SPECIALE ALKEMIA
SULLA DIRETTIVA DEL RIMPATRIO DEGLI
IMMIGRATI
Gli
argomenti:
- IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
DI BOLIVIA EVO MORALES AYMA SCRIVE…
- LO
STERMINIO DEGLI ZINGARI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE
- CINQUANTAMILA
I NEOFASCISTI IN ITALIA
- APPELLO CONTRO IL RAZZISMO
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI
BOLIVIA EVO MORALES AYMA SCRIVE…
Fino alla fine della
Seconda Guerra Mondiale, l’Europa fu un continente d’emigranti.
Decine di milioni di europei partirono verso l’America per
colonizzare, per sfuggire alla miseria, alle crisi finanziarie, alle
guerre, ai totalitarismi europei ad alle persecuzioni inflitte alle
minoranze etniche.
Oggi, sto seguendo con
molta preoccupazione il processo d’approvazione della cosi detta
“direttiva rimpatrio”. Il testo varato lo scorso 5 giugno dai
Ministri degli Interni dei 27 paesi dell’Unione Europea, dovrà
essere sottoposto al voto del Parlamento Europeo il 18 giugno
corrente. Ho l’impressione che questa direttiva indurisca in
maniera drastica le condizioni di detenzione e d’espulsione degli
immigrati senza documenti, indipendentemente dal loro tempo di
permanenza nei paesi europei, dalla loro condizione lavorativa, dai
loro legami familiari, dalla loro volontà d’integrazione e
dal raggiungimento della stessa.
Gli Europei giunsero in
massa nei paesi latino americani ed in America settentrionale, senza
visto e senza alcuna condizione imposta dalle autorità. Furono
sempre i benvenuti e continuano ad esserlo, all’ interno dei nostri
paesi del Continente Americano, che assorbirono la miseria economica
dell’ Europa e le sue crisi politiche.
Ancor prima vennero nel
nostro Continente a sfruttarne le ricchezze e trasferirle in Europa,
con altissimo costo per le popolazioni originarie d’America. Come
nel caso del nostro “Cerro Rico” di Potosi e delle sue favolose
miniere d’argento che permisero di dare massa monetaria al
Continente Europeo dal secolo XVI fino al XIX. Le persone, i beni ed
i diritti dei migranti europei furono sempre rispettati.
Oggi, l’Unione Europea
é la destinazione principale degli emigranti di tutto il
mondo, e ciò è conseguenza della sua positiva immagine
di luogo di prosperità e di libertà pubbliche. La
stragrande maggioranza dei migranti giunge nell’Unione Europea per
contribuire a questa prosperità, non per approfittarsene.
Lavorano ad opere
pubbliche, nell’edilizia, nei servizi alle persone e negli
ospedali; lavori che non possono o non vogliono svolgere gli europei.
Contribuiscono al dinamismo demografico del continente europeo, a
mantenere il rapporto tra attivi e inattivi che rende possibili i
suoi generosi sistemi di assistenza sociale e dinamizzano il mercato
interno e la coesione sociale. Gli immigrati offrono una soluzione ai
problemi demografici e finanziari dell’UE.
Per noi, i nostri
emigranti rappresentano l’aiuto allo sviluppo che gli Europei non
ci concedono, dato che ben pochi Paesi raggiungono realmente il
minimo obiettivo dello 0,7% del loro PIL nell’aiuto allo sviluppo.
L’America Latina ha ricevuto, nel 2006, 68.000 milioni di dollari
in rimesse, in altre parole più del totale degli investimenti
stranieri nei nostri Paesi. A livello mondiale raggiungono i 300.000
milioni di dollari, che superano i 104.000 milioni di dollari
elargiti per la cooperazione allo sviluppo. Il mio Paese, la Bolivia,
ha ricevuto un importo superiore al 10% del proprio PIL in rimesse
(1.100 milioni di dollari), e pari a un terzo delle sue esportazioni
annuali di gas naturale.
Questo significa che i
flussi migratori sono benèfici tanto per gli Europei quanto
per noi del Terzo Mondo, seppur in maniera marginale, dal momento che
allo stesso tempo perdiamo contingenti di milioni di unità di
mano d’opera qualificata nelle quali, comunque, i nostri Stati,
benché poveri, hanno investito risorse umane e finanziarie.
Purtroppo, il progetto “direttiva rimpatrio” complica
terribilmente questa realtà. Se comprendiamo che ogni Stato o
gruppo di Stati possa definire le sue politiche migratorie in piena
sovranità, non possiamo accettare che i diritti fondamentali
della persona siano negati ai nostri compatrioti e fratelli
latinoamericani. La “direttiva ritorno” prevede la possibilità
d’una carcerazione dei migranti indocumentati fino a 18 mesi prima
della loro espulsione o “allontanamento”, secondo il termine
della direttiva. 18 mesi! Senza processo nè giustizia! Così
come proposto oggi, il progetto di testo della Direttiva viola
chiaramente gli articoli 2, 3, 5, 6,7,8 e 9 della Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani del 1948.
In particolare,
l’articolo 13 della Dichiarazione recita: 1. “Ogni individuo ha
diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i
confini di ogni Stato.
2. Ogni individuo ha
diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di
ritornare nel proprio paese.”
E, peggio di tutto,
esiste la possibilità che in questi centri d’internamento,
dove, come sappiamo, si verificano depressioni, scioperi della fame,
suicidi, siano incarcerati madri di famiglia e minori d’età,
senza prendere in considerazione la loro situazione familiare o
scolastica. Come possiamo accettare, senza reagire, che siano
concentrati in tali campi i compatrioti e fratelli latinoamericani
senza documenti, la cui grande maggioranza sta da anni lavorando ed
integrandosi? Dov’è più il dovere di ingerenza
umanitaria? Che n’è della libertà di circolare e
della protezione contro le detenzioni arbitrarie?
Allo stesso tempo,
l’Unione Europea cerca di convincere la Comunità Andina
delle Nazioni (Bolivia, Colombia, Ecuador e Peru) a firmare un
“Accordo d’Associazione” che contiene come suo terzo pilastro
un Trattato di Libero Commercio, la cui natura ed il cui contenuto
sono uguali a quelli imposti dagli Stati Uniti. Siamo sottoposti ad
una grande pressione da parte della Commissione Europea affinché
vengano da noi accettate condizioni di profonda liberalizzazione del
commercio, dei servizi finanziari, della proprietà
intellettuale e dei nostri servizi pubblici. Inoltre, a motivo della
“protezione giuridica” siamo sottoposti a continue pressioni a
causa del processo di nazionalizzazioni dell’acqua, del gas e delle
telecomunicazioni realizzate nella giornata mondiale dei lavoratori.
Chiedo allora: dove risiede la “sicurezza giuridica” per le
nostre donne, gli adolescenti, i bambini ed i lavoratori che cercano
orizzonti migliori in Europa?
Promuovere la libertà
di circolazione finanziaria e di merci mentre ci troviamo di fronte a
incarceramenti senza processo per i nostri fratelli che cercano di
circolare liberamente...... Questo è negare i fondamenti della
libertà e dei diritti democratici.
A queste condizioni, nel
caso in cui la “direttiva rimpatrio” venga approvata, ci
troveremmo nell’impossibilità etica di approfondire le
negoziazioni con l’Unione Europea e ci riserviamo il diritto di
applicare nei confronti dei cittadini europei gli stessi obblighi in
materia di visti che vengono imposti a noi boliviani dal primo di
aprile 2007, sulla base del principio diplomatico della reciprocità.
Non lo abbiamo esercitato fino ad ora, proprio nell’attesa di
segnali positivi da parte dell’Unione Europea.
Il mondo, i suoi
continenti, i suoi oceani ed i suoi poli conoscono importanti
difficoltà globali: il riscaldamento climatico,
l’inquinamento, la sparizione lenta ma sicura delle risorse
energetiche e delle biodiversità, mentre allo stesso tempo
aumentano la fame e la povertà in tutti i paesi, rendendo più
fragili le nostre società. Fare degli emigranti, con o senza
documenti, i capri espiatori di questi problemi globali non é
una soluzione. Non corrisponde a nessuna realtà. I problemi di
coesione sociale dei quali soffre l’Europa non sono imputabili agli
emigranti ma sono il frutto del modello di sviluppo imposto dal Nord,
che distrugge il pianeta e smembra le società degli uomini.
A nome del popolo
Boliviano, di tutti i miei fratelli del continente e delle regioni
del mondo quali il Maghreb ed i paesi africani, mi appello alla
coscienza dei leaders e dei deputati europei, dei popoli, dei
cittadini e degli attivisti d’Europa, affinché il testo
della “direttiva rimpatrio” non venga approvato. La direttiva,
così come la conosciamo oggi, é una direttiva della
vergogna. Invito anche l’Unione Europea a elaborare nei prossimi
mesi una politica sull’immigrazione rispettosa dei diritti umani,
che permetta il mantenimento di questo dinamismo vantaggioso per
entrambi i continenti e che onori, una volta per tutte, il tremendo
debito storico, economico ed ecologico che i paesi europei hanno con
la maggior parte del terzo mondo, affinché chiuda, una buona
volta, le vene ancora aperte dell’America Latina. Oggi, non potete
fallire nelle vostre “politiche di integrazione” così come
avete fallito nella vostra pretesa “missione civilizzatrice” al
tempo delle colonie.
Ricevete tutti Voi,
autorità, europarlamentari, compagne e compagni , fraterni
saluti dalla Bolivia. E, specialmente, la nostra solidarietà a
tutti i “clandestini”.
(dal sito
www.peacereporter.net)
(17.06.2008)
LO
STERMINIO DEGLI ZINGARI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE
di Mirella Tarpati*
La
“giornata della memoria” fissata il 27 gennaio,
anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da
parte delle truppe sovietiche, vede unite nel ricordo delle
sofferenze subite le vittime di una persecuzione che colpì non
solo gli avversari politici dei regimi dittatoriali, in primo luogo i
comunisti, ma anche quanti venivano considerati “corpi estranei”
minaccianti l’integrità nazionale, in primo luogo gli ebrei
e gli zingari.
L’intrecciarsi del destino degli
zingari con quello degli ebrei non è un fatto recente. Cinque
secoli fa, ed esattamente il 4 marzo 1499, i re cattolici Ferdinando
d’Aragona ed Isabella di Castiglia, bandirono dalla Spagna gli
zingari, dopo aver bandito nel 1492 i mori e gli ebrei. Questo
nell’intento di creare uno Stato unitario, in cui una coscienza
nazionale sostenesse il potere, premessa fondamentale per
l’instaurarsi delle monarchie assolute. L’esempio della Spagna fu
seguito dagli altri Stati dell’Europa occidentale in un crescendo
che giunse sino ad assicurare l’immunità a chi uccideva uno
zingaro, come stabiliva la Dieta dell’Impero tenuta ad Augusta
nell’anno 1500, o addirittura a premiare l’assassino, come nella
Repubblica di Venezia. Né mancò la condanna delle
Chiese cristiane verso questi propagatori di superstizioni, sui quali
pesava il sospetto di appartenere all’Islam; e se gli ebrei erano i
“deicidi”, nella mentalità popolare gli zingari erano i
forgiatori dei chiodi della crocifissione di Gesù. Quanto le
misure repressive fossero efficaci, lo dimostra un semplice dato
statistico: se nei paesi dell’Europa orientale si stima che gli
zingari siano circa otto milioni, nell’Europa occidentale essi non
raggiungono i due milioni.
In questa lunga storia di
persecuzioni la “novità” del nazismo fu la volontà
esplicita, puntualmente programmata e metodicamente eseguita, di
sterminare ebrei e zingari come popolo, una volontà di
genocidio.
Si è molto discusso se la persecuzione degli
zingari sotto il regime nazista e sotto i regimi fascisti degli Stati
satelliti sia stata motivata dalla prevenzione e repressione della
criminalità oppure da motivi razziali. La prima tesi,
sostenuta anche a lungo dal governo della Repubblica Federale Tedesca
per negare loro ogni riconoscimento e risarcimento, trova il suo
fondamento nella qualifica di “asociali” attribuita agli zingari
ancor prima dell’avvento di Hitler. Già nel 1899 era stato
istituito a Monaco di Baviera un apposito ufficio (Zigeunerpolizeiste
lle) con compiti di controllo e di schedatura, la cui competenza fu
estesa nel 1926 a tutto il territorio nazionale; nel 1938 l’ufficio
fu trasferito a Berlino presso la polizia criminale del Reich alle
dirette dipendenze di Himmler.
Ma è possibile che
500.000 vittime, fra cui quasi la metà bambini, fossero tutte
dei criminali? In realtà già fin dal 1935, in
ottemperanza delle leggi di Norimberga “per la tutela del sangue e
dell’onore tedeschi”, i teorici della razza includevano nelle
misure razziali anche gli zingari. La questione, che si presentava
controversa data la loro origine indiana e la lingua ariana parlata,
fu affidata nel 1936 ad un apposito ufficio, il Centro di ricerche
scientifiche sull’ereditarietà , diretto dal dott. Robert
Ritter. Le conclusioni del dott. Ritter e della sua assistente Eva
Justin segnarono il destino definitivo degli zingari: erano da
considerarsi come un meticciato di diversi elementi razziali e
pertanto pericolosi per la purezza del sangue tedesco: dovevano
quindi essere sterilizzati e/o deportati nei campi di
concentramento.
Le prime deportazioni degli zingari ebbero
luogo già nel 1936 nel “campo di lavoro” di Dachau,
destinato agli “asociali”, categoria in cui erano inclusi, oltre
agli zingari, i detenuti politici, gli omosessuali e i Testimoni di
Geova. Il 1° luglio giunse un primo trasporto di 170 zingari,
seguito da altri tre. Nello stesso anno per “ripulire” Berlino in
occasione delle Olimpiadi i Sinti della zona furono rinchiusi nel
campo di Marzahn, da cui dovevano uscire solo per essere deportati ad
Auschwitz. Nel 1937 crescente fu il numero dei deportati a
Sachsenhausen, Sachsenburg, Lichtenberg, Dachau e, dopo l’annessione
dell’Austria, a Mauthausen.
Il 27 settembre 1939 fu decisa
da Heydrich la “soluzione finale” per ebrei e zingari: la
detenzione in campi di concentramento non doveva essere che la
premessa della loro estinzione. Un primo passo fu la deportazione dei
30.000 zingari viventi in Germania nella Polonia occupata, il
cosiddetto Governatorato generale, rinchiudendoli dapprima nei ghetti
di Lodz, Varsavia, Siedle, Radom e Belsec e poi nei Lager di
Treblinka, Majdanek, Sobibor. Il Liquidierungsbefehl (ordine di
liquidazione) del maggio 1941 dispose “l’uccisione di tutti gli
indesiderabili dal punto di vista razziale e politico in quanto
pericolosi per la sicurezza”, indicando quattro categorie
principali: funzionari comunisti, asiatici inferiori, ebrei e
zingari. Infine lo Auschwitzerlass (decreto di Auschwitz) del 16
dicembre 1942 dispose l’internamento di tutti gli zingari anche dai
territori occupati. Nel febbraio 1943 fu predisposto ad
Auschwitz-Birkenau il cosiddetto “campo per famiglie zingare” nel
settore II E con 32 baracche, dove furono accolti in condizioni
spaventose, come attestato dallo stesso comandante del campo Rudolf
Hoess, i 20.946 Zingari regolarmente registrati. Nella notte del 2
agosto 1944 gli ultimi 2.897 sopravvissuti furono passati nelle
camere a gas. Ma altri già li avevano preceduti: si sa di
trasporti interi uccisi al loro arrivo per sospetto di epidemie. E
molti altri trovarono la morte negli altri Lager: Flossenburg,
Ravensbrück, Buchenwald, Bergen Belsen, Majdanek, Sobibor,
Kulmhof…
L’Austria non aveva atteso queste disposizioni,
ma fin dal 1939 aveva creato dei Lager appositi per gli zingari
austriaci a Salisburgo e a Lackenbach, mentre quelli stranieri
venivano detenuti a Mauthausen. In seguito molti furono avviati nei
campi di sterminio. Dei 16.493 cittadini austriaci morti nei campi di
concentramento, 4.097 erano ebrei e circa 6.000 zingari. Nel solo
campo di Auschwitz fra il 31 marzo 1943 e il 22 gennaio 1944 furono
internati 3.923 zingari austriaci, di cui il 42% era costituito da
bambini.
Solo gli zingari polacchi non venivano deportati;
temendo che potessero evadere, venivano massacrati sul posto: bambini
scaraventati contro gli alberi per sfracellarne il cranio o gettati
in aria per infilzarli con le baionette, donne incinte sventrate,
altre con i seni recisi, fucilazioni in massa con sepoltura in fosse
comuni anche dei feriti. Analoga sorte ebbero gli zingari nei
territori occupati all’Est ad opera non solo delle SS, ma anche
della Wehrmacht. In Boemia e in Moravia la popolazione zingara fu
quasi completamente sterminata. In Ukraina la stessa polizia locale
si fece parte attiva nell’individuare gli zingari e ucciderli. Del
resto gli ukraini si distinsero anche per la loro ferocia come Kapo
nei campi di sterminio. Nelle Repubbliche Baltiche la persecuzione
ebbe inizio il 5 dicembre 1941 per ordine del comandate della
Sicherheitspolizei Lohse: agli zingari, in quanti inaffidabili e
propagatori di epidemie, doveva essere riservato lo stesso
trattamento che agli ebrei. Singolare la testimonianza del vescovo di
Riga, Mons. Springovics, il quale in una lettera diretta al papa Pio
XII del 12 dicembre 1942 raccontava come i lettoni avessero accolto i
tedeschi come liberatori dal dominio sovietico, ma ben presto
avessero dovuto ricredersi: “L’atrocità della dottrina
nazista si è mostrata in Lettonia in tutta la sua durezza e
abominazione” . Sterminati “in modo crudelissimo” ebrei,
zingari e malati mentali.
In generale nei territori sovietici
occupati agivano le Einsatzgruppen (gruppi di assalto), unità
adibite alla repressione. Particolarmente dura l’azione condotta in
Crimea, dove gli zingari erano molto numerosi. Fra il 16 novembre e
il 15 dicembre 1941 ne furono massacrati 824. Il quartiere zingaro di
Sinferopol fu minato e fatto saltare in aria. Secondo una
testimonianza, al processo di Norimberga “la pila dei cadaveri
superava i bordi delle fosse e rimase così a lungo allo
scoperto”.
In Slovacchia, Stato satellite del Reich, in un
primo tempo solo gli uomini furono inglobati in squadre speciali di
lavoro forzato. Quando la lotta partigiana si fece più forte e
organizzata, gli zingari furono sospettati di connivenza e le
“Guardie di Hlinka”, i fascisti slovacchi, compirono massacri
orrendi, sterminando intere famiglie, spesso chiudendole nelle loro
capanne per bruciare vivi bambini, donne, anziani.
In
Romania si ebbe la deportazione di quanti abitavano nei dintorni di
Bucarest nella Transnistria, il territorio compreso fra il Dniester e
il Bug, una terra bruciata dalla guerra dove, privati di ogni loro
bene compresi i cavalli e i carrozzoni, perirono praticamente di
fame. In Ungheria le “Croci stellate”, i miliziani fascisti, si
fecero parte attiva nella deportazione degli zingari nei Lager
polacchi. Invece in Bulgaria, pur occupata da truppe tedesche, il
primo ministro Dimitar Pečev si oppose decisamente all’emanazione
di leggi razziste e costrinse il re Boris a ritirare il decreto che
già aveva firmato sotto la pressione degli occupanti.
Anche
nei paesi occidentali ci furono gravi persecuzioni, soprattutto in
Francia, dove già nel 1940, cioè prima dell’occupazione
tedesca, il governo aveva creato numerosi campi di concentramento,
vere e proprie anticamere di Auschwitz. Nell’agosto di quello
stesso anno ne esistevano ventisei nel Sud e sedici nel Nord della
Francia.
Dal Belgio si ebbe un solo trasporto, il convoglio Z
del 1944, con cui furono deportati ad Auschwitz 351 Zingari e solo
cinque tornarono indietro.
Nella Jugoslavia occupata il
governatore tedesco Thurner poteva dichiarare nel 1942 che quello era
l’unico paese dove si era riusciti a risolvere totalmente la
questione ebrea e quella zingara. Nel dopoguerra la Commissione di
Stato della Repubblica Federale e Popolare della Jugoslavia faceva
ammontare a 600.000 le vittime e aveva individuato 289 fosse comuni.
Da Belgrado fu deportato a Dachau anche il vescovo ortodosso Nikolaj
Velimirović, l’unico vescovo rinchiuso nei Lager nazisti, a motivo
che era zingaro. La Chiesa serba ortodossa lo ha dichiarato santo nel
1984. Ma forse il paese dove ci furono gli stermini più atroci
fu la Croazia, proclamata Stato indipendente il 10 aprile 1941 sotto
la guida di Ante Pavelić, capo degli ustaša, i fascisti croati.
Subito il ministro dell’interno Andrja Artukovic proclamò lo
sterminio degli avversari politici, degli ebrei, degli zingari e dei
serbi, creando ben 71 campi di concentramento. La documentazione fu
distrutta alla fine della guerra e ora si stanno faticosamente
ricostruendo gli elenchi dei deportati. Fra gli zingari le vittime
accertate fino al 1998 sono 2.406, di cui 840 bambini. Il campo più
terribile era quello di Jasenovac, dove si uccidevano le persone con
metodi barbari. Né mancarono campi destinati ai bambini, come
quello di “rieducazione” a Jastrebarsko, dove fra l’aprile 1941
e il giugno 1942 morirono 3.336 bambini di varie etnie di età
fra gli uno e i quattordici anni a causa degli stenti, ma anche degli
“esperimenti medici” finiti poi con una pugnalata al cuore o una
mazzata in testa. Nel campo per le donne di Stara Gradiska perirono
oltre trecento bambini zingari. Direttrice del campo era Nada
Luburic, moglie di Dinko Sakic, comandante del campo di Jasenovac.
Alla fine della guerra i due si rifugiarono in Argentina per sfuggire
al mandato di cattura emanato contro di loro nel 1945 dalla
Commissione per i crimini di guerra. Solo nell’autunno 1998 sono
stati estradati a Zagabria e sottoposti a processo. Nada Luburic è
stata assolta, perché sarebbero mancati i testimoni. Dinko
Sakic è stato riconosciuto colpevole delle torture e della
morte di oltre 2.000 detenuti serbi, ebrei, zingari e antifascisti
croati e condannato a vent’anni di reclusione.
In Italia non
ci furono provvedimenti razziali contro gli zingari. Le leggi
razziali, emanate nel 1938, riguardavano solo gli ebrei e i mulatti,
cioè i figli degli italiani in Africa, dove vigeva il costume
del madamato, cioè di avere una concubina africana. Ai loro
figli fu negato il diritto alla cittadinanza italiana.
Verso
gli zingari furono introdotte invece misure speciali di polizia a
cominciare dal 1938, quando le famiglie nomadi, che vivevano lungo i
confini orientali, furono deportate in Sardegna e in Basilicata, dove
però furono lasciate libere a patto che non abbandonassero
quelle regioni.
Dopo l’entrata in guerra dell’Italia il 10
giugno 1940 una circolare del Ministero dell’Interno ordinava ai
Prefetti di predisporre il concentramento degli zingari nomadi in
appositi campi. L’ordine fu eseguito solo parzialmente per
l’opposizione dei Comuni di accoglierli sul loro territorio; ma
anche là dove esistevano, la sorveglianza era minima. Per i
Rom stranieri furono creati due appositi campi a Tossiccia sul Gran
Sasso in provincia di Teramo e ad Agnone in provincia di Isernia. Vi
furono rinchiuse le famiglie dei Rom della Slovenia, divenuta
provincia italiana. Ad esse si aggiunsero molti altri, che si
consegnavano spontaneamente ai soldati italiani per sfuggire ai
massacri degli ustaša. I due campi durarono fino all’8 settembre
1943, quando i carabinieri, che li avevano in custodia, si
rifiutarono di consegnarli ai tedeschi e li lasciarono liberi di
fuggire. Molti si rifugiarono in montagna ed alcuni si aggregarono ai
partigiani. Si ha notizia di singole persone rinchiuse in altri
campi, come per esempio a Ferramonti di Tarsia in provincia di
Cosenza, il più grande campo di concentramento
italiano.
Quando è finita la guerra, abbiamo detto “mai
più”, invece purtroppo oggi dobbiamo dire “ancora”. Le
guerre intestine scoppiate nella ex Jugoslavia e i conseguenti
programmi di “pulizia etnica” hanno visto in primo luogo tra le
vittime i Rom delle Krajne, della Bosnia, della Erzegovina e del
Kosovo. Sono continui gli episodi di violenza, dovuti soprattutto a
gruppi neonazisti in Slovacchia, in Repubblica Ceca, in Romania, in
Bulgaria (villaggi bruciati, gente picchiata a morte o scaraventata
dalle finestre o annegata nei fiumi) tanto che l’OSCE
(Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) ha
istituito un apposito ufficio a Varsavia per la tutela dei Rom e il
Consiglio d’Europa ha approvato nel maggio 1997 un documento che
condanna il razzismo contro gli zingari.
Le persecuzioni e la
crisi economica del paesi dell’est ha provocato un forte esodo
verso l’occidente, dove questo flusso di profughi non è
stato certo accolto benevolmente. Anche l’Italia non è
immune da episodi di violenza. La cronaca riporta episodi di fucilate
contro gli accampamenti o di mine poste al loro ingresso, di
tentativi di bruciare le roulottes, di giocattoli esplosivi regalati
ai bambini. E che dire dello stillicidio di morti bianche dei bambini
che muoiono di freddo o bruciati vivi nelle fatiscenti baracche, in
cui le famiglie vivono spesso ammassate nei cosiddetti campi nomadi
(per loro che non sono nomadi) in condizioni indegne di un essere
umano, campi che sono valsi per l’Italia il 18 marzo 1999 una dura
condanna di razzismo da parte del Comitato per l’Eliminazione delle
Discriminazioni Razziali (CERD) dell’ONU.
Per la giornata
del ricordo del 27 gennaio 1999 l’Associazione Presencia gitana di
Madrid ha lanciato un manifesto con una ruota spezzata su uno sfondo
di camini dei forni crematori e la scritta “ma bister” (in lingua
zingara “non dimenticare”) . Credo che questo monito dovrebbe
essere sempre tenuto vivo proprio per non veder ripetersi gli orrori
del passato.
(dalla Newsletter di Ecumenici)
*
Studiosa della cultura zingara, direttrice della prestigiosa rivista
scientifica "Lacio Drom".
Opere di Mirella Karpati: (a cura di),
Zingari ieri e oggi, Centro StudiZingari, Roma;
(con B. Levak), Rom sim. La
tradizione dei Rom kalderasha, Centro studi zingari, Roma;
(a cura di, con Ezio Marcolungo),
Chi sono gli zingari?, Edizioni Gruppo Abele, Torino.
(Indirizzi utili: Centro studi
zingari, via dei Barbieri 22, 00186 Roma.)
BIBLIOGRAFIA
Nella collana
europea “Interface”:
AA.VV., Gli Zingari nella Seconda
guerra mondiale. 1 - Dalla “ricerca razziale”
ai campi nazisti.
Libreria Anicia – Via San Francesco a Ripa, 62
– 00153 Roma
AA.VV., The Gypsies during the Second World War. 2
– In the shadow of the Swastika
University of Hertfordshire
Press – College Lane – Hatfield – Hertfordshire
In
Italia i militanti neofascisti sono più di cinquantamila
Nicola Tommasoli, un disegnatore
grafico di 29 anni aggredito la notte del primo maggio da cinque
giovani neofascisti nel centro storico di Verona, è morto ieri
all'ospedale Borgo Trento. Tre dei suoi aggressori sono già
stati arrestati e hanno confessato di aver partecipato al pestaggio.
Erano tutti ultrà del Verona, legati al Veneto Fronte
Skinheads, ed erano già stati indagati per altre
aggressioni razziste. Secondo un'informativa dei servizi segreti, in
Italia sono attivi 65 gruppi ultrà di ispirazione
neonazista e neofascista, che mobilitano circa 55mila militanti.
El Paìs, Spagna
APPELLO CONTRO IL RAZZISMO
Siamo persone “storici, giuristi,
antropologi, sociologi, filosofi, operatori culturali“ che da tempo
si occupano di razzismo. Il nostro vissuto, i nostri studi e la
nostra esperienza professionale ci hanno condotto ad analizzare i
processi di diffusione del pregiudizio razzista e i meccanismi di
attivazione del razzismo di massa. Per questo destano in noi vive
preoccupazioni gli avvenimenti di questi giorni, le aggressioni agli
insediamenti rom, le deportazioni, i roghi degenerati in veri e
propri pogrom e le gravi misure preannunciate dal governo col
pretesto di rispondere alla domanda di sicurezza posta da una parte
della cittadinanza. Avvertiamo il pericolo che possa accadere
qualcosa di terribile: qualcosa di nuovo ma non di inedito.
La
violenza razzista non nasce oggi in Italia. Come nel resto
dell’Europa, essa è stata, tra Otto e Novecento, un
corollario della modernizzazione del Paese. Negli ultimi decenni è
stata alimentata dagli effetti sociali della globalizzazione, a
cominciare dall’incremento dei flussi migratori e dalle conseguenze
degli enormi differenziali salariali. Con ogni probabilità ,
nel corso di questi venti anni è stata sottovalutata la
gravità di taluni fenomeni. Nonostante ripetuti allarmi,
è stato banalizzato il diffondersi di mitologie neo-etniche e
si è voluto ignorare il ritorno di ideologie razziste di
chiara matrice nazifascista. Ma oggi si rischia un salto di qualità
nella misura in cui tendono a saltare i dispositivi di interdizione
che hanno sin qui impedito il riaffermarsi di un senso comune
razzista e di pratiche razziste di massa.
Gli avvenimenti di
questi giorni, spesso amplificati e distorti dalla stampa, rischiano
di riabilitare il razzismo come reazione legittima a comportamenti
devianti e a minacce reali o presunte. Ma qualora nell’immaginario
collettivo il razzismo cessasse di apparire una pratica censurabile
per assumere i connotati di un «nuovo diritto», allora
davvero varcheremmo una soglia cruciale, al di là della
quale potrebbero innescarsi processi non più
governabili.
Vorremmo che questo allarme venisse raccolto da
tutti, a cominciare dalle più alte cariche dello Stato, dagli
amministratori locali, dagli insegnanti e dagli operatori
dell’informazione. Non ci interessa in questa sede la polemica
politica. Il pericolo ci appare troppo grave, tale da porre a
repentaglio le fondamenta stesse della convivenza civile, come già
accadde nel secolo scorso e anche allora i rom furono tra le vittime
designate della violenza razzista. Mai come in questi giorni ci è
apparso chiaro come avesse ragione Primo Levi nel paventare la
possibilità che quell’atroce passato tornasse.
Marco
Aime, Rita Bernardini, Alberto Burgio, Carlo Cartocci, Tullia
Catalan, Enzo Collotti, Alessandro Dal Lago, Giuseppe Di Lello,
Angelo D’Orsi, Giuseppe, Faso, Mercedes Frias, Gianluca
Gabrielli, Clara Gallini, Pupa Garribba, Francesco Germinario,
Patrizio Gonnella, Gianfranco Laccone, Maria Immacolata Macioti,
Brunello Mantelli, Giovanni Miccoli, Giuseppe Mosconi, Grazia
Naletto, Michele Nani, Salvatore Palidda, Marco Perduca, Pier Paolo
Poggio, Carlo Postiglione, Enrico Pugliese, Annamaria Rivera,
Rossella Ropa, Emilio Santoro, Katia Scannavini, Renate Siebert,
Gianfranco Spadaccia, Elena Spinelli, Diacono Todeschini, Nicola
Tranfaglia, Fulvio Vassallo Paleologo, Barbara Valmorin, Danilo
Zolo.
Le adesioni possono essere inviate a:
razzismodimassa@gmail.com