LA
STELLA CHE NON C’E’ – voto: 6
Secondo
la tradizione popolare cinese le 5 stelle che sono raffigurate nella
propria rossa bandiera hanno un “preciso significato”: la
maggiore rappresenta il “Grande Partito Comunista Cinese”, le
altre 4 minori l’onestà, la pazienza, la solidarietà
e la giustizia. Se si ha la curiosità di scorrere altri testi
in materia, si può constatare come non troppo “preciso”
risulti il “significato”, in quanto altre interpretazioni
attribuiscono ai medesimi simboli sostanze diverse. Se alla grande
stella viene riservato sempre il ruolo di metafora del “Grande
Partito” come guida, le più piccole diventano
rappresentazioni delle 4 classi sociali: gli operai, i contadini, la
piccola borghesia e i capitalisti patriottici.
Gianni
Amelio nel suo ultimo lavoro sceglie di prendere come riferimento la
prima interpretazione, la più spirituale, quella che anch’io
sento come più vicina ad un popolo dalla storia così
antica. Una storia che oggi si scontra in modo anche drammatico con
un presente in rapida evoluzione e le vittime, per nulla in senso
metaforico, sono le stesse di sempre, i deboli, i poveri, i più
fragili.
Il
regista calabrese per trarre lo spunto iniziale al suo racconto, ci
narra di un’ invasione al contrario.
Imprenditori
cinesi giungono in Italia e acquistano uno stabilimento siderurgico
oramai in disarmo, per smantellarlo e trasferirlo in patria. Vincenzo
Buonavolontà ( Sergio Castellitto), uno dei manutentori,
ritiene che uno degli impianti di altoforno non sia sicuro. Cerca con
le difficoltà linguistiche inevitabili di farsi tradurre da
Liu Hua (Tai Linq ), l’interprete al seguito degli industriali
orientali, il problema tecnico e la soluzione da lui proposta.
Respinto al mittente Vincenzo in piena sintonia con il proprio
cognome parte per la Cina, ostinato a farsi ascoltare.
Darà
il via ad una missione impossibile, un’ odissea attraverso l’intero
pianeta Cina, alla ricerca del luogo dove questo altoforno è
stato installato. A Shangai, punto di arrivo dall’Italia ritroverà
Liu.
Sarà
un viaggio che gli permetterà di scoprire per la prima volta
se stesso e di riflettere come mai sulle sorti della propria vita in
bilico tra un passato oramai irrecuperabile ed un futuro pieno di
ombre. Una allegoria di ciò che incontrerà lungo il suo
viaggio.
Attraverso
gli occhi di Vincenzo, Amelio ci porta ad imbatterci nelle tante
contraddizioni di questo mondo in totale stravolgimento. Un popolo
con migliaia di anni di storia e tradizioni, di cultura radicata
nelle generazioni, che vive con sbigottimento e stordimento un
processo di sviluppo troppo accelerato per non creare traumatici
effetti collaterali. Povertà, disgregazione delle famiglie,
strutture sociali alla deriva, lavoro precario senza tutele di ogni
grado, paesaggio naturale stravolto artificialmente, sono un breve e
superficiale elenco di quanto emerge. Un paese dalle dimensioni
inimmaginabili se non affrontate fisicamente, composto per sua natura
da miriadi di realtà diverse, ora soffre ulteriormente il
vivere secoli distanti nel tempo a seconda delle regioni che
s’incontrano. L’ombra del partito comunista, un tempo vera guida
spirituale e fisica, permane nelle sua chiave meno lucente, quella
indirizzata a conservare un’egemonia basata più sulle
limitazioni e privazioni delle libertà individuali, che in
quella di stella illuminante.
Le sue
genti vivono tutto questo in modo difforme. Si passa dalla frenesia
della nuova Shangai all’inseguimento delle metropoli americane,
tecnologica e moderna, alla totale indifferenza della provincia più
capillare dove il tempo si è arrestato, alla rassegnata presa
di coscienza di una realtà nuova da affrontare in decine di
città anonime ma con milioni di abitanti ammassati gli uni
sugli altri. Le superstrade a più livelli, lasciano spazio ad
interminabili e solitarie sterrate, gli aerei a vetusti battelli.
All’interno
di tutto questo Gianni Amelio, regista vincitore di svariati
riconoscimenti anche internazionali ( Gran Premio della giuria a
Cannes 1992 con “Il ladro di bambini”, Nastro d’argento per la
regia a Venezia 1994 con “Lamerica” e sempre in laguna, Leone
D’oro nel 1998 per “Così ridevano” ) ha costruito un
film delicato, quasi sussurrato, che solo raramente vede un’impennata
momentanea dei toni. Un lavoro che non mi ha travolto emotivamente,
lasciandomi in perenne attesa di un qualcosa che alla fine forse non
ho colto nella sua pienezza, ma consentendomi di prendere ulteriore
coscienza di cosa accade in quel sconfinato angolo di pianeta.
La sua
stella che non c’è può assumere diverse sfumature ed
essere individuata in più di un luogo. Puoi cercarla in
qualcuna delle stelle della bandiera, simbolo di un grande impero che
fu. Oppure la puoi trovare negli occhi di chi come Vincenzo,
s’inoltra con l’animo presuntuoso in quel lontano universo, per
scoprire quanto minima sia la stima che nutre per quelli come lui,
quanto “minore”sia il rispetto per chi proviene dal nostro
“angolo” d’occidente. Infine se vuoi, la si legge nel difficile
rapporto tra i protagonisti, separati da culture e pensieri troppo
lontani anche se uniti dalla consapevolezza del bisogno reciproco.
Per
concludere parlando dei due attori principali, occorre sottolineare
la ulteriore splendida prova di Sergio Castellitto. Vincenzo è
l’assoluto sovrano della pellicola, capace di regalarne gran parte
dei suoi picchi emotivi. Egli è un uomo semplice che comprende
come sia il momento di gettare il coraggio oltre la siepe per non
morire dentro e fuori. La sequenza del pianto solitario poi, è
un esempio di cosa significhi recitare in maniera superba.
Tai
Linq, all’esordio per quanto mi riguarda, non mi ha entusiasmato
anche se credo abbia trasportato sul set in modo efficace l’attonita
rassegnazione di una giovane donna cinese alle prese con un mondo di
cui si fatica a seguirne il passo.
Un
buon lavoro in conclusione, non trascinante, forse un poco lento, ma
diretto con sensibilità, capace di suggerire riflessioni e
sicuramente ben interpretato.