciò che resta dei ripari, distrutti e incendiati, giacciono i cadaveri di 102 civili arabi, in un ammasso di corpi irriconoscibili, alcuni dei quali stanno ancora bruciando. I feriti, molti dei quali in condizioni gravissime, sono 116.
Nel massacro muoiono anche 4 militari del battaglione ONU delle Fiji.”(dalla “Diaspora Palestinese in Libano ed i tempi della guerra civile” di Mariano Mingarelli)

Dopo il 1996, sono successi altri bombardamenti, come per esempio, nel 1982 dove sono morti centinaia di persone. Quello che colpisce di questi attacchi è il fatto che si sono svolti tutti a danno di strutture dell’Unifil, dove al suo interno si rifugiavano solo civili con la speranza di trovare un posto sicuro. Colpire i luoghi dove si rifugiano i civili è però un elemento che si ripete spesso nella strategia del governo israeliano. In tempi più recenti, Israele bombardò ancora una volta Qana nel luglio del 2006, durante la guerra dei 33 giorni.

Il comitato visita questo luogo di memoria dove sono sepolte le vittime di questa strage. Israele colpì nella notte una palazzina di tre piani dove avevano trovato rifugio varie famiglie: 60morti, tra cui 37 bambini.

  

In questo piccolo cimitero si trovano in semicerchio le immagini di questi bambini che hanno perso la vita sotto le macerie. Purtroppo molti di loro portano lo stesso cognome; una tragedia che ha distrutto intere famiglie.

“Dal 1948 - così ci racconta un responsabile del luogo - le autorità competenti libanesi non hanno mai costruito dei rifugi antiaerei. La popolazione, quindi, aveva come rifugio solo la propria casa. Durante l’aggressione israeliana del 2006, l’esercito israeliano non ha risparmiato nessuno, ha bombardato tutto. A Qana, da un nostro censimento, le case distrutte completamente sono state 64 e 1200 hanno subito danni consistenti. In questo quartiere, la gente, per lo più vecchi, donne e bambini, non ha avuto la possibilità di scappare e si è rifugiata nei piani bassi di una palazzina in costruzione a pochi metri da qui. Gli israeliani si accaniscono contro i civili perché proteggono, secondo loro, la resistenza. La gente sostiene la resistenza perché ha bisogno di chi la protegge dall’occupazione israeliana.”

 

 

 

 

Audio Qana

Lasciamo il villaggio di Qana per raggiungere il campo di El Buss

  

Nel campo di El Buss vi è un importante centro di consultorio familiare con un ospedale psichiatrico per la cura psicologica rivolta a donne e bambini, vittime di violenza. L’associazione di Assumoud, compresa l’estrema gravità del problema, è riuscita, grazie all’aiuto di un’associazione finlandese, a sviluppare questo progetto. Sia l’UNRWA e sia la Mezza Luna Rossa Palestinese non hanno questo tipo di servizio. Il centro di salute psicologica è stato aperto nel 2007 ed è l’unico per tutti i campi profughi del sud del Libano e per i nove raggruppamenti di palestinesi. Non è solo rivolto ai bambini palestinesi, ma a chi ne ha bisogno, siano esse siriani, libanesi, egiziani, o  altro. Questo servizio si trova solo in 5 centri gestiti da Beit Atfal Assumoud in tutto il Libano. I finanziamenti per quest’importante attività arrivano solo da tre paesi: Norvegia, Finlandia e da un’associazione francese.


La responsabile del centro, illustra al Comitato, le funzioni di questo consultorio:
“Il nostro lavoro è rivolto ai ragazzi fino a 18 anni ed ai loro familiari. Il nostro staff lavorativo è composto di uno psicologo, da vari operatori sociali ed operatori socio-psicologi. La cura di queste persone avviene mediante sedute quotidiane. Gli operatori sociali lavorano a tempo pieno, mentre gli specialisti secondo le necessità. La crisi siriana e l’arrivo di tanti palestinesi hanno creato al centro numerosi problemi.  Non siamo in grado di risolverli tutti e le conseguenze sono lunghe liste d’attesa a cui non riusciamo a dare delle risoluzioni. Queste persone, in fuga dalle città in cui vivevano, catapultate in una realtà totalmente diversa, costrette a dipendere da altri non avendo più niente, hanno subito profondi disagi e crisi difficili da risolvere. Abbiamo dovuto affrontare subito un primo soccorso: avevano bisogno di cibo, d’indumenti e di un tetto. Tutto il sud si è mobilitato per dare questo tipo d’aiuto a quelli che scappavano dalla vicina Siria. Noi abbiamo ricevuto tanti bambini palestinesi, usciti dalla Siria, con uno stato psicologico molto provato perché hanno visto gli effetti della guerra. Questi bambini hanno bisogno di cure immediate per evitare che questo stato di cose possa peggiorare. I loro stessi genitori hanno chiesto aiuto, perché non sanno come affrontare questo tipo di problema, non sanno più come comportarsi per poterli aiutare a superare queste paure, questi disagi. Noi quindi abbiamo insegnato ai genitori come fare organizzando delle assemblee. Inoltre, abbiamo anche messo in campo altre attività socio-psicologiche per tutti i bambini con l’obiettivo di riuscire a scaricare le loro tensioni interne, le loro paure non dichiarate, per farli parlare, per raccontare. Questo esperimento lo stiamo facendo in due campi: Burij El Shemali e Rashidieh, dove vi è un alto numero di famiglie ed è rivolto a bambini tra i 6 e 13 anni con questo tipo di problemi. Tutte le famiglie palestinesi provenienti dalla Siria che si trovano all’interno del nostro bacino d’utenza, hanno il diritto a partecipare a tutte le attività organizzate da Assumoud, anche se questo comporta naturalmente una diminuzione dei nostri fondi. Ma non importa. Andiamo avanti. Prima della crisi siriana, avevamo una situazione finanziaria molto buona, ora invece i costi, offrendo servizi e cure a tutte queste persone, sono triplicati.  Oggi siamo in uno stato d’emergenza e la mancanza d’aiuti dall’esterno e di fondi ha reso difficile portare avanti il nostro programma. Il nostro finanziamento durerà fino a dicembre e poi se non ne troviamo altro, per il 2014 saremo a terra. Per noi è estremamente importante riuscire a trovare altri finanziamenti, perché altrimenti corriamo il rischio di non riuscire a portare a termine il nostro lavoro. I ragazzi del sud del Libano difficilmente potranno arrivare a Beirut per continuare la cura. La comunità internazionale applica una forte discriminante nei confronti dei profughi. Se chiediamo ad un ente libanese di occuparsi delle cure di un bambino palestinese-siriano, ci rispondono che non possono, non è un loro compito, ma dell’UNRWA, mentre se è un bambino siriano, allora tutto è possibile perchè paga la commissione europea. Oggi l’UNRWA ha diminuito i suoi contributi. Succede quindi che se un bambino ha bisogno di fare delle analisi, dove prima l’Unrwa ne rimborsava il 50%, ora invece, spesso non dà nulla ed è per questo, che ci dobbiamo attivare attraverso amicizie o a livello personale. Non esiste più un servizio permanente né per i palestinesi che vivono qui e né per quelli che arrivano dalla Siria.” 

Il primo problema che incontrano i palestinesi siriani sul suolo libanese, è l’accento linguistico, poi, si rendono conto che quello che manca in realtà, sono i diritti a cui erano abituati. Poiché la loro permanenza continua, cominciano a sentirsi come i loro predecessori del 1948, quando pensavano che il loro allontanamento fosse solo per qualche settimana. A questo punto, cominciano le ricerche di altri eventuali profughi provenienti dallo stesso villaggio siriano, dalla stessa città, per stare insieme, ma il loro desiderio è solo quello di poter tornare presto in Siria.
I sintomi psicologici riscontrati nei bambini sono per lo più quelli relativi al rifiuto di staccarsi dalla famiglia, alla mancanza di sonno, alla paura, all’angoscia, all’anuresi, al fenomeno di malattie viaggianti, al bisogno di essere sempre in movimento e quello di mangiare sempre o niente.

Audio El buss

  

Dopo la visita al centro, c’inoltriamo per le vie del campo. Notiamo la presenza dei nuovi palestinesi fuggiti dalla Siria. Ci salutano. Incrociamo anche una famiglia seduta su un muretto, nell’attesa, forse di un miracolo… chissà ora dove sarà… non sono arrabbiati, sono semplicemente stanchi ed amareggiati.
Sono giovani. Una giovane coppia con due figli. Sono ben vestiti e l’uomo racconta che sono arrivati da Damasco. Nel campo non c’è posto, così hanno deciso di affittare una camera in città. In Siria, il padre faceva il geometra, aveva una piccola impresa con dipendenti. Ora non ha più nulla. In Siria era libero, mentre ora è solo stanco di essere chiamato “palestinese”. Un nome a causa del quale, tutte le porte sono chiuse. Solo l’Unrwa potrebbe agire ma non risedendo dentro il campo, nulla vale il suo diritto. Ci racconta anche un fatto strano: due suoi fratelli vivono in Germania ed hanno la cittadinanza tedesca. Una normativa tedesca prevede l’ingresso di 5000 famiglie siriane. Lui ha preparato tutta la documentazione.  I suoi fratelli sono tedeschi e sua moglie siriana, sperava, quindi, in un possibile ricongiungimento familiare. E’ andato allora, al consolato europeo, ma gli è stato anche qui, negato l’accesso in Germania perché palestinese. L’uomo allarga le braccia e cita alcuni versi del poeta palestinese Tamim Barghouti “Tu sei palestinese, non devi vivere, devi vivere solo per i posti di blocco e le restrizioni”.

Noi dobbiamo andare, ma lui prosegue dicendo che i palestinesi vivono nell’attesa della morte. “Ci vogliono così.  Noi siamo destinati a vivere così, ma io sono fiero d’essere palestinese, vado a testa alta e porto la causa palestinese con me”.
Un ultimo saluto e li lasciamo lì soli sul muretto, in attesa…

12/12/2013

continua…


SIRIA: UN PAESE ANCORA IN GUERRA


Il 6 aprile 2013 il giornalista italiano Domenico Quirico e il suo collega belga Pierre Piccinin da Prata sono stati rapiti in Siria e tenuti in ostaggio per 152 giorni, fino all’8 settembre. Quell’esperienza è raccontata dai due protagonisti nel libro uscito a novembre intitolato: “Il paese del male. 152 giorni in ostaggio in Siria” (Neri Pozza, pp. 176, euro 15).
Una narrazione sofferta e probabilmente terapeutica, che pone a chi legge questioni spinose e non solo relativamente alla guerra in Siria. Non sorprende, ma lascia comunque l’amaro in bocca, che in Italia si parli di Siria, ma più in generale di vicende che escono dai ristretti confini dello Stivale, solo in occasioni drammatiche come quella del rapimento di un connazionale.
Ma la guerra in Siria continua; come scrive Quirico nelle righe finali riportando le parole di uno dei suoi carcerieri: “Vedi, ve ne andate, liberi. allora non è vero che voi eravate i prigionieri e noi i custodi. Tutti, voi e noi, eravamo altrettanto prigionieri. Ma con una differenza: che voi potete lasciare questa tragedia, partire, noi restiamo qui…”.
E quindi il giornalista prosegue: “E’ solo ora, partendo, che capisco l’essenza di questo posto. Dopo cinque mesi sono diventato parte del luogo, della disperazione, della morte, del cibo sudicio e scarso, del caldo e del color sabbia. Ora, mentre cammino nella terra di nessuno tra Siria e Turchia, ho la sensazione di comprendere i problemi di questa falsa rivoluzione, i suoi paradossi e perfino il suo squallore. Sento una gelosa, assurda fratellanza con tutti quei siriani che cercano di non andare ancora più a fondo”.

11 dicembre 2013
Dal sito di Radio Onda D’Urto
Ascolta Domenico Quirico che conversa con la saggista Cinzia Nachira.  


Come osano i leader israeliani piangere la morte di Mandela?
di Michel Warschawski (AIC – Alternative Information Center)

“Mandela fu un personaggio esemplare della nostra era e sarà ricordato per essere stato un leader dalla grande statura molare. Fu un combattente per la libertà che rifiutò l’uso della violenza..” Con queste parole, il Primo Ministra israeliano, Benjamin Netanyahu, non solo rivela una scarsa conoscenza della storia sudafricana (questo è il meno) ma ha superato il limite della decenza. Nel coro unanime a livello mondiale di ammirazione per Mandela, l’unica cosa che i rappresentati dello stato di Israele avrebbero dovuto fare, era tacere con umiltà e per la vergogna.

(Foto: Desertpeace.wordpress.com)

 
Stando a numerosi rapporti, Israele ebbe stretti legami diplomatici e nucleari con il Sud Africa dell’apartheid.
Fino ad oggi nessun leader israeliano ha mai chiesto perdono a Mandela e al popolo sudafricano per il ruolo attivo dello stato di Israele nelle difesa e nel mantenimento del regime dell’apartheid a Pretoria. L’alleanza tra Israele e il Sud Africa razzista fu strategica da un punto di vista economico, ma anche militare e ideologico. Anni dopo che la maggior parte della comunità internazionale aveva lanciato il boicottaggio del regime sudafricano, Israele continuava ad avere eccellenti relazioni con Pretoria, aiutandola ad aggirare le sanzioni internazionali. Stando ai media internazionali, Israele non avrebbe potuto continuare il proprio programma nucleare senza la collaborazione del Sud Africa dell’apartheid. Tale alleanza non si basava solo su interessi comuni, ma anche sulla condivisione della filosofia dell’essere due paesi di bianchi che si trovavano circondati da paesi ostili di non bianchi e dall’essere accomunati dalla battaglia contro il comunismo e contro l’affermazione dei popoli del terzo mondo.

Alcune settimane fa ho visto un appassionante reportage trasmesso alla televisione israeliana a proposito di un famoso miliardario israeliano che fu contemporaneamente un produttore cinematografico di successo e un agente del Mossad. Tra le molte rivelazioni (almeno, per me, lo sono state), l’uomo ha ammesso di aver ricevuto milioni di dollari dall’amministrazione statunitense e dal regime del Sud Africa per produrre dei film il cui unico obiettivo doveva essere la legittimazione dell’apartheid.. inclusi i suoi leader filo-nazisti. Quando gli venne chiesto se prova rammarico per ciò che ha fatto, rispose con un “sì, un po’” anche se i suoi occhi rivelavano che stava mentendo. 

Quando Mandela venne finalmente scarcerato e accettato globalmente come il leader indiscusso del nuovo Sud Africa, i vari governi israeliani hanno continuato a mantenere una certa distanza da quel comunista/terrorista africano e hanno preferito Desmond Tutu, considerato più moderato, al leader dell’ ANC.

Israele sicuramente non fu l’unico paese ad appoggiare il regime dell’apartheid e gli Stati Uniti hanno spesso utilizzato lo stato israeliano per portare avanti alcuni dei loro sporchi lavori. Il forte legame tra Tel Aviv e Pretoria non era tuttavia solo il frutto di interessi comuni ma anche di una visione simile del mondo e di valori condivisi. Questo è esattamente il motivo per cui Israele è stato l’ultimo paese a recidere i legami con il regime sudafricano.

Il “lutto” di Netanyahu e le affermazioni del Presidente israeliano Shimon Peres sono tanto false quanto la risposta data dal produttore cinematografico/agente del Mossad. Speriamo che la famiglia, gli amici e tutti i sostenitori di Nelson Mandela non permettano a queste persone e alle loro affermazioni di profanare gli eventi in ricordo di Mandela, uno dei più grandi lottatori per la libertà del secolo scorso.
11 Dicembre 2013

(tradotto da AIC Italia/Palestina Rossa) 
(dal Sito “Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus)


Su Alkemia Word
TALAL SALMAN: IL CONFLITTO SIRIANO
Quali ripercussioni in medio oriente

 


Video relazione del direttore del più importante quotidiano libanese As Safir, dott. Talal Salman. Dalla strumentalizzazione dell'occidente, alle milizie integraliste “rivoluzionarie” guidate dall'Arabia Saudita e dal Qatar. Il tentativo di Israele di ridisegnare quell'area geopolitica, il ruolo della Russia e della Cina e il pericolo, in caso di intervento USA, dell'estensione del conflitto.


Beirut - 17 settembre 2013 – Libano


A MODENA, L’AMBASCIATRICE PALESTINESE IN ITALIA
di Mirca Garuti

 


Oggi 23 ottobre, il Sindaco della città di Modena Giorgio Pighi, ha dato il benvenuto all’Ambasciatrice Palestinese in Italia, Mai Alkaila insieme alla delegazione palestinese.


 

La Presidente del Consiglio comunale, Caterina Liotti apre l’incontro ringraziando l’Ambasciatrice palestinese per la visita alla nostra città. La Presidente modenese auspica che si possa arrivare, anche con l’aiuto di tutta la comunità internazionale, ad una vera pacificazione tra il popolo palestinese e quello israeliano. Infine, rileva l’amicizia che la nostra città sente nei confronti del popolo palestinese. All’incontro sono intervenute altre autorità del Comune di Modena e della Provincia: Fabio Poggi assessore di Modena con delega alla Cooperazione internazionale, il vice presidente della Provincia Mario Galli, il vice sindaco del Comune di Fiorano Modenese Marco Busani e l’assessore del Comune di Formigine Maria Costi.
Oltre alle autorità, sono presenti anche alcuni rappresentanti d’associazioni impegnate in progetti di solidarietà, di promozione allo sviluppo dell’informazione, dei diritti umani per il sostegno del popolo palestinese, come “Modena incontra Jenin”, “Alkemia”, “Pax Christi” e “Gavci”.


L’ambasciatrice, dopo aver ascoltato le autorità modenesi e le varie associazioni, ringrazia tutti i presenti per l’impegno messo in atto nel dare, in diversi modi, solidarietà ed appoggio al popolo palestinese. “La pace ha bisogno del vostro sostegno, ma occorre fare di più” – dice Mai AlKaila – e prosegue, affermando che “la nostra dirigenza ha scelto la pace, una pace vera, a differenza d’Israele che non ha ancora rispettato la firma degli accordi di Oslo”. L’ambasciatrice parla, inoltre, della politica d’occupazione da parte del governo israeliano che continua imperturbabile a sottrarre acqua e terra ai palestinesi a favore dei coloni, promuovendo così il loro arrivo in Israele a scapito invece del trasferimento della popolazione palestinese in altri stati. Mai Alkaila non dimentica di citare la costruzione illegale del Muro dell’apartheid che divide villaggi e città palestinesi, della detenzione amministrativa, norma ancora in vigore nell’ordinamento d’Israele, usata per lo più nei confronti dei palestinesi per una detenzione senza obbligo di un provato reato a tempo indeterminato. L’ambasciatrice termina affermando che “Israele viola ogni giorno i diritti del popolo palestinese attraverso gli arresti indiscriminati, la distruzione di case, di alberi, l’uso dei tanti checkpoint che obbligano la popolazione palestinese a dover sostare per lunghe ore prima di poterli attraversare per raggiungere i luoghi di lavoro, di studio e di cura”. Per tutto questo, Mai lancia una richiesta d’aiuto, a noi popolo occidentale per sensibilizzare e fare pressione su ogni comune, città, regione, paese europeo affinché si possa veramente raggiungere una vera pace in Palestina.


La delegazione palestinese, oltre all’Ambasciatrice, era formata da: Mahmoud Abu Adeh membro del Comitato esecutivo della “Palestine General Federazion of Trade Unions” di Betlemme, Shaheen A.M.Shaheen amministratore Doha Municipality del Governorate di Betlemme, Monica J.A.Salem responsabile delle donne sindacato palestinese P.G. of T.U. e Hani Gaber funzionario dell’Ambasciata Palestinese a Roma.
I responsabili del sindacato nazionale palestinese puntano il dito sull’enorme problema del lavoro in Palestina. La disoccupazione è molto alta ed i lavoratori palestinesi che lavorano in Israele non hanno nessun diritto, nessuna garanzia. Molte volte non sono neppure pagati. Nelle loro buste paga c’è la trattenuta relativa alla sanità e alla pensione, ma, a loro non ritorna nulla, non hanno nessun beneficio e sono obbligati a pagare per qualsiasi prestazione di cui hanno bisogno. Non possono vendere i propri prodotti che producono in ogni settore. Tutto questo produce solo povertà e disoccupazione. Israele non porta via solo terre, acqua e lavoro ma anche la loro dignità di uomini e donne.
La donna in Palestina è sempre stata all’avanguardia, in prima linea, è sempre stata considerata importante sia per la società e sia per la famiglia. Oggi, il 25% nei vari settori della società è occupato da donne.  L’obiettivo, però, è quello di riuscire a raggiungere il 50%. La vita delle donne in Palestina non è certo facile, è difficile e dura,  in quanto sono loro che, di solito, devono portare avanti la famiglia, perché il marito o i figli o i fratelli sono in prigione o morti.

Nel corso dell’incontro è presentato il progetto “Operazione Rondine, diritto come misura e giustizia come livella “ dell’associazione Gavci, che fa appello agli enti del governo locale, le autorità locali d’Israele e Palestina, alle associazioni transnazionali dei governi locali perché si uniscano in una corale mobilitazione e idealmente, con delibera formale, procedano a reclamare Gerusalemme quale Word District-Capitale Mondiale della Pace. Questo progetto è anche oggetto di un convegno che si terrà nel pomeriggio a Bologna alla presenza di tutta la delegazione palestinese.

 

 


L’ambasciatrice, come ultimo atto, consegna al Comune di Modena due piatti prodotti in Palestina con dipinta la bandiera della pace ed altri doni simbolici della terra di Palestina.
La presidente Caterina Liotti, offre all’Ambasciatrice come dono una riproduzione della statuetta che si trova all’angolo del Palazzo comunale “La Bonissima”. La statuetta doveva probabilmente rappresentare l’onestà del commercio. La leggenda più diffusa racconta, però, che si tratta di “una dama ricca che, in un periodo di carestia, aveva sfamato il popolo, chiedendo aiuto agli altri notabili della città. Cessata la carestia, avrebbe festeggiato con tutta la popolazione nel suo palazzo, cacciando solo quelli che non l’avevano aiutata nell’opera buona”.
La Presidente del Consiglio nel consegnare la statuetta all’Ambasciatrice sottolinea l’importanza della donna in questa campagna verso la Pace.

23/10/2013



SIRIA
UNA GUERRA DA EVITARE

di Mirca Garuti


Un’altra guerra imminente?  Se si leggono i titoli dei tanti quotidiani italiani e stranieri, sembra proprio di sì. Le tante voci che tentano di alzarsi a difesa di un popolo, anzi, dei popoli che fanno parte dell’area circostante la Siria, restano inascoltate. Gli interessi personali dei Grandi Stati sono più importanti di tutto e tutti. L’uomo, per l’ennesima volta, dimostra tutta la sua capacità distruttiva nei confronti dei suoi stessi simili! La storia non insegna, il passato non è in grado di dimostrare l’inutilità di un’altra guerra, si è sordi e ciechi, quando in gioco c’è solo il proprio interesse e potere. Quando le armi chimiche sono usate dagli “amici” si rimane in silenzio, si fa finta di niente, mentre, quando sono utilizzate dai “nemici”, allora s’insorge, si grida all’orrore ed al dovere dare una lezione. Come il solito, due pesi e due misure, secondo la convenienza!
La crisi economica porta sempre e solo alla guerra. Il Presidente americano, incurante dei tanti “No alla guerra”, prosegue il suo cammino verso una sicura catastrofe. A lui non interessa se tantissime persone innocenti moriranno! O è tanto cieco e sordo, oppure è solo un burattino nelle mani di qualcuno più forte di lui.

“La strategia usata è sempre la stessa. Prima fase: si grida alla mancanza di democrazia e di diritti umani. Seconda fase: s’inviano consiglieri che sostengono i militanti della libertà e s’inventa un aggettivo per la rivoluzione in atto (dei gelsomini, dei cedri, arancione ecc.) I consiglieri partecipano anche alle proteste e agli scontri, aumentando così di numero ed intensificando il loro coinvolgimento. Terza fase: la causa della guerra.” (da “Left “del 31/08/2013 – nota di Maurizio Torrealta)

 

La Siria  per tutti è quella rappresentata dal governo di Bashar al-Assad oppure dai così detti “ribelli”. Pochi parlano della terza forza del paese: i curdi siriani. In Siria come in Turchia la lingua curda fu proibita nella stampa e nella società. Oltre al genocidio culturale, il regime siriano non ha mai smesso le aggressioni fisiche nei loro confronti. I curdi vivono da sempre una tragedia umana. In questa guerra la posizione dei curdi è stata neutrale, hanno  preso le distanze sia dalle forze del regime e sia da quelle di opposizione, organizzando una propria resistenza, cercando di sviluppare una politica indipendente.

Il quotidiano “The Independent” il 26 agosto scorso ha pubblicato una corretta analisi sulla situazione siriana, affermando che: “Mentre il mondo nella scorsa settimana si è concentrato sugli orrori a Damasco, i ribelli anti-governativi hanno condotto una campagna di pulizia etnica contro i curdi siriani nel nord-est del paese, costringendo 40.000 di loro, in meno di una settimana, a fuggire attraverso il Tigri nel nord dell'Iraq. Così molti stanno cercando di sfuggire a quello che le Nazioni Unite dicono che è il più grande singolo esodo dei profughi dalla guerra. Il ponte di barche sul Tigri che stavano utilizzando è vicino al collasso e ha dovuto essere chiuso, intrappolando decine di migliaia di curdi terrorizzati all'interno della Siria .”
Ma chi sono questi ribelli? Sempre sul quotidiano inglese: “I ribelli non vogliono negoziare con il governo, in parte perché sono così frammentati che avrebbero difficoltà a concordare una squadra di negoziatori che rappresenti i diversi filoni di opposizione. Secondo una stima, ci sono 1.200 diverse unità militari ribelli in Siria  che variano nel formato: da gruppi familiari di alcune decine di combattenti a piccoli eserciti di miliziani ben organizzati e pesantemente armati di carri armati e artiglieria.”

Approfondimenti:

Gli interessi economici della Francia interventista di Marco Cesario da Linkiesta

Dossier: “I curdi in Siria”  (link su uikionlus)

“Contro la Guerra del Levante” – Paola Caridi, dal sito “Invisibile Arabs”

-    L'Iran, non la Siria, vero bersaglio dell'Occidente di Robert Fisk

-    L'infernale illusione delle armi di Adonis

Appello di UikiOnlus

Appello del Partito comunista libanese

-   Notizie dalla Siria - Nena News Agency 

-   No alla guerra imperialista di Bassam Saleh



Articoli su Alkemia

- L'IMPERO IN DECLINO - Intervista con Gilbert Achcar

- SIRIA: UNA VIA PACIFICA ALLA SOLUZIONE DELLA CRISI - di Giovanni Sarubbi - Intervista ad Ossamah Al Tawil membro del Comitato Esecutivo del Coordinamento Nazionale Siriano per il Cambiamento Democratico

 

PRIME RIFLESSIONI SULLA DINAMICA DELLA RIVOLUZIONE EGIZIANA

 

Intervista a Gilbert Achcar rilasciata il 3 luglio al canale televisivo The Real News Network (TRNN) e trasmessa in due parti il 4 luglio.

Gilbert Achcar è cresciuto in Libano ed è ora professore presso la Scuola di Studi Orientali e Africani dell’Università di Londra. Tra le sue opere: "Scontro tra barbarie", "Terrorismo e disordine mondiale" (2002, pubblicato in 13 lingue); "La guerra dei 33 giorni" (con Michel Michel Warshawski, edizioni Alegre), "La poudrière du Moyen-Orient" (2007), con Noam Chomsky, "Les Arabes et la Shoah" (2009) e, più recentemente, "Le peuple veut" (2013).

Puoi illustrarci la tua reazione alla notizia che il presidente Morsi, il leader democraticamente eletto d’ Egitto, è stato rimosso dal potere dall’esercito egiziano?

Direi che, in un certo senso, si tratta della ripetizione dello stesso scenario che ha avuto luogo nel febbraio 2011. Quel che effettivamente possiamo constatare in entrambi i casi è che si tratta di un colpo di stato, un colpo di stato militare, nel contesto di un’immensa mobilitazione, con la sola differenza che coloro che sono al potere sono diversi e la composizione della folla, la mobilitazione di massa, è anch’essa diversa rispetto al 2011.

Nel gennaio-febbraio 2011, abbiamo assistito, come si sa, ad un immenso movimento di protesta, quella grande rivolta nella quale erano coinvolte tutte le correnti di opposizione al regime di Mubarak. Si trattava dei liberali, dei movimenti di sinistra, ma anche i Fratelli Musulmani. Essi rappresentavano una componente importante della mobilitazione in quel momento. In quella grande mobilitazione di massa si riscontravano lo stesso tipo di aspettative nei confronti dell’esercito, l’idea cioè che l’esercito sia dalla parte del popolo, che esso potrebbe rappresentare gli interessi del popolo. Mi ricordo, d’altronde, che proprio l’8 febbraio 2011, appena tre giorni prima della caduta di Mubarak, The Real News Network mi aveva intervistato ed io avevo messo in guardia contro simili illusioni circa l’esercito e i militari.

Quello che stiamo vedendo adesso è solo il risultato di una sorta di gioco delle parti. I Fratelli Musulmani sono al potere e i sostenitori del vecchio regime, quello di Mubarak, per le strade a fianco dei liberali, con la sinistra, con l’opposizione popolare ai Fratelli Musulmani. È in un certo senso, come ho già detto, una ripetizione dello stesso scenario, naturalmente con una differenza fondamentale: la natura della forza politica che è al potere.

In entrambi i casi assistiamo ad una grande mobilitazione. E questa sollevazione è assolutamente affascinante. È qualcosa che va oltre le aspettative, anche tra chi, come me, rifiuta tutti quei commenti cupi ai quali si assiste ogni volta che le elezioni portano al portare forze simili alla Fratellanza Musulmana. Abbiamo assistito ad ogni tipo di commento che indicava come la primavera si fosse trasformata nell’autunno [islamista] o addirittura in inverno [fondamentalista]; molti hanno visto in questi eventi un motivo, se non una scusa, per denigrare tutte le rivolte nella regione. Ci sono stati anche altri, come me, che hanno invece insistito sul fatto che ci troviamo solo all’inizio di un processo rivoluzionario di lunga durata. Ho anche detto che, in effetti, ero abbastanza contento di vedere i Fratelli Musulmani accedere al governo perché questo sarebbe stato il modo migliore per fare in modo che essi finalmente si esponessero e, in questo modo, perdessero la loro capacità di ingannare la gente con slogan demagogici del tipo “l’Islam è la soluzione”.

Ci puoi dire qualcosa sugli interessi fondamentali in gioco nella rivolta in Egitto e quali quelli politici che la animano?

Come ho appena detto, siamo di fronte a una folla molto eterogena, politicamente parlando. Ho visto in tv alcune interviste con gente per le strade. Molte persone, nei caffè o in luoghi simili, esprimono la loro preferenza per Mubarak piuttosto che per Morsi. Vi sono dunque, naturalmente, un gran numero di sostenitori del vecchio regime, un gran numero di persone che sono, come dire, una massa piuttosto conservatrice, che è contro i Fratelli musulmani a causa del profonda incapacità mostrata in questo anno al potere. Si sono comportati in modo veramente deplorevole, mostrando una totale inettitudine, e sono stati capaci di mettere contro di loro proprio tutti.

Vi sono quindi sostenitori del vecchio regime; ma in questa grande mobilitazione avete immense masse di persone che agiscono partendo dalla loro situazione di classe, se così possiamo dire, constatando che nulla è stato fatto contro il deterioramento delle loro condizioni vita; il governo non ha fatto altro che continuare le politiche sociali ed economiche del regime precedente. Troviamo poi anche l’opposizione liberale, che si oppone ai Fratelli musulmani per motivi politici, ma che non contesta le loro politiche economiche e sociali, poiché i liberali, in sostanza, condividono le stesse opzioni. Abbiamo poi la sinistra. Si tratta quindi, come ho detto, di una massa molto eterogenea. Nello stesso modo in cui nel 2011 abbiamo visto forze molto eterogenee, di natura assai diversa, riunirsi attorno ad un obiettivo comune che era la loro opposizione a Mubarak, oggi assistiamo allo stesso fenomeno nella opposizione a Morsi.

Naturalmente questo non risolverà il problema. Qualsiasi illusione che l’esercito e o chiunque verrà portato al potere dall’esercito (perché l’esercito si trova di nuovo nella posizione di king maker) possa e voglia apportare miglioramenti alle condizioni sociali ed economiche e alle condizioni di esistenza dei lavoratori in Egitto è semplicemente infondata. Tutte le illusioni di questo tipo sono per l’appunto solo questo: illusioni!

Ci troviamo quindi di fronte ad uno scontro tra coloro che sostengono il colpo di stato dei militari perché vogliono la restaurazione dell’ordine, convinti che i Fratelli Musulmani non riescono a raggiungere questo obiettivo, quelli cioè che desiderano un ritorno alla normalità nel paese; cosa che in realtà significherebbe la fine di tutte le mobilitazioni sociali e di tutti gli scioperi che si sono sviluppati in modo assai intenso negli ultimi due anni. Vi è quindi questo tipo di persone. Dall’altra parte poi ci sono quelli che si ribellano a Morsi perché ha continuato le politiche sociali di Mubarak.

Ci troviamo quindi in piena contraddizione. Il problema è che, con l’eccezione di gruppi marginali, vi è poca consapevolezza di questa situazione. La tragedia sta nella mancanza di una forza di sinistra che possa contare su una credibilità popolare reale e su una chiara visione strategica di ciò che sta accadendo. Questa mancanza pesa enormemente.

Hai finora delineato il modo in cui questo processo rivoluzionario, che ha avuto inizio il 25 gennaio 2011, sta evolvendo. In sostanza stai dicendo che non si vedono emergere leader del movimento rivoluzionario in grado di candidarsi alla leadership in occasione delle prossime elezioni promesse dall’esercito…

Vi è stata l’apparizione di una figura che poteva svolgere un ruolo di unificatore delle aspirazioni, chiamiamole così, sociali e progressiste della popolazione. Era il candidato nasseriano Hamdeen Sabahi, con riferimento al Nasser che ha governò l’Egitto fino al 1970. Questo candidato ha rappresentato una proposta che si può configurare come una sorta di nazionalismo di sinistra. È arrivato terzo (nel 2012 con il 20,72% contro il 23,66% di Ahmed Shafik – un ufficiale, un rappresentante del vecchio regime – e il 24,78% di Mohamed Morsi). È stata la vera e propria sorpresa delle elezioni presidenziali. Rappresenta l’unica figura realmente popolare nella vasta gamma della sinistra egiziana.
Il problema è che anche lui condivide totalmente il discorso oggi prevalente secondo il quale l’esercito è nostro amico, è con il popolo, ecc. Difende, inoltre un’ alleanza con i liberali e con altri che sono veri e propri superstiti del vecchio regime come Amr Moussa (il segretario generale della Lega Araba tra il 2001 e il 2011, e ancora prima ministro degli Esteri tra il 1991 e il 2001). Recentemente ha addirittura dichiarato che era stato un errore per il movimento popolare, prima che Morsi giungesse al potere, lanciare rivendicazioni quali “Abbasso il regime militare”; e questo mentre il Comitato supremo delle forze armate (CSFA) governava il paese con il pugno di ferro. Queste dichiarazioni non sono per nulla rassicuranti. Tuttavia bisogna riconoscere che è stata l’unica personalità emersa in grado di attrarre si di sé le aspirazioni popolari al cambiamento a sinistra e non a destra (sia nella variante di una leadership islamista o in quella di un ritorno al precedente regime). La questione che ora si pone, se l’esercito manterrà il programma annunciato – il che è ancora tutto da verificare – che prevede la tenuta di elezioni presidenziali a breve termine, è vedere che cosa accadrà in queste elezioni e come questo candidato – l’unico in grado di imporsi a sinistra – si posizionerà: che tipo di discorso svilupperà , quale programma, ecc. È questo un aspetto sul quale dovremo concentrare la nostra attenzione, sempre che – lo ripeto ancora una volta – le elezioni abbiano effettivamente luogo. È troppo presto per pronunciarsi a tale proposito, poiché i Fratelli Musulmani per i momento continuano ad opporsi al colpo di stato e a denunciarlo per quello che è: un colpo di stato. E lo è davvero. E questo anche se non si tratta di un semplice putsch contro un governo democraticamente eletto, ma di un colpo di stato contro un governo un eletto sì democraticamente, ma che ha suscitato l’opposizione della stragrande maggioranza della popolazione egiziana. Le mobilitazioni contro Morsi hanno raggiunto livelli mai visti. E’ stato un avvenimento assolutamente senza precedenti.

Qual è il ruolo degli Stati Uniti in tutto questo? Sono stati felici di sostenere Mubarak per decenni con i militari al potere. Che ruolo hanno giocato in questa situazione e qual è il ruolo che gli Stati Uniti potrebbero svolgere nel prossimo periodo?

Il movimento di opposizione in Egitto, vale a dire l’opposizione a Morsi, ha la forte convinzione che Washington abbia sostenuto Morsi. C’erano infatti molti segnali che indicavano il sostegno di Washington a Morsi; messe guardia contro un intervento dell’esercito, l’insistenza sulla necessità di seguire sempre la via costituzionale, sebbene l’attuale Costituzione goda di una legittimità assai discutibile. Questo enorme movimento, infatti, non riconosce questa come una costituzione legittima, ma come qualcosa imposto dai Fratelli Musulmani. L’ambasciatore degli Stati Uniti al Cairo ha fatto una dichiarazione, all’inizio delle proteste contro Morsi, nella quale ha affermato che esse erano dannose per l’economia. Una dichiarazione che è apparsa come flagrante sostegno a Morsi. Vi sono quindi ampie indicazioni che vanno in questa direzione.

In realtà Washington si trova in una situazione di grande difficoltà. Coloro che sostengono, e sono tanti, soprattutto su Internet, tutte queste teorie del complotto secondo cui Washington sarebbe onnipotente e tirerebbe le fila di tutto quello che sta accadendo nel mondo arabo sono completamente fuori strada. Penso invece che l’influenza di Washington, degli Stati Uniti in tutta la regione, si trovi ad un livello estremamente basso. Questa situazione è il risultato della sconfitta in Iraq, perché quella è stata una grande sconfitta per il progetto imperiale degli Stati Uniti.

Abbiamo assistito alla combinazione di questo disastro per la politica imperiale degli Stati Uniti con il rovesciamento di alleati fondamentali per Washington come Mubarak.

Washington ha cercato di puntare sulla Fratellanza Musulmana. Infatti, durante l’ultimo periodo, dopo l’inizio delle rivolte nel mondo arabo, o immediatamente dopo, Washington ha scommesso sui Fratelli Musulmani. Si ê trattato in realtà di una loro rinnovata alleanza poiché gli Stati Uniti hanno lavorato a stretto contatto con i Fratelli Musulmani negli anni ’50, ’60, ’70, di fatto fino al 1990-1991. Sono sempre stati in stretto contatto con i Fratelli Musulmani. Hanno rinnovato questa collaborazione convinti che nelle attuali condizioni del mondo arabo, di fronte a tutte queste mobilitazioni di massa – che costituiscono il più importante e nuovo sviluppo a partire dal dicembre 2010/gennaio 2011 – avevano bisogno di alleati con una vera base popolare, con una vera e propria organizzazione popolare. Coloro che meglio incarnavano questa opzione e che erano disposti a lavorare e a cooperare con Washington sono stati i Fratelli Musulmani. Questo è quello che hanno fatto e questo è ciò che essi continuano a fare.

La situazione ha ormai raggiunto un punto in cui Washington ha dovuto constatare che la Fratellanza Musulmana ha fallito. Quindi, anche dal punto di vista di Washington, scommettere su di loro non è più possibile. Non sono riusciti a riportare l’ordine in Egitto. Non sono stati in grado di controllare la situazione. Il principale alleato di Washington in Egitto è ovviamente l’esercito, un esercito che ha legami molto stretti con Washington. Esso è in parte finanziato da Washington (dalla fine degli anni 1970, a seguito della conclusione di un trattato di pace con Israele, l’esercito egiziano riceve finanziamenti annuali; attualmente pari a circa 1,3 miliardi dollari). La maggior parte dei pagamenti degli Stati Uniti verso l’Egitto, che si colloca appena dopo Israele dal punto di vista degli importi riscossi, va all’esercito. L’attuale generazione di ufficiali è stata addestrata negli Stati Uniti, ha partecipato a manovre militari congiunte, ecc. Si tratta quindi di un esercito strettamente legato a Washington. E, naturalmente, non è concepibile che Washington prenda posizione contro i militari. Credo che adotteranno una posizione conciliante. Ciò che conta è che essi non dirigono la situazione. E coloro che pensano che gli Stati Uniti siano i registi occulti di tutta l’operazione, come ho già detto, sono completamente fuori strada.

Puoi ora dirci cosa accadrà in Egitto? Mohamed El-Baradei è una delle figure dell’ opposizione tra i leader che hanno incontrato l’esercito. Pare che i leader sindacali non abbiano incontrato l’esercito. Ci puoi dire quali le possibili implicazioni di tutto questo? Infine, dopo la crisi di questo governo dei Fratelli Musulmani, se ci dovessero essere nuove elezioni, pensi che i Fratelli Musulmani potrebbe vincere?

Comincerò con l’ultimo punto. No, io non vedo come i Fratelli Musulmani potrebbero in questo momento vincere delle elezioni. Le prossime elezioni saranno elezioni presidenziali, perlomeno in base alle indicazioni del comandante dell’esercito El-Sissi contenute nel suo discorso. Se si guarda a quello che è successo nelle precedenti elezioni, si ricorderà che Morsi è stato eletto al secondo turno grazie ai voti che non erano “pro-Morsi”, ma piuttosto contro Shafik, l’altro candidato, un ex soldato considerato rappresentante di una totale continuità con il regime di Mubarak. Morsi ha ottenuto, anche allora, poco meno del 25% dei voti al primo turno. E non sono affatto sicuro che i Fratelli Musulmani otterrebbero di nuovo questo 25%. Quindi, no, non penso che sia davvero possibile, per non parlare del fatto che mi è difficile immaginare l’esercito organizzare delle elezioni che permettano a Morsi, o a qualcuno a lui legato, di ritornare al potere. Questo mi pare perlomeno piuttosto improbabile.
Quello che accadrà è esattamente ciò a cui mi riferivo quando ho fatto allusione alla questione del candidato nasseriano. Questo fronte di opposizione assai eterogeneo si presenterà alle prossime elezioni con un unico candidato? Se è questo quel che succederà, il candidato non sarà il nasseriano al quale ho fatto allusione [Hamdeen Sabahi], ma piuttosto qualcuno come El-Baradei, un liberale.

In qualche modo tutto questo sarà un altro passo, l’apertura di una nuova fase in processo rivoluzionario che sarà bel lontano dall’essere portato a termine. Esso continuerà, e passerà per molti anni, se non decenni, di instabilità prima di giungere in una fase in cui le cose cambieranno profondamente sulla base di politiche economiche e sociali diverse. Per raggiungere questo obiettivo è necessario che si produca un cambiamento sociale e politico profondo. Tutto questo oggi non è ancora visibile. È perciò troppo presto per fare previsioni a questo proposito.

Quello che però possiamo dire è che è altamente improbabile che l’esercito cerchi di ripetere quello che ha fatto dopo il precedente colpo di Stato dell’11 febbraio 2011, quando, nello stesso modo, l’esercito ha allontanato Mubarak dal potere. Quello che adesso hanno fatto con Morsi. Essi hanno a lungo governato il paese la prima volta, prima dell’elezione di Morsi (tra il febbraio 2011 e la fine di giugno 2012, ndr). Mi sembra difficile che possano fare la stessa cosa perché hanno capito che questo è per loro dannoso e che di fatto oggi il potere in Egitto è diventato una sorta di patata bollente. Solo che… chi potrebbe desiderare di affrontare tutti i problemi che abbiamo davanti, uno dei quali, non certo il meno importante, è rappresentato dai Fratelli Musulmani stessi? Staremo a vedere cosa succede. Se questi ultimi verranno semplicemente sopraffatti, obbligati a capitolare, ciò accadrà con un accumulo di molto risentimento e ci sarà una forte opposizione da parte degli ambienti islamici verso chiunque verrà dopo Morsi.

D’altra parte vi è una situazione economica terribilmente difficile, molto preoccupante, con un paese sull’orlo della bancarotta, ai limiti di un profondo disastro economico. La sola politica proposta, da parte di un ampio schieramento che va da Morsi ad El-Baradei passando per i militari, corrisponde all’agenda delle misure neoliberali che l’FMI promuove in Egitto. È veramente difficile definire fino a che punto il Fondo monetario internazionale rappresenti nei fatti proprio quello che è stato criticamente definito da molto tempo, cioè il fondamentalismo monetarista internazionale. A tal punto fondamentalista nella sua prospettiva neoliberale da spingere l’Egitto, dopo tutto quello che abbiamo visto, ad approfondire ulteriormente l’applicazione di quelle stesse politiche economiche già attuate sotto Mubarak e che hanno portato a questa profonda crisi economica: nessuna crescita e, in ogni caso, creazione di pochissimi posti di lavoro, una disoccupazione enorme, in modo particolare tra i giovani. Come detto, essi continuano a preconizzare le stesse politiche. L’FMI ha esercitato forti pressioni sul governo Morsi affinché mettesse in atto ulteriori misure di austerità, con nuove riduzioni dei sussidi erogati sui prezzi del carburante e di altri prodotti di base. Essi continuano a sostenere tali politiche. Morsi non le ha attuate per la semplice ragione che non era in grado di farlo. Non era politicamente abbastanza forte per poterlo fare. L’unica volta che ha tentato di farlo ha assistito a una tale reazione che lo ha costretto ad annullare immediatamente, via Facebook, le misure che aveva annunciato. È stato davvero ridicolo.

È una vera e propria patata bollente. Proprio per questo, lo ripeto ancora una volta, quello a cui stiamo assistendo non è altro che un episodio di una lunga storia, che di fatto si trova ancora alle sue battute iniziali. Assisteremo a numerosi altri sviluppi nei prossimi anni in Egitto e nel resto del mondo arabo.

(traduzione a cura della redazione di Solidarietà - pubblicato da fabur49 il 10 luglio 2013 sul sito di Sinistra Critica)

 - “Egitto, la questione sociale alla radice dei grandi sconvolgimenti politici" (Intervista rilasciata il 30/06/13 di Gilbert Achcar)


(Leggi 2° parte)

VERSO IL KURDISTAN: INCONTRI E TESTIMONIANZE
(3° parte)

di Mirca Garuti

DIYARBAKIR: MADRI DELLA PACE e TUHAD FED, associazioni che si occupano di madri e famiglie che hanno perso o che hanno in carcere mariti, figli, padri, fratelli o sorelle.

 

ASCOLTA L’INTERVISTA AL DEPUTATO CURDO ALTAN TAN



Lasciati i festeggiamenti del Newroz, siamo ancora a Diyarbakir per gli ultimi due appuntamenti molto importanti.
Diyarbakir è una grande città in movimento piena d’energia, simbolo dell’identità e della tenacia del popolo curdo. E’ una città storica con monumenti, antiche case costruite in basalto nero ed ornate con decorazioni a stampo su pietra, moschee in stile arabo ed un imponente cerchia di mura che si snoda per quasi 6 km, con numerosi bastioni e torri.

Incontriamo le Madri della Pace nella sede della loro associazione. Ci accolgono sorridenti, sono tante, di tutte l’età e tutte portano sul capo un gran foulard bianco che ci ricorda subito altre Madri, quelle della Plaza de Mayo in Argentina. L’incontro con queste donne è emozionante. La “questione Donna” è un argomento molto sentito all’interno della nostra delegazione. Oltre all’associazione Alkemia, infatti, c’è l’avvocato Simonetta Crisci che fa parte della Casa internazionale delle donne a Roma e la giornalista Emanuela Irace che scrive per la rivista “Noi Donne”, un mensile di politica e cultura fondato nel 1944. L’associazione “Verso il Kurdistan”, da oltre dieci anni, prosegue un progetto di sostegno a distanza di queste donne, offrendo loro l’opportunità di poter continuare ad avere una vita dignitosa, in mancanza di mezzi di sostentamento.

Le Madri della Pace sono donne adulte, sono le madri dei detenuti, dei guerriglieri, dei rifugiati, dei martiri. Le loro vite sono spezzate, non per questo, però, sono rimaste immobili e mute. (vedi Madri della Pace - 2012)

Organizzate in associazioni, a Diyarbakir, Van e Istanbul, sono riuscite a trasformare il loro dolore in forza, diventando protagoniste di molte iniziative, sit-in e lotta per i diritti umani, per la pace e la democrazia. Ogni anno organizzano un congresso per decidere insieme nuove strategie e confrontarsi sui vari problemi e situazioni.
In un appello del 2002, le Madri sostenevano "Vogliamo costruire un futuro di pace e libertà per le future generazioni” Nell’appello precisavano inoltre le loro richieste: “Apertura di un dialogo di pace, amnistia generale per i prigionieri politici, abolizione della pena di morte, delle leggi d’emergenza, scioglimento delle formazioni paramilitari dei "guardiani di villaggio", diritto al ritorno dei profughi e alla ricostruzione, istruzione nella lingua madre, e un nuovo patto costituzionale di cittadinanza che garantisca pluralismo culturale e piena libertà d’espressione e di pensiero.”
La ragione della loro battaglia non violenta è rivolta alla riconciliazione tra il popolo curdo ed il governo turco. Da sempre cercano di portare all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale gli scopi delle loro azioni. Per questo raccontare le loro storie è importante, perché Raccontare significa “Esistere”.

 

  

 

Nonostante la sofferenza che traspare dai loro visi segnati dal tempo e dal dolore, sono donne serene e fiere di se stesse. Non hanno più paura, hanno visto la morte e la disperazione troppe volte per temere ancora la vita. Sono sedute intorno a noi, pronte a raccontare le loro storie senza versare nessuna lacrima.

   Husinè Guler ha 75 anni ed ha sei figli.  Descrive l’angoscia che la tormenta ogni giorno da 15 anni nell’attesa di ricevere qualche notizia sulla sorte di uno dei suoi figli, andato in montagna a combattere. Un altro figlio e suo marito di 80 anni sono stati condannati alla pena massima, 36 anni di carcere, arrestati, forse, durante un’operazione militare o in uno scontro armato. Il figlio ha già scontato 11 anni, mentre il marito 20. Husinè proviene da un villaggio vicino a Diyarbakir che fu bruciato dall’esercito. Oggi vive qui a Diyarbakir con due figli.

 

Serine Unat, ha dieci figli.  Non ha notizie di un figlio da 21 anni. Era uno studente di medicina. Gli mancavano solo 6 mesi dalla laurea, ma questo non gli ha impedito di partire per andare a combattere in montagna. Durante una perquisizione avvenuta nell’abitazione, suo marito è stato colpito violentemente alla testa dal calcio di una pistola da un militare dell’esercito turco. Dopo pochi mesi è deceduto. Da 50 anni vive a Diyarbakir. Ha dovuto lasciare il suo villaggio a causa della violenza dei “guardiani del villaggio”.

 

 

 

 

Nafiye Vigit, ha 5 figli: uno in carcere e due si nascondono, in quanto sono ricercati. Uno di questi era uno studente della facoltà di medicina al terzo anno. Suo marito è malato di cancro.

 

 

 

Leyla Astan ha perso il marito, quando aveva 25 anni in un incidente d’auto ed ha 4 figli. Ha trascorso la sua giovane vita fuggendo da un villaggio all’altro. Prima, per il suo villaggio dato alle fiamme e poi, di nuovo, a causa di una denuncia fatta alla polizia da un vicino di casa.
La sua famiglia - dice – era ricercata”. E’ stata quindi costretta a trasferirsi a Diyarbakir. Suo fratello era il Presidente del partito DEP (ora BDP) a Batman. E’ stato ucciso in un agguato al mercato. E’ stata un’esecuzione eseguita dallo Stato. Leyla vive con un figlio, mentre gli altri sono sposati. La sua sofferenza però non ha fine. Ora il suo dolore è per i nipoti. Il figlio di suo cognato, studente di medicina, ha dovuto abbandonare gli studi a causa della continua oppressione della polizia. Arrestato più volte e torturato, ha scelto la strada della montagna. E’ diventato martire. I suoi familiari però non hanno mai avuto il suo corpo. Un altro cognato è stato ucciso nella sua auto, una notte, nel 1993, mentre rientrava a casa, in un agguato in un villaggio nel distretto di Batman.  Lasciava tre figli piccoli.


Sultan Aksoy. Nel 1993 uno dei suoi figli è stato ferito, arrestato e torturato. E’ rimasto invalido. Nel 1994 è stato ucciso. Altri due figli hanno fatto 3 anni di carcere. La voce di Sultan, a questo punto, s’incrina, trattiene le lacrime, mentre racconta: ” I poliziotti hanno perquisito la nostra casa, con molta violenza, per tre volte, ma non siamo stati arrestati”. Sultan abitava in un paese vicino a Mardin. Il Governo turco, dietro minacce di morte, ha obbligato la sua famiglia ad abbandonare il villaggio. Sono stati quindi espulsi e si sono poi trasferiti a Gaziantep.
Sultan, guardandoci negli occhi, termina così il suo racconto: “Dopo tutta questa sofferenza, noi offriamo ugualmente la nostra mano per la pace”.



  L’ultima donna che vuole lasciare la sua testimonianza è Karain. Ha sei figli: uno, martire; uno, scomparso da 21 anni ed un altro che vive in Europa, dove si è trasferito dopo la sua scarcerazione.  Era un guerrigliero. Karain è di Diyarbakir e vive con due figlie. Suo marito è morto sotto tortura. L’ultima figlia, Fatma, è stata uccisa un anno fa. Era con un gruppo di 15 guerriglieri. L’esercito turco ha usato contro di loro armi chimiche. Fatma aveva 23 anni. Karain ci fa vedere, orgogliosa ma triste, la fotografia della figlia ritagliata da un giornale. 



Ascoltare le storie di queste Madri ci fa capire l’importanza di questi racconti. È sempre doloroso dover ricordare, ripercorrere momenti tristi, sofferti, ma è indispensabile per far capire cosa c’è dietro l’Associazione delle “Madri della Pace”. E’ questo il messaggio che, la delegazione italiana “Verso il Kurdistan” , rivolge a queste donne coraggiose. Questo deve essere il nostro impegno. Dobbiamo far conoscere a chi ci circonda, al mondo che è fuori di qui, chi sono queste donne, cosa e come hanno vissuto, cosa hanno patito e cosa, invece, oggi sono in grado di fare. Le Madri della Pace vanno in ogni luogo dove si svolgono azioni, iniziative, interventi per impedire disordini o scontri. Sono gli scudi umani del popolo curdo. Sono state in montagna sotto la pioggia e la neve, niente, le può fermare. La loro è la battaglia per la pace. In merito al discorso di Ocalan, hanno di nuovo ripetuto che loro pregano per la pace, sono pronte per la pace, ma “Aspettiamo un passo in avanti da parte del nostro governo turco”, hanno così concluso la nostra domanda.

Audio Ass. Madri della Pace 

 

  


 Ci troviamo ora nella sede di Tuhad Fed, federazione formata dai familiari dei detenuti del PKK e KCK. L’associazione è stata fondata nei primi anni novanta, mentre la federazione negli anni 2000.
La federazione è composta da 9 associazioni e 2 uffici di rappresentanza. Sono responsabili di 10 mila detenuti e 82 carceri. Il loro scopo è quello di sostenere le necessità sia dei detenuti e sia delle loro famiglie, dare sostegno giuridico e denunciare le violazioni dei diritti umani. La responsabile di Tuhad Fed dichiara: “ Siamo un’associazione per i diritti umani, non politica, siamo i portavoce dei detenuti, lottiamo anche per la libertà di Abdullah Ocalan e denunciamo le sue cattive condizioni carcerarie”. Ogni anno, il 4 aprile, ci ricorda, è il compleanno di Ocalan e si celebra ad Amara, suo villaggio natale, con una conferenza stampa e vari festeggiamenti. Da un anno e mezzo il loro presidente si trova in totale isolamento, non può vedere i suoi avvocati e non può far sentire la sua voce al popolo curdo. Per questo il popolo ha reagito duramente, compiendo molte azioni violente. All’interno delle prigioni, in quel periodo, le guardie carcerarie aggredivano i detenuti politici con estrema violenza, non facendo distinzione tra donne e bambini, contribuendo così, ad incrementare le numerose rivolte. In alcune strutture, diversi detenuti civili si univano a queste ribellioni, come nel carcere di Urfa.   A causa di un incendio, provocato proprio durante alcuni tumulti, morirono 13 detenuti civili, di cui uno solo era stato condannato, gli altri 12 erano ancora in attesa di giudizio. Per questo ci furono trasferimenti forzati di molti detenuti in altre carceri. La responsabile poi continua, affermando che ”Noi abbiamo 137.000 detenuti, il popolo per questa guerra è diventato molto povero e, la conseguenza è l’aumento di crimini comuni. Le guardie carcerarie si divertono ad umiliare i detenuti, specialmente se sono curdi.” Tuhad Fed fece una conferenza stampa ed organizzò una manifestazione. La polizia reagì molto violentemente, usando i soliti mezzi in uso, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua, con il risultato di lasciare dietro di sé ancora morti.

  


 I detenuti politici decisero, allora, d’iniziare uno sciopero della fame senza termine. Lo sciopero è iniziato il 12 settembre 2012 in sette carceri da 64 detenuti. E’ durato 68 giorni, coinvolgendo 78 carceri e circa 10.000 detenuti, sostenuti dalle famiglie, da intellettuali, scrittori e dalla sinistra turca.  Il 30 ottobre personaggi dello spettacolo in Piazza Taksim ad Istanbul decisero di dare voce ad alcuni dei 700 detenuti curdi in sciopero della fame, leggendo il testo di otto lettere, specificando i motivi della loro lotta: fine dell’isolamento di Ocalan, il diritto all’istruzione in curdo e di potersi difendere in tribunale nella propria lingua madre. 


Centinaia di accademici delle più importanti università del paese hanno poi firmato un appello per “La fine del conflitto e il ritorno immediato al tavolo delle trattative” e, giornalisti dei media di sinistra o pro-curdi hanno manifestato ad Istanbul scandendo lo slogan: “Non vogliamo scrivere notizie di morte”.  Personaggi famosi in Turchia, come la cantante Sezen Aksu o lo scrittore Yaşar Kemal, si sono infine appellati al primo ministro Recep Tayyip Erdoğan perché non lasciasse la voce dei detenuti inascoltata. La direzione delle carceri invece si accanì sui detenuti in sciopero, mettendoli in isolamento, con torture fisiche e non dando loro né acqua e zucchero e né vitamine. Il governo turco negò al mondo l’esistenza di questi scioperi in atto nelle sue carceri. Allo scadere dei 68 giorni, le condizioni dei detenuti erano diventate veramente critiche, al limite della morte. Il 17 novembre Ocalan, tramite una lettera consegnata a suo fratello Mehmet, sollecitava i detenuti ad interrompere subito lo sciopero della fame.(vedi prima parte Newroz di Diyarbakir)
Questo sciopero si è rivelato molto importante – continua la responsabile - perché ha visto l’unione di tutti i curdi che vivono nei quattro paesi del Kurdistan (Turchia, Siria, Iran e Iraq) insieme con quelli della diaspora, in altre parole a chi vive all’estero, anche con l’appoggio dei socialisti del popolo turco ed i difensori dei diritti umani. Questa solidarietà è la dimostrazione di quanto il proprio presidente è importante per il popolo curdo, al contrario, invece, da quanto sostenuto dal governo turco. Lo sostengono da 34 anni.” Ora è in atto un nuovo processo di cambiamento. Durante questi scioperi della fame, ci sono stati alcuni incontri, tenuti segreti, tra il governo turco e Ocalan. Nella prima settimana di gennaio scorso, invece, sono ripresi i colloqui e, questa volta, dandone notizia alla stampa, creando così un’ondata di speranza per il popolo curdo. Le lettere di Ocalan, per il suo popolo, non sono state una sorpresa, perché era già a conoscenza della sua linea di difesa: Ocalan non difende la guerra, ma, difende la lotta per i loro diritti. Durante i 14 anni d’isolamento ha lottato per creare e progettare una fraternità tra i popoli della Turchia ed i curdi. Nella lettera, infatti, – dice ancora la responsabile – “Ocalan esprime il suo desiderio affinché tutti i popoli della Turchia vivano uniti in una patria libera”. Questi messaggi sono, inoltre, importanti, sia a chi non conosce la questione curda e la figura di Ocalan per comprendere la sua idea e, sia  al popolo curdo per esaminare le nuove condizioni ed organizzare una nuova lotta cambiando i metodi finora utilizzati. Perchè questo sogno possa diventare realtà, occorre che questi “incontri” si trasformino in “trattative” e per “trattare” il Presidente Abdullah Ocalan deve essere libero. Solo così lo Stato turco si potrà dimostrare sincero.

La responsabile ricorda che Ocalan aveva iniziato questo processo di pace già nel 2009, presentando una road map che includeva anche il ritiro dei guerriglieri, ma con la garanzia, da parte del governo turco, di dare diritti civili costituzionali al popolo curdo. Processo durato fino al Trattato di Oslo nel 2011. Anche in quest’occasione si parlava del problema legato alle armi dei guerriglieri, ma prima di deporre le armi, erano necessarie serie e precise garanzie, da parte del Parlamento turco. “Tutto questo era già successo nel 1999 - ripete la responsabile - allora il governo turco non aveva fatto niente e furono massacrati 500 guerriglieri perché, rispettando gli ordini del loro Presidente, non avevano sparato”. Ora le cose saranno diverse.  Senza garanzia, i guerriglieri non deporranno mai le armi. Ocalan attende un segno positivo da parte del governo per continuare le trattative. La responsabile, inoltre, ci confida che, nell’incontro con i deputati curdi, Ocalan ribadisce che "Questa è l’ultima occasione per lo Stato turco, se non saranno accolte le sue richieste, ci sarà una nuova grande guerra popolare con almeno 50.000 curdi pronti a combattere per i loro diritti”. Per quanto riguarda invece le lettere scritte da Ocalan, quella che noi abbiamo ascoltato durante il Newroz a Diyarbakir, è quella scritta per il popolo e lo stato turco, mentre quella diretta alla sua organizzazione del PKK, è rimasta segreta. La responsabile ci fa presente che, in questo stesso momento, il comandante del PKK a Bonn sta rilasciando un messaggio in risposta alla lettera ricevuta da Ocalan. “Fra le tante richieste rivolte al governo turco – continua la responsabile – c’è anche quella inerente all’amnistia per i detenuti politici curdi, ma, dobbiamo aspettare la fine di giugno per avere una risposta. Questo è il periodo di tempo stabilito.” 

 

La responsabile porta la discussione sull’uccisione di Sakine Cansiz (una fondatrice del Pkk insieme al leader Ocalan nel 1978), Fidan Dogan e Leyla Soylemez, uccise il 9 gennaio scorso a Parigi e sui continui arresti del popolo curdo. Tutto questo danneggia la loro relazione con l’Europa. Noi vogliamo – incalza la responsabile – che voi facciate pressione sul vostro governo, non vogliamo solo progetti economici. L’Unione Europea dà molti soldi alla Turchia che acquista armi e ci uccide. Noi siamo uccisi dai vostri soldi. Voi potete fare critiche serie per queste scelte dei governi nel vostro paese. Anche i curdi della diaspora soffrono molto, come noi. Il nostro partito è considerato “terrorista” e noi lottiamo per quest’ingiustizia. Voi ci vedete, siamo forse terroristi? Tutto questo deve essere spiegato in Europa. La Germania e la Francia sono vicini al governo turco e l’Italia ha un ruolo molto passivo. Vi chiediamo di essere il nostro portavoce in Europa ed ognuno di voi può spiegare ai suoi amici, conoscenti, la nostra sofferenza e l’ingiustizia che, tutti i giorni, siamo costretti a subire”.  Il nostro incontro termina con gli ultimi aggiornamenti che riguardano, sia i lavori della diga sul sito di Hasankeyf ed il massacro di Roboski. Le opere per costruire la nuova diga sono sospese, le banche hanno ritirato i finanziamenti ed il governo turco sta cercando altri finanziatori. Per la questione di Roboski, lo stato voleva pagare un’indennità alle famiglie colpite dal massacro, ma loro hanno rifiutato. Lo stato continua a sostenere nel suo rapporto che non si è trattato di un massacro voluto, ma è stato un errore. Le famiglie di Roboski sono andate più volte ad Ankara per chiedere giustizia e vogliono portare questo processo alla Corte europea.


L’associazione Onlus “Verso il Kurdistan” dal 1999 ha attivato il progetto “Oltre le sbarre”. E’ un progetto di affido a distanza che permette il sostegno di famiglie che, dopo l’arresto del capofamiglia o dei figli, si trovano in condizioni economiche particolarmente difficili. Attraverso la formula dell’adozione, si può esprimere così la propria solidarietà ai detenuti politici e alle loro famiglie. Anche quest’anno al termine del nostro incontro, l’associazione “Verso il Kurdistan” consegna personalmente gli affidi raccolti in Italia.

AUDIO TUHAD FED

Documento sulle carceri Turche

 

 

  


Ultimo giro al bazar di Diyarbakir. E’ quasi sera, il cielo è grigio, ha appena smesso di piovere, giro tra le stradine del Gran Bazar, molti stanno chiudendo la loro giornata di lavoro, non c’è molta gente. Sono triste. Io parto, torno a casa. Sento su di me il peso dell’indifferenza, dell’immobilismo in cui versa la maggior parte delle persone che hanno ancora molti privilegi. Sento ancora le parole della responsabile di Tuhad Fed che ho da poco incontrato ed ascoltato. Riuscirò veramente ad essere ambasciatore di questo popolo? Riuscirò ad arrivare al cuore di tanti sconosciuti con i miei racconti e le fotografie delle donne, dei bambini e degli uomini di questo popolo dimenticato dal mondo? Oggi, con la crisi economica e di lavoro che regna in Italia ed in Europa, è ancora più difficile attirare l’attenzione verso queste situazioni, ma, come questo popolo fiero e dignitoso m’insegna, non perderò la fiducia. Continuerò a parlare di tutti quei popoli che lottano ancora per ottenere una giustizia, per non essere più oppressi, per non dover più andare in carcere perché sei curdo o palestinese, per poter, semplicemente, vivere.

Fonti: Osservatorio Balcani & Caucaso

02/06/2013


 

NELLA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLE DONNE
RICORDIAMO LE DONNE PALESTINESI PRIGIONIERE NELLE CARCERI ISRAELIANE

 

Mentre il mondo festeggia la Giornata Internazionale delle Donne, noi celebriamo la Palestina e le sue figlie. Festeggiamo la madre, la figlia, la sorella, la zia. Festeggiamo l'insegnante, la studentessa, l'operaia, la contadina, l'infermiera, la dottoressa, l'architetta, l'ingegnere. Festeggiamo l'organizzatrice, la dimostrante, l'attivista, colei che lancia le pietre, la combattente per la libertà. Festeggiamo la sorella nella lotta, la compagna che resiste. Festeggiamo la prigioniera, la donna ferita, l'esiliata, la martire. Festeggiamo la donna che possiede la terra, che la lavora, che la ama e la protegge. Festeggiamo Lina, Samar, Patima, Mona,  Asma, Nawal, Manal, Ena’am, Intisat, Ala’a, Hadeel, Salwa, Ayat ed Eman.

 E in questo giorno, ogni giorno ricordiamo le prigioniere palestinesi che hanno sacrificato la loro libertà affinché le generazioni future possano avere la libertà, e ne possano godere. In questo giorno e ogni giorno, ricordiamo quelle donne che hanno sacrificato la loro libertà per la libertà della Palestina. Dal 1967 più di 800.000 palestinesi, comprese 15.000 donne, sono stati arrestati e  imprigionati dalle autorità israeliane. Durante la Prima Intifada, almeno 3.000 donne sono state fermate e durante l'Intifada Al-Aqsa più di 900 sono state rinchiuse nelle prigioni israeliane. Ogni giorno ci sono irruzioni e si operano fermi. Alcune volte le donne fermate vengono rilasciate dopo pochi giorni, altre dopo poche settimane, oppure restano in detenzione a tempo indeterminato.
13 sono le donne palestinesi tra i 4.750 palestinesi attualmente nelle prigioni israeliane; la più anziana è Lina Jarbouni che viveva nei territori occupati nel 1948, ed è stata arrestata 11 anni fa. Le sue compagne di prigionia sono Mona Qa'adan, Nawal Al-Sa'adi, Asma Al-Batran, Manal Zawahreh, Ena'am Al-Hasanat, Intisat Al-Sayed, Ala'a Abu-Zaytoun, Ala'a Al-Jua'aba, Hadeel Abu-Turki, Salwa Hassan, Ayat Mahfouth e Eman Bani Odeh.

Le autorità israeliane commettono moltissime violazioni contro le donne detenute nelle loro carceri. Le più gravi di queste sono: il modo brutale con cui vengono arrestate davanti alle loro famiglie e ai figli in tenera età; i metodi fisici e psicologici usati durante gli interrogatori; la proibizione di vedere i loro figli; le carenze sanitarie ed assistenziali per le donne incinte; le costrizioni fisiche durante il parto; le punizioni, come l’isolamento e uso della costrizione fisica; la detenzione in luoghi inadatti; le perquisizioni usate dalla polizia carceraria a mo’ di provocazione; gli insulti, le aggressioni e l’uso dei gas lacrimogeni. Inoltre, sono maltrattate quando sono portate in tribunale o quando devono incontrare i familiari e perfino durante i trasferimenti da una sezione a un'altra del carcere. Talvolta vengono loro negate le visite dei familiari. Durante i periodi di isolamento le prigionieri politiche sono spesso messe insieme alle criminali, senza rispetto per le necessità dei figli che vivono con loro in carcere.
 

 Incinta, fa lo sciopero della fame- PatimaZakka ha 42 anni. Al momento dell’arresto era incinta. E' stata rilasciata in cambio di un video di Gilad Shalit durante la sua detenzione. Fatima era stata accusata di aver cospirato per fare un attentato suicida contro un autobus pieno di militari  israeliani. L'accusa aveva chiesto una condanna a 12 anni di prigione per la ladre di otto figli. "Non sapevo di essere incinta prima dell'arresto", dice Fatima. "L’ha scoperto un'infermiera quando ero detenuta. I miei otto figli sono rimasti a casa senza di me. Nessuno mi ha mai insegnato a far saltarein aria delle persone. E' vero che loro [gli israeliani] avevano ucciso mio fratello e molti miei parenti, ma questo succede a molta gente in Palestina." Fatima dice di essere stata sottoposta a diverse tecniche durante gli interrogatori. 
"Mi hanno torturato mentre ero incinta", dice. Mi hanno tenuto in una cella gelida, spostandomi di continuo da una cella a un'altra. Volevano che avessi un aborto spontaneo: i maltrattamenti mi hanno provocato perdite di sangue." Questo ha spinto Patima a iniziarelo sciopero della fame. Ha resistito 21 giorni. "Non mi hanno lasciato scelta," spiega. "Allah sia lodato. Non ho avuto un aborto spontaneo. Mio figlio è nato in carcere. Si chiama Youssef."

Partorire con mani e piedi legati. Samar Isbeh è stata arrestata quando aveva 22 anni, in seguito a una protesta studentesca. E' stata condannata a due anni e mezzo di carcere. Ora ha 28 anni e vive a Gaza, mentre la sua famiglia e quella di suo marito vivono in Cisgiordania. "Sono stata arrestata tre mesi dopo il mio matrimonio. Ero a capo di un Consiglio studentesco dell'Università islamica. Abbiamo organizzato una protesta contro l'occupazione. Sono stata arrestata a casa di mio marito a Tulkarm. Due giorni dopo, anche  mio marito è stato arrestato e condannato a 9 mesi di prigione, sebbene non avessero nulla di cui accusarlo," dice Samar.

Ora è stata deportata nella striscia di Gaza e le è stato negato l'accesso a Tulkarm e quindi non può vedere né il marito né i figli. "Ero alle prime settimane di gravidanza quando sono stata arrestata. Ho subito ogni tipo di tortura. Mi hanno tenuto per 66 giorni in una cella sotterranea. mi hanno costretta a stare in equilbrio  su un seggiolino, mi hanno tenuto in una cella gelida," dice Samar. Quando è iniziato il travaglio mi hanno legato le mani e i piedi: mi hanno fatto il taglio cesareo, non perché fosse necessario, ma semplicemente per odio. Mi hanno lasciato il bambino, ma hanno trattato anche lui come un prigioniero."

La storia di Samar riflette un'attitudine ed un odio che hanno radici profonde, non soltanto nei confronti del popolo palestinese, ma anche delle donne. Durante la prigionia è stata umiliata, maltrattata, esposta a situazioni che mettevano a rischio la sua vita e quella del bambino non ancora nato.  E’ stata legata come un animale in una stalla. La storia di Samar, tuttavia, non è l'unica, ma riflette la storia di continui abusi perpetrati nei confronti delle donne palestinesi. Tra il 2000 e il 2005, almeno 60 donne palestinesi hanno partorito ai  checkpoint israeliani per essere stato loro negato il trasporto in un ospedale vicino, e 36 bambini sono morti in conseguenza di questo.

Nel marzo 2012 nove donne palestinesi hanno presentato proteste formali contro la Shin Bet (i Servizi Segreti israeliani), per i maltrattamenti subiti durante i lunghi interrogatori. L’esperienza di Samar riflette i maltrattamenti che sistematicamente sono usati contro le donne palestinesi da parte delle forze di occupazione.

 Una protesta frequentemente sollevata da molte prigioniere politiche palestinesi, riguarda la pratica abituale di denudarle e sottoporle ad umilianti ispezioni intime e corporali. Le donne che rifiutano di sottoporsi a questi abusi, spesso sono inviate in isolamento.

Frequenti sono gli insulti degradanti ed a sfondo sessuale, da parte del personale carcerario, e le minacce di stupro (rivolte anche a membri della famiglia). Questi fatti, che caratterizzano l'esperienza carceraria delle donne palestinesi, dovrebbero essere considerati e trattati, come atti di sistematica violenza razzista e di discriminazione legata al sesso, operati dallo Stato. Uno Stato, che permette che le donne prigioniere, vengano abitualmente denudate e sottoposte ad ispezione corporale, come forma di punizione, viola gli obblighi che gli competono, ai sensi della normativa internazionale che tutela diritti umani e della Convenzione contro la tortura e ogni altro  trattamento crudele, inumano e degradante.

Fonti: http://avoicefrompalestine.wordpress.com/; http://www.middleeastmonitor.com/; http://samidoun.ca/; http://rt.com/news/; http://www.addameer.org/


Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese - AAMOD

08/03/2013


ROSARIO CITRINITI:

“INIZIO LO SCIOPERO DELLA FAME CON I DETENUTI PALESTINESI.

LA LORO LOTTA SARÀ ANCHE LA MIA”


Carissimi amici, accogliendo
l’appello promosso da Amnesty International,
l’appello lanciato dall’Arcivescovo Atallah Hanna,
l’appello lanciato dalle organizzazioni palestinesi,
tutti riguardanti i prigionieri palestinesi detenuti illegalmente nelle carceri israeliane molti dei quali in sciopero della fame da molti mesi ed alcuni in serio pericolo di vita ( SAMER ISSAWI, 200 GIORNI DI SCIOPERO DELLA FAME ) in solidarietà con la loro lotta di resistenza, dalle ore 17 di oggi lunedì 18 febbraio la loro lotta sarà anche la mia, con le stesse modalità inizierò uno sciopero della fame finché gli organismi nazionali e/o internazionali non prenderanno impegni reali per assicurare il rispetto dei diritti umani nelle carceri israeliane con un intervento immediato atto a salvare i detenuti in sciopero della fame e alla scarcerazione di tutti i prigionieri palestinesi in carcere senza né accuse né processi. (Da Amnesty International: ISRAELE: DETENUTO IN PERICOLO DI VITA )
Alcuni amici allestiranno presto una tenda per la notte nella gradinata della chiesa parrocchiale non essendo stato possibile portare avanti l'iniziativa dentro il luogo di culto. Un abbraccio e grazie per la partecipazione all'iniziativa.
 
Rosario Citriniti - Invictapalestina
Pentone (CZ) 18 febbraio 2013

SEGUI LA CRONACA DELLA PROTESTA

 

Mercoledì 27 febbraio

10° giorno di solidarietà con Samer Issawi

Cari amici, con lo sciopero della fame iniziato sul Sagrato della Chiesa di Pentone (CZ) abbiamo provato a scuotere l’indifferenza generalizzata, digiunando con Samer pubblicamente, ma l’Italia, a parte una piccola nicchia, è rimasta cieca e sorda al pari degli altri paesi.
 
Non abbandoneremo mai Samer e gli altri, ma da domani cambieremo forma di lotta, allo sciopero della fame, sostituiremo altre pratiche di solidarietà con i prigionieri politici palestinesi, più visibili e più efficaci. Le forme cambiano ma il nostro sostegno resta immutato.

Si ringraziano quanti hanno solidarizzato con l'iniziativa e anche chi, segnalando la propria indignazione, ha fornito motivo di riflessione.

Un abbraccio - Rosario

"Nessuno ha mai commesso un errore più grande di colui che non ha fatto niente perché poteva fare soltanto poco" - Edmund Burke


D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
Italo Calvino, Le città invisibili

Martedì 26 febbraio

Nono giorno di sciopero della fame in solidarietà con Samer Issawi e i prigionieri nelle carceri israeliane.

Ieri sera ho ricevuto la visita del mio amico medico Gianni, insieme abbiamo partecipato nel 2005 alla “Carovana dei Diritti” da Strasburgo verso Gerusalemme per chiedere in particolare l'applicazione delle risoluzioni Onu sulla Palestina. La Carovana fu bloccata da Israele sul ponte di Allenby e neanche in questa occasione le bandiere della pace, consegnate da  decine di associazioni dei paesi attraversati dal convoglio,   raggiunsero Gerusalemme. Gianni mi ha trovato in buona salute.
Ieri sera nella Casa Umanista c’è stato un breve incontro con altre associazioni torinesi ed insieme abbiamo concordato un momento informativo per Mercoledi  27 in piazza Castello angolo via Garibaldi, l’appuntamento è alle ore 17, chi vuole potrà poi partecipare al momento di preghiera contro tutte le guerre, organizzato dal Centro Sereno Regis nelle stesso luogo fino alle 19.
In questi giorni sono arrivate molte mail , la maggior parte di solidarietà all’iniziativa di sostegno ai prigionieri palestinesi altre di  critica all’iniziativa partita dalla Calabria:
Qualcuno suggerisce di fare scioperi della fame per i problemi italiani e occupandosi di politica estera non ritiene opportuno pubblicizzare l’iniziativa anche se scrive su un giornale nazionale.  Qualcuno ha anche ritenuto inopportuna e poco rispettosa la lettera scritta a Samer Issawi.
Io resto convinto che lo sciopero della fame  di Samer Issawi, insieme ad altri eventi accaduti negli ultimi giorni,  è stato causa scatenante delle rivolte in atto, è riuscito anche a creare uno sciopero più ampio, si parla di oltre 4000 detenuti che hanno aderito alla stessa forma di lotta. A questo punto è necessario il martirio? Io penso di NO.
 


Lunedì 25 febbraio
 
Ottavo giorno di sciopero della fame in solidarietà con Samer Issawi e i prigionieri nelle carceri israeliane.
 
Ho dormito al caldo della "Casa Umanista" in via Martini 4/b Torino.
Questa mattina c'è molto silenzio, il pc è sempre acceso e scorro le pagine della posta elettronica e Ringrazio Giorgio della Casa Umanista per i comunicati alla stampa, Antonino ed Enrico ISM-Italia per le informazioni postate alle varie organizzazioni.
Poi scorro la bacheca di FaceBook e penso a Vittorio! Penso a quanti ne parlano e a quanto lo usano per aumentare la propria notorietà, ma quanti lo imitano?
 
Il Centro Invictapalestina nasce in Calabria con un bellissimo intervento di Wasim Dahmash e Marco Ramazzotti, non sono tardati ad arrivare gli auguri di Vittorio, in quell'epoca era a GAZA e ci siamo meravigliati di vederci raccontati nel suo BLOG da lui, così lontano ma cosi vicino e attento.
 
Oggi apro le pagine di FaceBook  e ritrovo Daria & Maksim: Messaggi scritti col cuore e foto spiritose, poi scorro col mouse sulle tristezze della quotidianità... chi "scende il cane", chi augura buon giorno al mondo, chi prende l'ombrello intonato alle calze per andare a votare, chi ci descrive come ammazza il tempo tra un divano e una poltrona, e poi notizie più importanti che scorrono veloci e non riesci ad acchiappare in tempo per leggerle. Josè Saramago molti anni fa ci aveva avvertiti che saremmo diventati la società del mouse, molti click ma poche azioni, utenti anziché cittadini.
 
Il 25 febbraio 1994 il colono ebreo fondamentalista Baruch Goldstein, membro del partito estremista Kach, entrò nella sala di preghiera riservata ai fedeli musulmani, indossando la sua divisa da soldato. Aprì il fuoco sui fedeli col fucile d’assalto Galil, uccidendo trenta persone e ferendone 125. I superstiti lo picchiarono a morte. Non venne scelto un giorno a caso per il massacro. Il 25 febbraio era infatti il giorno in cui nel 1994 cadeva la festa del Purim (che commemora la liberazione del popolo ebraico nell’antico Impero Persiano, come riportato nel libro di Ester).
 
Oggi Samer Issawi è in fin di vita isolato in una cella  della prigione di Ramle, il fratello Fadi morì in quel massacro.

Domenica 24 febbraio

Oggi 7° giorno di sciopero della fame.

Lo sciopero continuerà presso la Casa Umanista via Martini 4/b, zona Università, Palazzo Nuovo, contrariamente a quanto comunicato precedentemente.

Sono arrivato a Torino e ho trovato accoglienza nella sede della casa umanista: La Casa Umanista è un luogo di cultura e di attività ispirate ai principi del Nuovo Umanesimo Universalista. Accoglie e promuove iniziative e realtà che hanno come obiettivo l’aggregazione sociale, lo sviluppo della creatività, l'affermazione dei diritti umani e l'evoluzione dell'essere umano. E' un luogo dove la nonviolenza diventa azione.

In serata  è stato possibile dedicare un momento a Samer Issawi, l'informazione e la verità sono sempre le prime vittime di ogni conflitto, aiutateci a smascherare in ogni luogo la falsa ricerca di pace di un paese che quotidianamente porta avanti la pulizia etnica del popolo palestinese.
Leggete: La pulizia etnica della Palestina (Pappé Ilan scrittore israeliano)


"D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda."
Italo Calvino, "Le città invisibili"


Sabato, 23 febbraio

Cari amici, oggi è il 6° giorno di sciopero in solidarietà con Samer.
Ieri sera ho partecipato alle funzioni religiose anche senza essere credente/praticante. Prima di iniziare il percorso della Via Crucis il Parroco ha letto un messaggio di denuncia sull'occupazione israeliana, alla fine delle 14 stazioni sono stato invitato a spiegare le ragioni della protesta, ho avuto così occasione di parlare nei dettagli di Samer Issawi nelle carceri israeliani ad appena 16 anni, poi ho letto "la denuncia", brano scritto da Don Nandino Capovilla per la 10° stazione della Via Crucis.

Finita la funzione religiosa grande sorpresa: Davanti alla tenda la 4° classe della scuola elementare al completo, armati di notes e matita pronti a riportare le mie risposte alle loro 10 domande, faranno un elaborato in classe e poi lo recapiteranno ad Invictapalestina. Il Centro  ha donato alla maestra libri sull'argomento e un Premio per l'elaborato più impegnativo e completo.
Abbiamo poi smontato la tenda e il digiuno è proseguito nel "Centro di documentazione" Invictapalestina finalmente al caldo.

Oggi alle 14.40 aereo da Lamezia per Torino, dove lo scioperò continuerà insieme ad altri amici in una tenda che nel frattempo sarà allestita in via Garibaldi nei pressi del Centro Studi Sereno Regis.

Riporto i 2 brani di seguito:

Lettura del Parroco ai fedeli.

Le Vie Crucis che celebriamo, non sono semplicemente archeologie devozionali o particolari spiritualità, che variegano il mondo cattolico. Esse sono scritte, ancora oggi, con il sangue di migliaia di oppressi che lottano per la loro liberazione. Tra questi ci sono i palestinesi che sono ogni giorno costretti in interminabili checkpoint, in uno stato di umiliazione continua e terribile. La Palestina è fatta di gente scacciata dalle proprie case, di agricoltori senza terra, di artigiani senza bottega. Il ripercorrere i passi di Cristo, sotto il peso di una condanna ingiusta, ci dovrebbe immerge proprio in quell’atmosfera quotidiana della Terra Santa, dove il dolore e l’umiliazione sono un dato costante per un popolo che percorre le stesse strade di Gesù, divenute calvario di morte, di paura e di insicurezza totale.

Su tutto questo, domina il tristissimo segno del muro. Quel muro che in Europa commemoriamo caduto, venti anni dopo, perché ci siamo accorti che era un terribile segno di inciviltà e di ingiustizia. Ma quello stesso muro, ben più raffinato e ben più ingiusto, divide ora ancor più di due popoli, due lingue, due culture, due religioni.

Purtroppo, la passione di Gesù non ha spazi privilegiati. Si ricompone in ogni angolo della terra. Perciò, la Via crucis diventa vivente, ogni giorno su strade che portano ai calvari di oggi.


Don Nandino Capovilla: 10° stazione, In prigione, in prigione

E' una montagna di dolore questo calvario su cui arrancano più di diecimila famiglie palestinesi.
Una serie di norme, in gran parte contrarie al diritto internazionale, condanna persino i ragazzini a marcire nelle prigioni israeliane anche per vent'anni, senza processo né capo d'imputazione.
Ragazzini rei di aver scagliato pietre contro i carri armati, ragazzini che una volta uomini, potrebbero imbracciare le armi per mal riposto desiderio di riscatto.  

Sette famiglie su 10 piangono i loro parenti senza sapere dove sono, ignorando le torture che subiscono, le volte in cui verrà rinnovata "la detenzione amministrativa", quella forma di arresto senza accusa su cui nemmeno gli avvocati potranno indagare.

Le madri di quanti sono in carcere si ritrovano spesso sulle piazze di Ramallah o di Nablus, per affidare a un megafono gracchiante tutto il grido che il cuore non contiene più, e tengono sul petto un piccolo quadro con la foto del figlio, come se fosse morto.

 

Venerdi 22 febbraio

Oggi 5° giorno di sciopero della fame in solidarietà con i detenuti palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Giornata di sole in Calabria e notte molto serena grazie a Don Gaetano, parroco di Pentone, che mi ha sottratto alla pioggia torrenziale offrendomi ospitalità nella sacrestia della Parrocchia San Nicola di Bari. Peppino ha portato una stufetta per asciugare sacchi a pelo e coperte, i ragazzi come tutte le sere latte e tè. Questa mattina Enzo è arrivato con la sua panda e mi ha portato al bar per un latte super caldo. Questa sera in Chiesa ci sarà la Via Crucis, subito dopo la tenda sarà smontata e lo sciopero continuerà in altro luogo fino alla liberazione di Samer. Voci danno la sua liberazione come imminente ma non ci fidiamo della "giustizia israeliana" soprattutto quella inflitta ai palestinesi. La tenda è metà di visite e riflessioni, ieri sera una riflessione molto importante... Siamo derubati del nostro tempo! Molti si rendono conto che vorrebbero fare... vorrebbero informarsi ma non hanno tempo, altri passeggiano per ammazzare il tempo, la riflessione si sposta dalla Palestina al nostro modo di vivere con la distruzione graduale della Comunità e il prevalere degli egoismi personali che poco per volta distruggono il tessuto sociale. Anche a Pentone c'è aria di campagna elettorale, più che in altri luoghi si discute, mi sembra con pochi contenuti, i nomi dei candidati, ancora una volta, mi sembra siano al centro dell'attenzione ma non i programmi e i progetti per una società rinnovata. Nessuno degli schieramenti politici si è pronunciato sui diritti negati ed in particolare sulla situazione Palestinese. Ieri ho ricevuto la visita del Sindaco di Pentone che ha contattato la Croce Rossa di Catanzaro per informare sulla protesta in Atto.

Segue la traduzione della mia lettera a Samer, fatta da Massimo (USA) chi può farla recapitare a Samer nelle carceri sioniste?

Dear Brother, dear Sami,

The echo of your struggle has reached Calabria (ITALY).

In a small town of this region, we have set up a ‘tent of hope, where, for the past four days, I have been on a hunger strike, in solidarity with you and with all our Palestinian sisters and  brothers, who are engaged in their daily resistance to the inhumane Zionist occupation, which has been trying to silence your aspirations to freedom and to thwart your indomitable will.
Here, in Calabria, I founded “Invictapalestina’ (Indomitable Palestine), and in these days, more and more people want to learn about the beautiful land of Palestine. They need me as a source of information through events, videos, books etc., and they need you as a luminous example of courageous resistance to the Israeli occupation, which you first experienced when you were barely 16.
Zionism is driven by an urge to suppress freedom, suppress life, in order to continue with its project of evictions, ethnic cleansing and Apartheid.
To counter this project, I have a propostion for you:
-          Dear Sami, choose life over martyrdom.
-          By choosing to end our hunger strike together, you in your prison in the Occupied territories and I here, in Italy, we continue to embrace the collective, daily struggle, that will soon bring, together with all people of conscience all over the world, to the liberation of your land.
As brothers, together we will wait for your liberation, will share the same food, the same house. We shall share your house in Palestine, rebuilt with the colors of Spring and of Calabria’s olive orchards, and my house here with the colors and the flag of your land.
I am not asking, of course, that your renounce your struggle. Mine is a call to life, to continue the struggle with renewed energy. Together we will embrace our mothers, our sisters and our brothers, you in Palestine and I in Italy..
Once freed from the Israeli chains, we will make sure that you can come to Italy to tell your story of resistance. We will welcome you with the songs of our Partisans, who liberated us from the Nazi-fascists. Afterwards, I will follow you to Palestine, and you will be my guide to the landmarks of revolt, resistance, art, and music of  your beloved Land.
I conclude with Mahmud Darwish’s words:
If you shout with all your strength and an echo replies
“Who’s there?”
You can say “Thank  you”  to your identity.
Looking forward to your reply
A big hug,    Rosario -- Invictapalestina


Giovedì 21 febbraio

Oggi 4°giorno di sciopero in solidarietà a Sami (mi hanno detto che è il suo diminuitivo)
Piove dalle ore 14, alcune donne hanno portato latte, acqua, tè, altre hanno portato via coperte e guanciali da asciugare in casa, Enzo ha portato 2 teli provvidenziali di plastica  che Vincenzo e Marta hanno steso sulla tenda per evitare ulteriori infiltrazioni d'acqua.
Ieri sera ho ricevuto visite da Mario, Antonio, Nicolas, Francesco, Peppe, Michele, Raffaele, Manuel, Matias. Il più piccolo 9 anni il più grande 14, con grande curiosità hanno fatto domande sulla Palestina, sono andati via tardi poi alcuni sono ritornati con i giubottini gonfi, poi un po' timidi hanno svuotato le tasche lasciandomi succhi e latte caldo in un microscopico termos.
La salute è buona e il morale alto, la lettera che segue è indirizzata a Sami, sarebbe da tradurre in arabo/inglese e recapitarla con le proprie organizzazioni direttamente a Sami.
I Link che seguono aggiornano quotidianamente la situazione in Palestina e in Calabria, Grazie Mirca e Gabriella, altre notizie sul sito di Palestinarossa.

Per contatti info@invictapalestina.org  o segreteria@invictapalestina.org , risponderà a tutti  Simonetta. https://sites.google.com/site/parallelopalestina/sciopero-della-fame

Caro fratello, Caro Sami
L’eco della tua lotta è arrivata in Calabria (ITALIA).
In un piccolo paese di questa regione abbiamo montato una tenda della speranza nella quale da quattro giorni anch’io faccio lo sciopero della fame in solidarietà con la tua lotta che poi è quella di tanti fratelli e sorelle palestinesi che ogni giorno s’impegnano per la fine dell’occupazione sionista che con crudeltà inaudita cerca di piegare le vostre  speranze di libertà e la vostra ferrea volontà.
Io, in questo piccolo paese della Calabria,  ho fondato InvictaPalestina,  Palestina  indomita, Palestina  mai vinta e in questi giorni di lotta sono molte le persone che vogliono sapere, informarsi, conoscere la bellissima terra di Palestina. Hanno bisogno di me per continuare ad informare con manifestazione, video, racconti, hanno bisogno di te come valoroso testimone della violenza israeliana che hai incontrato a soli sedici anni.
Il sionismo ha la necessità di spegnere la speranza, spegnere le vite,  per poter affermare il suo dominio con espulsioni, pulizia etnica e apartheid, per contrastare questo progetto  ti faccio una proposta.
Caro Sami,  ti propongo di scegliere la vita al martirio, scegliendo di comune accordo di sospendere il nostro sciopero per camminare insieme nella lotta di liberazione del popolo palestinese, t’invito a sospendere insieme,  io in Italia  tu nelle carceri israeliane,  lo sciopero in corso e sostituirlo con la lotta collettiva, quotidiana, che un giorno, insieme a tutti le persone che resistono e solidarizzano col tuo popolo, porterà sicuramente alla  liberazione della tua terra.
Come fratelli aspetteremo insieme la tua liberazione, divideremo poi lo stesso boccone,  la stessa casa. Condivideremo  la tua casa in Palestina ricostruita con i colori della primavera e gli ulivi della Calabria, la mia in Calabria con i colori e la bandiera della tua terra.
Quello che ti chiedo non è la rinuncia alla lotta, è un appello alla vita per poter lottare con più energia, abbracceremo insieme le nostre mamme,  le nostre sorelle e i nostri fratelli, insieme, io in Italia e tu in Palestina.
Una volta liberato dalle catene israeliane,  faremo di tutto per farti venire in Italia per raccontare la tua storia di resistenza, ti accoglieremo con le canzoni dei nostri partigiani che ci liberarono dal nazifascismo, io ti seguirò, poi, in Palestina e tu mi guiderai nei villaggi simbolo delle rivolte, della resistenza, dell’arte, della musica della tua adorata Palestina.
Concludo con le parole Mahmud Darwsh:
Se gridi con tutte le tue forze e l’eco ti risponde:
“Chi c’è”
Dì alla tua identità: Grazie!
In attesa di una tua risposta, un grande abbraccio Rosario - Invictapalestina

 

Martedì 19 febbraio

Secondo giorno di sciopero della fame sulle gradinate della chiesa San Nicola di Bari a Pentone (CZ) Sveglia alle ore 6,30 con la visita della guardia medica che ha confermato lo stato di buona salute. Visite di Michele, Enzo Marino e Lauretta detta da biccherara, madre di 13 figli 3 dei quali emigrati negli Stati Uniti, ha portato latte e tè col silenzio della mamma consapevole della sofferenza altrui, mentre altri nel chiacchiericcio vuoto quotidiano, con la discarica di Alli a pochi chilometri strapiena di rifiuti, un progetto di centrale biomasse nel vicino parco della Sila, con i giovani senza nessuna prospettiva di lavoro, polemizzano sulla opportunità dell'iniziativa. Molti in paese sono preoccupati per il freddo soprattutto notturno, ma come si può sentire freddo se fra una incursione israeliana e l'altra si sogna la Palestina libera?
Grazie per i messaggi di solidarietà di Miriam da Viterbo, Pina da Padova, Enrico, Giorgio e Consolata da Torino, Criss da Lisbona, Enrico da Roma, Silvia da Padova, Francesco da Milano, Patrizia da Gaza, Pati e Pamela da Lecce, Apicella da Londra, sicuramente ho dimenticato qualcuno!


Per informazioni, risposte, materiale da diffondere:  info@invictapalestina.org


TUNISIA: RITORNA LA PAURA
ASSASSINIO DI CHOKRI BELAID

di Mirca Garuti

 

Chokri Belaid, segretario del Partito patriottico di sinistra democratica (Watad) e portavoce  del Fronte Popolare, è stato ucciso mercoledì 6 febbraio, mentre usciva dalla sua abitazione, con quattro colpi d’arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata.

Chokri Belaid, fin dall'inizio della rivoluzione, aveva capito che era necessario creare una mobilitazione generale con i vari partiti di sinistra nel mondo per costruire un fronte unico democratico nel Mediterraneo. Sosteneva, inoltre che, per contrastare l'avanzata della destra religiosa in Tunisia, bisognava formare un'alleanza, anche con l’appoggio dei sindacati per avere così una forza maggiore all’interno dell’Assemblea Costituente. Gli obiettivi principali del suo partito (Watad)  si riassumevano in tre punti: diritti economici e sociali – diritti civili e diritti per le donne – sviluppo. Queste sono state le sue parole pronunciate un anno fa in un incontro avuto nella sede del suo partito durante il nostro viaggio in Tunisia. (v. speciale Alkemia)

A quell’incontro era presente anche Maurizio Musolino del PdCI che lo ricorda in un comunicato come “un progressista, un laico, un comunista, amante del suo paese e della sua gente. Per anni si era fieramente opposto al regime di Ben Alì e oggi era in prima fila per la difesa dei diritti delle donne e dei lavoratori tunisini. Chokri era un uomo del dialogo e ricercava con ostinazione l'unità delle forze di sinistra. Credeva nella laicità e nella convivenza”. Lo colpì inoltre, il suo continuo richiamarsi alla tradizione e al pensiero gramsciano e la sua consapevolezza dell'importanza di rafforzare la presenza della sinistra nel sindacato.
“Evidentemente tutto questo era insopportabile per quelle forze che lavorano alla restaurazione, tradendo le aspirazioni e i sogni di tanti uomini e donne liberi della Tunisia.”

Il suo pensiero politico espresso durante l’intervista rilasciata nel dicembre 2011 ad un anno dalla rivoluzione Tunisina
                                                                         

 

                   

    

         

 

La versione integrale dell’incontro con i membri del suo partito.

           

 

 


La notizia della sua uccisione ci ha colto di sorpresa ed, immediatamente, il nostro pensiero è andato al popolo tunisino, alle sue sofferenze, alla sua lotta, al suo desiderio di essere libero e di poter vivere una vita dignitosa. Una mano ha fermato la vita di una persona che credeva nella democrazia, nel diritto di tutti, nella laicità. Ora il paese è sotto choc, nel caos, il governo è in bilico. Il premier Jebali ha annunciato, infatti, la formazione di un governo d’unità che conduca la Tunisia alle elezioni. E tutto questo perchè?

Chokri Belaid, era soprattutto uno dei massimi esponenti del Fronte Popolare, coalizione delle forze della sinistra di classe, laiche e progressiste per il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione, di cui Watad ne è parte. Per questo Chokri era stato già oggetto di minacce e intimidazioni che lui stesso aveva denunciato come provenienti dai  militanti del partito al potere Ennadha (comunicato del Fronte Popolare Tunisino in Italia). Il suo partito fa parte, insieme a Nidaa Tounes (l’Appello di Tunisia) e Al Massar (La Via, sinistra) di una specie di gruppo dell’opposizione, avviato poche settimane fa, per tentare di mettere insieme la frammentazione dei partiti laici per ottenere una migliore posizione alle prossime elezioni. Nidaa Tounes, partito centrista fondato il 20 aprile scorso dall’ex premier ad interim Beji Caid Essersi,  è riuscito a costituire a novembre una sua delegazione all’interno dell’Assemblea Costituente. Recentissimi sondaggi sulle intenzioni di voto dei tunisini, per la prima volta hanno evidenziato un sorpasso, lieve ma indicativo, dell’opposizione laica di Nidaa Tounes nei confronti del movimento islamico Ennadha. E’ diventato il secondo gruppo in parlamento con l’accredito del 20% dei consensi.

Belaid, lo scorso 14 gennaio aveva partecipato alla manifestazione per ricordare il secondo anniversario della caduta del regime di Ben Ali. Più volte aveva accusato l'attuale governo di corruzione e di non aver realizzato gli obiettivi della rivoluzione.

L’ultimo intervento politico di Chokri Belaid risale alla sera precedente del suo assassinio alla televisione locale Nessma: è stato un atto d’accusa contro Ennahda. Belaid aveva, infatti, affermato che “Ci sono gruppi all’interno di Ennahda che incitano alla violenza, chiunque critica Ennadha può essere vittima di violenza”. La sua denuncia era diretta a Rachid Ghannouchi, accusato di difendere le squadracce dei fondamentalisti salafiti. Inoltre, sosteneva che il partito Ennahda stava cercando di ottenere il progressivo controllo della macchina dell’amministrazione, della giustizia ed anche dell’apparato militare e che questo avrebbe portato nuova violenza, ogni volta che all’Assemblea Costituente si sarebbe discusso di un articolo “retrogrado e contrario alla libertà”.  Chokri Belaid ha dunque, fino all’ultimo, cercato di difendere la laicità dello Stato ed i diritti di tutti.

La situazione in Tunisia, in questi due anni, è sempre stata molto critica, fragile. Il popolo, infatti, di fronte al nuovo sistema di potere al quale partecipano anche partiti laici - la sinistra moderata di Ettakatol e il Congresso per la Repubblica - è sfiduciato, deluso perché tutto questo potere ha pensato solo di occupare le sedie lasciate vuote da Ben Alì, senza affrontare nessuno dei problemi dei cittadini. Il risultato è quello di aver portato la Tunisia ad avere un bilancio economico in deficit, gli investitori in fuga, l’industria, il turismo e l’agricoltura fermi. Il Ministro delle finanze annuncia ulteriori aumenti del prezzo dei carburanti, dell’energia elettrica e del tabacco.

Il Fondo Monetario Internazionale incalza il governo con la richiesta di altre riforme strutturali. Di fronte a tutto ciò, il 23 gennaio scorso il Fronte Popolare rifiuta l’offerta del FMI per un incontro privato. Il FMI, accettando per 23 anni la dittatura di Ben Alì, ha in pratica imposto alla popolazione tunisina una politica antisociale e antidemocratica, determinando così solo povertà, disoccupazione e corruzione. Il Fronte Popolare propone invece al FMI un incontro pubblico durante un dibattito televisivo, ripetendo il concetto che il popolo tunisino, attraverso la rivoluzione, ha apertamente espresso la sua volontà di porre fine a questo tipo di politica. Il FMI, invece, non solo dimostra di ignorare quello che chiede il popolo, ma pretende di continuare con la stessa politica, anzi, con il nuovo piano di austerità e l’indebitamento estero firmato con il governo della Troika (Ennadha, Ettakatol e Congresso per la Repubblica) la rafforza. L’ultimo rapporto dell’esperto delle Nazioni Unite sul debito condanna i comportamenti dei creditori e del Fondo Monetario Internazionale e, sottolinea che “gli stati creditori e le istituzioni finanziarie internazionali non dovrebbero approfittare di una crisi economica, finanziaria o legata al debito estero per promuovere riforme strutturali nei paesi debitori”. Il Fronte Popolare, quindi, non riconosce alcuna legittimità al FMI nel continuare a decidere della sorte del popolo tunisino e chiede al FMI di cessare tutte le ingerenze e gli atti ostili contro di esso e la restituzione di ciò che è stato indebitamente sottratto al popolo tunisino. Il Fronte Popolare chiede anche che il governo della Troika cessi ogni collaborazione con il FMI e l’immediata sospensione degli interessi, il congelamento del debito ed una verifica sul debito tunisino che deve coinvolgere la società civile per comprendere come si è formato, il suo uso e per individuarne le responsabilità. Il 4 febbraio scorso il governatore della Banca centrale della Tunisia, Chedly Ayari, appare in conferenza stampa congiunta con i rappresentanti del FMI.

La Tunisia è precipitata di nuovo nel caos, dopo l’uccisione di Chokri Belaid.  Questo vile attentato è un segnale di debolezza da parte del partito di governo. Hema El Hamami, portavoce del Fronte popolare ha annunciato, in una conferenza stampa, di ritirare i propri rappresentanti dall'Assemblea Costituente, chiedendo le dimissioni del governo in carica e la formazione di un nuovo esecutivo ad interim per difendere il paese da questa nuova ondata di violenza.
Il giornalista Rached Cherif scrive sul giornale Nawaat “Belaid aveva ricevuto molte minacce per la sua opposizione tenace alla politica del governo attuale. Aveva denunciato a più riprese l'aumento della violenza politica”. Il portavoce del governo, Samir Dilou ha affermato che si è trattato di un “crimine abominevole”. Il primo ministro tunisino, Hamadi Jebali di Ennahda ha condannato naturalmente l'omicidio sostenendo che, “è stato un atto criminale, un attacco terroristico non solo contro la persona di Belaid, ma contro tutta la Tunisia” ed ha annunciato le dimissioni del governo per sostituirlo con un governo di tecnici. Su tutte le tv italiane, è apparso, in diretta da Strasburgo, il presidente della Repubblica tunisina Moncef Marzouki che, di fronte ai parlamentari europei, ha così commentato l'omicidio del leader dell'opposizione Chokri Belaid: “Un assassinio odioso e brutale che rappresenta una minaccia all'intero paese. Belaid lo conoscevo bene, era un amico”. Il partito Ennadha ha sconfessato, però più tardi quanto annunciato dal suo primo ministro Jebali. Questo dimostra solo una grossa frattura all’interno del partito che può portare solo ad un aumento delle proteste.

Dedico queste poche righe a Chokri Belaid che ho conosciuto un anno fa nell'occasione di un viaggio in Tunisia alla scoperta di un paese dopo la rivoluzione popolare. E’ sempre molto triste parlare di una persona che viene uccisa perché contraria ad un’idea di potere ma, quando questa ”persona” prende forma, ti ha parlato, spiegato le sue idee, la sua lotta, il suo credere nei diritti, allora tutto si complica, arriva lo sconforto, una tristezza infinita che ti avvolge in un immenso silenzio.
L’ideologia di Chokri Belaid si inspirava ad Antonio Gramsci, rivolgo quindi a Chokri ed a tutto il popolo tunisino questo suo pensiero:

“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. chi vive veramente non
può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria,
non è vita. Perciò odio gli indifferenti”  -  Antonio Gramsci –

07/02/2013


L'IMPERO IN DECLINO

Intervista con Gilbert Achcar


Gilbert Achcar è professore presso la Scuola di Studi Orientali e Africani dell'Università di Londra. Il suo ultimo volume s'intitola Gli Arabi e l'Olocausto. Narrazioni della guerra arabo-israeliana (New York, Metropolitan, 2010). Il suo prossimo libro, La gente vuole: Un'analisi radicale della rivolta araba, sarà pubblicato nel mese di giugno 2013 (Los Angeles, University of California Press).

È stato intervistato da David Finkel della redazione di Against the Current (Controcorrente).


Against the Current: Dal suo punto di vista particolare, europeo e vicinorientale assieme, può descriverci come sono state viste le elezioni negli Stati Uniti all'estero?

Gilbert Achcar: Come si può immaginare, le reazioni sono state diverse in Europa e nel Vicino Oriente. In Europa, c'è stata una specie di sospiro di sollievo per la rielezione di Obama. Romney infatti era visto sotto una luce molto negativa dalla maggior parte delle persone e il commento più comune è stato di soddisfazione per il fatto che non sia stato eletto.

Nel Vicino Oriente, invece, questa volta c'era molta indifferenza, diversamente dal 2008, quando ci fu grande entusiasmo per Obama, per le ovvie ragioni del suo colore e del suo background rispetto alla tradizione dei presidenti degli Stati Uniti. In seguito, questo ha portato Obama ad essere visto, nella migliore delle ipotesi, come molto debole nei confronti della classe politica statunitense e soprattutto nei confronti di Israele, per il modo in cui la sua amministrazione si è prostrata di fronte all'arroganza e alle provocazioni israeliane.
Questo ha creato un'enorme delusione perché la gente aveva creduto che le cose sarebbero davvero cambiate.
Inoltre, in generale, quest'amministrazione ha effettivamente dovuto gestire l'impero nel suo punto più basso di prestigio nella regione, essendo venuta immediatamente dopo la devastante amministrazione Bush, disastrosa dal punto di vista dell'impero degli Stati Uniti.

Lo scrittore neo-conservatore Charles Krauthammer nel 1990 aveva annunciato un "momento unipolare" (incontrastato potere degli Stati Uniti dopo il crollo del blocco sovietico). Non molto tempo dopo l'11 settembre 2001, però, con l'invasione dell'Iraq del 2003, l'amministrazione Bush è riuscita a dissipare tutto il capitale politico che gli Stati Uniti avevano accumulato sin dal 1990.
Nell'ultimo periodo, gli USA hanno dovuto affrontare un calo reale della loro influenza, soprattutto nel Vicino Oriente, dopo il picco della loro egemonia nel 1990-'91, quando intrapresero la prima guerra contro l'Iraq.
Il ritiro USA dall'Iraq, senza avere raggiunto neanche uno degli obiettivi fondamentali che l'amministrazione Bush aveva in mente quando iniziò l'invasione, è una sconfitta tremenda e un disastro per il potere degli Stati Uniti.
Penso che sia stato Henry Kissinger a dire che se gli Stati Uniti fossero stati sconfitti in Iraq sarebbe stato "peggio del Vietnam". Credo che questo sia esattamente ciò che è accaduto, perché quel che è in gioco in Medio Oriente e nel Golfo è molto più di quello che rappresentava il Vietnam.

USA isolati sulla Palestina

ATC: Questo ci porta direttamente alla mia prossima domanda sul significato del voto dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite sullo status di "Stato non membro" per la Palestina. Un fatto che sembra molto più di una sconfitta per gli Stati Uniti di qualsiasi altra cosa, e che potrebbe significare molto per la realizzazione concreta di uno stato palestinese.

G.A.: Esatto, questa è una delle prove più evidenti di quello che stavo dicendo. Si tratta di un vero e proprio schiaffo a viso aperto che ha messo a nudo un grado di impotenza dell'impero abbastanza sorprendente, e che non avevo mai visto dall'ultimo periodo di declino nel 1970. Ora è evidente quanto gli Stati Uniti e Israele siano isolati assieme a Canada, Repubblica Ceca e alcuni stati insulari fittizi del Pacifico.

Il modo in cui l'Europa in particolare ha rotto con Washington è solo un indicatore di questo declino della potenza imperiale, soprattutto rispetto a ciò che sta accadendo nel Vicino Oriente. Il livello di mancanza di una risposta concreta a quanto accade nella regione e i tentativi di adattarsi alla situazione, senza alcuna reale alternativa all'investimento nei Fratelli Musulmani come si sta tentando di fare, tutto questo indica quanto l'egemonia regionale degli Stati Uniti stia perdendo terreno.

Per quanto riguarda quanto questo abbia che fare con "la soluzione dei due Stati" (Israele- Palestina), bisogna dire che per tutti i paesi che hanno votato a favore, o che si sono astenuti sulla risoluzione, ovviamente, il voto era strettamente collegato all'opinione che hanno di questa soluzione. Hanno ritenuto che un voto negativo sarebbe stato interpretato come un rifiuto di questa formula che sostengono ormai da anni. Questo infatti è anche il modo in cui l'Autorità Palestinese ha presentato la questione, e cioè come "l'ultima occasione per la soluzione dei due Stati".
Tra i palestinesi il risultato è stato per lo più visto come una vittoria morale dopo una lunga catena di sconfitte di tutti i tipi e di fronte a una forza militare schiacciante come quella di Israele, che continua il suo accanimento contro Gaza. Il voto è venuto anche sulla scia di un'altra vittoria morale, il fiasco dell'ultimo attacco di Netanyahu su Gaza.

ATC: L'Europa continuerà a mantenersi fortemente contraria all'espansione di Israele nella zona "E1"? (Il progetto intorno all'area di Gerusalemme Est annunciato da Israele immediatamente dopo il voto delle Nazioni Unite, che taglierebbe la Cisgiordania in due).

G.A.: Questo resta da vedere, ma l'espressione di rabbia questa volta è nettamente superiore rispetto alle precedenti occasioni. È un segnale specifico nei confronti dell'espansione di una colonia che è qualitativamente più dannosa delle decisioni passate, per il problema di Gerusalemme Est e le sue implicazioni per l'integrità territoriale di un ipotetico Stato palestinese.

Netanyahu ha preso il voto degli Stati Uniti come un via libera, quindi sono davvero gli USA ad avere la responsabilità diretta di questo, anche se Washington ha cercato di prenderne le distanze. Israele non avrebbe avuto il coraggio di sfidare il mondo e Washington, ma può sfidare tutti gli altri fino a quando gli Stati Uniti rimangono in gioco.
Come tutti sappiamo, la leva finanziaria europea su Israele è relativamente limitata. Esistono mezzi attraverso i quali potrebbero esercitare pressioni, come lo stop agli accordi commerciali privilegiati o la pratica reale del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), ma una cosa del genere è talmente al di là delle politiche europee che è difficile da immaginare.

Il nocciolo della questione è che Israele dipende soprattutto dagli Stati Uniti, ed è impressionante che anche questo presidente, Obama, che per molti versi ci si aspettava essere favorevole ai palestinesi, abbia rinunciato a qualsiasi possibile lotta.
Se si guarda ai decenni dopo Eisenhower, è l'amministrazione Bush Senior che appare come quella che ha avuto la maggiore influenza su Israele. Nel 1991, ad esempio, proprio al culmine dell'egemonia degli Stati Uniti, ha spinto il governo di Yitzhak Shamir a partecipare ai negoziati di Madrid, minacciando di sospendere le garanzie per un prestito di 10 miliardi dollari che Israele in quel momento stava cercando. Da allora non abbiamo più visto niente di simile.
Naturalmente Bush Junior era in totale sintonia con i governi più di destra in Israele e dal 2001 abbiamo assistito ad uno spostamento continuo verso l'estrema destra. Spostamento che è proseguito anche con l'amministrazione Obama e che non è altro che un riflesso del profondo declino dell'influenza degli Stati Uniti: Washington non è in grado di esercitare pressioni sul suo alleato più affidabile.

ATC: Abbiamo la sensazione che ci sia un accordo grazie al quale Israele non attaccherà l'Iran contro la volontà degli Stati Uniti, che sarebbe comunque folle, in cambio gli Stati Uniti permettono ad Israele di avere mano libera sui territori occupati palestinesi e su Gaza. Ha senso un'ipotesi di questo tipo?

G.A.: Credo che queste "trattative", se vi piace, non siano esplicite, ma possono esistere implicitamente. L'amministrazione Obama ha effettivamente dovuto affrontare le minacce di un'azione unilaterale da parte di Israele. Bisogna aggiungere che la rielezione di Obama è una sconfitta per Netanyahu, che scommetteva su Romney, nella convinzione che Romney avrebbe acconsentito, e forse anche partecipato, ad un'azione militare contro l'Iran.

La verità è che non solo l'amministrazione Obama, ma anche gli alti ufficiali del Pentagono sono molto preoccupati per una tale prospettiva (quella di un'azione israeliana). Non sono disposti a correre un grosso rischio solo per fare piacere a Netanyahu. Lo stesso accade anche nell'esercito israeliano. Ci sono indiscrezioni che trapelano dal settore della sicurezza e dagli ambienti dell'intelligence israeliani che sostengono che sarebbe un'impresa folle.
L'Iran ha missili e razzi e così pure Hezbollah in Libano. Non sarebbe un'azione senza rischi come invece è stato l'attacco a Gaza.

Il risultato finale è che Netanyahu, dopo aver indetto le elezioni per gennaio, con la sconfitta di Romney, ha dovuto ridurre le sue ambizioni ed ha attaccato Gaza in una manovra elettorale sostitutiva del suo desiderio di colpire l'Iran. Azione che sembra essere un fallimento.
Quanto a cosa accadrà dopo, penso che sia difficile immaginare che Israele lanci un attacco su un bersaglio come l'Iran senza un chiaro nulla osta degli USA. Sarebbe così folle che non credo che l'esercito israeliano accetterebbe.

ATC: Lei aveva previsto con precisione che le vittorie delle rivolte non violente della primavera araba non si sarebbero ripetute nel caso di regimi come la Siria. Come vede la crisi che è esplosa lì e cosa stanno cercando di fare le forze esterne?

G.A.: Le politiche di Stati Uniti ed Europa, Gran Bretagna in particolar modo, si sono concentrare per evitare quello che considerano un cambiamento "caotico". Il motto di Washington, già da subito, a partire dal gennaio 2011, è stato "transizione ordinata", una frase ripetuta innumerevoli volte dai funzionari degli Stati Uniti, Obama e Hillary Clinton inclusi.
Questa è la "transizione ordinata" che hanno imposto allo Yemen con l'aiuto del Gulf Cooperation Council (GCC) delle monarchie del petrolio: una specie di sistemazione che ha depredato il movimento yemenita popolare della sua vittoria, un compromesso del tutto frustrante che non funziona perché ha lasciato il paese completamente instabile. Hanno negoziato un accordo in cui il presidente ha consegnato il potere al suo vice, mentre lui continua ad operare dietro le quinte e la sua famiglia gestisce l'esercito, un reale tentativo di interruzione del processo rivoluzionario.
Questo è esattamente ciò che gli Stati Uniti cercano di ottenere quando c'è una grande rivolta di massa e il cambiamento diventa inevitabile, come in Libia, dove l'obiettivo dell'intervento è stato quello di cercare di controllare il processo. Anche se non potevano farlo via terra perché i ribelli libici non avrebbero accettato truppe straniere, hanno continuato a negoziare con il figlio di Gheddafi (Seif al-Islam). Ma la rivolta non rispetta limitazioni di questo tipo, e il regime è stato poi abbattuto dagli insorti nella sua stessa capitale.

In Siria hanno nuovamente cercato di ottenere una "transizione" senza dare un reale sostegno alla rivolta. Naturalmente non c'è un intervento militare diretto degli Stati Uniti o della NATO, e il rifiuto di armare la rivolta spiega il forte squilibrio tra la ribellione armata e il regime. Obama stesso aveva parlato di una "soluzione Yemen" per la Siria. Non molto tempo fa, il primo ministro britannico David Cameron aveva detto che la sicurezza di Assad avrebbe potuto essere garantita se avesse lasciato il paese.

Questa è arroganza imperiale senza limiti. Indica chiaramente quali sono le reali intenzioni di queste persone, e quanto sia sbagliato credere che Washington stia cercando di rovesciare il regime. La loro preoccupazione principale è ciò che Washington e Londra chiamano "la lezione dell'Iraq". Lì infatti, hanno smantellato l'esercito e l'intero Stato, per poi accorgersi che era un grave errore. In realtà, anche questa è una valutazione sbagliata dei motivi della loro sconfitta in Iraq, che sono ben più profondi, ma, dal loro punto di vista, hanno commesso un errore enorme nello smantellamento dello stato baathista, e non vogliono ricaderci.
Stanno ripetendo la stessa formula in Siria: cercano di trovare un accordo con tutti i settori disponibili del regime. Non stanno ottenendo successo in questa direzione, non più diquanto non sia accaduto in Libia, perché il conflitto è tale, dopo tanta distruzione perpetrata da parte di un regime e una famiglia regnante, disposti a distruggere il loro paese, con intere città come Homs e Aleppo - mi ricorda l'attacco israeliano in Libano e la distruzione della periferia di Beirut nel 2006 - che diviene inimmaginabile che la gente sia disposta a convivere con qualsiasi settore abbia fatto parte di una tale macchina statale organizzata su una base confessionale com'è questa. Credere che sia possibile è una pia illusione.

ATC: Dunque, in che direzione crede che si evolverà la situazione a questo punto?

G.A.: Non credo che ci sia altra possibilità che la fine del regime, la situazione è completamente irreversibile. Perciò la domanda importante non è se il regime cadrà, ma in quanto tempo ciò avverrà. Più tempo ci vorrà e maggiore sarà il costo umano e anche il costo politico, perché questo protrarsi della situazione sta creando le condizioni per undeterioramento della scena politica anche all'interno della rivolta.
In assenza di un sostegno occidentale, il supporto alla rivolta è venuto dalla monarchia saudita, incanalatasi attraverso le forze fondamentaliste sul campo. È la profezia del regime che si realizza, perché fin dall'inizio ha detto che si trattava di una "congiura dei salafiti e di al-Qaeda" e ha fatto del suo meglio per produrre questo risultato. Tutto questo,naturalmente, è molto preoccupante, ed è per questo che più a lungo prosegue il conflitto e peggio sarà per il futuro della Siria.

È nell'interesse del futuro della Siria che il regime cada molto presto. Purtroppo sembra piuttosto difficile, ma se si fa il confronto con l'anno scorso, quando la situazione stava appena cominciando a militarizzarsi, il regime ha perso molto terreno e diventa chiaro quanto velocemente le cose possano svilupparsi. Dipende anche da ciò di cui cui dispone la rivolta, ci sono notizie infatti di un sostegno da parte del Qatar e dell'acquisizione da parte dei ribelli di missili terra-aria. Ma in mancanza di simili elementi, o senza un collasso interno alle forze del regime, la situazione può benissimo durare per diversi mesi, anche un anno o più.

ATC: Infine, c'è la nuova crisi politica in Egitto. Può darci una valutazione in breve?

G.A.: Il problema in Egitto non è una sorpresa perché, da un lato, la Fratellanza Musulmana è di gran lunga la più potente forza organizzata dopo il crollo delle istituzioni del regime di Mubarak. Quindi c'era da aspettarsi la loro vittoria elettorale. Il punto chiave però non è che abbiano guadagnato il potere, ma la fragilità reale della loro vittoria. La vittoria elettorale di Morsi infatti, non è stata travolgente, e agli occhi del movimento di massa lui non comanda alcuna autorità.
Appena decretata la concentrazione del potere, ecco che si solleva una grande e ostinata spinta che gli si oppone. I Fratelli Musulmani hanno una forza molto potente, in grado di organizzare le masse, ma quel che c'è di nuovo è che ormai c'è un gran numero di persone pronte a dire "No". Nel lungo periodo questo regime è in realtà molto debole, una "tigre di carta", perché non ha soluzioni per tutti i maggiori problemi economici e sociali che hanno portato alla rivolta anti-Mubarak.

Le radici profonde di tutto questo si possono trovare nelle difficoltà economiche e nell'enorme disoccupazione. Morsi nel suo programma non ha nulla se non una politica di continuazione col precedente regime. Ha appena firmato un accordo con il Fondo Monetario Internazionale contenete le stesse condizioni di sempre, che creeranno un'insoddisfazione ancora maggiore.
Così, lo sconvolgimento che ha avuto inizio nel mese di gennaio 2011 è tutt'altro che finito.
Siamo solo all'inizio di un processo rivoluzionario molto lungo, e il rapido discredito che sta calando sui Fratelli Musulmani in Egitto e in Tunisia è motivo di ottimismo per il futuro, non lo è invece il diffuso pessimismo soprattutto in Occidente, dove in molti avevano delle aspettative errate ed ora giudicano negativamente l'intera rivolta.

Gennaio / febbraio 2013, ATC 162

(Traduzione dall'inglese Fatima Sai)


IL MEDIORIENTE NELLE ULTIME SETTIMANE
di Cinzia Nachira


    Il Medioriente nelle ultime settimane è tornato alla ribalta dell’attenzione internazionale. Ormai da molti mesi l’interesse in Occidente per le rivolte che stanno cambiando il volto del Medioriente e del Maghreb è diminuito perché gli eventi in corso non soddisfano le attese occidentali, deludendo tutti coloro che si aspettavano un percorso lineare. In realtà in Occidente sono stati sottovalutati due fattori. Per un verso alcuni  paesi coinvolti erano succubi di dittature ultra decennali e per questo ogni forma di espressione culturale, politica, sociale o sindacale è stata repressa e conseguentemente molti dei leader che oggi sono protagonisti della scena politica sono tornati dopo lunghi periodi di esilio in Occidente, dove avevano trovato rifugio. Per un altro verso, l’elemento che oggi desta più smarrimento in Occidente è il ruolo di primo piano svolto dalle organizzazioni politiche islamiche che all’inizio delle rivolte nel dicembre 2010 sembravano essere marginali. Ma, come spesso succede, la realtà è ben più complessa di ciò che si desidera e quindi ci si trova ad un bivio: cercare di comprendere ciò che avviene, districandosi fra la complessità dei dati sul terreno, oppure ignorare la realtà adattandola ai propri desideri.
   Inoltre, molti paesi della regione negli anni scorsi sono stati teatro di gravi crisi interne, soprattutto legate all’impoverimento generalizzato delle popolazioni, fin dagli anni ’90 del XX secolo. Ma ciò che due anni fa ha reso  diverse dalle precedenti le rivolte che sono  scoppiate è stato il prevalere del loro carattere politico e del loro coraggio. Questo elemento, più degli altri, è diventato la miccia che non  si è ancora spenta.
   Per quanto il mondo arabo rappresenti da diversi punti di vista un insieme organico è anche vero che ognuno dei paesi mediorientali hanno vissuto vicende specifiche che oggi li influenzano. Sottolineare questo aspetto è necessario anche per non commettere l’errore di porre tutto sullo stesso piano. Questo rischio è particolarmente presente e da alcuni anni si intrecciano due elementi: per un verso la sconfitta dei partiti laici che dagli anni sessanta fino alla fine degli anni settanta del secolo scorso avevano tentato di imporsi sulla scena politica e, per un altro verso, come conseguenza, l’affermarsi delle organizzazioni politiche islamiche. Spesso si è stati tentati, e lo si è tutt’ora, di risolvere questo enigma annullando le differenze.


    L’Occidente cambia tattica


   Una cosa è certa: nessuno si aspettava che dalla Tunisia nel dicembre 2010 si estendesse un movimento di massa di grandi proporzioni. Le potenze Occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa, hanno tentato all’inizio di rinnovare il loro appoggio ai dittatori che fino a poche ore prima erano dei loro alleati e clienti di vecchia data e di consolidata lealtà. Ma quando è diventato chiaro che la dinamica era irreversibile, perché le piazze non si svuotavano malgrado la repressione brutale, il loro atteggiamento è cambiato. Il quesito che si poneva sia agli Stati Uniti che all’Europa era semplice: per garantire i propri interessi nella regione conveniva sostenere o abbandonare i vecchi alleati? Evidentemente, nel decidere la risposta venivano presi in considerazione una serie di diversi elementi, fra cui anche il fallimento delle politiche che dal 2001 fino al 2009 avevano avuto come risultato principale quello di impantanare l’Occidente nelle due guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq. Era molto più difficile uscire da queste guerre di quanto non fosse stato scatenarle.
   Inoltre, le guerre scatenate in Iraq e Afghanistan avevano avuto anche il “risultato” di radicalizzare tutti i movimenti di opposizione nel mondo arabo, per cui scegliere dei nuovi alleati per l’Occidente era un’operazione tutt’altro che facile. In questo contesto, l’unica soluzione era quella di modificare le alleanze, per non intaccare i rapporti, strategicamente importanti, con Israele e  i paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa. Gli stessi paesi del Golfo erano tutt’altro che esenti dal “contagio” delle rivolte: dall’Arabia Saudita al Bahrein, passando per il Qatar. Anche in questi paesi l’opposizione riprendeva vigore e le manifestazioni popolari mettevano in pericolo i paesi ricchi di petrolio. Questi per l’Occidente non solo rappresentavano interessi legati al petrolio ma erano anche importanti sedi di basi militari statunitensi organizzate all’epoca della guerra del Golfo nel 1991. Tutto questo andava preservato e in questo senso gli interessi statunitensi ed europei andavano coincidendo in modo sempre più evidente con quelli delle monarchie petrolifere. Fino ad oggi queste monarchie hanno saputo intrecciare i metodi più classici di “contenimento” delle rivolte interne attraverso una fortissima repressione. Grazie alle loro immense ricchezze hanno potuto sostenere le forze politiche islamiche nei diversi paesi in rivolta (in Tunisia hanno largamente finanziato Ennhda). In questo modo i partiti islamici hanno potuto facilmente riorganizzarsi e vincere le elezioni. Ovviamente, l’influenza dei paesi del Golfo è stata molto apprezzata dagli Stati Uniti che alla fine hanno stabilito buoni rapporti con le forze politiche islamiche che fino al novembre 2010 erano considerate terroristiche e destabilizzanti.
   In questo modo, pur non avendo giocato un ruolo di promotori delle rivolte, i partiti islamici hanno potuto accreditarsi nella regione come i nuovi interlocutori dell’Occidente. Nel gennaio 2011 l’amministrazione statunitense auspicava “una transizione nell’ordine” e questa sembrava essersi realizzata. Questo elemento, inoltre, si era rivelato un punto importantissimo di forza anche nell’orientare l’atteggiamento occidentale verso i paesi nei quali le rivolte erano sfociate in guerre aperte: in Libia e in Siria. È qui possibile solo un accenno, ma è essenziale sottolineare il fatto che tanto il regime di Gheddafi quanto quello degli Assad, pur avendo una facciata “antimperialista”, soprattutto dal 1991, intrattenevano stretti rapporti sia con gli Stati Uniti che con l’Europa. Il ruolo diverso della Libia e della Siria nella regione ha determinato il diverso approccio occidentale.
   Ancora una volta, però, la realtà ha smentito coloro che pretendevano che le “primavere arabe”, come sono state definite in Occidente, fossero un argomento chiuso, dopo la vittoria elettorale dei partiti islamici in numerosi paesi (dal Marocco all’Egitto). Soprattutto in Tunisia e in Egitto, pur avendo i partiti islamici vinto le elezioni e prevalendo nelle assemblee costituenti dei due paesi, le manifestazioni contro il nuovo assetto non sono in realtà mai terminate.

  Per gli interessi occidentali nella regione, in particolare l’Egitto oggi riveste un’importanza fondamentale. È ormai chiaro che gli Stati Uniti e l’Europa hanno scelto come interlocutore privilegiato il presidente Mohamed Morsy. Ma, al contrario del regime di Mubarak, i Fratelli Musulmani devono preoccuparsi di non perdere né il consenso popolare e neppure gli equilibri ereditati dal vecchio regime che essi hanno l’interesse a preservare. Questi equilibri riguardano soprattutto l’esercito che in Egitto è una parte essenziale del potere economico, visto che gestisce direttamente una quota importante degli aiuti militari statunitensi ed è nello stesso tempo formato da una base sociale popolare. Con il decreto presidenziale Morsy si concedeva dei poteri che ponevano le sue decisioni al di sopra di qualunque tipo di controllo ed estendevano contemporaneamente i poteri dell’esercito tentando di neutralizzare gli appetiti dei generali. Fin dalla presa del potere di Nasser tutti i presidenti egiziani provenivano dall’esercito, anche se poi svestivano la divisa a favore degli abiti civili, e questo dà l’idea del rilievo dell’esercito nella società egiziana.
   Morsy, il primo presidente non militare, aveva quindi la necessità sia di accreditarsi come interlocutore affidabile verso l’Occidente, sia di dare l’impressione che la transizione dopo Mubarak fosse reale. Un’occasione gli è stata offerta da Israele che attaccando Gaza il 14 novembre scorso pensava di mettere in difficoltà l’Egitto. Al contrario, Morsy aveva saputo sapientemente sfruttare la crisi di Gaza. In primo luogo il Cairo è diventato il crocevia dei negoziati, ma nonostante questo Morsy non ha rinunciato a fare dichiarazioni di fuoco contro Israele, come non avveniva da decenni. L’invio del primo ministro egiziano a Gaza sotto i bombardamenti ha aperto la strada alla fine dell’isolamento politico di Gaza e della leadership di Hamas. Inoltre, dopo il primo ministro egiziano, a Gaza si sono recate delegazioni di tutti paesi in qualche modo coinvolti nella vicenda, dalla Turchia fino alla Lega Araba.
Tutto questo ha definitivamente convinto gli Stati Uniti che il quadro regionale era cambiato e che mantenere un atteggiamento di difesa ad oltranza delle scelte militari di Israele metteva a rischio i propri interessi strategici.


   L’aggressione a Gaza e il riconoscimento dell’ONU


   Quanto analizzato finora dimostra chiaramente che la Palestina non poteva restare estranea agli eventi che si susseguivano a livello regionale. E se anche il popolo palestinese è rimasto ai margini delle rivolte arabe, inevitabilmente nessuno poteva onestamente pensare che queste non lo avrebbero influenzato. E questo anche perché Israele è invece rimasto saldamente ancorato alla vecchia visione regionale, sperando contro ogni evidenza che la nuova situazione potesse essere gestita con i metodi consolidati: guerra e copertura occidentale. In questo contesto regionale reso ben più fluido dalle rivolte e dai nuovi equilibri le  leadership palestinesi, quella dell’Autorità Nazionale Palestinese – in Cisgiordania – e quella di Hamas – a Gaza – sono state costrette a fare i conti con un distacco sempre più profondo tra le loro politiche e il popolo che intendono rappresentare.
   Hamas, evidentemente, ha avuto maggiore possibilità di rientrare nel gioco regionale per due motivi: perché gode ancora del fatto di aver vinto le elezioni legislative nel 2006 e perché grazie al prevalere dei Fratelli Musulmani ha maggiore visibilità e credibilità. Questo spiega anche il motivo per cui Khaled Meshaal, il leader di Hamas in esilio, nei mesi scorsi ha deciso di rompere l’alleanza con la Siria trasferendo il suo quartier generale a Doha, in Qatar. Quando in ottobre l’emiro qatariota si è recato a Gaza in visita ufficiale, Hamas cominciava a trarre i profitti delle proprie scelte politiche. Con l’ultima aggressione contro Gaza, Israele ha dato una nuova dimostrazione di aver compreso poco o nulla del mutato scenario politico regionale ed internazionale. A spingere Israele a scatenare la nuova, terribile, aggressione contro Gaza appare chiaro che è stata la fine dell’isolamento politico di Hamas molto più che le elezioni israeliane che si svolgeranno il prossimo 22 gennaio. Inoltre, fin dai primi giorni dell’aggressione di Israele contro Gaza era evidente che Hamas era riuscito a prevalere sulle altre organizzazioni politiche palestinesi della Striscia. Non a caso Meshaal, una volta giunto al Cairo per tentare di arrivare ad una tregua, ha potuto parlare anche in nome del Jihad Islamico. Inoltre, Hamas è in procinto di rinnovare i suoi quadri dirigenti e Meshaal, pur dichiarando di non ripresentarsi alla guida dell’ufficio politico di Hamas, deve affrontare anche il problema, soprattutto dopo il 21 novembre (giorno dell’entrata in vigore del cessate il fuoco con Israele), del grande consenso ottenuto dalla leadership dell’interno. Non è la prima volta che nello scenario politico palestinese si propone la dicotomia tra le direzioni politiche in esilio e quelle che invece sono sul campo. Certamente, Meshaal è riconosciuto come l’architetto della tregua, anche se questa è stata possibile, ancora una volta, soprattutto grazie al mutato clima generale. Il suo trionfale ritorno a Gaza, per il 25° anniversario di Hamas, è stato anche un grande rito. Gigantografie dello Sceicco Yassin, leader carismatico fondatore dell’organizzazione nel 1987 e ucciso dagli israeliani nel 2004, erano al fianco di quelle di altri leader assassinati, da Abdel Rantisi fino ad Ahmed Jaabari. Meshaal era circondato dai membri del governo in carica a Gaza e il suo discorso ha sottolineato un dato: la direzione politica in esilio riconosce pienamente l’autorità di quella dell’interno. Tutto questo con una folla immensa di palestinesi con le bandiere verdi di Hamas. Meshaal nel suo discorso ha anche ribadito che non vi è riconoscimento possibile di Israele e che la resistenza continuerà fino alla liberazione. E ha concluso sostenendo che la riconciliazione è a portata di mano: un evidente invito all’Autorità Nazionale Palestinese e a Fatah. Inoltre, e non accadeva dalla rottura del 2007, una delegazione di Fatah era presente a Gaza. In definitiva, un discorso ampio e generico volto a preservare i risultati politici ottenuti con il cessate il fuoco. Ma non solo.
   L’Autorità Nazionale Palestinese durante la settimana di bombardamenti a Gaza sembrava definitivamente messa in un angolo. Ma nonostante il grande vantaggio di Hamas, anche grazie al tacito consenso internazionale, resta il fatto che in ogni caso l’organizzazione islamica palestinese non offre all’Occidente quella affidabilità dimostrata dall’ANP e da Fatah fin dal 1993.

 Per questa ragione di fondo gli Stati Uniti hanno deciso di giocare su due tavoli contemporaneamente: far accettare il cessate al governo più oltranzista nella storia di Israele, mantenendo tuttavia un atteggiamento che reiterava l’accettazione del “diritto alla difesa” di Israele. Su un altro piano, pur chiedendo a Mahmud Abbas di rinunciare all’iniziativa di chiedere all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di ammettere la Palestina come Stato non membro e con status di osservatore, in realtà non hanno fatto nulla perché la richiesta dell’ANP venisse rifiutata. A differenza di Israele, gli Stati Uniti hanno compreso che i palestinesi con il voto dell’Assemblea Generale hanno ottenuto molto meno che con gli accordi di Oslo nel 1993. Anzi, passata l’euforia per le “vittorie” di Hamas e dell’ANP è probabile che la realtà si presenti pesantemente gravida di pericoli. Primo fra tutti quello che Israele imponga un accordo che registri di fatto la parcellizzazione della Cisgiordania creata con la costruzione del Muro di separazione unilaterale, iniziata da Israele nel 2002.
   Evidentemente, il voto favorevole dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre  ha dato un sostegno fondamentale all’ANP di Abu Mazen, aiutandolo ad uscire dall’angolo in cui era finita. Ma tutti sanno che il consenso popolare seguito all’esito della votazione è legato da un fragile filo. Per questa ragione sia gli Stati Uniti che l’Europa hanno reagito in modo negativo all’annuncio israeliano della costruzione di 3000 nuove abitazioni nei pressi della colonia di Maale Adunim alle porte di Gerusalemme. In definitiva, il cessate il fuoco del 21 novembre raggiunto con Hamas e il voto favorevole dell’Assemblea Generale sono due facce di una stessa medaglia. È evidente che Hamas e l’ANP, se vogliono conservare il consenso, dovranno raggiungere un accordo di riconciliazione, tutt’altro che scontato, e questo dovrà significare per il popolo palestinese, in tutte le sue componenti, un miglioramento effettivo delle condizioni di vita.
   Ovviamente, è comprensibile il sollievo e perfino la gioia sia dei palestinesi della Striscia di Gaza sia della popolazione della Cisgiordania. Le stesse scene di giubilo collettivo si videro nel 1993 all’indomani della firma degli accordi di Oslo e tuttavia furono sufficienti pochi anni perché l’illusione fosse dolorosamente svelata. Certo, il clima politico regionale ed internazionale di oggi è profondamente diverso da quello degli anni novanta del secolo scorso e ciò che emerge fino a questo momento è che saranno determinanti sia le scelte delle due direzioni politiche palestinesi, sia la disposizione dell’Occidente a farsi valere nei confronti di Israele. In questo senso le speranze dell’Occidente di “chiudere” il dossier palestinese-israeliano con artifici diplomatici privi di sostanza politica potrebbe rivelarsi, ancora una volta, un boomerang i cui effetti sarebbero per l’ennesima volta dolorosamente pagati dal popolo palestinese.

Dicembre 2012


PREMIO STEFANO CHIARINI 2013

Anteprima intervista a
Ascanio Celestini

di Mirca Garuti e Novara Flavio


A pochi giorni dalla consegna del premio Stefano Chiarini abbiamo raggiunto telefonicamente Ascanio Celestini vincitore dell’edizione 2013 per porgli alcune domande non solo riguardo al premio che gli verrà consegnato il 2 febbraio a Modena, ma anche in merito alla questione palestinese.
Dall’esperienza negativa vissuta anni addietro in Israele, definito “…una sorta di laboratorio. Nel senso che se funziona li, questa cultura del confine e dei tanti confini interni, può funzionare da qualche altra parte. E questo fa veramente paura.”, all’appoggio alla nave Estelle della freedom flotilla 3 che aveva come obiettivo rompere l’assedio di Gaza e portare aiuti umanitari al popolo di Palestina. Un azione da lui stesso definita “un modo concreto per spezzare il vincolo che ci vede attivi solo come crocerossine che fanno l’elemosina”.

 

Ascolta l'intervista

 
La giuria ha deciso di assegnare il Premio all'attore Ascanio Celestini (che consiste nel pagamento per un anno dell’adozione di un bambino palestinese rifugiato in Libano) per sottolineare il suo impegno attraverso il teatro e interventi televisivi a rompere il muro ipocrita del “politicamente corretto” che colpisce gli strati più deboli delle popolazioni e che da sempre rappresenta uno dei principali strumenti dell’informazione nell’opera di manipolazione sulla questione palestinese.


Il Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila, Alkemia,
Circolo de Il Manifesto

presentano:

QUALE FUTURO SULLA PALESTINA

Incontro con

FAUSTO GIANELLI - Giuristi Democratici

e

MICHELE GIORGIO - Autore del libro NEL BARATRO

(I Palestinesi, l’occupazione israeliana, il Muro, il sequestro Arrigoni)

“Tre palestinesi sono stati uccisi oggi nei Territori occupati…”. Per questa notizia non c’è bisogno di andare a vedere che giorno è. È ininterrottamente lo stesso giorno, quasi un intercalare temporale nell’arco di più di mezzo secolo in Medio Oriente. Che quotidianamente ripropone, scriveva Eduard Said «la tragedia di essere vittima delle vittime». Dalla prefazione di Tommaso Di Francesco

 

 

Michele Giorgio*: "Israele ha raccolto per tre anni informazioni su Gaza attraverso i suoi servizi segreti e per questo che ritengo che l'attuale offensiva solo inizio poteva essere stata colpendo obiettivi mirati, ma non in seguito. Gli ulteriori bombardamenti sono stati volutamente mirati a colpire le abitazioni. Per non parlare dell'attacco portato anche dalla marina militare".

1° PARTE  

 

 

Fausto Gianelli: "Non è vero che il riconoscimento dell'ONU della Palestina come stato osservatore ne riconosce l'autorità. Anche perchè la Palestina era già uno stato. Esisteva e quindi questa è un accettazione, un riconoscimento già dato. Bisogna però vedere se questo può nei fatti cambiare le cose in seno alla Corte Internazionale. Anche perchè già in precedenza non aveva risposto alle richieste di giustizia dei palestinesi.
Grave è che si continui a sottovalutare la questione degli omicidi mirati. Soprattutto perchè non si prende il considerazione che non è solo una questione di Giustizia ma di Democrazia. Un capo di stato può decide di uccidere senza un regolare processo e preventivamente che possa commettere un reato. Una grave prassi, per il Diritto Internazionale, che pare stia diffondendosi. Mi risulta, infatti, che anche il presidente Obama ogni settimana si trovi in una riunione con la CIA a valutare e decidere tra i nomi riportati su una lista".

2° PARTE

 

* Michele Giorgio è originario di Caserta, dove è nato nel 1961. Giornalista professionista, vive a Gerusalemme ed è corrispondente dal Medio Oriente del quotidiano Il Manifesto; collabora inoltre con altre testate giornalistiche. Da due anni amministra il sito d’informazione Near East News Agency (Nena news)



                   

GAZA: TREGUA DALLE ORE 20,00 DEL 21/11/2012

I dettagli dell'accordo tra Israele e Hamas:

- Israele fermerà l'operazione militare contro Gaza e tutti gli attacchi da terra, mare e cielo comprese le incursioni ai confini e omicidi mirati;

- Le fazioni palestinesi fermeranno le aggressioni da Gaza, inclusi lancio di razzi e attacchi ai confini;

- Tutti i valichi saranno aperti da 24 ore dopo il cessate il fuoco, riducendo le limitazioni nel passaggio di beni e persone da e per Gaza:

- L'Egitto sarà garante del rispetto dei termini del cessate il fuoco.

(traduzione di Nena NewsAgency)



OPERAZIONE “PILLAR OF CLOUDS”
(COLONNA DI NUVOLE)
GAZA SOTTO ASSEDIO

di Mirca Garuti

Sta succedendo di nuovo! Gaza è di nuovo sotto assedio. L’incubo di “Piombo Fuso” è alle porte.
Sembra impossibile, ma è tutto vero. Come al solito, i titoli dei giornali e le televisioni riportano il dolore, la paura, lo sdegno della popolazione israeliana colpita dai razzi lanciati dalla Striscia di Gaza. Arriva solo la notizia dell’uccisione di tre civili israeliani, due giovani donne ed un uomo,  a Kyriat Malachi, 25 chilometri a nord di Gaza. Il missile che ha centrato la casa è stato lanciato dopo che un missile israeliano, con una perfetta operazione mirata, aveva ucciso il capo militare di Hamas Ahmed Al-Jabari,  mentre guidava la sua automobile in una strada di Gaza.

Sul quotidiano “Libero” di oggi, 16 novembre, è apparso un articolo di Maria Giovanna Maglie con il titolo “Israele è sotto attacco: fa benissimo a sparare”, nel quale afferma che Israele ha risposto  “dopo che per settimane e settimane i missili di Gaza sono caduti sui suoi cittadini a centinaia”. Continua così: “Immaginatevi di abitare al confine con la Svizzera, a Como, e che da oltre confine vi bombardino ogni giorno. Non reagite, continuate a subire, non proteggete gli abitanti?... Israele è un piccolo Stato e un grande Paese, vive circondato e assediato, è il nostro avamposto occidentale in terra ostile, ha un esercito e una intelligence adeguati alla bisogna e al rischio che corre…”

Strano modo di commentare i fatti, ad essere assediati e costretti a vivere in una prigione a cielo aperto, sono i palestinesi, non gli israeliani! E’ il popolo palestinese che si trova sotto occupazione e che ha il Diritto di difendersi e di ribellarsi all’occupante israeliano.

I Gazawi non possiedono le stesse armi degli israeliani, hanno solo i razzi e le pietre. Non possiedono i bunker per proteggersi, mentre la popolazione israeliana ha un rifugio in ogni casa. Eppure è Israele che si deve proteggere e tutti lo gridano e chiedono la fine delle incursioni da Gaza verso Israele e non il contrario.
Il Ministro italiano degli Esteri Giulio Terzi si dice molto preoccupato per “questo contesto di forte tensione” generato dal lancio di “missili qassam con seri rischi per la popolazione”, quella israeliana,  s’intende! La diplomazia italiana si affida al ruolo moderatore dell’Egitto. La reazione di Terzi è la prima reazione ufficiale del governo italiano, dopotutto la “sicurezza di Israele” è una delle priorità dell’agenda Monti.

Israele non ha risposto solo ora al lancio dei missili da Gaza, ma lo fa di continuo, anche senza scusanti. Non ne ha bisogno perché il mondo occidentale lo assolve sempre.
Se prendiamo le varie notizie, a partire per esempio dal mese di giugno 2012, relative ai movimenti israeliani verso la Striscia di Gaza, possiamo ben comprendere la terribile situazione in cui vive Gaza, un milione e mezzo di persone assoggettate ad un selvaggio terrore continuo. Gli accordi di Oslo nel 1993 hanno decretato Gaza e la Cisgiordania due singole entità territoriali e, da allora, Israele e gli Stati Uniti hanno iniziato il loro programma per separarli completamente.

I Gazawi sono stati oggetto di una punizione crudele. Israele e gli Stati Uniti hanno deciso di punirli, come sostiene Noam Chomsky, in un suo documento redatto dopo aver visitato Gaza dal 25 al 30 ottobre scorso, per aver votato “nel modo sbagliato” per Hamas nel 2006 alle prime elezioni del mondo arabo. Puniti per aver fermato, un anno dopo, il colpo di stato preparato dagli Stati Uniti per instaurare l’ordine e la sicurezza d’Israele. Questo però ha portato all’intensificazione degli attacchi militari israeliani, raggiungendo l’apice a fine dicembre 2008 e gennaio 2009, con l’operazione “Piombo Fuso”. Da allora si continua  con la chiusura dei confini, un estenuante embargo e bloccando tutti i tentativi da parte di molti attivisti internazionali di arrivare a Gaza per tentare di rompere questo lungo ed illegale assedio. (vedi Alkemia alla Gaza Freedom March).

La cronaca di guerra “omessa” a Gaza di questi ultimi mesi:
03- 04 giugno 2012  – l’aviazione israeliana ha colpito diverse aeree nella Striscia: una casa abitata nel campo profughi di Nuseirat (7 persone ferite fra cui 4 bambini), tre aree disabitate, una fattoria a Khan Younis e a Beit Lahia, una fattoria che produce formaggi nell’area di Zaitoun.
Gli  israeliani hanno comunicato di aver colpito obiettivi militari. Molti media internazionali hanno riportato questa dichiarazione. La verità è un’altra. La verità è fatta di case civili ridotte in macerie, di soffitti crollati di notte, di famiglie ridotte in povertà, di bambini spaventati e feriti.

23 giugno 2012  – sesto giorno di attacchi israeliani su Gaza, sale a 16 il numero dei morti, fra cui un bimbo Ali Moutaz Al Shawaf  di 5 anni e mezzo, e più di 60 sono i feriti.

27-28 agosto 2012  – attacco israeliano su Gaza: l’aviazione ha bombardato diversi siti di Hamas e della resistenza palestinese ed inoltre carri armati hanno fatto irruzione nel campo di Al Burej. Israele ha dichiarato di aver colpito questi siti in risposta ad alcuni missili lanciati qualche giorno prima da Gaza verso il sud di Israele. Questi missili non provocano danni e, in questo caso, sono stati lanciati da gruppi di salafiti . Il bollettino degli attacchi: 7 feriti.

19-20 settembre 2012 - l’aviazione israeliana ha attaccato il sud di Gaza, nella zona ad est di Rafah: due cittadini sono morti ed un terzo è clinicamente morto. Le vittime sono l’ufficiale Ashraf Saleh Abu Marana, 33 anni e l’assistente Anis Abu Enein, 36 anni , entrambi lavoravano per il Ministero degli Interni e della Sicurezza al confine di Rafah. Il terzo Nedal Nasrallah è ricoverato all’ospedale. Successivamente all’attacco, i droni hanno continuato a sorvolare durante la notte su tutta la Striscia di Gaza.

30 settembre 2012 – la resistenza palestinese risponde alle aggressioni. Le Brigate del martire Abu Ali Mustafa hanno dichiarato di aver attaccato una torre militare israeliana sul confine a nord-est di Beit Lahia con un ordigno esplosivo. Le brigate rivendicano il diritto alla resistenza contro l’occupazione. La resistenza ha colpito una delle torri da cui gli israeliani hanno fatto irruzione in territorio palestinese due giorni prima, sparando sui pescatori ed uccidendo il giovane pescatore Fahmy Abu Ryash di 23 anni con proiettili “ad espansione” o “dum dum” (proiettile che, in una convenzione internazionale, ritenendolo troppo barbaro, ne era stato limitato il suo uso nelle guerre, ad eccezione dell’impiego verso le bestie e nei movimenti coloniali)
07-08 ottobre 2012 – raid aereo israeliano sul campo profughi “Brazil” a sud di Gaza: 1 morto e 9 persone ferite, di cui 5 bambini, una madre Sabrin Hussein Al Magossi di 23 anni con una figlia di un mese e un figlio di 2 anni e mezzo.
Sono state anche colpite due moschee. Il 07 ottobre,  4 pescatori sono stati arrestati dalla marina militare israeliana mentre si trovavano a circa 2,5 miglia dalle coste di Beit Lahia a nord di Gaza.
I pescatori sono stati rilasciati ma non hanno riavuto la barca.
Israele ha imposto un limite illegale di 3 miglia entro cui i pescatori di Gaza possono pescare. Gli accordi israelo-palestinesi di Jericho del 1994 concedevano loro 20 miglia nautiche dalla costa. La stessa Marina Militare non rispetta questo limite che Israele ha imposto illegalmente, arrivando anche a poche centinaia di metri dalla costa, impedendo del tutto ai pescatori di pescare.

12-13 ottobre 2012 – raids aerei israeliani: sono stati colpiti spazi disabitati nei campi profughi di Al Bureij e Nuseirat e un sito della resistenza a nord di Gaza city. E’ stato danneggiato l’asilo di Um Al-Nasser. Un’esplosione ha ucciso due uomini in motocicletta in Massoud Street in Jabalia, a nord di Gaza. Il primo uomo è morto sul colpo, Ashraf Sabbaa, arrivato senza testa all’ospedale. Il secondo Hesham Ali Su’eidani è morto successivamente all’ospedale.

22 ottobre 2012 – raid aerei a nord della Striscia: 2 morti della resistenza palestinese e 4  feriti.

08-11 novembre 2012 – nuova offensiva militare israeliana: l’esercito ha bombardato con colpi di artiglieria pesante molti punti della Striscia: 7 persone uccise, tra cui 3 bambini, ed almeno 50 feriti, tra cui donne e una decina di ragazzi e bambini. Giovedì 8 novembre, un proiettile ha colpito all’addome, uccidendolo un bambino di 13 anni, Ahmed Younis Abu Daqqa. E’ stato ucciso da colpi sparati da mezzi corazzati israeliani durante un’incursione nel villaggio di Abassan, a sud della Striscia. Ahmed stava giocando con i suoi amici a pallone vicino alla sua abitazione. Ahmed era tifoso del Real Madrid ed ora la maglietta dei Galacticos madrileni sporca di sangue giace sul suo lettino vuoto. Sabato 10 novembre l’esercito ha sparato colpendo alcuni bambini palestinesi che giocavano a pallone in Shijaia, quartiere est di Gaza city. Due ragazzi sono stati uccisi: Mohammed Ussama Hassan Harara di 16 e Ahmed Mustafa Khaled Harara di 17 anni. L’esercito ha poi sparato altri colpi, uccidendo altre due persone: Ahmed Kamel Ad-Dirdissawi  di 18 e Matar Emad Abdul Rahman di 19 anni.

Domenica 11 novembre, aerei israeliani hanno colpito ed ucciso due membri della resistenza palestinese, Mohammed Obaid, 20 anni, il cui corpo è arrivato in pezzi all’ospedale e Mohammed Said Shkoukani, 18 anni.  Lo Shifa hospital ha ricevuto in tutto circa 40 feriti.
E’ stata una giornata di scontri, una delle più cruenti degli ultimi mesi al confine tra Gaza e Israele. Israele afferma di aver centrato obiettivi di Hamas e di aver reagito al lancio di un razzo contro una jeep militare.
L’aumento delle violenze giunge vicino alla preparazione delle elezioni israeliane del 22 gennaio prossimo. Il premier Netanyahu, alla riunione domenicale del Consiglio dei ministri, ha dichiarato: “Il mondo deve capire che Israele non starà senza far nulla mentre cercano di attaccarci. Siamo preparati ad ampliare la nostra risposta”.

14 novembre 2012 – “Operazione Pillar of Clouds” : missili al centro della città, è stato ucciso Ahmed Jaabari, comandante militare di Hamas. Un inferno di esplosioni, di urla, di terrore.
I dati dello Shifa hospital: 50 feriti, la maggior parte donne, bambini e persone anziane, 5 persone morte, tra cui un bambino di 11 mesi, una bambina di 7 anni ed una ragazza di 19.
Gli attacchi aerei continuano minuto dopo minuto. Israele andrà avanti fino a quando Hamas non capirà. Il numero dei morti palestinesi è salito a 46 e siamo al quarto giorno di bombardamenti sulla Striscia di Gaza.

Una parte della società civile europea ed internazionale si sta muovendo con manifestazioni e dichiarazioni per cercare di fermare questo ulteriore atto criminale nei confronti del popolo palestinese, con la speranza di riuscire a togliere quella benda sugli occhi che rende molti occidentali ciechi di fronte alla verità.

(Fonte: blog di Oliva di Rosa Schiano, corrispondente da Gaza)

Sotto le bombe: La voce di Rosa Schiano (da:youmedia.fanpage.it)

 

Intervista a Michele Giorgio a Radio 24



Per approfondimenti:

“Diretta da Gaza” da Nena news

Blog di Oliva

Ennesima aggressione a Gaza di Cinzia Nachira

Dichiarazione di Gilad Sharon

Manifestazione a Modena con foto – VIDEO - volantino

Comunicato Mezzaluna Rossa Palestinese

Documento di Noam Chomscky

Mail della volontaria Adriana presente a Gaza

Cloud Pillar su Gaza? di Pax Christi Italia

Con i Palestinesi, contro l'indifferenza e le complicità di M. Musolino

Bombardamenti su Gaza  di Alessandro Fontanesi

Report e Video dei cooperanti italiani a Gaza

Testimonianza di un parrocco italiano 


Leggi la 1° parte

VIAGGIO TRA I PROFUGHI PALESTINESI
CHATILA 2012

di Mirca Garuti
(2° parte)


Con il sorriso dei bambini nel cuore e la tristezza negli occhi lascio, con molto dispiacere, il campo di Chatila. Chatila è un campo speciale. Le condizioni di vita qui sono molto difficili, qui ci sono le donne che ci aspettano, che sperano in una giustizia, che ricordano mariti, figli, fratelli, che vivono per ritornare a casa, e noi? Cosa possiamo offrire? Quale speranza? Possiamo solo rompere quel muro di silenzio che avvolge ormai un mondo sordo ed indifferente troppo occupato solo di se stesso, raccontando la verità.
Lasciamo Chatila per incontrare il direttore del quotidiano libanese As Safir, Talal Salman ed il direttore aggiunto di “Le Monde Diplomatique”, Alain Gresh.

L’appuntamento con Talal Salman è sempre stato il punto fermo di ogni nostro viaggio. Salman è importante per noi, come noi lo siamo per lui. Le sue parole ci trasmettono l’energia e la forza necessaria per poter continuare la lotta per i diritti del popolo palestinese. Ogni anno, attraverso il suo resoconto, possiamo sia conoscere la situazione attuale del Libano e sia avere una visione globale della realtà della regione medio orientale. Si scusa, e questo purtroppo succede spesso negli ultimi anni, per non avere buone notizie. Salman ricorda i trenta anni della strage di Sabra e Chatila attraverso il lavoro minuzioso svolto dalla professoressa Bayn Nuwayhed raccolto nella pubblicazione di “Sabra e Chatila: settembre 1982”.
Salman continua la sua esposizione parlando della preoccupante situazione in Libano.
 “L’occidente – dice - ha chiamato le rivolte nei paesi del medio oriente “Primavere arabe”. Un termine non troppo preciso, ci sono stati troppi e grandi errori. La rivoluzione nello Yemen e in Siria non è compiuta.” E’ preoccupato per le nuove forze politiche che stanno avanzando, come i Fratelli Musulmani ed i salafiti e dichiara che “ è chiaro che c’è una relazione tra l’islam politico e l’amministrazione americana”. Il Libano sta vivendo un anno d’insicurezza, il clima politico è ritornato sul conflitto degli anni passati perché l’estremismo islamico ha provocato l’estremismo cristiano. Salman non tralascia di parlarci della visita del Papa Benedetto XVI e del dispiacere che, i palestinesi e quella parte di libanesi che lottano al loro fianco hanno provato per l’assoluta mancanza, nei suoi discorsi e messaggi, di un qualsiasi riferimento verso la tragedia del popolo palestinese ed il massacro di Sabra e Chatila. Continua parlandoci delle elezioni del prossimo anno, temendo che si possa aprire una campagna elettorale razzista nei confronti dei “nostri fratelli palestinesi”. Conclude parlando del momento molto tragico che sta vivendo la Siria: “Nessuno sa come finirà. La Siria era il punto forte per la stabilità della regione. Il destino della Siria si ripercuoterà su di noi. Qualcun altro deciderà per noi. Tutti i paesi che vivono sul mediterraneo sono soggetti a dei cambiamenti, ma il non sapere quale sarà il nostro futuro, ci blocca, ci spaventa”. La paura per le sorti della Palestina è maggiore rispetto a quella degli anni passati per la divisione del popolo palestinese e per la situazione del mondo arabo. I palestinesi sono sempre più soli a combattere la loro lotta.
Infine, ci ringrazia ancora una volta per la nostra continua presenza, definendoci come “la sveglia del mattino”.


Alain Gresh, cittadino francese, ma di famiglia copta (la madre d’origini ebraiche russe ed il padre egiziano) si trasferisce con la famiglia a Parigi nel 1962. In Francia ha partecipato alle lotte del ’68 e nel ’72 diventa membro permanente dell’Unione Studenti Comunisti francesi. Il suo interesse si concentra verso la questione palestinese e prepara la sua tesi di laurea sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Lascia gradualmente il partito comunista, la prima fase a causa dell’invasione russa dell’Afghanistan nel ’79, poi nel ’83 e, in modo definitivo nel ’86. Attualmente è il direttore aggiunto di “Le Monde Diplomatique”.
Alain Gresh parlerà, in quest’occasione, d’Israele per capire chi è e quale è la sua posizione nelle questioni internazionali. Gresh rifiuta le etichette che normalmente tendono ad identificare una posizione politica di fronte a varie problematiche, come per esempio se è pro o contro Palestina o Israele. Gresh specifica che lui è per la legalità internazionale. Il massacro di Sabra e Chatila è uno dei tanti massacri compiuti dalle forze sioniste, come Cana, Piombo Fuso e le varie invasioni del Libano, ma l'estrema violenza di quel massacro ha scatenato, subito dopo, grandi manifestazioni all'interno dello stesso stato d'Israele e un dibattito molto forte, ma poi sia l'opinione pubblica israeliana e sia quell’occidentale hanno dimenticato in fretta quanto accaduto. L'intento di Gresh in questa discussione è quello di dimostrare il motivo per il quale gli stati occidentali, via via negli anni, hanno sempre assolto lo stato d'Israele. La sua prima affermazione è che Israele è uno stato democratico. A questo punto si avvertono chiaramente vari mormorii di disapprovazione nella sala ma Gresh continua affermando che, la reazione da parte d'Israele nel lasciare fare le manifestazioni di protesta e di accettare l'inchiesta sulla strage, è una dimostrazione di quella democrazia sostenuta, sempre in ogni occasione, da Israele stesso.
La Francia, per esempio, ha condotto in Algeria una guerra durata sette anni, ma è una democrazia con delle regole, delle legislazioni e con dei dibattiti al suo interno. Il suo stato democratico però non può cancellare i crimini commessi durante quella guerra. E' così questo vale anche per lo Stato d'Israele.
Gresh continua il suo discorso sottolineando un periodo storico molto importante. Dopo la seconda guerra mondiale con la sconfitta del nazismo, c'è stato un cambiamento da parte della legislazione internazionale che ha influito sui paesi occidentali e le loro relazioni rispetto ad Israele e alla questione palestinese. In questo periodo si fecero leggi di guerra, come quelle del 1949 e 1977 che non entravano nel merito se una guerra era giusta oppure no, ma stabilivano criteri con i quali si dovevano fare le guerre, rispettando la popolazione civile. Le parti in conflitto dovevano quindi differenziare gli obiettivi civili da quelli militari ed i civili dai combattenti. Negli anni 2000 è stata istituita la Corte Penale internazionale per crimini di guerra e contro l'umanità, ma la sua creazione ha subito delle limitazioni perchè Stati come la Russia, Cina e USA non hanno aderito. L'altro cambiamento che si può definire “epocale” è quello dovuto all'attentato del 11 settembre 2001 alle torri gemelle del World Trade Center di New York. Da questa data è iniziata la guerra al terrorismo. Questa nuova guerra non poteva più sottostare alle vecchie leggi di guerra, a quelle limitazioni imposte, perché se si fosse continuato a dover distinguere gli obiettivi civili da quelli militari, si sarebbe persa la guerra al terrorismo. A questo punto non esistevano più limiti!
Prima del 2001, la guerra al terrorismo era difesa dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che la definiva la guerra del ventesimo secolo che doveva avere regole speciali d’ingaggio. Dopo il 2001, il governo Bush teorizza questo cambiamento. Gresh illustra poi il nuovo pensiero di alcuni pensatori liberali appartenenti al neoconservatorismo americano, per i quali le leggi belliche e le regole della moralità umana devono adattarsi a questa nuova realtà (guerra al terrorismo senza regole) e si chiedono se il futuro della società civilizzata non sia troppo condizionata da troppa libertà civile. Queste argomentazioni tendono quindi a giustificare il comportamento aggressivo d’Israele e di altri paesi. In questi atteggiamenti c’è un’involuzione dell’essere umano, è stato fatto un passo indietro rispetto alle leggi di guerra degli anni ’40, è il ritorno alla visione coloniale del mondo. Gresh descrive com’è stato possibile questo brutale regressivo comportamento da parte della politica e del potere. Alla fine del 19esimo secolo, il governo inglese ha ideato un proiettile chiamato “Dum Dum” molto invasivo al contatto di un corpo. In una convenzione internazionale “i bianchi” decidono di limitare nelle guerre l’uso di questo proiettile ritenuto troppo barbaro, ad eccezione di due casi particolari: le bestie ed i movimenti coloniali. E’ importante dunque osservare questo cambiamento di valori perché rappresenta una nuova prospettiva accettata dagli stati in particolare da quelli occidentali: il proprio nemico non è più considerato un essere umano. In questa logica ci si può assolvere per qualsiasi azione s’intraprenda, anche illegittima. I valori cambiano secondo i vari punti di vista e di chi sei. Si sta diffondendo nel mondo occidentale la visione che si sta combattendo una guerra contro dei terroristi estremisti islamici che non condividono i nostri valori, quindi il nostro modo di operare è completamente giustificato.  E’ un ritorno all’idea del colonialismo.  Israele sta facendo pressione agli altri stati europei affinché si capisca questa necessità di cambiamento per poter giustificare al mondo occidentale la sua guerra. Gresh cita a questo punto il Rapporto Goldstone. Si tratta di un buon rapporto, anche se gli USA hanno sempre messo il veto. L’intenzione d’Israele era quella di fare pressione su Goldstone stesso, fino ad arrivare al punto di fargli ammettere di aver svolto il lavoro in modo superficiale e non bene. Secondo Gresh, se queste nuove interpretazioni venissero accettate e diffuse dalla comunità internazionale, sarebbe una catastrofe.  Conclude dicendo che occorre dimostrare che non servono leggi forti per arrivare alla soluzione dei problemi, ma bisogna ritornare alle leggi internazionali di guerra, al rispetto dell’essere umano e alla convivenza pacifica. Risponde alle due domande del pubblico che riguardano la responsabilità del governo libanese, quell’internazionale ed individuale diretta ed indiretta, in merito sia al massacro di Sabra e Chatila e sia alle altre guerre israeliane in territorio libanese e palestinese.

 

Conferenza al sindacato dei giornalisti

 




 

Il Presidente della stampa rivolge al Comitato i suoi saluti e ringraziamenti. Dopo aver ricordato il massacro di Sabra e Chatila che non potrà mai essere dimenticato, lancia un appello, in nome della stampa libanese, a tutti palestinesi affinché trovino un’unità. L’unità del popolo palestinese è molto importante per combattere la grave fase di difficoltà in cui si trovano oggi tutti i palestinesi.

 

 

 

 

 

Terminata la presentazione, prende la parola Stefania Limiti del “Comitato Per non Dimenticare Sabra e Chatila”. Per prima cosa Stefania accoglie subito l’appello lanciato dal Presidente della stampa.  Fa presente che, il momento del ricordo del massacro rappresenta uno dei rari momenti d’unità dei palestinesi, mentre l’unità del popolo palestinese dovrebbe essere la forza che li sostiene. Non è solo importante per loro stessi, ma è anche necessaria a chi esprime solidarietà a questo popolo. Stefania spiega i motivi per i quali il Comitato, ogni anno, torna in Libano nei campi profughi. Il Comitato non vuole che il massacro sia dimenticato perché rappresenta il simbolo della sofferenza e non può nemmeno accettare che le persone che hanno voluto ed eseguito questo crimine non siano ancora state giudicate. Persone che ancora oggi usano gli stessi mezzi e che ritengono il popolo palestinese qualcosa da cacciare ai margini del mondo, in nome di un’ideologia sionista. Il Comitato non può e non vuole accettare questa forma di razzismo che è contro la civile convivenza, legalità, giustizia internazionale e democrazia.
Stefania, infine, in nome del Comitato chiede alle forze politiche che considerano amici i palestinesi, un impegno maggiore perché insieme all’inalienabile diritto al ritorno dei profughi palestinesi, reclamino per loro il diritto ad avere condizioni migliori di vita all’interno della società libanese.
La Conferenza al sindacato dei giornalisti termina con i ringraziamenti di Talal Salman che si dice dispiaciuto nell’affermare che i politici libanesi sono più impegnati in altre questioni, come per esempio la divergenza fra le varie confessioni religiose, l’arricchirsi o l’aumentarsi il proprio stipendio, piuttosto che occuparsi della questione palestinese. L’assenza di questi politici alla commemorazione della strage di Sabra e Chatila ha però il beneficio di rendere il clima più “pulito”.



  

 

 

Testimonianza di Ellen Siegel, infermiera ebrea americana, testimone del massacro.

 

 

 

 

 

 Saluto, ancora una volta, i familiari delle vittime di Sabra e Chatila, specialmente Kemal Maruf.  E’ un uomo molto dolce, sempre presente ai nostri incontri con la foto di suo figlio Jamal, scomparso nei giorni del massacro di Sabra e Chatila. Kemal l’ha visto, per l’ultima volta, su un carro dei falangisti, ma poi ha perso le tracce del figlio e non ha mai saputo la sua fine. Da quel giorno, Kemal a Chatila è conosciuto con il nome di Abu Jamal. Lo vorrei abbracciare, rincuorare, ma la sua semplicità e riservatezza, mi bloccano. Riesco solo a sorridere e ad accarezzare il viso di suo figlio Jamal. Scappo via, giù per le scale per raggiungere il gruppo e, il nostro viaggio, continua.


Ora ci troviamo al quartier generale di Hezbollah e, per la prima volta, sono presenti anche tutti i partiti politici palestinesi e libanesi.

 

Un rappresentante del partito di Hezbollah ci dà il benvenuto: “Benvenuti insieme a Hezbollah e alla resistenza. Hezbollah che ha scelto di resistere, di proteggere questo paese, di respingere quello che ha fatto il nemico sionista, di dare un significato sacro a questa resistenza e di come resistere contro le ingiustizie.”

 

 

 

 ll Presidente del Consiglio esecutivo, Sheick Nabil Kaouk prende la parola subito dopo. Ricorda i 30 anni del massacro di Sabra e Chatila, lo definisce il più grande e grave massacro avvenuto con la piena responsabilità americana che ha poi permesso agli israeliani e ad una parte di libanesi di metterlo in atto. Nessuno ha ancora pagato. Lo scandalo maggiore è vedere, ancora oggi, quei criminali che, senza nessuna vergogna, sono liberi e tranquilli. “Non ci sarà giustizia finché la Palestina rimane occupata, non ci sarà giustizia finché continua l’esilio del popolo palestinese”, conclude Nabil.
  

 

 

  Maurizio Musolino, membro del Comitato, ringrazia il partito Hezbollah per l’ospitalità e, non perde l’occasione di rivolgersi ai vari partiti presenti per fare un appello. Un appello per i vivi, per le donne e gli uomini che vivono nei campi. Chiede ai partiti di lavorare di più per dare diritti concreti e immediati a quei palestinesi che vivono in Libano, anche se la responsabilità della loro situazione si chiama “sionismo” ed occupazione israeliana delle terre arabe palestinesi. Una responsabilità però che è anche internazionale ed europea. Musolino ricorda inoltre che in Italia, trenta anni fa, c’era un Presidente della Repubblica diverso da quello attuale, che veniva dalla resistenza italiana e che condannò apertamente il massacro di Sabra e Chatila, era Sandro Pertini.
Il 31 dicembre 1983 Pertini rilasciò questa dichiarazione:
“Io sono stato nel Libano. Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila. E’ una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quell’orrendo massacro. Il responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. E’ un responsabile cui dovrebbe essere dato il bando dalla società.”
Musolino ripete, ancora una volta, le parole del Sindaco di Ghobeiry. Parole di preoccupazione e di denuncia per lo stato indegno ed in vivibile in cui si trovano i campi profughi, che richiedono una risposta immediata da parte delle autorità libanesi.
Il giornalista de “Il Manifesto”, Michele Giorgio chiede a Nabil Kaouk se si aspetta una provocazione da parte d’Israele in Libano per avere così il pretesto per attaccare l’Iran e cosa farà Hezbollah nel caso in cui Israele dovesse attaccare l’Iran.
Nabil risponde che Hezbollah non ha paura delle minacce d’Israele e che la loro resistenza continua ed è forte. Un attacco verso l’Iran è una possibilità ancora molto lontana perché se questo avvenisse ne sarebbe coinvolta tutta le regione medio orientale e, Israele non avrebbe la forza per sostenere tutto questo.

 

Mentre scrivo del viaggio nei campi profughi in Libano, a Gaza, riprendono le incursioni selvagge da parte d’Israele. Occorre ricordare che Gaza dal 2006, anno in cui Hamas vinse le elezioni per il Consiglio legislativo palestinese, è sottoposta ad un assedio brutale ed a ripetuti e frequenti attacchi militari da parte del governo israeliano. Gaza è una prigione a cielo aperto, sottoposta ad embargo, non entra o esce niente e nessuno senza l’autorizzazione israeliana, i pescatori sono spesso oggetto d’incursione anche all’interno del limite illegale imposto da Israele, spesso è loro sequestrata la barca, impedendogli così di pescare e, di conseguenza, di provvedere alla propria famiglia. Ai Gazawi gli viene sottratta l’acqua e la luce. Israele, invece, riesce sempre a trovare un pretesto credibile per intensificare la guerra contro i palestinesi, com’è successo per esempio a dicembre 2008 con l’Operazione “Piombo Fuso”. E oggi è capitato ancora! Ma quando finirà tutto questo? Finirà forse quando tutti i palestinesi con la forza o non saranno buttati, come una scomoda e pesante zavorra, fuori dalla loro terra per sempre? Israele continua a dir, fino alla nausea, che fa tutto questo perché è costretta, costretta per ragioni di sicurezza, per difendere i suoi cittadini dai terroristi palestinesi che desiderano solo cancellarla dalle cartine geografiche del mondo.

Sono più di 60anni che il popolo palestinese vive sotto occupazione!
Vorrei solo ricordare alcune frasi o affermazioni di diversi esponenti del governo israeliano, rilasciate nel corso degli anni:
David Ben Gurion (Primo ministro d’Israele 1949-1954, 1955-1963) “Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle terre e l’eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba” (maggio 1948 agli ufficiali dello Stato Maggiore).
Golda Meir (primo ministro d’Israele 1969-1974) “Non esiste una cosa come il popolo palestinese. Non è come se noi siamo venuti e li abbiamo cacciati e preso il loro paese. Essi non esistono” (15 giugno 1969 dichiarazione al The Sunday Times) - “Come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli.”  (8 marzo 1969) -  “A tutti quelli che parlano in favore di riportare indietro i rifugiati arabi devo anche dirgli come pensa di prendersi questa responsabilità, se è interessato alla stato d’Israele. E’ bene che le cose vengano dette chiaramente e liberamente: noi non lasceremo che questo accada.” (ottobre 1961 in un discorso alla Knesset)
Benjamin Netanyahu (primo ministro d’Israele 1996-1999, dal 2009 ad oggi) “Israele avrebbe dovuto approfittare dell’attenzione del mondo sulla repressione delle dimostrazioni in Cina, quando l’attenzione del mondo era focalizzata su quel paese, per portare a termine una massiccia espulsione degli arabi dei territori.”  (24/11/1989 discorso agli studenti della Bar llan University)
Ariel Sharon (Primo ministro d’Israele 2001-2006) “E’ dovere dei dirigenti d’Israele spiegare all’opinione pubblica, chiaramente e coraggiosamente, un certo numero di fatti che col tempo sono stati dimenticati.  Il primo di questi è che non c’è sionismo, colonizzazione, o Stato Ebraico senza lo sradicamento degli arabi e l’espropriazione delle loro terre.” (15/11/1998 dichiarazione in una riunione di militanti del partito di estrema destra Tsomet) – “Israele può avere il diritto di mettere altri sotto processo, ma certamente nessuno ha il diritto di mettere sotto processo il popolo ebraico e lo Stato d’Israele.” (25/03/2001 BBC news)


Riprendiamo il nostro viaggio, anche se in questo momento molto sofferto, la narrazione si fa difficile.
Ci troviamo al campo di Mar Elias dove incontriamo tutte le organizzazioni della resistenza palestinese (Fronte Democratico, Fatah, Hamas, Fronte Popolare ecc.)
Riceviamo i saluti ed i ringraziamenti per la nostra continua presenza. Se il mondo ha dimenticato la strage di Sabra e Chatila, il Comitato invece prosegue la sua lotta per ricordarla.  La speranza di una giustizia è alimentata fin a quando la questione palestinese sarà nel cuore di tante persone libere. Promettono, inoltre, di fare il possibile per unire tutte le loro forze per prepararsi ad affrontare il nemico comune, Israele, che continua la sua politica d’aggressione non solo contro i palestinesi, ma anche contro la terra e Gerusalemme. Il rappresentante di Hamas ci chiede di essere gli ambasciatori della causa palestinese nelle nostre rispettive città, di riportare quello che abbiamo visto: la sofferenza del popolo palestinese, la vera immagine e non quella deformata dalla forza politica sionista d’Israele. Rileva che non sono terroristi ma combattenti per la loro terra rubata, occupata, per i loro diritti.
I rappresentanti delle varie forze politiche rispondono alle nostre domande: situazione di campi, il rapporto con l’Egitto, il memorandum relativo a come risolvere i problemi dei palestinesi in Libano, il rinnovamento dell’OLP, il movimento BDS, il rapporto Israele-Libano, le elezioni palestinesi, il passaporto palestinese, …
Si parla spesso del diritto di avere il passaporto palestinese, ma per questo bisogna fare una distinzione tra quei palestinesi che vivono nei territori occupati e quelli che sono profughi nel mondo. Il passaporto è un documento che richiede la presenza di uno stato, quindi i palestinesi che vivono in Cisgiordania hanno tutto il diritto di chiederlo. I profughi invece, se chiedono il passaporto palestinese, diventano automaticamente cittadini stranieri del paese in cui vivono, con l’obbligo di sottostare alle sue leggi. Per questi, quindi, è meglio mantenere il “documento di viaggio” in quanto riconosce la condizione di “profugo” e quindi della protezione dell’UNRWA.

 

 

 

 


L’incontro con i partiti politici palestinesi in Libano termina con la loro affermazione che, in caso d’aggressione da parte d’Israele, si schiereranno, senza alcun timore o perplessità, con il popolo e l’esercito libanese. Sono inoltre, da sempre, contrari a qualsiasi intervento esterno e neutrali, ma in modo positivo, nelle questioni interne del Libano.

Continua…

19/11/2012


VIAGGIO TRA I PROFUGHI PALESTINESI
CHATILA 2012


di Mirca Garuti


Beirut, 16 settembre 2012 - Papa Benedetto XVI ha terminato il suo viaggio in Libano. Il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” invece inizia il suo viaggio nei campi profughi palestinesi. Le strade che dall’aeroporto portano al centro di Beirut sono piene di manifesti che danno il benvenuto al Papa.

Lo scopo ufficiale del viaggio del Papa era quello di consegnare e firmare l’Esortazione Apostolica “Ecclesia in Medio Oriente”. Un documento, o meglio un vademecum sulla convivenza fra le varie religioni, che riguarda circa 15 milioni di cristiani, ma che è anche riconosciuto dalle altre religioni. Le comunità cristiane e musulmane, nell’attesa della stampa del documento in lingua araba, hanno stampato l’esortazione dal sito web vaticano. “E’ una lettura fatta con avidità e fortissimo interesse” spiega il laico cattolico Wissam Lahham, membro dell’Ong cristiana “Assembly of Eastern Christians” con sede a Beirut. Lahham continua la sua esposizione: “Comunità musulmane la stanno studiando e l’apprezzano. Cristiani di tutte le confessioni, cattolici, ortodossi, protestanti, ne rimarcano un punto molto importante: l’invito a ‘Non avere paura, a vivere in Medio Oriente costruendo la pace e la convivenza. E’ una frase fondamentale che resta impressa nelle menti dei cristiani nel contesto in cui oggi viviamo. E’ un documento che dà molta speranza ai cristiani in questa regione.”
Mai come in questo momento, il Capo della Chiesa Cattolica deve proteggere la presenza dei cristiani in M.O. dando loro sicurezza e speranza cercando di fermare la continua fuga da queste terre. Presenza importantissima, perché qui, ci sono le radici del cristianesimo. Questo viaggio, infatti, terminava i lavori del Sinodo e la fine di un percorso di sostegno morale e spirituale alla presenza dei cristiani. L’arcivescovo di Cipro dei Maroniti, Monsignor Youssef Soueif, d’origini libanesi, nel concludere il dibattito attorno alla questione mediorientale, aveva affermato che “adesso è il momento giusto per essere presenti, per dialogare, per lavorare attraverso le istituzioni sociali, culturali e l’esercizio della cittadinanza. Occorre fare presto perché i due terzi della comunità cristiana sono sotto minaccia in Iraq, Siria ed altrove. Spesso sono costretti a lasciare le proprie case in cerca di una maggior sicurezza, per cercare lavoro, per sentirsi anche psicologicamente più protetti.”
Sempre secondo l’arcivescovo, uno dei frutti del Sinodo è stato che Benedetto XVI abbia scelto come motto per il suo viaggio in Libano, ” La pace sia con voi”, ad indicare che nella regione “è necessaria la pace politica, ma soprattutto è necessaria la pace dei cuori, interiore.”
L’esortazione post-sinodale Ecclesia in Medio Oriente non usa mai il termine “democrazia”, ma fa riferimento ai valori di libertà, cittadinanza, rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali, anche presenti nelle altre culture e religioni. Ma allora perché nel suo viaggio in Libano, Papa Benedetto XVI non ha mai parlato del popolo palestinese che vive sul territorio libanese come profugo senza avere nessun diritto, al quale è negata semplicemente una dignità umana?

Durante il viaggio aereo da Roma a Beirut, il Papa ha incontrato i giornalisti del Volo Papale. Alla domanda: “Santo Padre, in questi giorni ricorrono anniversari terribili, come quello dell’11 settembre, o quello del massacro di Sabra e Chatila; ai confini del Libano vi è una sanguinosa guerra civile, e vediamo anche che in altri paesi il rischio della violenza è sempre attuale. Santo Padre con quali sentimenti affronta questo viaggio? E’ stato tentato di rinunciarvi a motivo dell’insicurezza o qualcuno Le ha suggerito di rinunciarvi?”. Il Santo Padre ha risposto: “Posso dire che nessuno mi ha mai consigliato di rinunciare a questo viaggio e, da parte mia, non ho mai contemplato questa ipotesi, perché so che se la situazione si fa più complicata, è più necessario offrire questo segno di fraternità, di incoraggiamento e di solidarietà. E’ il significato del mio viaggio: invitare al dialogo, invitare alla pace contro la violenza, procedere insieme per trovare la soluzione dei problemi.”
Non ha volutamente accennato all’anniversario della strage di Sabra e Chatila e del significato che questa ha ancora oggi per i quasi cinquecento mila palestinesi costretti a vivere qui, in un paese straniero perché “qualcuno” (Israele) ha occupato la propria terra. Non ha voluto interferire con il suo pensiero su delle questioni ritenute evidentemente “interne” di un paese sovrano, ha semplicemente ringraziato per essere in Libano, un paese che può essere considerato un modello di convivenza tra musulmani e cristiani per tutto il Medioriente, un punto d’incontro tra le civiltà e le culture. La pluralità del Libano, unico stato multi confessionale della regione per statuto costituzionale, può essere una fonte di ricchezza ma purtroppo anche la causa di divisioni e guerre.
I cristiani rappresentano il 35% della popolazione ed i musulmani, il 65%, divisi tra sunniti e sciiti. Il Vaticano, alla vigilia di questo viaggio, per evitare problemi con le varie comunità e con lo stesso paese ospitante, ha sottolineato che “il pontefice in Libano sarà solo un messaggero di pace e non un capo politico” e, che le parole che pronuncerà vanno intese, ha così riferito il suo portavoce Padre Lombardi, come riflessioni rivolte a tutte le 18 confessioni religiose.
Il Vaticano ha anche evitato prudentemente qualsiasi giudizio sulla questione “Hezbollah”, sollevata dal ministro britannico William Hague e l’olandese Rosenthal, all’interno di un dibattito all’Ue, se inserire o no il braccio armato di Hezbollah nella lista dei gruppi terroristici, per non incrinare il clima di collaborazione riscontrato in Libano.
L’altro difficile argomento “tabù” riguardava invece la questione palestinese. Il patriarca Melkita, Gregorio III di Laham, incaricato di dargli il benvenuto nella sede del patriarcato, aveva espresso la speranza di sentire una parola da parte del Papa sulla questione dello Stato palestinese, ma il Vaticano, anche su questa questione, aveva deciso di mantenere il silenzio.
Padre Lombardi ha poi anticipato che i sei discorsi che pronuncerà il Papa si concentreranno sul ruolo e la missione di pace che spetta ai cristiani e sul bisogno d’armonia da costruire nel rispetto di tutti.
Morale, niente interventi politici, nemmeno sulle vicende siriane che stanno contagiando il Libano. Come capo politico del Vaticano si può capire il silenzio imposto di fronte a tutte queste problematiche, ma come capo spirituale non è possibile accettare l’indifferenza dimostrata dal Papa nei confronti dei profughi palestinesi costretti a vivere in condizioni indegne per qualsiasi essere chiamato “umano”. Non si può rimanere incuranti davanti alle continue stragi subite e che subiscono ancora oggi i palestinesi per l’occupazione delle loro terre.
L’ex capo di governo italiano Silvio Berlusconi, nel suo viaggio in Israele, non ha “visto” il muro di separazione costruito dal governo israeliano per una sua “difesa”, come Papa Benedetto XVI, nel suo viaggio in Libano, non ha “visto” i campi profughi palestinesi.
Il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” è ritornato invece in Libano per trasmettere la sua testimonianza sulle condizioni di vita all’interno dei campi e, attraverso il dialogo tra le varie forze politiche libanesi e palestinesi, di poter svolgere un importante lavoro d’informazione affinché la questione dei profughi palestinesi non sia dimenticata dal mondo.*


Il viaggio inizia nel sud del Libano, punto di partenza di ogni invasione da parte dell’esercito israeliano, con la deposizione di una corona in onore al martire Maarouf Saad, simbolo della Resistenza e del Movimento di Liberazione Nazionale di tutto il mondo arabo. Saad, difensore di tutte le classi sociali più deboli e povere, è stato ucciso nei primi anni ’70 dalle forze fasciste di destra libanesi durante una manifestazione di protesta di pescatori.

  Lasciato Sidone, ci dirigiamo verso la collina di Mlita che domina il Sud del Libano per visitare il Museo della Resistenza inaugurato il 21 maggio 2010. Il museo offre un inedito percorso di combattimento nel cuore di una vecchia base segreta di Hezbollah e rappresenta il luogo del ricordo della resistenza per la liberazione di questa regione avvenuta 10 anni fa.

 

 



Pochi chilometri infine ci separano dal confine che divide la Palestina occupata dal sud del Libano. Ci troviamo, infatti, nel parco, situato sulle colline, della città di Maroon El Ras, dove tutte le famiglie di questi territori, anche se appartenenti a religione diverse, possono usufruire gratuitamente di tutti i servizi. Questa splendida struttura composta da 33 gazebo, uno per ogni giorno della guerra del 2006, è un dono della Repubblica islamica iraniana al popolo del sud del Libano.

Il sindaco di El Debeyye accoglie la nostra delegazione con un sincero benvenuto:

  

          

 

 

 

 

Il ricordo del massacro di Sabra e Chatila

La giornata ha inizio al Centro culturale della municipalità di Ghobeiry,dove dopo l’inno nazionale libanese e palestinese,

 

   

 

 

 

si sono susseguiti numerosi interventi: i famigliari delle vittime del massacro, il saluto di Antonietta Chiarini, l’ambasciatore della Palestina in Libano Mr.Ashraf Dabbour  e il Sindaco di Ghobeiry Mr. Abou Said Al Khansaa:

   

 

 

Familiari delle vittime                                                      

 

        

 

 

 

Antonietta Chiarini                                                    

 

         

 

 

Ambasciatore della Palestina in Libano, Mr.Ashraf Dabbour

            

 

        

 

 

 

  Sindaco di Ghobeiry Mr. Abou Said Al Khansaa       

    


Foto manifestazione per non dimenticare 

Sono passati 30anni da quella terribile invasione del Libano da parte dell’esercito israeliano.
Invasione (la quinta) iniziata a giugno 1982 nel Sud.


Robert Fisk, corrispondente inglese per il quotidiano “The Independent”, si trovava in quei luoghi e, nel suo libro “Il martirio di una nazione” racconta:

“Gli attacchi israeliani erano stati – almeno fino a quel momento – i più feroci che fossero mai stati sferrati contro una città libanese. Nella zona sud di Sidone, sembrava che un tornado avesse sconquassato i palazzi, portando via balconi e tetti, abbattendo muri e facendo crollare interi edifici sulla testa dei loro occupanti. Molti morti erano rimasti incastrati tra le macerie. Nelle strade, da dove i bulldozer israeliani avevano spazzato via detriti con militare efficienza, gli abitanti di Sidone camminavano come storditi. Non rispondevano ai soliti saluti e fissavano stupiti i palazzi rimasti ancora in piedi perché non avevano mai visto la loro città in quelle condizioni . La morte è spaventosa. I morti del Libano – la vista continua di cadaveri gettati come sacchi sulle strade, nei fossati e nelle cantine – ci ricordavano costantemente quanto fosse facile essere uccisi.” 

Mi mancano veramente le parole per poter continuare a descrivere tutto quello che accadde in quel lungo assedio, dal sud fino a Beirut. Fisk si fa una domanda che preannuncia il massacro che sarebbe accaduto di lì a pochi mesi:

 “Se gli israeliani a Sidone e a Tiro si erano comportati a quel modo – se avevano potuto uccidere tanti civili in un periodo di tempo così breve – quanti ne avrebbero uccisi a Beirut, dove almeno mezzo milione di persone vivevano ammassate nel settore occidentale accerchiato della città?”

La Croce Rossa e la polizia libanese, alla fine della prima settimana dell’invasione (14 giugno 1982),  dimostrarono che in Libano erano morte 9.583 persone e ferite 16.608.
Sidone è stata la città più colpita dopo Beirut. Su Beirut Ovest caddero anche le bombe al fosforo e i medici, non conoscendo la composizione chimica di quelle bombe, furono impreparati ad affrontarne le conseguenze.
Il fosforo bianco è stato usato fin dalla Prima guerra mondiale per riempire proiettili di mortaio e granate e nel bombardamento di Amburgo durante la Seconda guerra mondiale. Le bombe sono fabbricate in Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania,  sono considerate “munizioni ordinarie” anche se non rientrano nelle convenzioni internazionali e tuttavia sono ritenute “molto utili per sgomberare gli edifici”. Il loro fumo rimane nell’aria per parecchio tempo e brucia la pelle per ore nonostante l’immersione in acqua nel tentativo di spegnere il fuoco.
Tra il 4 giugno ed il 10 luglio all’ospedale Barbir, che si trovava vicino al Museo Nazionale di Beirut Ovest, arrivarono 200 morti e la Dottoressa Shamaa ricorda:
“Il personale non poteva lasciare l’edificio a causa degli attacchi aerei e del cannoneggiamento. Per quattro o cinque giorni c’è stato odore di morte dovunque. Poi siamo finalmente riusciti a seppellirli in una fossa comune. Ancora non sappiamo chi fossero.”
L’artiglieria israeliana non risparmiò neppure l’ospedale che fu colpito! Gli israeliani cercavano di censurare le notizie sulle sofferenze dei civili a Beirut Ovest trasmesse dalle varie troupe televisive presenti sul territorio libanese. Le registrazioni inviate dai corrispondenti oltre le linee di Beirut Est arrivavano a Tel Aviv per poi essere trasmesse a New York. Qui arrivavano però censurate dagli israeliani, sempre per “ragioni di sicurezza” e “risparmiando al pubblico statunitense gli orrori della guerra”. I produttori televisivi di New York infuriati per l’interferenza israeliana mandarono in onda i vari filmati offuscando lo schermo per la durata dei pezzi tagliati per far capire agli utenti che quella parte era stata volutamente tolta dalle autorità israeliane. Alla fine i filmati non furono più inviati a Tel Aviv ma si preferì usare la strada di Damasco.
Le troupe televisive ed i giornalisti che si trovavano a Beirut avevano quindi  iniziato a  raccontare in modo molto dettagliato questa terribile escalation militare. Gli israeliani non potevano permettere che tutto questo arrivasse al mondo intero, così il 21 giugno in un comunicato affermavano che: “L’Operazione Pace in Galilea” non era diretta né contro la popolazione libanese né contro quella palestinese … Se c’erano delle vittime civili la colpa era dei terroristi, che avevano installato i loro quartieri generali e le loro posizioni militari in zone fittamente popolate da civili e tenuto prigionieri uomini, donne e bambini.”

 L’obiettivo del governo d’Israele era l’Olp ed i suoi guerriglieri.
Il 30 giugno l’Olp aveva annunciato che avrebbe lasciato la città, ma i dettagli della loro evacuazione non erano ancora stati decisi. I negoziati si prolungavano e Israele continuava l’assedio. Ariel Sharon il 2 luglio nella sala dell’hotel Alexandre di Beirut Est annuncia ai giornalisti che: “l’unico motivo per cui siamo qui è annientare i terroristi dell’Olp…”
Terroristi, ma chi sono i veri terroristi? La loro qualificazione dipende dai diversi punti di vista e dalla giustificazione che si vuole dare a delle reazioni violente. In nome della  guerra al “terrorismo” si tende, anche oggi come allora, a legittimare qualsiasi azione. Tutto diventa  ammissibile con la licenza di uccidere indiscriminatamente. 
Sia  Arafat che gli israeliani sapevano che l'Olp avrebbe presto lasciato Beirut, ma si doveva contrattare 'quando' e a quali garanzie. Ognuno quindi cercava di anticipare o ritardare il momento giusto a seconda del proprio interesse. Arafat era disposto a consentire l'allontanamento dei suoi uomini solo sotto la protezione di una forza multinazionale che comprendesse oltre ai marines  americani anche i soldati francesi ed italiani. Arafat inoltre aspettava ancora il riconoscimento dell'organizzazione da parte degli Stati Uniti in cambio del suo ritiro. Intanto i bombardamenti continuavano e, verso la fine di luglio,  le incursioni si intensificarono sfrecciando nel cielo quasi tutti i giorni.
Il 4 agosto 1982 piovevano bombe su tutta Beirut Ovest, le vittime erano tutte civili e Robert Fisk si chiedeva che fine avesse fatto la precisione chirurgica dei piloti israeliani:

“Cadevano al ritmo di una ogni 10 secondi. Alcune bombe al fosforo esplosero su Hamra. Definire quel bombardamento indiscriminato sarebbe stato poco, anzi una bugia. Il bombardamento israeliano fu, come avremmo scoperto in seguito, discriminato: aveva come obiettivo ogni zona di abitazione civile e ogni istituzione di Beirut Ovest – ospedali, scuole, appartamenti, negozi, alberghi... Al culmine del bombardamento, corsi all'ospedale dell'Università americana. C'era sangue dappertutto. Trovai un centinaio di uomini, donne e bambini stesi nel loro sangue sul pavimento o che si lamentavano sulle barelle nei corridoi. Corsi all'obitorio. Braccia e gambe – a decine – erano state accatastate contro la parete. Sul pavimento c'erano diversi neonati morti chiusi in sacchi di plastica”.

Il 26 settembre 1987 Fisk incontra in Inghilterra Philip Habid, rappresentante del presidente Reagan nonchè suo inviato speciale, che presente in quel giorno poteva parlare con gli israeliani. Perchè non aveva fermato quella carneficina?
“Ero a Baabda. Vedevo tutto. Dissi agli israeliani che stavano distruggendo la città, che la stavano bombardando senza tregua. Loro dissero che non era vero, che non lo stavano facendo. Chiamai Sharon al telefono. Mi disse che non era vero. Quel maledetto mi disse al telefono che quello che vedevo non stava succedendo. Così misi la cornetta fuori dalla finestra per fargli sentire le esplosioni. Allora mi disse: Come facciamo a parlare se tieni il telefono fuori dalla finestra?”
I protagonisti di questa guerra hanno sempre mentito al riguardo delle loro vere intenzioni ed azioni: dovevano avanzare solo 40 chilometri all'interno del Libano, invece erano arrivati fino a Beirut. Hanno mentito sulle vittime civili, sul taglio dell'acqua e corrente elettrica a Beirut Ovest; sull'uso delle bombe a grappolo ed al fosforo bianco nelle zone civili.
Il 12 agosto, senza preavviso, decine di cacciabombardieri israeliani erano apparsi nel cielo di Beirut. Il loro obiettivo: i campi profughi. Tonnellate di esplosivo ad alto potenziale caddero per nove ore su Sabra e Chatila. Ma perchè tutto questo dal momento che erano state accettate tutte le richieste per procedere all'evacuazione dell'Olp e stabilito anche i percorsi che doveva seguire? Quella sera il portavoce ufficiale dell'esercito israeliano disse:
“Abbiamo appena completato il rafforzamento delle nostre postazioni intorno a Beirut in vista di una grossa operazione militare.. se e quando attaccheremo.”
C'era quindi la possibilità di un avanzamento  su Beirut Ovest , mentre, in realtà, avrebbero dovuto andarsene non appena l'Olp avesse lasciato la città. La guerra era finita.
A Beirut la guerra aveva fatto 3.983 vittime e in tutto il Libano erano morte 11.492 persone. Il campo profugo palestinese di Burj al-Barajne praticamente non esisteva più, sembrava un paese lunare dove si camminava su tetti sbriciolati.
Il 19 agosto il governo libanese aveva presentato ufficialmente la richiesta scritta di una forza multinazionale di ‘'disimpegno’', senza accennare che fosse stata l'invasione israeliana a renderla necessaria.
     Il 23 agosto ci furono le elezioni presidenziali dove gli israeliani avevano assicurato la vittoria al loro uomo, Bashir Gemayel (figlio di Pierre Gemayel il fondatore delle Falangi),  capo delle milizie al comando del più grande esercito privato del Libano.
L'accordo per l'evacuazione dell'Olp comprendeva la clausola dell'allontanamento di tutti gli eserciti stranieri dal Libano. I libanesi ora si sentivano più tranquilli perchè, come sostenevano in molti, i loro problemi erano dovuti dall'arrivo dei guerriglieri palestinesi dalla Giordania nel 1970 e non dai civili esuli palestinesi del 1948. L'esercito israeliano lasciò la sua postazione nel terminal dell'aeroporto internazionale all'esercito libanese.

Arafat lascia Beirut su una nave greca per andare in esilio in Tunisia, sotto il controllo dei marines americani, degli uomini della legione straniera francese e dei bersaglieri italiani. Più di 10mila guerriglieri palestinesi e soldati siriani lasciarono con le loro armi Beirut Ovest.
La partenza dell'Olp era condizionata dalla garanzia che le decine di migliaia di civili palestinesi rimasti nei campi di Sabra, Shatila e Burj al Barajne non avrebbero corso nessun pericolo, come aveva assicurato Philip Habid. Washington, Parigi e Roma in questa operazione avevano dato la loro parola. Il distacco però delle donne, dei vecchi e dei bambini dai loro mariti, padri, fratelli, figli in partenza per l'esilio non è stato facile, è stato un momento molto doloroso e di paura. Paura per il loro futuro, ora che erano rimasti soli, orfani di tutto. La guerra era finita, tutti se ne stavano andando, anche i giornalisti si preparavano a tornare nei loro paesi o andare in vacanza.

La situazione in Libano però si presentava ancora molto fragile, perché c’erano troppi interessi diversi che dovevano essere bilanciati e nessuno voleva perdere. Da una parte, il nuovo presidente Bashir Gemayel con la sua dichiarazione di non volere la presenza di stranieri sul territorio libanese, che significava anche gli israeliani e dall’altra il Primo Ministro israeliano Begin e il Ministro della difesa Sharon, che durante un incontro a Gerusalemme reclamavano, entro la fine dell’anno, un trattato di pace tra il Libano ed Israele.
La Siria, dopo l’elezione del nuovo presidente libanese, aveva dichiarato che avrebbe ritirato le sue truppe dal Libano solo quando i soldati israeliani se ne fossero andati dal paese. Un alto funzionario dell’esercito siriano aveva inoltre dichiarato che se Gemayel avesse firmato quel trattato, “La Siria si sarebbe considerata in stato di guerra con lui”.
Gemayel dunque si trovava in mezzo tra Israele e la Siria, senza dover dimenticare però anche gli Stati Uniti che lo avevano appoggiato.
Dalla fine della guerra al 16 di settembre ci sono stati alcuni episodi che potevano presagire quello che poi accadde dal 16 al 18, ma nessuno diede importanza a quegli “annunci” anche perché non si poteva immaginare che la malvagità umana potesse arrivare ad un tale livello.
Arafat lasciò il Libano il 30 agosto e l’ultima nave carica di guerriglieri palestinesi, il primo di settembre. Le truppe siriane dovettero anche sfilare davanti al Maggiore Sa’d Haddad, militare libanese fondatore dell’esercito "Armata del Sud del Libano" totalmente sostenuto da Israele, che non mancò di prodigare con gesti osceni e di disprezzo i suoi “saluti” verso i militari che stavano lasciando il paese. Ma perché gli israeliani erano ancora a Beirut?
Le truppe di pace l’11 settembre avevano iniziato ad abbandonare il Libano con quindici giorni di anticipo rispetto agli accordi presi. Il quotidiano “Daily Telegraph” riportava la notizia che Sharon aveva fatto una visita di sorpresa alle sue truppe alla periferia di Beirut ed aveva dichiarato che, dopo l’evacuazione dell’Olp erano ancora rimasti in città “duemila terroristi”. Ma chi erano questi misteriosi terroristi? Intanto le truppe israeliane stavano, molto lentamente, avanzando verso la città.
Il 14 settembre viene assassinato Bashir Gemayel e gli israeliani iniziano ad invadere Beirut Ovest. Inizia la caccia ai terroristi ed il cerchio intorno ai palestinesi si chiude. Un colonnello israeliano aveva detto a Robert Fisk poco prima che partisse da Beirut:
“Il nostro grande problema non sarà liberarci dai palestinesi, sarà impedire ai falangisti di entrare a Beirut Ovest per regolare qualche vecchio conto”.
Il 16 settembre le Falangi entrarono a Beirut Ovest con gli israeliani e per questo, Fisk decide di ritornare a Beirut. Inizia il massacro: ancora nessuno è consapevole di quello che sta accadendo.
Il 17 settembre corre voce che qualcosa di terribile sta succedendo dentro i campi profughi di Sabra e Chatila. Fisk ricorda quella sera che dal suo balcone guardava gli aerei, i cacciabombardieri che volavano basso nell’oscurità:

“Uno dei jet lasciò cadere un tracciante, poi un altro ed il cielo opaco della città si illuminò di una luce dorata che si diffuse sui campi. Era di un giallo argenteo come la luce del giorno. Avrei potuto leggere un libro sul mio balcone con quella luce. I traccianti scendevano lentamente, quasi tutti sulla zona di Sabra e Chatila… L’alba a mezzanotte”.

 


Quello che trovarono i primi giornalisti nel campo palestinese di Chatila alle 10 di mattina del 18 settembre è stato qualcosa di irreale. Una cosa atroce, uno sterminio di massa, un crimine di guerra avvenuto sotto gli occhi vigili e totalmente indifferenti di un esercito regolare.
Chi sono in questo caso i terroristi? Le vittime o i carnefici?
La certezza era che gli israeliani sapevano quello che stava succedendo, avevano illuminato i campi, guardavano da lontano i loro alleati, i falangisti ed i miliziani di Haddad mentre mettevano in atto il loro sterminio di massa. Gli israeliani erano al comando di tutto, dovevano sorvegliare l’area di Chatila da tutti i lati e dai tetti degli edifici più alti, ma non dovevano vedere, sentire e testimoniare.
I soldati israeliani in uniforme e agenti segreti dello Shin Bet in borghese, sorvegliavano anche il lato ovest dello stadio dove erano stati portati centinaia di uomini, per lo più libanesi, per essere “interrogarti”. Gli israeliani lasciavano fare tutto alle milizie senza interferire in nessun modo. Questa era solo una caccia ai “terroristi”. Una parola che suonava oscena in bocca a loro, ma che gli dava carta bianca su tutto.
Quello che è successo a Sabra e Chatila non è stato definito da tutti come “massacro”, ma allora da cosa dipende questa definizione? Dal numero delle vittime? Dal modo in cui sono state uccise? O da chi sono state uccise? La responsabilità israeliana è palese, dimostrabile e uguale a chi materialmente ha commesso il fatto, ma nessuno ha mai pagato per questo.
Gli israeliani alla fine avevano rivelato che i responsabili della strage fossero i falangisti guidati dal comandante Elie Hobeika. Ma come hanno potuto gli eredi dell’Olocausto aver consentito che venisse commessa quell’atrocità?
Il tenente Avi Grabowski vicecomandante della compagnia dei carristi che in seguito testimoniò sul massacro davanti alla Commissione d’inchiesta israeliana, riferì che quel venerdì a mezzogiorno l’equipaggio del suo carro aveva chiesto ai falangisti perché uccidessero i civili. Loro risposero: “Le donne incinte partoriranno dei terroristi, quando cresceranno i bambini diventeranno terroristi”.
Begin, ai giornalisti che gli fecero notare che Israele aveva, in qualità di paese occupante, la responsabilità di quello che succedeva nei campi, rispose: “Nessuno ha il diritto di farci prediche sui valori morali e sul rispetto della vita umana, sono i principi in base ai quali siamo stati educati e continueremo ad educare generazioni di combattenti.”
Le manifestazioni in tutto il mondo contro questo massacro costrinse Israele ad aprire un’inchiesta sui fatti, ma come al solito usò questo sua atto “democratico” a suo favore: “Quale paese arabo aveva mai pubblicato un rapporto come quello che condannava sia il suo esercito e sia i suoi leader politici?”.
Nel rapporto della Commissione Kahan (1983) è stata evitata la parola “palestinese”, si parla di “fatti” e non di “massacro”. I giudici non erano riusciti a portare prove dell’esistenza di quei 2000 terroristi che si dovevano trovare all’interno dei campi e chiamava “soldati” gli unici veri terroristi presenti, i miliziani cristiani mandati dagli israeliani. La Commissione alla fine giudicò Sharonpersonalmente responsabile dei fatti” e suggerì a Begin di rimuoverlo dal suo incarico. Qualche anno dopo però Ariel Sharon, ritorna al governo israeliano come Primo Ministro e nessun processo ha mai punito gli artefici del massacro di Sabra e Chatila.


La professoressa Bayan Nuwayhed al-Hout docente di Scienze politiche all’Università di Beirut nel 2003 ha pubblicato in arabo il libro “Sabra e Shatila: settembre 1982”, tradotto in inglese nel 2004, mentre ad oggi non è stato ancora possibile farlo conoscere in Italia.
Il libro ripercorre la storia del massacro e, attraverso varie interviste ai familiari delle “vittime viventi” e ai sopravvissuti, l’autrice ha impostato il suo progetto come una storia orale per conservare le testimonianze. Questo libro è quindi un coraggioso tentativo di rendere il senso di ciò che è accaduto. Un documento politico molto importante.
La docente di Beirut scrive: “Più tardi, un grande inaspettato evento avvenne diciotto anni dopo il massacro, nel settembre 2000. Senza preavviso, una delegazione italiana giunse all’aeroporto di Beirut per commemorare Sabra e Chatila… Le vittime viventi non avrebbero osato sognare che la visita si sarebbe trasformata in un appuntamento annuale, ogni settembre, e che i loro nuovi amici non li avrebbero mai abbandonati… Il Comitato presieduto da Stefano Chiarini, noto come “Per non dimenticare Sabra e Chatila” si è assunto la responsabilità di commemorare Sabra e Chatila per tutti i sette anni scorsi.”


Questo è il motivo per il quale il “Comitato Per non dimenticare” dal 2000 si reca ogni anno sui luoghi del massacro. Il Comitato vuole rappresentare quella parte dell’Italia che non ha perso la memoria, che anzi si ostina a renderla pubblica e che si schiera al fianco del popolo palestinese per sostenere la sua lotta ed i suoi diritti.
Per il Comitato ritornare a Chatila anno dopo anno è un dovere e un onore. Raccontare, per i familiari delle vittime, rappresenta sempre un dolore ma può diventare anche un modo per dare giustizia a chi non c’è più. A rendergli omaggio, a non dimenticarli.
Sono trascorsi 30 anni da quelle 43 ore terribili e noi siamo ancora una volta a Chatila ad abbracciare quelle persone, a guardarle negli occhi per rassicurarle che noi ricordiamo. Dopo la cerimonia ci inoltriamo nel campo.
Chatila è il campo che ancora continua ad esistere e a crescere, mentre Sabra, per chi l’abitava non è mai stata considerata un vero “campo” ma solo una strada che iniziava nel quartiere Tariq al-Jdideh di Beirut e finiva all’ingresso del campo di Chatila, oggi si presenta come un mercato dove si può trovare di tutto. Camminando tra banchi di frutta e verdura si arriva ad un certo punto in una strada con vari "palazzi". Uno di questi è il Gaza Hospital.
Era un ospedale gestito dalla Mezzaluna Rossa Palestinese, un luogo emblematico testimone di eventi che hanno segnato la vita dei profughi palestinesi, come quello del massacro di Sabra e Chatila. Una struttura oggi occupata da molte famiglie palestinesi, libanesi e di altre nazionalità rimaste senza casa. Un rifugio per i più poveri.

     

Chatila oggi è abitata da circa ventimila persone. 

I suoi vicoli stretti, tortuosi, sembrano tanti infiniti labirinti spesso bui perché le case troppo alte impediscono al sole di illuminare e di scaldare. Le fognature, vecchie ed insufficienti per il numero di abitanti, si lasciano scorrere liberamente lungo le vie, specialmente quando piove.  

 

 

  

I rifiuti abbondano neivicoli, nelle piazzette, ovunque perché chi dovrebbe raccoglierli (UNRWA) non ha più le risorse per continuare a svolgere questo compito.

 

 

 

Sopra le nostre teste un groviglio di cavi elettrici e di tubi corrono tra le case, creando una fitta ragnatela. La prima causa di morte nel campo è la folgorazione. Le famiglie palestinesi continuano a vivere in queste condizioni con la speranza di poter ritornare, un giorno, nella loro terra. Condizioni che, anno dopo anno, diventano sempre più difficili perché, da una parte diminuiscono gli aiuti e dall’altra il governo libanese non vuole apportare miglioramenti, non vuole accordare ai rifugiati palestinesi anche quei minimi diritti per poter avere una vita dignitosa. Nonostante tutta questa sofferenza però riescono a mantenere la dignità di un popolo che è consapevole di essere nel giusto, di aver subito un’ingiustizia storica e aspettano che gli venga riconosciuto il diritto di essere uno Stato e di poter ritornare nelle loro case occupate dai sionisti israeliani. Un diritto che è sancito dalla Quarta convenzione di Ginevra, ma da sempre, disatteso da Israele che non accetta nemmeno di discuterne. Non è facile continuare questo cammino, specialmente per i giovani che non hanno la prospettiva di un futuro migliore, la possibilità di studiare, di avere un lavoro regolare o di una casa. Non è facile neppure per noi continuare a lottare con e per loro perché siamo tutti circondati dal silenzio generale. Il mondo non parla, fa finta di niente, è indifferente. Quando si parla di rifugiati palestinesi, anzi, spesso veniamo definiti come “gli amici dei terroristi”, antisionisti che desiderano solo la fine d’Israele. Per fortuna ci sono i bambini che nella loro innocenza ed inconsapevolezza riescono ancora a sorridere.

Foto campo Chatila

Continua … 

30/10/2012

* L'Osservatore Romano – Blog “Il Magistero di Benedetto XVI

Fonte: Robert Fisk (Il martirio di una nazione) – Libro “Sabra e Shatila: settembre 1982” di Bayan Nuwayhed al-Hout traduzione di Vincenzo Brandi con la collaborazione di Marta Turilli -


PER NON DIMENTICARE VIK
IL PROCESSO

di Mirca Garuti


La notte tra il 14 e 15 aprile 2011 nessuno potrà dimenticarla. Una notte, durante la quale alcuni giovani appartenenti ad una cellula del gruppo qaedista Tawhid wal Jihad, rivale di Hamas, misero fine alla vita di Vittorio Arrigoni (http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/RestiamoUmaniinonorediVittorioArrigoni/tabid/1015/Default.aspx) gettando nel dolore una madre, una sorella e migliaia di palestinesi e italiani. In questi lunghi mesi si è assistito ad un procedimento sostanzialmente regolare, aperto al pubblico e alla stampa, ma non si può tacere sul fatto che la corte è stata troppo accondiscendente nei confronti delle strategie degli avvocati della difesa. Per quasi un anno si sono visti testimoni chiamati di fronte ai giudici solo per confermare le deposizioni fatte durante le indagini. Il dibattimento quasi non c’è stato.

Il percorso delle 16 udienze

08/09/2011  Il processo ha inizio. Gli imputati: Mohammed Salfiti, 23 anni di Karama, Tarek Hasasnah, 25 anni di Shate, Amer Abu Ghoula, 25 anni di Shate e Khader Jiram. Gli altri due elementi del gruppo dei rapitori, il giordano Breizat e il palestinese Bilal Omari, considerati i «capi» della cellula salafita, non possono raccontare la loro versione: sono stati uccisi un paio di giorni dopo il ritrovamento del corpo di Vik, durante il blitz effettuato nel loro rifugio di Nusseirat da un’unità scelta di Hamas. Dopo cinque mesi dall’assassinio di Vittorio, è la prima volta che viene reso noto, anche se solo in parte, il file delle indagini svolte dalla procura militare di Hamas (tutti e quattro gli imputati sono membri con compiti diversi delle forze di sicurezza) e mai consegnato ai legali della famiglia Arrigoni. Il presidente della Corte, nemmeno quarantenne, non ha ammesso fra le parti l'avvocato Eyal al-Alami, il quale aveva ricevuto in extremis un incarico di patrocinio dalla famiglia della vittima dopo che il legale italiano, Gilberto Pagani, non era riuscito ad entrare dall'Egitto nella Striscia. La prima udienza è terminata in uno sbrigativo rinvio al 22 settembre.

22/09/2011 Ore 10: L’aula è piccola, sporca, spoglia. Nessuna scritta, nessun simbolo politico o religioso. Lo scranno del Tribunale è molto sopraelevato, per il pubblico ci sono delle panchette, le persone presenti sono una trentina, molti gli italiani. I banchi dell’accusa e della difesa sono uno di fronte all’altro, la cattedra della Corte è perpendicolare a loro; il banco dei testimoni è di fronte ai giudici, il teste volta le spalle agli avvocati ed al pubblico. Sulla destra, la gabbia nella quale sono fatti entrare i quattro imputati. Un militare in tuta mimetica, barbuto come tutti, ricopre la funzione di usciere, è lui che batte con forza il palmo della mano sul banco dei testimoni e lancia un urlo, “entra la Corte”. Il presidente della Corte avrà circa 30 anni, così come i giudici a latere, il Pm e i suoi assistenti. Tutti vestono camicie militari senza alcun distintivo o grado. L’udienza è brevissima, è interrogato un agente che conferma i filmati con le confessioni degli imputati. Poi a turno gli imputati sono interrogati dalla Corte. Uno è accusato di aver aiutato gli assassini, gli altri tre di sequestro di persona ed omicidio; questi ultimi si riconoscono nelle immagini che sono mostrate solo a loro e non al pubblico, ma affermano che le confessioni sono state estorte con vessazioni e minacce. Viene reintrodotto l’agente, che nega ci siano state pressioni. Di nuovo un colpo sul banco e un urlo da parte dell’usciere: l’udienza è rinviata al 3 ottobre per ascoltare il medico legale che oggi non si è presentato. L’avvocato della famiglia Arrigoni, Gilberto Pagani racconta: “Alla fine di questa prima udienza vado ad incontrare il Procuratore militare, nel suo ufficio. Gli pongo tre domande:
Possiamo accedere agli atti delle indagini?
Risposta «L’inchiesta è militare, il processo è pubblico, venite al processo e saprete quello che c’è da sapere».
Sono state fatte indagini sulla morte dei due sospettati nel conflitto a fuoco con la polizia? Risposta «Un’inchiesta della polizia ha appurato che tutte le regole sono state rispettate, per altre informazioni potete leggere quel che è stato scritto dalla stampa».
La Procura chiederà la pena di morte per i colpevoli?
Risposta «La punizione prevista dalle nostre leggi in questo caso è la pena di morte».
Sono assolutamente stranito. Mi aspettavo una procedura da Corte militare, rapida, forse spietata, comunque finalizzata a cercare una ricostruzione dei fatti, se non la verità, che sia la base per una decisione. Assisto ad un processo in cui i tempi sono dilatati senza ragione, la Procura imprecisa e svogliata, gli avvocati assenti, l’interesse pubblico nullo, la Corte inutilmente autoritaria. Non è plausibile che in una situazione (anche territoriale) come questa, il medico legale non si presenti per quello che è il primo atto di un processo per omicidio, cioè illustrare le cause della morte di una persona".

03/10/2011 L’udienza è durata meno di un’ora. Sono stati ascoltati due testimoni, tra i quali il Dottor Alaa al Astal, il patologo di Gaza che ha esaminato il cadavere di Vittorio ed ha effettuato l’autopsia.  Astal ha confermato la morte avvenuta per strangolamento e che la vittima aveva subito percosse ed un violento colpo alla testa mentre era con le mani e i piedi legati. In apertura d’udienza si apprende che uno degli imputati non è più detenuto. Si tratta di Amer Abu Ghoula, che aveva dato rifugio ai due «capi» in fuga. Viene processato, ma è a piede libero. Inoltre, è emerso un dato errato verbalizzato durante le indagini...

17/10/2011 Udienza lampo, verità lontana. Nessuno ha ancora chiesto agli imputati perché Vittorio fu rapito e poi ucciso. Venti minuti ed un altro rinvio.

03/11/2011 Un’udienza con pochissimo pubblico. Alcuni amici palestinesi e italiani di Vik e qualche parente degli imputati, mentre a nord di Gaza, lungo la «zona cuscinetto» creata da Israele, un missile di un elicottero ha ucciso due palestinesi: un contadino che si trovava nel suo campo ed un militante delle Brigate Ezzedin al Qassam che aveva preso parte poco prima ad uno scontro a fuoco con reparti israeliani. La quinta udienza del processo è finita dopo 50 minuti. La delusione è cocente. A due mesi dalla prima udienza, il dibattimento rimane incagliato su questioni procedurali e su aspetti secondari.

24/11/2011 La sesta udienza è durata pochi minuti. Il processo è stato subito aggiornato. Un altro nulla di fatto.

05/12/2011  “Nella casa di Vittorio c’erano tante donne?”. Con queste parole l’avvocato della difesa si è rivolto all’unico testimone ascoltato oggi durante la settima udienza del processo ai rapitori e agli assassini di Vittorio Arrigoni. Anche questa volta la sessione, durata 45 minuti, si è concentrata su aspetti secondari e forvianti e l’accusa non ha ancora investigato sul reale motivo che ha spinto i quattro imputati a rapire ed uccidere Vittorio.

19/12/2011 È stata un’udienza breve ma di una certa importanza. Finalmente, il processo in corso a Gaza city per l’assassinio di Vittorio Arrigoni ha fatto un passo in avanti dopo tre mesi trascorsi a dibattere spesso solo di questioni procedurali. La Pubblica accusa militare ha portato in aula l’hard disk del computer dove sono state ritrovate le immagini del rapimento di Vittorio. L’udienza si è svolta, mentre era diffusa in rete, la lettera di risposta della madre e della sorella di Vittorio alla «richiesta di perdono» inviata dalle famiglie di tre dei quattro imputati.  Il processo Arrigoni a Gaza è giunto ad una fase di stallo.

05/01/2012  Le indiscrezioni annunciavano un’udienza di particolare importanza. Si sperava perciò di assistere ad un dibattimento concreto. Le cose però sono andate nella direzione opposta a quella desiderata. L’ultima udienza è stata la più breve delle nove che si sono svolte dallo scorso 8 settembre ad oggi ed anche la più inutile e, per certi versi, paradossale. La prima sorpresa è venuta da Amer Abu Ghoula, uno dei quattro imputati, agli arresti domiciliari perché accusato di reati minori.  La corte, registrata la sua assenza, ha subito spiccato un mandato d’arresto, ma fino a ieri sera di Abu Ghoula non si sapeva nulla. La seconda sorpresa è stata la rapidità con la quale la stessa corte, dopo aver appreso che la difesa non aveva ricevuto alcuni documenti relativi alle prove prodotte dalla procura militare, ha aggiornato il processo. La durata dell’udienza, solo quattro-cinque minuti in tutto.  È inaccettabile.

16/01/2012 Per la seconda volta consecutiva, l’udienza è durata pochi minuti. Il processo è stato subito aggiornato. Non si sono presentati in aula i testimoni della difesa, pare per motivi di lavoro, e uno degli avvocati ha prontamente chiesto il rinvio. Intanto resta un mistero l’assenza in aula di Amer Abu Ghoula, uno dei quattro imputati. (Eppure le corti militari di Gaza, quando vogliono, sanno essere rapide e terribilmente spietate. Questo mese hanno emesso una nuova condanna a morte, la prima del 2012, la 36ma da quando Hamas ha preso il potere a Gaza nel 2007. L’11 gennaio scorso un tribunale ha condannato a morte per impiccagione un palestinese di 48 anni, colpevole di collaborazionismo con imprecisate forze ostili e di complicità in un omicidio.)

30/01/2012 Anche quest’udienza è terminata nel giro di pochi minuti, come le altre di gennaio. I testimoni della difesa, per l’ennesima volta, non si sono presentati e la corte ha aggiornato il processo.

13/02/2012 Sarà merito delle sollecitazioni alla corte promesse un paio di settimane fa dal capo della procura militare, o degli echi a Gaza dell’insoddisfazione degli italiani per la lentezza del processo, che dopo le ultime tre udienze «lampo» questa è stata per così dire «normale», almeno nello svolgimento e nella durata (circa un’ora). Sono finalmente apparsi in aula i testimoni convocati dalla difesa, che non si erano presentati alle ultime udienze. Nessuna traccia ancora di Amr Abu Ghoula, agli arresti domiciliari perché accusato di favoreggiamento e non dell’assassinio di Vittorio. Di Abu Ghoula non si sa più nulla. Ha violato l’ordine della corte di partecipare alle udienze e contro di lui è stato spiccato un mandato d’arresto. Al tribunale però nessuno sa o vuole dire dove sia finito. La strategia della difesa è chiara. L’obiettivo è quello di scaricare ogni responsabilità sul capo della presunta cellula salafita che ha rapito e ucciso Vittorio, il 22enne giordano Abdel Rahman Breizat, morto in un conflitto a fuoco con la polizia di Hamas.

27/02/2012 Cinque minuti.  I giudici, dopo aver esaminato la lettera inviata a fine 2011 a Gaza dalla famiglia Arrigoni – come risposta all’appello alla clemenza lanciato dalle famiglie dei quattro imputati, nella quale si esprime netta opposizione ad un’eventuale condanna a morte – hanno aggiornato il processo al prossimo 15 marzo, per la richiesta di uno degli avvocati della difesa che lamentava di non aver ancora potuto esaminare tutti gli atti (è accaduto più volte in questi mesi).

15/03/2012 L’allerta che da una settimana regna nella Striscia di Gaza per i raid aerei israeliani (26 morti palestinesi), è la causa del rinvio dell’udienza. Le autorità di Hamas hanno ordinato l’evacuazione di tutte le strutture militari e di sicurezza. La corte perciò è rimasta chiusa.

02/04/2012 Si annunciava un’udienza affollata questa mattina alla corte militare di Gaza city. Ci si attendeva una ripresa nel segno della concretezza, e invece le cose sono andate come sempre. La solita udienza-lampo. Stavolta in aula non mancavano i testimoni convocati dalla difesa, com’è spesso capitato in passato, ma gli stessi avvocati dei quattro imputati. E’ stato nominato un avvocato d’ufficio che, però, non avendo seguito il “caso”, ha chiesto e ottenuto il rinvio per poter leggere gli atti.

12/04/2012  Si avvicina la data del primo anniversario della morte di Vittorio (15/04/11), ma il suo assassinio resta in gran parte senza risposte. Troppi sono i lati oscuri di questo crimine. Se la procura di Gaza è stata in grado di risalire in poche ore ai responsabili del rapimento e dell’uccisione di Vik, i giudici della corte militare invece non sono stati altrettanto solleciti. Il processo è stato segnato sin dal suo inizio, lo scorso settembre, da udienze lampo, dall’assenza frequente dei testimoni e dalle manovre della difesa volte unicamente a guadagnare tempo. Dopo una quindicina d’udienze, agli imputati è stato chiesto di spiegare i motivi del rapimento di Vik. Ed ecco il colpo di scena: nel giorno della prima vera udienza del 2012, tre dei quattro imputati per l'assassinio di Vittorio hanno lanciato un insidioso tentativo di gettare fango sulla figura dell'attivista e giornalista italiano. Ritrattando in buona parte le confessioni che avevano reso negli interrogatori seguiti all'arresto da parte della polizia di Hamas, i tre hanno recitato, davanti ai giudici della corte militare di Gaza city, la parte dei giovani difensori delle tradizioni sociali «minacciate» da un presunto stile di vita troppo «liberal» di Vittorio. «Volevamo dargli soltanto una lezione, gli altri intendevano ucciderlo ma noi non lo sapevamo», hanno proclamato i tre cavalieri della moralità. Un passo vergognoso, vile, frutto di una strategia precisa degli avvocati della difesa, che mira a macchiare l'immagine di Vik che di Gaza aveva fatto la sua bandiera e che ai diritti dei palestinesi aveva dedicato, negli ultimi anni, il suo impegno politico ed umano. Inoltre gli imputati hanno sostenuto di aver confessato la loro partecipazione al rapimento e all'assassinio dell'italiano «sotto la forte pressione» degli inquirenti. Hanno quindi smentito di aver preso parte al sequestro allo scopo di ottenere la scarcerazione dello sceicco Al Maqdisi e, più di tutto, hanno negato di essere stati a conoscenza di un piano per uccidere l'attivista italiano. A loro dire questo piano era stato concepito dai due «capi» del gruppo di rapitori, il giordano Breizat ed il palestinese Bilal Omari, rimasti uccisi poco dopo l'assassinio di Vittorio in uno scontro a fuoco con la polizia. È evidente il tentativo degli avvocati della difesa di far ricadere tutte le responsabilità su Breizat e Omari che non possono raccontare la loro versione dei fatti. Prossima udienza 14 maggio 2012 e, secondo alcune voci, potrebbe essere l’ultima prima della sentenza.

14/05/2012  Niente di fatto. L’udienza slitta ancora. Il Presidente della Corte militare, per presunti altri impegni, non si è presentato nell’aula del tribunale allestito presso la Prefettura. Questa doveva essere un’udienza importante dove il Pubblico ministero avrebbe dovuto riassumere e precisare i capi d’accusa contro gli imputati e presentare la sua richiesta di condanna e gli avvocati della difesa avrebbero invece dovuto persuadere la corte della loro innocenza o almeno di una loro “parziale” responsabilità. Nessuno era stato avvisato in tempo dell’aggiornamento del processo al 28 maggio.

28/05/2012 La Corte militare di Gaza City oggi è rimasta chiusa. Il Giudice capo è “in vacanza”. Nessuno delle autorità di Hamas ha comunicato il rinvio dell’udienza, neppure al Centro palestinese per i diritti umani che segue, come osservatore, il processo Arrigoni. Prossima udienza: 27 giugno. Ancora un altro mese. E’ uno scandalo! Il governo di Hamas aveva promesso un processo vero, ma, l’unica cosa vera in tutto questo, rimane solo la completa indifferenza di tutti verso una giustizia alla quale non si vuole arrivare.

27/06/2012 Sedicesima udienza. I due avvocati difensori hanno chiesto che i 4 fossero riconosciuti non colpevoli, causa assenza di prove e testimoni ed inoltre, hanno presentato richiesta di scarcerazione per l’avvicinarsi del Ramadan (inizierà il 21 luglio), periodo sacro per i musulmani. La nuova udienza è prevista tra oltre 2 mesi, il 5 settembre, data la chiusura della corte militare per la festività musulmana. In quella data spetterà all'accusa presentare le proprie richieste, per poi arrivare finalmente alla sentenza.

05/09/2012 L'attesa di italiani e palestinesi è risultata vana. La sentenza è slittata al 17 settembre. L’avvocato Gilberto Pagani, giunto a Gaza su incarico della famiglia Arrigoni, ed i suoi colleghi del Centro palestinese per i diritti umani, hanno sperato, per ore, in un possibile cambiamento della decisione del rinvio da parte dei giudici della Corte militare. Speranza vana. Si attendeva la sentenza e tanti si preparavano ad affollare la piccola sala che ospitava i giudici militari di Hamas. Lo slittamento di date non ha però rappresentato una totale sorpresa.  Dalla data della prima udienza, il procedimento ha preso, mese dopo mese, una brutta piega. Diverse udienze sono state aggiornate solo un paio di minuti dopo il loro inizio, per l’assenza dei testimoni convocati dalla difesa o per motivi apparentemente banali. Non c’è mai stato un vero dibattimento. Rare volte sono state ascoltate le voci degli imputati. Non è stato un processo irregolare, ma tanti punti rimangono oscuri. Non sorprende perciò che sulla sentenza regni una forte incertezza. La verità resta lontana.

17/09/2012 La Sentenza: Ergastolo
“La Corte militare chiude con pesanti condanne il processo per l'omicidio di Vittorio Arrigoni. Giustizia è fatta, ma troppi interrogativi restano in sospeso sulla regia del sequestro. Carcere a vita e lavori forzati ai due esecutori, 10 anni all'ex amico del pacifista.”

La sentenza ci raggiunge in Libano durante la settimana di commemorazione del massacro di Sabra e Chatila. Sollievo, gioia, tristezza, dolore, sofferenza, rabbia, sono i sentimenti provati da noi tutti a questa notizia. Michele Giorgio nel suo articolo che chiude il “Dossier Vittorio Arrigoni” su “Il Manifesto” parla anche a nome nostro:

“Giustizia è fatta, commenterà qualcuno. Che amarezza però. Ci sarebbe più di un motivo per essere soddisfatti. Gli imputati sono stati condannati per il delitto che avevano confessato eppure la tristezza è tanta in queste ore. Nessuna condanna potrà ridarci Vik. Neppure quella severa inflitta ieri dalla corte militare di Gaza city ai quattro giovani palestinesi accusati del sequestro e dell'omicidio del giovane attivista e giornalista che, come nessuno nella sinistra italiana di questi ultimi anni, aveva saputo attirare tanta attenzione verso la causa dei palestinesi di Gaza. Il pensiero corre in queste ore alla madre e alla sorella di Vittorio. Come hanno accolto la sentenza, ci chiediamo. Due donne che con fermezza e dignità, nel rispetto degli ideali di Vik, si erano subito espresse contro la condanna a morte degli assassini. «Vogliamo giustizia» non vendetta scrissero in una lettera inviata ai famigliari degli imputati che imploravano clemenza.
I giudici ieri hanno inflitto il carcere a vita e un periodo di lavori forzati a Mahmud Salfiti e Tamer Hasasna, due esecutori materiali del sequestro ideato assieme al giordano Abdel Rahman Breizat e al palestinese Bilal Omari, entrambi rimasti uccisi in un conflitto a fuoco con la polizia di Hamas. Ad un anno di carcere è stato condannato Amr al Ghoula, il fiancheggiatore che aiutò tre membri del gruppo a nascondersi dopo l'assassinio. Al Ghoula è già a piede libero da mesi.
Dieci anni di prigione dovrà scontare Khader Jiram, vigile del fuoco e amico di Vittorio Arrigoni, accusato di aver fornito informazioni decisive ai killer sui movimenti dell'italiano a Gaza. Questa condanna se da un lato può apparire adeguata al reato commesso da Jram - che non ha preso parte diretta al rapimento e all'assassinio - dall'altro provoca tanta rabbia. Jram a ben guardare è il più colpevole di tutti perché conosceva Vik che lo aveva anche citato in uno dei suoi racconti, dopo un attacco aereo alla stazione dei vigili del fuoco sul lungomare di Gaza city. Jram avrebbe dovuto respingere la richiesta di Hasasna di «tenere d'occhio» l'italiano per capirne i movimenti e le abitudini. Si prestò invece all'organizzazione di un crimine contro un attivista impegnato a diffondere le ragioni dei palestinesi sotto occupazione, che quotidianamente andava nei campi coltivati della «zona cuscinetto» per proteggere, con la sua sola presenza, i contadini dagli spari israeliani. Un giovane coraggioso che aveva passato mesi assieme ai pescatori di Gaza tenuti sotto tiro dalla Marina militare israeliana. Durante l'interrogatorio Jram spiegò agli investigatori di aver accettato di seguire i movimenti di Vittorio «perché non poteva respingere l'insistenza di Hasasna». E per quella insistenza ha tradito e fatto uccidere un amico. Certo anche Bilal Omari, che pure conosceva Vittorio, merita disprezzo ma lui ha pagato con la vita il crimine che ha commesso.
Vittorio fu rapito da una cellula del gruppo qaedista Tawhid wal Jihad, rivale di Hamas, la sera del 13 aprile 2011. Abdel Rahman Breizat, il capo della cellula, sperava di convincere il governo di Hamas a rilasciare un leader salafita, Hisham al-Saidni, un teorico del salafismo jihadista arrestato a Gaza qualche settimana prima. Vik fu mostrato il giorno successivo bendato e gravemente ferito alla testa in un video postato in internet dai sequestratori. Nelle ore successive la polizia fu in grado di inviduare la casa dove l'italiano veniva tenuto ostaggio ma prima che le forze speciali di Hamas facessero irruzione nell'appartamento a nord di Gaza, i rapitori uccisero Vittorio, peraltro ben prima dello scadere dell'ultimatum fissato per il rilascio di Saidni. Hasasna e Jmar furono arrestati subito. Breizat, Omari e Salfiti provano a fuggire ma furono individuati in un appartamento di Nusseirat dalla polizia. Dopo un lungo assedio Breizat e Omari morirono in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza dai contorni mai chiariti del tutto. Salfiti, rimasto ferito ad una gamba, fu arrestato e incarcerato. Saidni è stato recentemente liberato senza imputazioni dopo essersi impegnato a non disturbare l'ordine pubblico, ha annunciato Hamas. Il gruppo Tawhid wal Jihad non ha ancora commentato la sentenza.
La severa condanna per due dei quattro imputati ha parzialmente legittimato le autorità giudiziare di Gaza, dopo un processo zoppicante, segnato da udienze brevissime e da rinvii inattesi e dall'assenza di un vero dibattimento. Forse Hamas ha voluto dare un segnale all'Italia e ai tanti amici e compagni di Vik che chiedevano giustizia. Questa sentenza però chiude solo una parte della vicenda. Troppi interrogativi rimangono senza una risposta. I rapitori hanno agito per conto di un regista esterno? Avevano deciso di eliminare in ogni caso Vittorio? Sono gli unici colpevoli? A noi resta una sola certezza: la scomparsa di un giovane che amava Gaza - non Hamas come ha affermato ieri un giornalista italiano -, che credeva nella giustizia, nella legalità, dei diritti di tutti i popoli. Nel rispetto della dignità dell'uomo. «Restiamo Umani» ci diceva sempre. Sì, Vik, resteremo umani, anche grazie a te.”

05/10/2012

Fonte: Il Manifesto- Dossier Vittorio Arrigoni – Agenzia Nena News


SABRA E SHATILA
IL SILENZIO E L’INGIUSTIZIA NON CANCELLERA’ IL RICORDO DI QUEL MASSACRO

di Mirca Garuti


Alkemia si sta preparando a ritornare a Beirut con il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”. Sono trascorsi 30 anni da quei due giorni terribili. Giorni in cui la belva umana ha dato il meglio di sé. Non si tratta di morti in battaglia o durante un conflitto armato, ma si tratta di migliaia di donne, bambini, uomini, vecchi, torturati, violentati, calpestati, trucidati nel più totale silenzio. Nessuno ha ancora pagato per quel crimine. Nessun governo vuole ricordare.

Igor Man, dieci anni dopo la strage, scriveva "L'assedio di Beirut, Sabra e Chatila: di là dalla nebbia del tempo resiste la memoria di quell’insulto alla vita. Un incubo, le fitte che dà una vecchia ferita quando si fa sera e di colpo piove e t’accorgi che è finita l’estate. E allora pensi ai vivi e ami i morti rimasti laggiù. A Beirut”.

Non tutti però restano in silenzio! E’ bello scoprire che ci sono giovani scrittori sensibili alla causa del popolo palestinese che vogliono capire. Spesso ci troviamo a parlare di questo eterno e sofferto conflitto solo tra militanti. Ragionare sulla questione palestinese è molto difficile. La prima reazione è quella di essere sempre accusati d'antisemitismo e di voler cancellare Israele e, quindi di essere considerati  terroristi, come i palestinesi. Così quando si legge sulle pagine di un importante giornale, come il Corriere della Sera, nell’inserto culturale della domenica “La Lettura”, il coinvolgente reportage di Paolo GiordanoUna notte di 40 ore”, si accende una piccola luce di speranza. “Nel settembre del 1982 ero ancora immerso nel tepore del liquido amniotico, dentro il ventre di mia madre”, scrive Paolo nel suo articolo, mentre, i bambini di Sabra e Chatila, sia quelli nati e sia quelli non nati,  non sono stati altrettanto fortunati. Paolo, con le sue parole, riproduce anche una fotografia della società italiana degli anni ’80 –’90, specialmente quella dei giovani liceali e del loro modo di porsi di fronte ad una questione così complessa e lontana dal loro mondo.
Forse non c’era una profonda conoscenza del problema, ma non c’era indifferenza verso la situazione disastrosa dei palestinesi, e questo ha contribuito a far crescere, dentro l’anima di Paolo, questo piccolo seme che l’ha portato poi, in età adulta, a mettere piede a Chatila. Occorre vivere Chatila per comprenderla, è necessario camminare tra i suoi vicoli stretti e bui, guardare dove e come vivono i suoi abitanti, annusare l’aria che si respira, sorridere, stringere le mani, abbracciare ed accarezzare i volti di tutte quelle persone che, giorno dopo giorno, da più di 60anni, sopravvivono nei campi senza mai perdere la speranza di poter ritornare nelle loro case d’origine.

Leggendo il racconto di Paolo si capisce che non conosce Stefano Chiarini ed il suo impegno nella causa palestinese. Paolo parla che “il solo luogo di memoria del massacro si trova in un garage”, ma non è così. Prontamente, Michele Giorgio, giornalista del “ Manifesto”, riprende, sul sito di Nena News, quanto riportato da Paolo e chiarisce l’equivoco. La guida di Paolo, evidentemente, non è stata molto chiara e non ha condotto il suo gruppo al memoriale fatto costruire proprio da Stefano. Le sue parole: “La più grande e nota delle fosse comuni, situata all’ingresso del campo di Chatila, a pochi passi dall’ambasciata del Kuwait, è ridotta ad uno squallido campo polveroso nel quale vengono gettate le immondizie di un vicino mercato e detriti di ogni genere. Non una lapide, un segno che ricordi la presenza delle fosse comuni che inviti al loro rispetto.” (anno 2000) Per questo motivo nasce poi in Italia il “Comitato Per non dimenticare” e Stefano riuscirà nel suo intento, trasformando quell’area in un luogo di ricordo e di dignità per tutte quelle vittime. Un luogo che, a settembre di tutti gli anni, è diventato la meta delle nostre visite. Una grande manifestazione, alla quale partecipano la popolazione di Chatila, le rappresentanze dei vari campi, le varie forze politiche e le delegazioni straniere, dà inizio alla cerimonia di commemorazione della strage.

Ora Stefano non c’è più, ma il lavoro del Comitato continua e la sua presenza nei giorni in cui si ricorda il massacro è molto importante perché si fa portavoce, verso tutte le forze politiche del Libano, dei diritti dei rifugiati palestinesi che continuano a chiedere giustizia, migliori condizioni di vita ed il riconoscimento del diritto al ritorno alla loro terra:

“Se tutti accettano come normale che gli ebrei “tornino” in Palestina dopo 2000 anni – e il diritto al ritorno è il fondamento dello Stato d’Israele  - perché un palestinese , con ancora in mano le chiavi della sua casa e il certificato di proprietà della vigna, è considerato un pericoloso estremista, o un potenziale terrorista, se sogna, chiede e lotta per “tornarvi” dopo qualche decina d’anni?”  (Stefano Chiarini, da Il Manifesto 16/09/2003)

I rifugiati chiedono di non essere dimenticati dalla comunità internazionale. L’impegno del Comitato e di tutti i numerosi partecipanti alle sue iniziative è proprio quello di creare una rete  d’informazione su tutto il territorio che può contribuire a ricordare, a dialogare, a capire e a pensare.

11/09/2012

http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/LastoriadiSabraeChatila/tabid/756/Default.aspx

http://lettura.corriere.it/una-notte-di-40-ore/

http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=33655



INCONTRI CON UNA REALTA’ IGNORATA
IL POPOLO KURDO
(III° Parte)


INCONTRI CON UNA REALTA’ IGNORATA
IL POPOLO KURDO

di Mirca Garuti
(IV parte)

 

Lasciato con il cuore colmo di tristezza e rabbia il villaggio di Roboski, il nostro viaggio prosegue verso Hakkari per partecipare al Newroz (vedi 2°parte “NEWROZ PIROZ BE). 
Dopo il Newroz di Hakkari ripartiamo per Yuksekova. Arriviamo di sera e troviamo una città deserta immersa nel buio. Per le strade transitano solo camionette della polizia. Usciamo più tardi dall’albergo per fare un giro in questa città militarizzata. Fa molto freddo, le strade sono ghiacciate, non incontriamo nessuno a parte una macchina della polizia che punta i fari verso di noi per un controllo.

Il motivo di questo coprifuoco è sempre lo stesso: il rifiuto della Prefettura di concedere l’autorizzazione a celebrare il Newroz il 20 marzo. La giustificazione: la data della festa deve essere sempre solo quella del 21 marzo ed il luogo è stabilito dalle autorità turche. Il popolo curdo di Yuksekova non accetta quest’imposizione e scende ugualmente nella piazza decisa dal suo partito BDP il giorno 20 marzo. Il Newroz di quest’anno è stato dedicato al loro leader Ocalan; chiedono la cessazione del suo isolamento e la ripresa di un dialogo per la risoluzione del conflitto. La polizia ha usato misure molto violente per impedire alla gente di raggiungere il luogo prestabilito: gas lacrimogeni, getti d’acqua e proiettili veri. Gli scontri sono continuati tutto il giorno. Il giorno successivo sono rimasti chiusi tutti i negozi ed ogni attività si è fermata. La serrata è stata una dimostrazione di protesta contro il comportamento della polizia che ha provocato alcuni feriti tra la gente ed i poliziotti stessi, ma anche contro l’attacco al Deputato Vice Presidente del partito BDP, Ahmet Turc, ferito a Batman dai poliziotti. L’opinione pubblica turca non ha protestato, anzi il Ministro degli Interni ha elogiato i poliziotti per il buon lavoro svolto.

Il Sindaco Ercan Bova ci conferma che, negli anni scorsi, il Newroz è sempre stato festeggiato tra il 15 e il 25 marzo. La politica del governo è quella di impedire l’unità del popolo curdo. Il premier Erdogan, prima delle elezioni, aveva riconosciuto ad Akkari l’esistenza del problema curdo ed aveva affermato che doveva essere risolto, che avrebbe costruito infrastrutture e che turchi e curdi erano fratelli. Dopo aver vinto le elezioni, Erdogan ha in realtà negato tutte queste promesse ed affermazioni. La situazione è molto difficile. L’estrema ostilità nei confronti del Newroz si esprime non per negare una semplice festa, ma per paura di quello che rappresenta: un simbolo, una speranza d’unità contro la continua repressione. Il popolo curdo, attraverso il Newroz, manifesta il desiderio di poter esprimere liberamente la propria lingua e cultura. Il governo turco invece dimostra solo di essere un governo reazionario, ha paura di tutti quelli che non sono veri turchi distruggendo, per esempio, ad Istanbul baraccopoli, associazioni e locali di ritrovo. Tutto questo però non fermerà il popolo curdo che continuerà la lotta per ottenere i suoi diritti. Yuksekova, continua il sindaco, come prova della discriminazione che subisce ogni giorno, non essendo un comune appartenente al partito di governo, ha ricevuto la cifra di 55lire turche (circa 25,00 euro) per pulire le strade dalla neve durante i mesi invernali. Bitlis, invece, che è una municipalità amministrata dal partito di governo, ha incassato, sempre per pulire le strade dalla neve, 7milioni di lire turche. Il bilancio del comune di Yuksekova è molto ridotto, possono fare solo piccole cose e non esistono infrastrutture. Le spese complessive necessarie risultano essere pari a 150milioni di lire, ma le casse sono praticamente vuote e non arrivano soldi perché il comune di Yuksekova appartiene al partito BDP, mentre il governo centrale a quello dell’AKP
Il sindaco Bova termina l’illustrazione della situazione del suo comune dandoci gli ultimi dati della composizione della giunta: 5 consiglieri arrestati e 5 ricercati perché sono fuggiti.   Ora sono rimasti in 15. L’accusa è quella di appartenere all’organizzazione del KCK. Sono state fatte intercettazioni telefoniche, attribuendo a parole semplici con un significato innocuo un contenuto del tutto diverso trasformato in attività illegali. 


L’ex sindaca di Yuksekova, Ruken Yetiskin si trova nuovamente in carcere.

 


Dopo l’incontro con il Sindaco, andiamo presso la sede di Meya Der, Associazione dei martiri di Yuksekova, per consegnare le borse di studio ad alcune ragazze. L’Associazione Onlus “Verso il Kurdistan” ha avviato il progetto “Berfin” (Bucaneve) rivolto solo alle ragazze in quanto vivono situazioni più disagiate e difficili rispetto ai loro coetanei maschi. La donna è sempre considerata solo utile alla famiglia per i lavori domestici e per procreare, non ha bisogno quindi di studiare o intraprendere professioni particolari. Le borse di studio per Yuksekova sono dieci, mentre quelle per Van dodici.


Yuksekova è la città con più alto numero di martiri (700), così dice il Presidente del partito BDP, mentre le famiglie che fanno parte dell’associazione sono poco più di 400 e questo perché molte famiglie hanno più martiri. Lo scopo è quello di sostenere, unire ed aiutare le famiglie più bisognose, spiegando perché i loro figli sono diventati martiri e perché questa lotta che dura da 35anni è importante per il futuro. 

  

A quest’incontro sono presenti anche quattro ragazze destinatarie delle borse di studio. Tre ragazze frequentano la seconda classe del liceo ed il loro sogno è diventare architetto ed avvocato. L’ultima invece è la più piccola, frequenta la 6°classe delle elementari e vuole fare l’insegnante. Tutte hanno o il padre, zii, o sorelle morti in montagna. Alle scuole elementari, medie e superiori hanno normalmente insegnanti curdi (non possono, però parlare la lingua curda), i problemi discriminatori iniziano all’università. Nel momento in cui però ci sono insegnanti turchi cominciano a sorgere alcuni problemi e quando il governo decide di erogare un po’ di soldi alle famiglie più povere s’informa prima di tutto se in quei nuclei familiari ci sono martiri.

 


  

  


Siamo quasi arrivati al termine del nostro viaggio. Ci lasciamo alle spalle la città martire di Yuksekova e raggiungiamo la città di Van tra alte montagne innevate a quota 2200metri, sulle sponde dell’omonimo lago. Attraversiamo velocemente la città che porta ancora i segni del violento terremoto del 23 ottobre scorso, per incontrare la Vice Sindaca, sig.ra Bahar Orhan. La nostra visita purtroppo sarà molto breve: verificare la situazione odierna e consegnare le 12 borse di studio alle ragazze.
Il 22 marzo scorso non avevo ancora vissuto sulla mia pelle la “sensazione” del terremoto che avevo invece provato il 29 maggio a casa mia. Il coinvolgimento è diverso. Parlare di cose vissute o viste avvicina di più le persone. Sentire prima il boato che accompagna il terremoto, poi quasi in contemporanea, un forte movimento sussultorio od ondulatorio che non finisce mai, è veramente qualcosa di sconvolgente. La paura ti avvolge, ti senti completamente inerme, impotente, non puoi difenderti da niente e da nessuno e speri solo di avere fortuna e di salvarti. E’ questa sensazione di paura che ti rimane dentro e che non puoi dimenticare.     Il terremoto di Van non è certo paragonabile con quello avvenuto un mese fa in Emilia Romagna, ma avendo provato la stessa situazione, la posso ampliare ad un massimo livello per entrare così nell’animo di quelle persone, tenendo però anche in considerazione la situazione politica e geografica in cui vivono. In Turchia si registrano in media 20mila scosse l’anno. Il 66% del suo territorio si trova in aree sismiche di primo e di secondo grado. Il 70% della popolazione abita in queste zone dove sono anche situati il 75% dei maggiori stabilimenti industriali del paese. L’ultima regolamentazione sulle norme antisismiche è del 1998, ma purtroppo normalmente non rispettata. Il partito AKP da quando è arrivato al potere nel 2002, come del resto anche i suoi predecessori, ha continuato a chiudere un occhio sulla costruzione d’abitazioni abusive sui terreni statali. Erdogan ha affermato, dopo la devastazione causata da questo terremoto, che saranno abbattute “tutte le abitazioni abusive” del paese anche “a costo di perdere voti alle elezioni”. Il Vice Preside della facoltà d’ingegneria edile dell’Università tecnica d’Istanbul, Alper Ilki spiega che esistono diversi livelli d’abusivismo edilizio: quelli che non hanno il rogito, che comprendono il 70% dei palazzi d’Istanbul e che, quindi, non hanno un certificato d’abitabilità; quelli che non hanno il permesso per costruire e sono privi di un progetto, quindi completamente abusivo con un rischio più alto di cedimento.  Per Ilki non c’è dubbio che “in tutta la Turchia ci siano edifici fragili come a Van. E’ sicuro che il verificarsi di un altro sisma di questo tipo, in qualsiasi località, il risultato sarebbe simile”. Il terremoto di Van ha dimostrato che non solo le case fuori regola dei privati sono a rischio di crollo, ma anche le strutture statali. A Van sono rimasti in piedi solo due edifici pubblici: la prefettura ed il centro di gestione di crisi. Tutti gli altri hanno ceduto. Il Presidente del Consiglio d’amministrazione della Camera degli ingegneri edili, Serdar Harp afferma che le strutture statali sono esenti da un controllo esterno e gli ingegneri che approvano l’applicazione del progetto non hanno nemmeno l’obbligo di far parte dell’Ordine degli ingegneri edili che ha una funzione di vigilare sulla categoria. Dopo il sisma di Van, sono stati presentati vari rapporti nei quali la ragione principale dei cedimenti sembra dovuta all’utilizzo del materiale scadente: dalla sabbia non lavata adeguatamente, alla quantità di cemento armato, all’insufficienza delle staffe nei pilastri ed al mancato controllo finale da parte degli ingegneri responsabili del progetto.      

  


L’aspetto di Van è quello di una città in costruzione: tende, lavori in corso e strade completamente distrutte. In questo completo disastro c’è però una nota curiosa: il simbolo nazionale, il “Turco Van”, ossia il gatto di Van. In mezzo ad una piazza, infatti, notiamo un’imponente statua alta 4 metri che lo raffigura. Van è la patria d’origine di una particolare razza di gatti abilissimi nuotatori. Il Turco Van è un gatto di stazza grande: il maschio può arrivare a pesare 8 o 9 kg e la struttura del corpo è lunga e robusta. La pelliccia è priva di sottopelo, setosa e soffice. La caratteristica principale è la colorazione che prevede un mantello bianco calce, con coda colorata e macchie di colore sulla testa. Ha occhi grandi e ovali, molto espressivi ed il loro colore può essere azzurro, ambra chiara o impari (uno azzurro e un’ambra chiara), mentre la palpebra deve sempre essere rosa. Il simbolo nazionale però è a rischio d’estinzione in quanto solo a Van sono rimasti gli unici esemplari ufficialmente riconosciuti al mondo. L’allevamento del Turco Van, che si trova in un edificio a due piani affiancato da due gabbie con tettoia, non ha subito danni per i due terremoti del 23 ottobre e 10 novembre scorsi. Fetih Gulyuz, direttore del Centro di ricerca sul gatto di Van dell'Università del Centenario, ateneo che si trova nella città affacciata sull'omonimo e azzurrissimo lago nell'est della Turchia, quattro ore dopo il primo terremoto ha riferito che: "I gatti si comportavano come il solito, normalmente” ed ha aggiunto che non sono mai stati abbandonati. La Turchia è così orgogliosa di questo gatto che pure Ankara ha scelto i suoi occhi bicolori per un recente logo turistico.

La vice sindaca Bahar Orhan ci riceve in un prefabbricato che funziona come Municipio, dal momento che la sede non esiste più. Il nostro interesse è capire, come la città di Van, vive dopo il terremoto dello scorso anno. Molte famiglie sono state mandate nelle città vicine, a Sirnak, Diyarbakir, Batman, ma dopo la ricostruzione, vogliono che ritornino nelle loro case. Dopo il terremoto, la città di Van è stata divisa in cinque parti dove sono state allestite delle tende di coordinamento per le donne, i bambini, i volontari provenienti da altre città ed un presidio sanitario. La terra però continua a tremare, infatti anche il giorno prima del nostro arrivo c’è stata una scossa di magnitudo 4.2 Richter. Sono arrivati aiuti da tutte le città della Turchia, ed è stato anche avviato un centro di terapia psicologica per traumi subiti dal terremoto. La gente però ha paura di tornare alle proprie abitazioni, anche se sono agibili ed ad un solo piano.  Reazione del tutto normale in situazioni come questa. Un momento simile lo stiamo vivendo anche noi ora qui in Italia nella Regione dell’Emilia Romagna a mesi di distanza dal terremoto, anche perché le scosse, anche se di bassa entità, continuano e la paura spesso non è controllabile. Oltre alle tende sono stati installati anche 35 container, ma il governo ha dato la priorità al loro uso prima di tutto ai poliziotti, ai militari e per ultimo alla gente comune. La vice sindaca ci fa presente che il budget del comune è in estrema difficoltà, ha pochissime risorse e non riesce a far fronte alle necessità della sua gente, come per esempio, costruire un luogo da adibire ad una lavanderia collettiva, nonostante abbia ricevuto i macchinari, ma manca un posto dove collocarli e metterli in funzione. Il governo centrale, infatti, come regola, invia gli aiuti alla Prefettura non al Comune interessato e, quando deve effettuare dei versamenti ai Comuni, si trattiene il 40% come acconto sui debiti che ogni municipalità ha nei confronti del Governo. Van, vista la situazione d’emergenza, ha provato a chiedere la sospensione di questa prassi, ma purtroppo la risposta è stata negativa. Per quanto riguarda, per esempio, l’uso dei container, spetta alla municipalità farsi carico dei vari allacciamenti per i necessari servizi.  La popolazione non è in grado di pagare l’acqua o la luce, e di conseguenza, il Comune non può pagare quest’erogazione ed ha provato a chiedere alla Prefettura un rinvio del pagamento, fino alla fine dell’emergenza. La risposta è stata negativa. I quartieri dove sono stati collocati i container, sono stati militarizzati dalle forze di sicurezza: nessuna organizzazione, o Ong o la stampa può entrare e parlare liberamente con la gente. Per entrare ed uscire serve un’autorizzazione. La Vice sindaca ha inoltre chiesto alla Prefettura di poter ricostruire le strade rese impraticabili dal terremoto e dal gelo, ma anche questa volta la risposta è stata un No. A Van molti palazzi non esistono più: non c’è il Municipio, non c’è la stazione dei vigili del fuoco, non c’è l’azienda dei trasporti e delle 76 scuole esistenti, 35 sono andate distrutte. I corsi scolastici continuano all’interno dei container. La municipalità è in grado d’intervenire solo sulle emergenze. Per quanto riguarda le strutture ospedaliere, ne funziona una sola, è stata negata l’autorizzazione d’impiantare un ospedale da campo proposta da una delegazione iraniana, preferendo il trasferimento dei feriti in strutture in diverse città turche. La gente colpita dal terremoto stanca ed arrabbiata per la mancanza d’aiuti ha organizzato anche una manifestazione di protesta davanti alla prefettura ma la polizia ha reagito con lacrimogeni e violenza. Il governo ha praticato una terribile censura sulla distruzione della regione di Van e riesce a bloccare tutti gli aiuti provenienti dall’estero. La Prefettura sostiene che qui rappresenta il governo e quindi,  ha il diritto di prelevare tutti i soldi inviati per poi decidere cosa farne. L’alternativa resta dunque solo quella di consegnare gli aiuti direttamente nelle mani della popolazione colpita. La nostra associazione è riuscita a portare a Van, oltre ad aiuti materiali, anche una somma in denaro che potrà servire alla costruzione di un forno collettivo, evitando così alle donne di doversi recare nei loro vecchi quartieri per fare il pane ed alla struttura necessaria per la lavanderia. 

 

 


Al termine di questa visita incontriamo anche due bambine dell’associazione dei detenuti politici di Van, Tuyad Der e consegniamo al Presidente dell’associazione il corrispettivo delle 12 borse di studio. La breve visita è finita.    Ritorniamo a Diyarbakir.

 

 


Racconto della delegazione italiana in visita nella città di Van dopo il terremoto: 

http://azadiya.blogspot.it/2011/12/2-report-delegazione-italiana-in.html

 
Racconto di Giacomo Cuscunà da Van:  http://www.canedariporto.it/Cane_da_Riporto/SVE/Voci/2012/5/18_LAquila_turca__Van.html

Siamo ritornati a Diyarbakir per l’ultimo giorno. Una breve visita alla città e gli ultimi due incontri. Il primo, con i componenti di Tuhad Fed, Federazione delle associazioni impegnate nella difesa e nell’assistenza dei detenuti politici e delle loro famiglie. L’associazione Onlus “Verso il Kurdistan” dal 1999 ha attivato il progetto “Oltre le sbarre” che permette il sostegno a trenta famiglie che, dopo l’arresto del capofamiglia o dei figli, si trovano in condizioni economiche particolarmente difficili.


All’appuntamento sono presenti una dirigente di Tuhad Fed, Latice Makas ed un uomo, ex detenuto politico, che ha raccontato la sua storia. Questa persona, per motivi di sicurezza, ha chiesto di rimanere anonimo. Oggi ha 49 anni e ne ha trascorsi 30 in carcere. E’ stato incarcerato, per la prima volta, con l’accusa di appartenere ad un’organizzazione “terroristica” a 17 anni, per un periodo di 15 anni. Dopo solo due anni è stato nuovamente condannato con le stesse motivazioni ad altri 15 anni. Il suo compito oggi è quello di far sapere al mondo la verità sulle carceri turche. Dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980, la tortura divenne prassi quotidiana in tutte le carceri del paese. Nella “prigione 5” di Diyarbakir c’era una tortura molto pesante ed in quel periodo quattro detenuti famosi curdi si diedero fuoco per protestare contro le inumane condizioni carcerarie. Raccontare, parlare delle torture vissute è molto difficile, spesso si preferisce restare in silenzio, è troppo grande il dolore provato, sembra impossibile essere sopravissuti in quell’inferno. (Forum della Mesopotamia)


Lo Stato turco, come membro della Nato e fedele alleato degli Stati Uniti d’America, nella guerra al terrorismo doveva adeguarsi a Stato moderno democratico, anche nell’organizzazione delle carceri, introducendo, per esempio, l’isolamento. L’esempio lo poteva trovare osservando il sistema carcerario americano e spagnolo, non ignorando neppure la vecchia ma sempre moderna e praticata tortura, ottenendo così anche il rispetto del governo americano che regalò ad Ankara armi ed elicotteri di propria fabbricazione. Nel 1996 fu introdotta la prima cella di tipo “F”. Quest’innovazione aveva l’obiettivo d’isolare i prigionieri politici da quelli comuni, cosa impensabile con il vecchio sistema dato, l’altissimo numero di prigionieri nelle celle comuni. I detenuti, contrari a questo nuovo ordine, protestarono con uno sciopero della fame che coinvolse 69 persone. Morirono in 12, ma riuscirono a far chiudere il carcere appena sorto. Le rivolte furono numerose e tutte violentemente represse dai secondini, dalle forze di sicurezza rapida, dalle squadre anti-sommossa, con armi da fuoco e liquidi infiammabili. I casi più eclatanti furono le ribellioni del ’95– ’96 e ’99 che causarono la vita a molti detenuti ed il ferimento di centinaia di altri prigionieri che furono torturati, stuprati, mutilati, resi irriconoscibili. Per le lotte contro un carcere fuori d’ogni regola, lo strumento utilizzato dai detenuti in Turchia è lo sciopero della fame.


Il Signor X continua il racconto molto sofferto della sua vita, sente la necessità di farci partecipe di tutte le brutalità subite con la speranza che tutta questa violenza possa un giorno terminare. In queste carceri – afferma – lo scopo è arrivare all’isolamento totale della persona fino al suo completo annullamento. Oggi in Turchia ci sono 12 carceri speciali (il carcere di Van è stato evacuato a causa del terremoto). I prigionieri vivono in totale isolamento, senza nessuna possibilità di comunicazione neppure tra loro e sono quindi esposti a tutte le più distruttive pratiche esistenti di tortura. I detenuti quando arrivano qua, per prima cosa sono obbligati a spogliarsi completamente, nonostante abbiano già superato capillari controlli. Il mettere a nudo i prigionieri, era la tattica usata dai nazisti nei campi di concentramento. Rappresenta il modo più diretto per far sentire il detenuto che, da quel momento in poi, non sarà più considerato un essere umano, ma solo una “cosa” senza nessun diritto e nessuna dignità.  I detenuti spesso oppongono resistenza, rifiutano di spogliarsi, incuranti della reazione violenta dei poliziotti che, per prima cosa, li picchiano furiosamente con i bastoni, poi li mettono in totale isolamento in una cella singola per tre settimane. In queste carceri non possono esserci né minorenni né donne, ma in realtà i minorenni ci sono perché l’età è stabilita dai giudici e non risulta dalla carta d’identità. In Turchia esiste un ergastolo normale, che significa una pena fino a 36anni, e quello grave che va fino alla morte. Le donne sono maltrattate e violentate spesso durante i trasferimenti nelle carceri o negli ospedali e sono più di mille.
La politica di tipo F è una politica di totale spersonalizzazione. Il detenuto è obbligato a presentare per qualsiasi richiesta una domanda scritta che sarà soddisfatta solo se ha rispettato scrupolosamente tutti gli ordini della direzione carceraria. In carcere sono previste attività sociali, ma i detenuti politici hanno paura perché è sufficiente cantare una canzone ritenuta popolare per ricevere una punizione che può essere il divieto di comunicare con i propri familiari anche per tre mesi. I detenuti politici sono spesso costretti a chiedere ai loro familiari di interrompere le loro visite per non dover sempre subire molteplici ed umilianti perquisizioni da parte delle guardie. La vita d’inverno nelle carceri speciali è molto dura, non c’è riscaldamento e manca l’acqua calda. I medici sono scelti tra i militari che hanno prestato servizio in Kurdistan, sono molto giovani con poca esperienza e, per qualsiasi problema dispensano ai detenuti psicofarmaci. Il signor X, per esempio, in carcere ha avuto problemi di cuore, ma è stato mandato in cura dallo psicologo. La cosa positiva è quella che, in una situazione simile, si è creata una rete importante di solidarietà tra i detenuti politici e quelli comuni. X continua a ripetere che è molto difficile raccontare in modo capillare la vita d’ogni giorno vissuta in carcere perché troppe sono le cose che succedono. Le autorità turche, attraverso questi sistemi, vogliono principalmente separare i detenuti dalla famiglia e, per questo, prima di tutto sono inviati in un carcere che risiede in un’altra zona rispetto alla propria residenza. In questo modo per la famiglia diventa molto difficile e costoso poter continuare le visite ai propri detenuti.
Secondo i dati del Ministero di Giustizia nel 2011 sono morti in carcere per mancanza di cure 364 prigionieri e negli ultimi 10anni sono morti 1752 persone. Oggi ci sono più di 100 detenuti malati di cancro ed altre malattie gravi. Nel 1992 il totale dei detenuti tra politici e comuni era di 52.000, oggi di 126.000, di cui 12.000 politici e tra questi 6.400 appartenenti all’organizzazione del KCK. Gli aderenti al KCK non sono guerriglieri, ma sono sindaci, consiglieri, insegnanti, deputati, professionisti, semplici cittadini, tutti della società civile. Alcuni studenti per aver fatto uno striscione con la richiesta d’istruzione gratuita sono stati condannati a due anni di carcere con l’accusa di terrorismo e di separatismo. (IHD)

  

La nostra conversazione continua esaminando anche l’aspetto legato alla situazione dei 95 giornalisti che si trovano in carcere. La Turchia, in fatto d’arresti della carta stampata, riesce a superare anche la Cina. Le autorità turche, secondo una recente dichiarazione del Ministro degli Interni, in 60anni hanno vietato più di 22.600 libri. Secondo il rapporto dell’IHD, 11.994 persone, nel 2010, hanno subito un processo per “propaganda d’organizzazioni terroristiche” e 6.504 siti Internet, nel 2011, sono stati bloccati peggiorando notevolmente la situazione della libertà d’espressione. Secondo l’agenzia Bianet, sono stati confiscati sette quotidiani per 11 volte, vietati o confiscati tre libri, nove manifesti e due banner, ed un libro è stato oggetto d’indagine. Inoltre, le Autorità hanno ammonito 33 canali televisivi 41 volte e 3 volte una radio. La polizia, sempre secondo l’IHD, nel corso del 2011, ha fatto irruzione in ben sedici sedi dei mass media in Turchia. La Piattaforma per la Libertà dei Giornalisti ha rilasciato il 26 giugno scorso una dichiarazione scritta per annunciare una marcia per chiedere la libertà per più dei 100 esponenti dei media incarcerati in Turchia. La marcia ha avuto luogo il 29 giugno ultimo scorso. La Turchia si è quindi trasformata nella più grande prigione per giornalisti, così come per esponenti dei sindacati, avvocati, rappresentanti eletti, studenti, donne e bambini. Il silenzio dei governi occidentali ha certamente aiutato quest’operazione.

Lettera di un giornalista arrestato: http://kurdistanturco.wordpress.com/2012/06/17/lettera-da-un-giornalista-arrestato/

Parlare d’ingiustizia in Turchia si è rivelato un lavoro immenso, poche pagine scritte sono certamente insufficienti, ma sono abbastanza da far capire, a chi ritiene la Turchia un paese democratico, a chi la vorrebbe in Europa ed a chi la crede difensore dei Diritti del popolo palestinese o meglio, come dice Erdogan, di tutti i popoli oppressi, il vero volto di questo paese, osservando cosa sta facendo al popolo curdo ed ai difensori dei Diritti Umani curdi. La Turchia è un paese pericoloso anche per i lavoratori, nonostante la situazione economica vantata dal governo ed osannata dall’Occidente, perché si continua a morire per lavorare: 238 morti dall’inizio del 2012, e in nove anni, quasi 10.300. Secondo l’Ufficio Internazionale del Lavoro, ogni anno muoiono 2,2milioni di lavoratori in tutto il mondo, per infortuni sul lavoro o per malattie professionali, quasi 5000 persone il giorno. La Turchia si trova al primo posto nella lista tra i paesi europei ed è classificata terza al mondo.  Il 9 marzo, undici lavoratori sono morti in un incendio che ha distrutto la tenda che utilizzavano per trascorrere la notte, presso la sede di un importante centro commerciale di Esenyurt, ad Istanbul. Il 27 aprile, il deputato del BDP Ertugrul Kurkcu, ha chiesto la creazione di una commissione parlamentare d'inchiesta per determinare le cause della recrudescenza di tali incidenti: "Bassi salari, tempi di lavoro estenuanti che si spingono fino a 14 ore, la mancanza di sicurezza sociale, l’assenza di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si abbattono su più di 10 milioni di persone", ha detto l’Onorevole....I settori più colpiti sono l'edilizia, l’energia, l’industria metallurgica e il settore dei servizi……Il dipartimento non sta facendo il suo dovere, evitando di proteggere la vita dei lavoratori, al contrario, sta cercando di indebolire e sciogliere i sindacati. La vita di un uomo non può ridursi a numeri o statistiche, nulla è più importante della vita umana”.  Attualmente, quaranta sindacalisti sono “ospiti” nelle prigioni turche. Il Ministro della Giustizia, Ergin ha pubblicato questi dati: al 31 dicembre 2000 sono stati registrati 49.512 detenuti nelle carceri turche, nell’aprile 2012 il numero è salito a 132.060 (95.652 detenuti e 36.408 detenute). A questo punto, la famosa frase di Voltaire “ Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione” è la risposta più semplice alla domanda: la Turchia è un paese democratico e libero?

  

L’ultimo argomento che affrontiamo con il signor X è lo sciopero della fame in corso, all’interno e all’esterno delle carceri in Turchia e, come solidarietà, a Strasburgo. Lo sciopero della fame in carcere in Turchia è uno strumento ricorrente e molto utilizzato per avanzare legittime richieste, anche se non ottiene quasi mai dei risultati positivi. X conferma che ormai siamo arrivati al 123esimo giorno. Questa è la risposta alla totale indifferenza del governo turco nei confronti degli scioperi della fame a tempo determinato, avvenuti tra il 1° dicembre 2011 ed il 15 febbraio 2012 da circa 8.000 prigionieri politici curdi.  Il movimento di protesta si è poi rafforzato, trasformandosi in uno sciopero della fame ad oltranza.  Dal 15 febbraio, anniversario della cospirazione internazionale che ha portato alla cattura di Abdullah Ocalan, più di 400 prigionieri politici – continua X – hanno aderito allo sciopero.  Fuori delle mura delle prigioni, dal 20 febbraio in poi circa 20 parlamentari del BDP si sono uniti ai prigionieri, così come anche numerosi sindacalisti, sindaci, membri della società civile e familiari dei detenuti. Centinaia di persone in tutto il paese,  in particolare ad Hakkari, Diyarbakir,  Batman,  Istanbul,  Van e Sirnak,  hanno deciso di aderire allo sciopero. Decine di curdi provenienti da tutta Europa sono in sciopero della fame ad oltranza dal 1° marzo a Strasburgo per chiedere il rilascio di Abdullah Öcalan e la fine delle strategie d’annientamento che il governo dell'AKP sta attuando ai danni della popolazione curda. Gli 8000 militanti del PKK hanno annunciato che non abbandoneranno lo sciopero se il Governo non risponderà positivamente alle loro richieste. Il Governo turco ed Abdullah Ocalan sono gli attori principali e gli elementi chiave per una soluzione politica della questione curda in Turchia. Nel corso degli ultimi anni, ci sono state delle fasi di negoziazione, ma dal luglio 2011 lo stato turco ha ripreso una politica di totale isolamento nell'isola prigione d’Imrali, in cui è rinchiuso dal 1999 Ocalan ed altri 5 detenuti.  A seguito di tali provvedimenti, tutte le visite ad Ocalan, incluse quelle dei suoi avvocati, sono state negate. Le possibilità di comunicazione verso l’esterno sono estremamente limitate. I suoi avvocati difensori sono sistematicamente sottoposti a processi penali. Fino a questo momento, le Autorità Turche hanno scelto di affrontare la questione Curda, tramite l’uso della violenza e dell’annientamento, rifiutando il dialogo e la negoziazione. Negli ultimi mesi  le operazioni militari transfrontaliere hanno provocato la morte di ben 41 civili e l’Esercito Turco ha utilizzato armi chimiche (in violazione della Convenzione di Parigi), contro le forze della guerriglia Curda.  Le potenze occidentali, che non esitano ad intervenire in Medio Oriente in nome dei diritti umani e della democrazia, improvvisamente diventano cieche, sorde e mute quando si tratta curdi. E lo stesso vale per le Organizzazioni Internazionali. La diversità con la quale i governi europei hanno reagito di fronte alla notizia dell’inizio dello sciopero della fame il 20 aprile dell’ex primo ministro ucraino Yulia Tymoshenko, è un esempio concreto del detto “due pesi e due misure”.
Il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle ha minacciato di bloccare la ratifica dell'accordo d’associazione UE / Ucraina, il governo austriaco, in un'intervista del 3 maggio, ha deciso di boicottare le partite del campionato europeo di calcio 2012 che si terrà in Ucraina. Per la Tymoshenko si sono tutti mobilitati, dai governi alla stampa e mass media, per i 15 curdi a Strasburbo, che hanno portato avanti lo sciopero per 52 giorni, per i 2000 prigionieri politici curdi che hanno partecipato allo sciopero lanciato dai 400 detenuti dentro le carceri turche e per i 1200 prigionieri palestinesi che hanno iniziato uno sciopero della fame illimitato il 17 aprile per ottenere diritti fondamentali, niente, nessuna reazione, silenzio totale.
L’Onorevole Selma Irma, deputata del BDP, che ha iniziato uno sciopero della fame ad oltranza in carcere, ha spiegato la sua tragica e coraggiosa decisione con queste parole: "per coloro che hanno menti e cuori aperti le sbarre della prigione o la limitazione nello spazio non significano niente. D’altra parte, coloro che si pongono al servizio della libertà e della democrazia, prima o poi finiscono sempre in prigione. La questione curda è giunta ad un punto in cui solo un processo democratico basato sul dialogo e sulla negoziazione può portare alla pace. Siamo consapevoli che questo sarà un processo lungo e delicato. Da trent’anni a questa parte il nostro popolo sta chiedendo una soluzione democratica. Rispondere a tale domanda è insieme facile e difficile. Ogni processo di pace ha bisogno dei suoi attori e la persona che ha assunto il ruolo di leader del nostro popolo è l’onorevole signor Öcalan. In quanto rappresentanti eletti dal nostro popolo, siamo pronti a svolgere il nostro ruolo in questo processo, mettendo le nostre vite a servizio della causa. Sono preoccupata quanto voi per l’interruzione del processo di pace e dei negoziati con il signor Öcalan. Sono allarmata al pensiero che il genocidio politico contro i curdi messo in atto tramite gli arresti di massa, le esecuzioni, i massacri e le pressioni psicologiche, causerà attriti che porteranno a nuovi scontri fra i nostri due popoli”.
L’Europa ha inoltre dichiarato che le carceri di tipo F sono compatibili con il sistema carcerario europeo.
La presidente di Tuhad ha poi ricordato che gli avvocati dell’associazione sono in carcere e che tre loro dirigenti sono stati messi in libertà da tre giorni, ma il loro processo è ancora in corso. Ci presenta anche una donna che ha 7 familiari in carcere, di cui 5 hanno subito una condanna a 36 anni ciascuno.
Al termine dell’incontro, la delegazione italiana consegna al Presidente di Tuhad–Der, (associazione dei familiari dei detenuti politici) Latice Makas il denaro corrispondente a 30 affidi a distanza, mentre ad un responsabile di Sthay Der di Siirt (associazione dei detenuti politici e dei martiri) il corrispondente di 14 affidi. Adottare a distanza significa dare un aiuto concreto alle vittime della repressione.

 

  


L’ultimo incontro è con le “Madri per la Pace”, associazione di donne curde che organizzano conferenze stampa, sit-in, manifestazioni per diffondere il loro ideale: mettere fine a questa guerra. Un fazzoletto bianco posto sulla testa rappresenta il simbolo del loro lutto per un morto avuto in famiglia a causa del conflitto in essere. Nel 1996 nasceva l’associazione “Madri di Piazza Galatasaray” le parenti dei "kayiplar" (desaparecidos): ogni sabato mattina si raccoglievano in questa piazza ad Istanbul per chiedere chiarezza sulla sorte delle migliaia di detenuti politici e di militari uccisi negli scontri. Dopo l’arresto di Ocalan nel 1999, decidono d’impegnarsi in prima persona. Nasce così nel 1999, da un gruppo di donne curde e turche che avevano perso i loro figli d’ambo le parti in guerra, l’associazione legalmente costituita in Turchia, chiamata “Iniziativa delle Madri della Pace”, erede dell’esperienza di Piazza Galatasaray.  Un movimento in linea, inserito anche nell’ambito della proposta di pace avanzata e praticata, unilateralmente dal movimento kurdo negli ultimi due anni. Le "Madri della Pace" hanno una sede centrale ad Istanbul e sedi locali nelle città turche di Adana e Izmir e nelle città kurde di Diyarbakir e Van e stampano una rivista con una notevole attività pubblicistica. La base del loro movimento è il rifiuto della violenza e della rassegnazione, impegnandosi quotidianamente per la pace, la democrazia e i diritti umani. In ogni città le “madri” hanno acquisito un vasto protagonismo anche con forme autonome d’organizzazione in seno al partito democratico filokurdo DEHAP ed il loro punto di riferimento è l’associazione per i diritti umani IHD. Sostenere quindi queste donne tramite l’associazione IHD, mediante l’affidamento a distanza, significa dare un aiuto concreto alle vittime di questa repressione. La delegazione al termine di quest’incontro consegna il denaro corrispondente a 12 affidi con la speranza che per il prossimo anno questo numero sia aumentato.
 

Parliamo con due donne, la prima Raife Ozbey ci riferisce che sua figlia si trova in montagna tra i guerriglieri, ha 35 anni ed è laureata. Per nove anni ha lavorato in una fabbrica di tabacco ed è stata in carcere due anni. Quando è arrivata la sentenza della sua condanna a molti anni, ha scelto la montagna. La sua famiglia viveva a Mus, avevano casa e giardini ma l’esercito turco bruciò tutto e per questo furono costretti a scappare a Silvan. I tormenti non erano finiti: i figli erano umiliati a scuola, spesso l’esercito faceva incursioni e portavano in caserma o i figli o il marito e sparavano contro la casa. Altro trasferimento quindi a Adana, dove sono rimasti per due anni, ma anche qui la situazione non cambiava. Un’altra figlia che frequentava un corso da infermiera, subì un’aggressione con il tentativo d’impedirle di continuare gli studi e fu medicata con 25 punti di sutura in testa.  Altro trasferimento a Antalya dove rimasero per 4 anni, ma sempre nella stessa situazione d’oppressione. Il marito ed il figlio spesso erano arrestati e, per questo motivo si stabilirono infine a Diyarbakir. In questa guerra Raife ha perso 7 familiari.

  
 
La seconda donna, Adalet Yasayul è un ospite dell’associazione, è stata in carcere molti anni fa ed ha subito torture per 45 giorni. Ora suo figlio e sua figlia si trovano in montagna. La sua famiglia è stata esiliata prima ad Istanbul e poi a Mersin. Si trova ora qui a Diyarbakir, scappata con il marito dal villaggio in cui viveva per i soprusi da parte dei “guardiani”, ma anche perché si deve sottoporre ad una terapia fisica riabilitativa e psicologica per i postumi lasciati dalle torture subite. Le torture, infatti, le hanno causato lo strappo dei muscoli delle spalle e delle ginocchia e le hanno lasciato traumi psichici per l’atroce esperienza vissuta. Continua il racconto la figlia. Dopo il colpo di stato del ‘80, la famiglia di Adalet è stata minacciata e ha dovuto lasciare la sua casa. “Nel 1992 e 1993 – racconta la figlia – i poliziotti hanno assaltato la nostra casa, i miei fratelli erano piccoli, 4/5 anni, hanno arrestato mia madre e l’hanno torturata per 45 giorni continuativi.  All’inizio è stata sottoposta ad una tortura psicologia facendole credere di aver ucciso un suo bambino, ma poi sono passati alle torture fisiche: è stata ripetutamente e selvaggiamente picchiata ed infine stuprata con un bastone. Era una maschera di sangue. Si è salvata per le cure delle sue compagne di cella”.

In quel periodo la famiglia era dispersa. Alla sua liberazione si trasferirono ad Istanbul dove, oltre ad affrontare i traumi della violenza subita, dovevano anche far fronte alla miseria e alienazione della vita in una grande città, alla quale non erano abituati essendo solo dei contadini. Sono rimasti ad Istanbul 10 anni. Anche qui le arrestarono due figli perché curdi. Non sentendosi sicuri sono tornati al loro villaggio, ma la loro casa non c’era più, era distrutta. Erano rimasti soli e per questo soffrivano molto. La figlia lavora qui con le “Madri della Pace” e, per questo, Adalet ed il marito si trovano a Diyarbakir.

Qui finisce il nostro viaggio. E’ stata un’esperienza molto forte, toccante che certamente non potrà esaurirsi perché anche noi, al fianco del popolo Curdo, continueremo a denunciare, a lottare, a sperare per una soluzione pacifica di quest’eterno conflitto.

Per dovere di cronaca, il 9 marzo scorso le Madri della Pace, provenienti dalle province d’Istanbul, Diyarbakır, Smirne, Batman, Siirt e Yüksekova / Hakkari, si sono recate nel villaggio di Roboski, dove il 28 dicembre 2011, l’aviazione Turca ha ucciso 34 innocenti. La prima tappa della delegazione è stata dedicata ad una visita presso le tombe delle 34 vittime, su cui hanno deposto simbolicamente dei garofani. La portavoce della delegazione d’IzmirBehiye Yalcin, ha duramente criticato la recente visita della moglie del Primo Ministro al villaggio. Yalcin a tal proposito ha fatto la seguente dichiarazione: “La Signora Emine Erdogan, in occasione della visita alle madri delle 34 vittime, avrebbe dovuto fornire l’elenco dei colpevoli di tale massacro. Oggi ci troviamo nel villaggio dove lo Stato ha ucciso 34 innocenti tramite l’uso d’armi chimiche. Noi, condanniamo questa strage e crediamo che tutte le madri curde dovrebbero unire le forze allo scopo di porre fine a questo spargimento di sangue. Non ci daremo pace finché non cesseranno queste esecuzioni”. La portavoce delle Madri della Pace di Diyarbakır, Havva Kiran, ha dato sfogo alla sua frustrazione in merito al silenzio omertoso adottato dall’opinione pubblica internazionale sui fatti accaduti a Roboski: "Chiediamo la democrazia per il mondo intero, non solo per i curdi. Tuttavia, a tali richieste, lo Stato ha risposto con il massacro dei nostri figli. Mi chiedo come avrebbe reagito il Primo Ministro se i corpi dei suoi figli fossero stati ridotti a brandelli dalle armi chimiche, senza la possibilità di distinguere le parti dei corpi dei figli da quelle degli asini. Non abbiamo cresciuto i nostri figli per vederli uccisi. Se le autorità intendono collocare i loro militari e le stazioni di polizia nei nostri villaggi,  dovrebbero almeno contribuire ad un processo di pace ma se questo non avverrà, dovranno lasciare il nostro territorio ". La Signora Kiran ha sottolineato che è arrivato il momento di dire basta: "Se non sarà garantita una soluzione pacifica entro la primavera, il fuoco annienterà tutto”.

I soldati turchi hanno attaccato il 28 giugno scorso la “Veglia di Giustizia per Roboski”. Il motto del raduno e della veglia affermava: “Non abbiamo dimenticato Roboski e non lasceremo che avvenga”. I soldati, come risposta, hanno usato getti d´acqua a pressione per disperdere la folla che stava raggiungendo la marcia. Alla marcia, guidata dal Congresso della Società Democratica (DTK), hanno aderito i rappresentanti di numerosi partiti politici e organizzazioni non-governative.

I dimostranti, che chiedono giustizia a fronte dell´assenza di qualsiasi processo giudiziario contro gli autori della strage, sono stati sottoposti a pressioni da parte delle forze di sicurezza del regime AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo). La marcia, partita dal villaggio, si è conclusa nell’area della tragedia dove 34 civili, inclusi 19 minorenni, sono morti a causa del bombardamento d’aerei da guerra turchi il 28 dicembre 2011.

30/06/2012
Fonti: ANF News Agence, IHD, Firat news, Secondo Protocollo, Nuce Tv, ActuKurde, Sguardo sul Medioriente,Azadiya.blog                               


Tunisia 14 gennaio 2012
UN ANNO DOPO LA RIVOLUZIONE
Viaggio in un paese libero

di Mirca Garuti e Flavio Novara


Il 17 dicembre 2010 inizia la rivolta del popolo tunisino contro il suo dittatore, una sommossa popolare conclusasi il 14 gennaio 2011 con la cacciata del vecchio presidente Zine el-Abidine Ben Ali dal palazzo del potere.
L'effetto scatenante di una situazione già da tempo insostenibile, la morte di Mohamed Bouaziz. Un giovane laureato che per vivere faceva l'ambulante abusivo a Sidi Bouzid e che per protestare contro la polizia comunale che gli aveva sequestrato la merce, moriva dandosi fuoco nella piazza principale del suo paese.
Una serie di manifestazioni di piazza del tutto spontanee scuotono molte città  del centro sud della Tunisia. La paura che, fino a questo momento,  aveva immobilizzato il popolo, ha trovato la forza e l'energia di trasformarsi, dissolvendosi in un onda  travolgente contro la frustrazione per la disoccupazione, la corruzione dei poteri, l'indifferenza delle autorità  e per la mancanza di libertà d'espressione e di stampa. La reazione della polizia è molto dura. L'8 ed il 9 gennaio rappresentano la fase più nera: 25 morti, ma la forte repressione non ferma i dimostranti, anzi la protesta si amplifica e si diffonde nelle altre città  arrivando fino a Tunisi.
“Dégage!” (vattene!) urla la gente dal sud al nord della Tunisia.

La maggior parte sono giovani che chiedono democrazia e libertà. Gli stessi, per lo più laureati senza uno sbocco per il futuro e condannati già  ad una sicura immigrazione, che hanno deciso, attraverso Facebook e la rete dei blogger, di dare nuova speranza a tutti i popoli arabi oppressi.
Dégage  la parola d'ordine della rivolta: dall'Egitto, ancora non conclusa e dai continui scontri e martiri, all'Algeria, al Marocco, alla Libia ed alla Siria.
Tutte diverse tra loro e tutte non spurie dall'ingerenza straniera, sia essa islamica, come Arabia Saudita e Qatar o laico-judaico-cristiana come Francia, Regno Unito, Usa e Israele.

Dalla conclusione dei movimenti di quei giorni, poco si è saputo e il silenzio mediatico ha impedito di comprendere senza strumentalizzazioni cos'è stata la rivolta tunisina di quei giorni e cos'è oggi la nuova Tunisia liberata. A metà luglio 2011 a Tunisi c'è stata infatti una nuova ondata di manifestazioni, fermata in modo violento dalla polizia. Qualcuno ancora chiede perché continuano a scendere in piazza dal momento che la dittatura è  finita. La libertà senza una vera giustizia sociale non può essere considerata una vera libertà .

A che punto è quindi ora, il processo di democratizzazione e come si sta evolvendo la questione della laicità dello stato? E la questione immigrazione, come è stata risolta dal governo italiano? Quanta responsabilità ricade sulle spalle dell’Italia?
Per questo ancora una volta, la redazione di Alkemia ha deciso di provare a dare una testimonianza diretta di ciò che sta avvenendo in quel paese del dopo elezioni, per la prima volta democratiche, e che ha visto uscire trionfante il partito En-Nahdha di ispirazione islamica.
Un viaggio non solo tra i partiti, movimenti politici e di opinione per sentire i loro progetti e programmi, ma sopratutto con il popolo della capitale Tunisi, o di Regueb, nel cuore contadino del paese. Unica voce mancante il Sindacato, impegnato in un importante congresso, che con la tattica e sciopero generale come sviluppo e continuità  del movimento, ha consentito e contribuito a dare corpo e azione ad una mobilitazione spontanea e senza un vero progetto politico.
 

 

 

 TUNISIA UN PAESE IN MOVIMENTO di Mirca Garuti

TUNISIA: I GIOVANI ASPETTANO ANCORA di Maurizio Musolino

LA TUNISIA UN ANNO DOPO LA RIVOLTA di Gustavo Pasquali

A CHE PUNTO SONO LE RIVOLUZIONI  di Gilbert Achcar 

IL RACCONTO DI QUEI GIORNI

di Fabio Merone

(http://www.facebook.com/itinerari?sk=wall&filter=2)

 

 


IL PARTITO DI MAGGIORANZA ISLAMICO EN-NAHDHA


La differenza che subito si percepisce nell'incontro con i rappresentanti del partito di maggioranza islamico  En-Nahdha rispetto a quelli della sinistra, delle donne democratiche e del popolo tunisino è nel luogo dell'incontro stesso. Non è una cosa irrilevante avere a disposizione un intero edificio di otto piani, nuovo e moderno, con  uno staff di persone adibite all'organizzazione  ed al controllo. E' una dimostrazione di forza e di potere.


Le altre forze, divise e frammentate, hanno accolto la nostra visita in appartamenti in edifici o addirittura presso uno studio professionale messo a nostra disposizione per questo speciale evento.

L'incontro è stato molto interessante e pieno di promesse verso un'evoluzione del potere islamico, attraverso la costruzione di uno “stato di diritto”. Il partito En-Nahdha esite da 40 anni ma è sempre stato  in clandestinità, fortemente represso sotto la dittatura di Ben Ali.

Il grosso punto interrogativo per noi occidentali  è sempre quello legato alla laicità  dello stato. Riuscirà il nuovo governo tunisino ad andare verso una democrazia senza obblighi di religione? Riuscirà la nuova Tunisia a non subire le pressioni di altri stati arabi come il Qatar o l’Arabia Saudita?

A questa domanda risponde, Rached Ajmi Lavorimi Resp. Dipartimento Cultura del partito En-Nadhdha alla presenza anche del loro leader spirituale Rached Ghannouchi.




Rached Ghannouchi - Guida Spirituale del Partito di ispirazione islamica

Rached Ajmi Lavorimi - Resp. Dipartimento Cultura  

 

 


LA VOCE DELLA RIVOLTA: I BLOGGER TUNISINI



Il primo impatto con la società tunisina avviene con l'incontro alla “Casa Sicilia” dei vari blogger che hanno avuto la capacità  di far arrivare la voce della rivolta tunisina fuori dai suoi confini.

Per la prima volta sentiamo anche parlare di problemi legati alla droga. Un fenomeno che ha avuto un'impennata improvvisa poco prima dell'inizio della rivoluzione. Solo un caso?  Si tratta di droghe molto economiche e quindi diffuse nei quartieri poveri: 15 dinari per una dose sufficiente per 4 persone.

Una testimonianza diretta degli avvenimenti di quei primi giorni di rivolta e, nello stesso tempo, una accesa discussione su come deve essere portato avanti questo processo di democrazia.

   1° Parte   

2° Parte 

 

 

LA VOCE DELLA RIVOLTA: I CITTADINI DI REGUEB

Il movimento di rivolta ha avuto il suo epicentro iniziale, in una regione (circoscritta tra Sidi Bouzid, Kesserine e Tahla) dove la crisi si è mostrata dai profili netti: alta disoccupazione e sfruttamento. Un sottosviluppo del comprensorio agrario da anni abbandonato dai grandi finanziamenti destinati alla costa turistica. Una società contadina che pur sviluppando un alto livello di formazione delle giovani generazioni, ha subito solo politiche di gestione repressiva della povertà. Quale sviluppo agrario per queste zone? Quali nuove proposte dal popolo per il rilancio dell’occupazione?